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“La sconfitta dell’Occidente”: incontro pubblico sul saggio di Emmanuel Todd. Tresigallo,17 gennaio, ore 18,00

“La sconfitta dell’Occidente”
incontro pubblico sul saggio di Emmanuel Todd. Tresigallo, 17 gennaio, ore 18,00

L’associazione Pant’art’é aps e il gruppo Telegram “Economia e Politica Internazionale news” organizzano
Venerdì 17 gennaio 2025 alle 18 nella sala riunioni della Birreria Pub BrewLab di Tresigallo (FE) (via Filippo Corridoni 15/e)
un incontro pubblico sui temi e i contenuti del libro di Emmanuel Todd “La sconfitta dell’Occidente” a cura di Massimo Sandri, Fazi Editore, 2024, € 20.
Introduce l’incontro e modera Gioacchino Leonardi, presidente di Pant’art’é aps.
Emmanuel Todd, il noto antropologo francese, che aveva predetto il crollo dell’Urss, ha pubblicato un volume in cui non dà scampo a un Occidente impantanato in Ucraina in una guerra che non può vincere e al tempo stesso non può permettersi di perdere.
Secondo l’autore, il declino dell’Occidente viene da lontano. Affonda nel tramonto del sentimento religioso, nella crisi d’identità delle classi medie e nel conseguente smarrimento di ogni progetto politico.
L’ingresso all’incontro è libero.
Qualche nota sul saggio di Emmanuel Todd
La sconfitta dell’Occidente, a cui fa riferimento il titolo di questo saggio dello storico e sociologo francese Emmanuel Todd – bestseller in Francia con oltre ottantamila copie vendute –, è duplice. Si tratta infatti di una sconfitta esterna, la guerra in Ucraina, ma soprattutto di una sconfitta interna: il declino demografico, morale ed economico delle società occidentali. Todd chiama in causa le classi dirigenti dell’Occidente, in primis quella degli Stati Uniti, con il conflitto russo-ucraino a fare da lente di ingrandimento e a contrapporre, secondo l’autore, una Russia stabilizzata, di nuovo grande potenza, a un Occidente in preda al nichilismo e in crisi irreversibile di egemonia. Utilizzando le risorse della sociologia, dell’antropologia e dell’economia, Todd pone a confronto le “oligarchie liberali occidentali” con la “democrazia autoritaria russa” per spiegare le ragioni profonde dei cambiamenti geopolitici in atto. In particolare, offre una lettura acuta e originale dei punti di forza e di debolezza dei due paesi in guerra (Russia e Ucraina), dei principali paesi occidentali (Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia), dei paesi scandinavi e dell’Europa orientale, senza dimenticare il resto del mondo nel suo complesso. I lettori ritroveranno qui gli elementi che hanno sempre reso unici e preziosi gli studi di Todd: l’analisi dei modelli familiari e delle statistiche demografiche ed economiche, la scrittura brillante, un’erudizione non comune e intuizioni geniali. Documentatissimo e basato su cinque decenni di ricerche, lontano dalle approssimazioni che caratterizzano il dibattito su questi temi, La sconfitta dell’Occidente è un contributo di straordinario valore per capire il nostro presente.

«La crisi dell’Occidente è il motore del momento storico che stiamo vivendo ora. Alcuni ne erano già a conoscenza ma, quando la guerra sarà conclusa, nessuno potrà più negarlo».
Emmanuel Todd

«La più lucida, spietata e documentata analisi della crisi euroamericana degli ultimi anni. Un obbligo di lettura per tutti».
Pino Arlacchi

«Un originale e avvincente libro-mondo che stimola la riflessione e la discussione sul nostro presente».
Carlo Galli

«Questo saggio è qualcosa di più di un evento intellettuale – e morale – di straordinario rilievo. È una denuncia coraggiosa e una folgorante profezia».
Franco Cardini

«Questo libro magistrale acuisce il rammarico per l’autodistruzione dell’Europa voluta da manipoli e manipolatori ma allevia la solitudine e la frustrazione di quanti l’hanno prevista e temuta».
Fabio Mini

«Forse per la prima volta con tanta lucidità e intelligenza uno storico, attraverso l’analisi dettagliata del declino demografico, delle strutture familiari, della scomparsa della religione e del trionfo del nichilismo in ogni aspetto della vita sociale, ci obbliga a fare i conti con lo sfacelo e l’autodistruzione dell’Occidente».
Giorgio Agamben

In copertina: immagine dalla pagina web di Marcello Veneziani.

Vite di carta
Khaled, Hosam, Mustafa: “Amici di una vita” nell’ultimo romanzo di Hisham Matar

Vite di carta. Khaled, Hosam, Mustafa: Amici di una vita nell’ultimo romanzo di Hisham Matar.

Ho portato a termine la lettura di Amici di una vita dopo cinque mesi dall’averlo golosamente acquistato in quel di Mantova. Mai libro fu stigmatizzato come questo: dalla firma con dedica dell’autore e dal biglietto di ingresso all’evento di Festivaletteratura in cui Matar ha conversato con Paolo Giordano, biglietto che ho spillato alla quarta di copertina in fondo al libro.

Dell’evento ho già brevemente scritto su questo giornale nell’articolo dedicato alla edizione 2024 del Festival, soffermandomi sul termine esilio e sul valore che Matar gli assegna anche quando si riferisce alla scrittura. Ho detto che l’affermazione di Matar mi è rimasta attaccata a lungo, e a lungo ho ripensato a come nello scrivere entriamo e usciamo dalle parole per trovarne la giusta distanza dalle cose e metterle a fuoco entrambe. Andare lontano permette di capire, ecco forse dove sta  il nesso.

Cinque mesi per mettersi a leggere un testo dalla grande statura come Amici di una vita occorrono anche per altri motivi. Uno, legato alle impressioni della prima lettura, è che si tratti di un libro-miniera da cui ricavare nel tempo il distillato della bella maturità scritturale di Matar.

Un altro, che trovo impellente, dipende dal fatto che “certi libri, come certe persone, sono timidi“. Me ne convinco davanti a questa storia che abbraccia oltre trent’anni di vita dei tre amici partiti dalla Libia negli anni Ottanta durante la dittatura di Gheddafi per andare a studiare e poi fermarsi a vivere a Londra. Scava in profondità dentro di loro per poter raccontare con una audacia piena di riservatezza come l’esilio dal proprio paese li abbia prima lacerati e poi forgiati come uomini.

Dopo molti anni, all’esplodere nel 2011 della Primavera araba, due di loro sentiranno che è il momento di agire e tornare in Libia a combattere per la liberazione dal dittatore. La heimat che è dentro di loro è un magnete potente che li riporta dunque a casa, mentre il solo Khaled, che è la voce narrante delle loro tre storie e dei rispettivi intrecci, resta dentro la sua vita di Londra.

La timidezza del libro sembra dipendere da lui, da quel suo bisogno di posizionarsi e di comunicare col contagocce che non comprerà un biglietto aereo per Bengasi. Si terrà stretto alle abitudini londinesi che già una volta, quando aveva diciott’anni, gli hanno dato consistenza salvandolo dall’esplodere in mille pezzi. Anche il rispetto per la sua scelta, la legittimazione della diversità tra le nature e i temperamenti di loro tre va sotto il temine amicizia.

Nella primavera del 1984 Khaled è stato ferito gravemente presso l’ambasciata libica a Londra, dove era andato a manifestare contro Gheddafi insieme al suo amico Mustafa. Solo molti anni dopo viene a sapere che anche Hosam era lì e si è allontanato in tempo dalla sparatoria. Da quella ferita Khaled ha ricevuto lo stigma che più a fondo gli ha impresso dentro lo spaesamento dalla sua famiglia, dal paese d’origine e da se stesso.

Non a caso il libro è pieno di luoghi di Londra, strade, istituti di cultura e caffè, a cui Khaled affigge giorno dopo giorno i brandelli della sua esistenza. Lo sostengono nel tempo il lavoro di insegnante che trova in una scuola superiore, la confidenza più o meno longeva con alcune figure femminili e soprattutto l’amicizia con Mustafa e anni dopo anche con Hosam, che è stato scrittore e può condividere con lui la passione per la letteratura.

Anche a libri importanti come medicine sono ancorati i punti di forza dello spazio vitale di Khaled. I libri lo tengono legato agli amici a al padre, che in Libia continua la sua vita appartata di studioso e che anche per questo gli manca come una radice piena di linfa.

Quando Hosam e Mustafa vanno in Libia a combattere,  i messaggi e le mail con loro e con la sorella prendono la consistenza di un cordone ombelicale che mantiene Khaled legato alla Storia libica. Mentre si tiene legato alla sua storia personale.

Khaled comprende che dentro i lembi delle vecchie ferite all’ambasciata ha ricucito, oltre a un polmone e ai muscoli dorsali, anche la sola possibilità di rimettere insieme i pezzi. Una volta in una vita. Ora non potrebbe rientrare in Libia da un esilio durato oltre trent’anni, non può esporsi al rischio di lacerare l’identità che ha lentamente assemblato. Lo comprende quando dopo un breve viaggio usa la parola tornare pensando al suo piccolo appartamento londinese. L’ha sempre usata per la famiglia e la Libia.

Comincio e finisco con le parole, scrivendo di Matar, vincitore del premio Pulitzer 2017 nella sezione autobiografia e dell’Orwell Prise for Political Fiction 2024. Ho iniziato con esilio e finito con tornare; nel mezzo ho nominato anche l’amicizia e i libri. Su questi ultimi c’è un pagina in cui Khaled parla della strana abitudine del suo amico Hosam: ne possiede pochi, una trentina circa, e nei suoi spostamenti duraturi li porta con sé chiusi in una valigia.

Essere così diversi e tanto amici. Hosam dice a Khaled, e a me anche se non lo sa: “Conosci qualcosa di più deprimente di una parete di libri? Ma so che tu non la pensi così. Sei convinto, come Montaigne, che la sola presenza di libri in una stanza ti coltivi, che i libri non siano fatti solo per essere letti ma per viverci insieme”.

Nota bibliografica:

  • Hisham Matar, Amici di una vita, Einaudi, 2024

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Attorno a Nino Barbantini e alla palazzina di Marfisa d’Este:
un patrimonio da non dilapidare

Attorno a Nino Barbantini e alla palazzina di Marfisa d’Este:
un patrimonio da non dilapidare

Nel 1838 il conte Francesco Avventi, a proposito delle riscoperte immagini di Schifanoia, scriveva: “Sono queste preziosissime per noi specialmente, giacchè in esse rileviamo i costumi di quella età, essendovi effigiati personaggi, vestiarii e cose, eseguite e tratte dal vero, con la massima precisione, e tale da ricordarci le fisionomie e le pratiche degli avi nostri”.

Da questo momento credo si possa far partire l’associazione, non solo visiva, degli affreschi con l’invenzione di una ‘età dell’oro’ per la città di Ferrara, identificabile nei due secoli del vicariato estense.

Molto schematizzo per ricordare che il processo di unificazione nazionale annullò la presenza e volle cancellare la memoria degli Stati preunitari, compreso quello pontificio, ai quali fu addebitato di essere di ostacolo alla creazione dell’Italia unita. A processo in atto è comprensibile la contrapposizione fra il periodo estense e quello legatizio: Ferrara dal 1598 sino al 1860 fu Legazione pontificia. Raggiunta l’unificazione politica, tale opinione non è più accettabile, anche se è rimasta e rimane nel sentire comune e nelle scelte delle istituzioni.

A conferma ed esemplificazione cito il giudizio di Giuseppe Agnelli (1856-1940): la sua opinione è importante perchè fu tra i primi a fattivamente impegnarsi per il recupero della palazzina di Marfisa d’Este. Bibliotecario della Ariostea, presidente della Ferrariae Decus, fu personaggio eminente nella Ferrara fra fine Ottocento e prima metà del Novecento.

“Un senso di povertà morale serpeggia dovunque; non più concordia di nobili spiriti verso un’idea, bensì comunanza di piccole anime nelle Accademie senza idee, che sorgono con titoli grotteschi e s’accapigliano in gare vergognose e muoion d’inedia e rinascono moriture sempre pronte a concedere il passaporto poetico per l’ingresso nella società aristocratica. … Si determina a grado a grado un movimento di umiliazione civile, che il governo della Santa Sede asseconda; giova cancellare nei nuovi sudditi la memoria del passato, rendere debole e sonnolento l’animo loro; … No, la magnanimità non fu intesa dalla pigra anima cittadina! A cui, meglio dei mercanti avveduti, taluni cardinali o scaltri o violenti rubarono i segni della stagione di gloria”.

Agnelli, allievo a Bologna di Giosuè Carducci, non sa dimenticare i versi che il poeta dedica Alla Città di Ferrara in particolare:

“La lupa con un guizzo del rabido artiglio la bianca aquila ghermì al petto, la straziò nell’ale. Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo, sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta”.

Ancora nel 1996 si parla di “infausto 1598”; Andrea Emiliani scriverà: Ferrara, “città devoluta nel 1598 ed allontanata con violenza dalla storia”.

Ferrara, “città del silenzio”, “città morta”, diviene uno stereotipo il quale viene fatto proprio dagli stessi ferraresi che lo assumono a testimonianza del degrado legatizio in opposizione all’antica gloria estense.

Ancora Giuseppe Agnelli scriverà: “perisce in turpe abbandono la palazzina di colei, che volle morire in Ferrara perché sapesse la storia come donna degli Este non aveva ceduto agli usurpatori la terra di sua famiglia.”

Lo stato della Palazzina di Marfisa d’Este prima del restauro

La Palazzina non è l’unico edificio che concorre a dare corpo e sostanza ad una formula che pare accettazione di uno stato: utilizzato a testimoniare una nuova letteraria ed affascinante qualità di Ferrara. Parallela è l’indicazione del palazzo detto di Ludovico il Moro.

Agnelli così lo descriverà nel 1902:

“Il palazzo abitato da molte povere famiglie, che lo popolano di prole numerosissima, è in condizioni di trascuranza pietosa, labenti e scrostate le muraglie, le finestre cascano a pezzi, le arcate della loggia furono chiuse con pietre e tavole malamente connesse.”

Dopo l’ancora utile testo di Gualtiero Medri (1938), le vicende della Palazzina sono ripercorse, analiticamente e con ampia edizione di documenti, nel necessario volume apparso nel 1996 a cura di Anna Maria Travagli Visser.

Mi limito, schematicamente, ad indicare alcuni degli usi ai quali il complesso di edifici fu adibito prima che l’affidamento, nel 1909, alla società Ferrariae Decus aprisse al tema e al problema del recupero.

Alla morte di Marfisa il complesso di San Silvestro sarà abitato dall’agente dei Cybo, il padre dello storico Cesare Cittadella, e parzialmente affittato.

La rinuncia dei Cybo a mantenere un proprio fiduciario in città apre a vendite, a demolizioni e ad usi impropri. Nel corso del XIX secolo sarà sede di una fonderia, di una fabbrica di candele, di un filatoio di seta, di una fabbrica di saponi, di una fabbrica di chiodi, di un magazzino di canapa, di un teatro per dilettanti, di una società ginnastica, abitazione di famiglie indigenti. Questo anche dopo l’acquisto da parte del Comune, nel 1861.

Agli inizi del Novecento il complesso è stato in gran parte demolito, restano l’edificio centrale, la loggia e l’ampia sala collegata. Il tutto in stato di abbandono. La Ferrariae Decus, nata per la salvaguardia delle memorie cittadine, compatibilmente con le disponibilità finanziarie, inizia il recupero sia delle strutture che delle decorazioni pittoriche.

In questo tempo si è consolidata, fatta propria anche dagli abitanti e dalle istituzioni, la formula di “Ferrara città del silenzio”.

Nino Barbantini si riconosce compiutamente in questa identificazione e scriverà:

“I ricordi e la bellezza, il silenzio e l’abbandono avranno fatto di questo palazzo disabitato una sede intatta e inviolabile della poesia e del sogno …. La poesia della nostra città; una poesia fatta di grandi ricordi e di silenzio pare che abbia in essa un simbolo materiale”.

Lo stesso Barbantini e Gaetano Previati daranno immagine e forma letteraria al mito di Marfisa letto all’interno di tale condizione. Ricordo la ben nota descrizione del corteggio di Marfisa e il dipinto del pittore ferrarese.

Il sodalizio e la comune espressione di intenti fra Barbantini e Agnelli nasce in questo contesto; un sodalizio che non si interrompe con il passaggio a Venezia di Barbantini nel 1909 e che potrà essere ripreso nelle celebrazioni degli anni Trenta.

Le prove di questo legame sono innumerevoli. Il libretto Per la Palazzina di Marfisa è edito nel 1908 dalla Ferrariae Decus, presidente Agnelli. Raccoglie testi scritti e pubblicati dal 1905 in poi. Nel 1905 Barbantini dedica un proprio libretto “Al Prof. Agnelli. Maestro venerato e carissimo”. Come nota Andrea Emiliani, Barbantini “è immerso nel milieu culturale e sociale di Ferrara.”

“Nell’estate del 1906 Giuseppe Agnelli ed io passeggiammo molte sere sotto i plenilunii e sotto le stelle per ragionare della bellezza di Ferrara e vedere i palazzi nella luna o nell’ombra … così ci ricordammo di te, Marfisa d’Este bel fiore stanco e della tua leggenda … e sognammo di restituirti la tua casa, perché potessi affacciarti ogni notte alle sue finestre a vedere se giungono i tuoi amanti, sederti entro una luce di luna, per narrare alla luna – o amante desolata – i tuoi amori…. Ragioni di poesia: perché la loro stessa collezione istituirà intorno a queste pietre un’atmosfera speciale ove l’individualità di ognuna di esse potrà spiccare con vivo risalto, ove le loro espressioni singolari potranno confondersi in un’espressione unitaria.”

In questo ambito l’amministrazione comunale accoglie le suggestioni di Nino Barbantini e le richieste avanzate da Giuseppe Agnelli e affida la palazzina alla Ferrariae Decus affinchè proceda alla istituzione di un museo lapidario ove raccogliere le sparse testimonianze scultoree presenti in città, dall’età romana sino al XVI secolo.

Nella Relazione del 1909 il Presidente comunica ai soci le date di inizio dei lavori e le ragioni di qualche ritardo; osserva:

“Abbiamo soltanto pensato, abbiamo studiato l’antica dimora, ci siamo meglio convinti che a quelle sale, gravate dal silenzio dei secoli, converrà la voce fioca, ma profonda, ma suscitatrice di alti pensieri, delle nostre pietre vetuste; abbiamo riconosciuto possibile di ridonare all’edificio la originaria fisionomia storica, di ottenere che i soffitti risplendano nelle vaghissime decorazioni, illuminino le morte cose con un raggio di bellezza.”

Scriverà Barbantini:

“Io vorrei che il giorno dell’inaugurazione del Museo i sarcofagi fossero riempiti di rose, i cippi e le lapidi inghirlandate di mirto e che i fiori fossero sparsi per terra ovunque. … E come potremmo comprendere l’infinita poesia della morte se non sentissimo in un perpetuo contatto con essa quella della vita? Perché noi sappiamo di portare nella Palazzina delle cose defunte. Anzi ce le porteremo appunto per questo; non solo perché sono belle, ma anche perché sono morte come la statua che non è più nella sua piazza o la lampada che non arde più sul suo altare.  Che cos’è la poesia della Palazzina di Marfisa? L’eco di una musica nel silenzio.” 

I lavori avviati comprendono sia il consolidamento delle strutture che il restauro delle decorazioni pittoriche, affidato in primo tempo a Giuseppe Mazzolani (1842-1916). L’intervento procede lentamente per l’esiguità dei fondi. Già nel 1913 si fa strada l’ipotesi di una diversa destinazione.

Giuseppe Agnelli la comunica ai soci della Ferrariae Decus:

“Altre volte, confessiamolo subito, propugnammo per la Palazzina l’idea di un Museo esclusivamente Lapidario … Or bene, via via che i soffitti andavano ripigliando i colori e le armonie del passato un senso inesprimibile di gioia entrò dominatore nell’animo nostro e il progetto d’un tempo venne a poco a poco modificandosi.”

Scuola dei Filippi, Ritratto di Marfisa d’Este bambina, Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este

Lo scoppio della prima guerra mondiale tronca ogni cosa.

Al termine del conflitto il Paese, e Ferrara, sono travagliati da una crisi economica grave, da conflitti sociali, dal sorgere della violenza fascista particolarmente attiva nelle campagne del ferrarese, conduttore lo squadrista e futuro quadrumviro Italo Balbo.

Il 4 aprile 1921 Benito Mussolini, candidato, tenne nel giardino della palazzina Marfisa un discorso elettorale che terminò con l’invito: “al popolo di Ferrara”: “Qui o popolo di Ferrara è la tua storia. Qui o popolo di Ferrara è la tua vita. Qui o popolo di Ferrara è il tuo avvenire.” [In occasione della inaugurazione della Palazzina fu posta una lapide che così recitava: “Qui dove labente squallore accusava l’incuria del tempo e l’ignavia degli uomini squillò vindice di trionfale rinascita il 4 aprile 1921 la voce di Benito Mussolini. Il popolo della città e dell’agro di Ferrara additando il nome e il segno di Roma.

L’oratore, molto probabilmente, non aveva consapevolezza del luogo, né, certamente, ne avvertiva la collegata poetica del silenzio e dell’abbandono. Da questa occasione la classe dirigente locale fa partire un nuovo stereotipo. L’abbandono e la cancellazione dell’immagine di “Ferrara città morta” alla quale subentra quella della “rinascita” nel nome degli Este e del fascismo. “Il nascere del Fascismo ed un novecentissimo Astolfo ci trassero da sì ignobile stasi.”

Gualtiero Medri scriverà:

“Dal suo Loggiato [della palazzina] il Duce dell’Italia di Vittorio Veneto parlò al popolo che lo gridava suo candidato alle elezioni politiche. Era il 5 di aprile del 1921, una giornata sfolgorante di sole e di entusiasmo. Il prato della Palazzina rigurgitava di popolo accorso per vedere, ascoltare, acclamare l’uomo che ridava l’Italia agli Italiani; era tutto un ondeggiare di vessilli; pareva fiorissero come per incanto dall’entusiasmo che la parola del Capo faceva divampare. Fu giornata trionfale per il Fascismo Ferrarese e pei colori della Patria.”

Non bastò a far ripartire i lavori, come non bastò la raccolta di fondi che un comitato di signore ferraresi, sotto gli auspici della Ferrariae Decus, organizzò nel 1924.

“La Kermesse organizzata nel campo erboso della Palazzina, riuscì graziosissima: la sera i chioschi luminosi, fioriti dalla eleganza di signore e signorine, offrivano un effetto fantastico, lasciavano intuire che cosa il grande prato diventerebbe con opportuni piantamenti che lo trasformassero in un giardino cinquecentesco, rinovellando il giardino di Marfisa.”

Nella vulgata locale la reintegrazione della Palazzina è attribuita alla volontà della Cassa di Risparmio di Ferrara e del suo presidente senatore Pietro Niccolini di celebrare in quel modo il centenario di fondazione della banca. Senza volerne sminuire l’intervento è necessario allargare il discorso a una situazione e operazione politica le quali miravano a radicalmente mutare l’immagine di Ferrara.

L’operazione Marfisa non è isolata ma si inserisce nel più generale disegno che il fascismo portava avanti in tutta Italia; a Ferrara in particolare il gerarca Italo Balbo intendeva far dimenticare le violenze e le uccisioni offrendo del nuovo regime una immagine coonestata dalla borghesia cittadina, di continuazione del buon governo estense, del rinnovamento delle glorie passate, di un futuro alto e concorde.

Abbiamo ricordato il parallelo degrado del palazzo di Ludovico il Moro. Nel 1930 iniziano i lavori di ristabilimento per ospitarvi il Museo Archeologico Nazionale di Spina. Il soprintendente Carlo Calzecchi Onesti (1886-1943) scrive “occorre qui ricordare fra i promotori della provvidenziale risoluzione, in primo luogo Sua Eccellenza Italo Balbo.”

Una situazione coincidente con quella della palazzina di Marfisa. Ricordo in quello stesso periodo la invenzione del Palio di Ferrara e momento centrale di tutta la operazione le celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto (1533).

A partire dal 1928 inizia un insieme articolato di iniziative che vedevano, raccolte nella Ottava d’Oro, conferenze di illustri studiosi. In quella di apertura Italo Balbo dirà:

“Gaiezza, fantasia, gusto della vita, giovinezza, cavalleria, valore, armonia dello spirito, ottimismo: ecco quanto noi chiediamo all’Ariosto … il che, se non erro, definisce in pieno non soltanto l’ideale ariostesco della vita, ma quello latino e italiano e fascista, nel senso più nobile della parola.”

Si aggiungeranno varie mostre fra le quali una bibliografica a cura di Agnelli e Ravegnani, una sui bronzi del museo Civico affidata a Gualtiero Medri e quella, più significativa ed importante sulla Pittura Ferrarese del Rinascimento, la cui presidenza ‘effettiva’ era di Italo Balbo: ‘direttore generale della esposizione Nino Barbantini’.

Un percorso decennale che si può far terminare con il restauro della Palazzina di Marfisa compiuto nel 1938.

La Cassa di Risparmio di Ferrara diviene, con qualche riluttanza, elemento necessario per la conclusione degli anni ariosteschi e per la definizione di un modello che nel recupero della Ferrara estense diviene paradigma per il futuro che verrà.

Non è inutile ricordare che nel 1928 in occasione del rinnovo delle cariche, l’assemblea dei soci della Cassa vota il presidente senza tenere conto delle indicazioni di Italo Balbo, il quale reagisce in maniera violenta tanto che il presidente eletto si dimette e viene nominato il candidato della federazione: Pietro Niccolini “fascista da sempre”.

Quando, dieci anni dopo, si tratta di organizzare la celebrazione per il centenario della fondazione della banca il consiglio si divide ed una parte insiste per una opera di beneficenza. Prevale la scelta del restauro della Palazzina di Marfisa, sostenuta dal presidente Niccolini e gradita “al quadrumviro cittadino Italo Balbo”.

Il consigliere Giulio Righini interviene dicendo “di non essere rimasto insensibile al fatto che Sua Eccellenza Italo Balbo che ha la costante visione degli interessi materiali ma anche ideali e spirituali della città approva e loda il progettato restauro e l’ideata destinazione della Palazzina Marfisa”.

Giuseppe Agnelli scriverà “resti memoria che indussero all’atto munifico la vigile  influenza di Italo Balbo e l’alto sentimento civile del Presidente senatore Pietro Niccolini.”

Alla inaugurazione sarà presente lo stesso Balbo, venuto appositamente dalla Libia della quale era stato nominato governatore

L’arrivo di Italo Balbo per l’inaugurazione della Palazzina di Marfisa d’Este nel 1938

L’intenzione politica è dichiarata ed esplicita: la Palazzina di Marfisa sarà l’edificio di rappresentanza della Ferrara fascista.

Questo è il quadro nel quale, senza obiezioni, si muove Barbantini . Molto è mutato da quando nei primi anni del Novecento lo studioso inneggiava alla poesia del silenzio. Le mostre veneziane, quella ferrarese del 1933, i rapporti culturali allargati come non era possibile a Ferrara hanno reso attuabile una diversa visione di Ferrara: non più una città morta ma una intellettualmente vivace che rinasce nella continuità con la tradizione estense. Corrisponde a quanto vuole la classe politica che gli affida il compito di creare la dimora rinascimentale di Marfisa.

In quello stesso periodo (1935-1940), il conte Vittorio Cini gli affida il compito del restauro e dell’arredo del Castello di Monselice. Le due operazioni, quasi contemporanee, sono analoghe e collegate fra loro.

Barbantini aveva già dimostrato di sapere ricreare ‘il genio del luogo’. I ferraresi lo avevano riconosciuto nell’allestimento della mostra del 1933 dove l’utilizzo di mobili di antiquariato serviva ad inquadrare i dipinti, a dare in qualche modo al visitatore il senso di partecipazione e coinvolgimento personale; da questo punto di vista ebbe generale ammirazione l’ambientazione del Compianto del Cristo del Mazzoni collocato in un ricostruito scurolo a dare l’impressione di una presenza contemporanea all’evento.

Barbantini non è inventore di un tipo di presenza, numerosi sono gli esempi ai quali può essersi rifatto.

Alfredo D’Andrade, nel 1884, aveva creato a Torino il Borgo Medievale che riassume modi di intervento, convinzioni e convenzioni che varranno almeno sino agli inizi del secolo successivo. Barbantini avrà visto, nel 1918, il sontuoso volume dedicato alla Casa milanese Bagatti Valsecchi, la avrà forse visitata. Ha certo consultato il libro del fotografo Augusto Pedrini dedicato agli ambienti del Rinascimento e agli arredi; un atlante di oltre seicento immagini, un repertorio ricco di suggestioni.

Certo non gli era ignoto il Museo dell’Arredamento di Stupinigi. Avrà visto, nel 1911 all’esposizione per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, varie ricostruzioni di abitazioni. Altri possibili riferimenti confermano come il coordinatore ferrarese si muova entro un ambito largamente frequentato, accolto e riconosciuto.

Nella stessa Ferrara esistevano almeno due esempi di ricreazioni di atmosfere e di recupero del passato. Le statue dei duchi estensi poste di fronte alla cattedrale, invenzione di Agnelli, Giuseppe Maciga mecenate, eseguite, nel 1926, dallo scultore Giacomo Zilocchi. La edificazione medievaleggiante, nel 1924, della Torre della Vittoria ad opera dell’ingegner Carlo Savonuzzi.

È bene avere in mente le indicazioni operative che Barbantini dichiara: valgono sia per la palazzina ferrarese che per il Castello di Monselice.

“Il programma che ha informato il restauro, il concetto di conservare all’edificio tutti i segni nobili della sua lunga esistenza evitando scrupolosamente perfino l’occasione di qualsiasi invenzione ed aggiunta, è stato seguito in somma ed in sostanza, senza eccezioni e senza distrazioni, fino in fondo. Crediamo di potercene lodare.”

E per la Palazzina:

“Il nostro compito era chiaro. Conservata rigorosamente la struttura interna dell’edificio, completato il restauro delle volte, si trattava di praticare alcune opere semplici e alcuni accorgimenti elementari intesi ad ottenere che l’armonia di quella struttura e la vaghezza di quelle decorazioni risultassero e non fossero turbate.”

Bernard Berenson scriverà, parlando della mostra del 1933: “Capii che chi l’aveva allestita doveva essere un ‘conoscitore’ nel senso vero della parola, dotato di un finissimo intuito, di un gusto sobrio, di un occhio sicuro per l’ambientamento dell’opera d’arte.”

Sia a Monselice che a Ferrara, salvaguardata la coerenza delle strutture, è l’allestimento che garantisce l’identità.

Barbantini non ha, né a Monselice né a Ferrara, la preoccupazione di recuperare pezzi un tempo presenti nelle due sedi. La ricreazione di una atmosfera non viene diminuita o condizionata dall’ansia della ricerca storica. Scriverà per la palazzina di Marfisa ma vale anche per il castello di Monselice:

“Questi mobili appartengono quasi tutti al Cinquecento. Nella scelta meditata e rigorosa che ne abbiamo fatta, trascegliendoli fra i più insigni che abbiamo incontrati sul mercato italiano, ci siamo preoccupati oltre che dell’eccellenza di ogni esemplare, della loro conservazione che per tutti o quasi tutti i modelli raccolti possiamo asserire perfetta.”

Sala della Palazzina di Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini
Sala della Palazzina di Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini

Tale comportamento conduce ad un uso disinvolto delle opere acquisite. Faccio alcuni esempi. Per potere utilizzare quattro monumentali cornici “sansovine” vengono inseriti, in tre, “frammenti di più vaste composizioni con episodi di battaglie”: si tace che per fare questo è stata tagliata una copia delle Battaglia delle Amazzoni da Rubens, proveniente, integra, dalla collezione Donà delle Rose. Il Ritratto di Dama, dalla stessa raccolta, è in realtà il ritratto di Livia Martinengo come indicava una legenda, cancellata al momento della collocazione in Marfisa: “Livia Nobilis Matrona Romana Com. Martig. Pudicitia et Pietate Nobilior”. Il Viaggio di Fetonte montato nella volta della sala 6 è copia parziale dell’affresco di Giulio Romano presente in Palazzo Te a Mantova: raffigura il carro del Sole che si avvia al tramonto mentre dalla parte opposta si avvicina la Luna. Il ritratto di Marfisa d’Este, futilmente riconosciuto da Alfonso Lazzari, è stato dovuto restituire a Mantova e sostituito da una copia del pittore Mario Capuzzo: si tratta del probabile ritratto di Louise de Lorraine da un originale di Anthonis Mor.

Nessuna delle opere presenti in Marfisa ha, anche labile, collegamento con l’edificio e con il personaggio. Lo stesso vale anche per il contemporaneo intervento su Monselice.

Una parte delle opere, per ambedue le sedi, ha la stessa provenienza, in particolare dalla collezione Donà delle Rose e da quella Pisa. Alcune seggiole e seggioloni paiono partizione da uno stesso blocco. Le atmosfere da ricostruire sono diverse ma in alcuni momenti vi è coincidenza di soluzioni. Penso alla ricostruzione dello ‘studiolo’ identica in entrambi gli edifici. A Ferrara vi sono state successive recenti e sciagurate modifiche che hanno eliminato il broccatello alle pareti e fatto scomparire calamaio, penna e stoffa, gli arredi del tavolo.

“Un solo ambiente abbiamo creduto necessario tappezzare di broccatello, e cioè la sala ottava, in omaggio alla sua appartata funzione di ‘studiolo’ e al carattere eccezionale del soffitto che la sovrasta.”

Mario Capuzzo, Presunto ritratto di Marfisa d’Este, 1938. Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este

Barbantini è un visionario, progetta per tempi lunghi, proponendo una sintesi di realtà che pensa immutabili e che coincidono con il potere in quel momento presente. È una favola quella che viene narrata nelle sale della Palazzina; una favola che non ha quasi alcun rapporto con la realtà storica.

Un Rinascimento fatto di cortesia e gentilezza, di arte e di bellezza, di poeti ed artisti, di cavalieri e dame.

Barbantini fu un geniale e capace realizzatore di tale impegno. Le sue qualità sono state testimoniate sia dalle esposizioni veneziane che da quella ferrarese del 1933. Programmaticamente una mostra è un momento contingente destinato, per quanto riguarda l’ordinamento, a scomparire; possono restare documentazioni varie ma se ne perde la generale visione.

A Ferrara, dopo il 1933, la Pinacoteca Comunale aveva mantenuto, restituiti gli arredi che la completavano, la sistemazione delle sale; dopo la statizzazione i direttori che si sono succeduti hanno cancellato ogni residua testimonianza: restano solo alcune fotografie d’archivio.

I musei veneziani, da Ca’ Rezzonico al Museo Orientale, hanno mutato allestimento e presentazioni. Lo stesso Castello di Monselice, contemporaneo alla Palazzina e ispirato agli stessi criteri, ha visto spostamento di opere e furti che hanno fortemente modificato quanto realizzato da Barbantini.

L’unico esempio sopravvissuto di un impegno che aveva caratterizzato tutta la sua vita era l’allestimento della Palazzina di Marfisa d’Este. Non a caso Carla di Francesco scriveva “La Palazzina intesa come globalità degli intenti e dei risultati è ormai entrata a far parte della storia del restauro e del gusto, come esemplare – intoccabile ormai – della cultura ferrarese del suo tempo”.

Una Amministrazione attenta e funzionari consapevoli hanno difeso l’assetto tramandato e preservato questo unicum museale, prezioso perché sopravvissuta testimonianza di un’epoca, di un gusto, di criteri e modalità di intervento.

Attenzione che viene meno quando nel 2014 si iniziano a collocare nella Palazzina esposizioni di arte contemporanea. La prima è Lovers, aperta dal 22 maggio al 15 giugno 2014. Inizia un uso continuativo della Palazzina che diviene sede, neutra, di mostre di arte contemporanea: l’allestimento Barbantini non è fatto per coesistere con altro e quindi scompare cancellato dai pannelli per il sostegno dei nuovi materiali: la Palazzina resta chiusa per le fasi di allestimento e disallestimento derivati dal nuovo uso.

Locandina della mostra Aqua Aura, Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este, 2019

Non faccio un elenco delle esposizioni che vi hanno trovato sede; ne ricordo solo qualcheduna a testimoniare un uso infelice e incolto: responsabili gli amministratori e i funzionari che da quella data si sono succeduti sino ad oggi. Apre il 12 novembre 2015 Il manichino e i suoi personaggi, chiuderà il 13 marzo 2016; dal marzo al maggio 2019 Aqua Aura. Paesaggi curvi; XVIII Biennale Donna. Attraverso l’immagine, dal settembre al novembre 2020; Augusto Dolio, Il respiro della natura dal 18 giugno all’11 settembre 2022

A tutto questo corrisponde la bizzarra ipotesi di trasferirvi il Museo Antonioni.

“Siamo fermi ma, in questa immobilità si è fatta strada anche una nuova ipotesi per la sede del Museo [Antonioni], ovvero Palazzina di Marfisa d’Este in corso Giovecca”.

A parlare è Vittorio Sgarbi presidente della Fondazione Ferrara Arte.

A settembre del 2022 la Palazzina è stata chiusa al pubblico per lavori di restauro non chiaramente specificati; comportano la liberazione delle sale e lo spostamento delle opere. Il timore forte e non ingiustificato è che si colga l’occasione per eliminare del tutto l’ordinamento Barbantini.

Penso non sia inutile ricordare che gli arredi, tranne alcune poche eccezioni, sono di proprietà della banca, oggi Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Esiste una convenzione, stipulata il 17 giugno 1941, che ne regola il rapporto con l’Amministrazione Comunale.

“Che la Cassa vuole conservare e conserva in sua proprietà tutto il vero e proprio mobilio, facendone, a puro titolo di deposito da potersi, secondo l’intendimento espresso dalla Cassa, considerare perpetuo, la consegna al Comune, non mai per utilizzazioni pratiche, ma solo per l’esclusivo uso di arredamento artistico della Palazzina, con divieto di rimozione o di trasporto dei mobili in altri edifici o locali, e con l’obbligo della loro buona conservazione. … Nel caso di utilizzazione diversa dall’attuale, che è quella convenuta fra Comune e Cassa di Risparmio, di un signorile appartamento di rappresentanza della città (esclusa quindi la sua utilizzazione in impieghi pratici ed inusuali) che il Comune intendesse di dare alla Palazzina, ovvero a qualche locale della medesima, i mobili, quadri, sopramobili, ecc. di proprietà della Cassa che adornano i locali stessi, saranno restituiti alla Cassa proprietaria.”

Dovrebbe essere inutile, ma non lo è, segnalare che una convenzione o la si attua o la si muta: non si può far finta di niente.

È quanto è accaduto: la Palazzina non è più la sede di rappresentanza della città. Non si capisce per quali ragioni la banca proprietaria non faccia valere i suoi diritti.

Una Amministrazione disattenta e funzionari inadeguati hanno commesso e continuano a commettere due errori che non sono solo di metodo.

Il primo è non aver capito che la Palazzina era il perno per il riconoscimento della Ferrara estense. Una volta accolta l’ipotesi, riduttiva e, a mio parere, sbagliata, che la storia della città si chiudeva nei due secoli del vicariato estense, era d’obbligo enfatizzare le presenze che guidavano a quella lettura. La Palazzina era stata creata con questo scopo; non averlo inteso fa molto dubitare sia delle capacità politiche che di quelle professionali di amministratori e addetti.

Il secondo è, avendo cancellato la Palazzina, avere rinunciato a possibili finanziamenti e promozioni, ad ogni aggancio con le istituzioni che operano nel settore.

Stupisce che non ci si sia resi conto che l’ICOM ha una sezione dedicata alle dimore storiche, DEMHIST, che consente di mettere in rete e di fruire della promozione complessiva, canale per ottenere finanziamenti e per partecipare a programmi specifici.

L’inserimento negli elenchi vale anche per “case che non sono mai state abitate perché ‘costruite’ (o allestite) apposta per essere musei: cioè costruzioni di ambienti dedicati a spiegare come viveva una fascia della società in un certo luogo in un determinato periodo storico”.

Stupisce che non vi sia stato accesso a quanto previsto dalla Legge Regionale 10 febbraio 2022 n. 2, la quale prevede, in particolare all’art. 5, una serie di contributi a sostegno sia degli interventi di manutenzione e restauro sia per opere di valorizzazione.

Stupisce altresì che la Ferrariae Decus, alla quale va il merito dei primi interventi e una continua attenzione, sia restata e resti inerte di fronte alla distruzione di quella Palazzina il cui ripristino è stato tanta parte della storia della associazione.

Nota:
Questo saggio di Ranieri Varese uscirà nel 2025 su Artes, la rivista diretta da Luisa Giordan dell’Università di Pavia, nel primo numero della nuova serie.

In copertina: Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini.

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Parole e figure / Dieci teste, nove cappelli

In libreria da oggi, “Dieci teste, nove cappelli” di Micaela Chirif e Mercé Galí, edito da Kite, ci insegna che le cose hanno un valore limitato.

Lo abbiamo sfogliato in anteprima, come sempre quando il volume arriva (vi atterra quasi magicamente) nella buchetta delle lettere lo si apre con delicatezza e la curiosità di bambino.

Questa volta il pacchetto ha dimensioni un poco più ridotte del solito, lo apro e ho una piacevole sorpresa: il libro si sfoglia in orizzontale anziché in verticale. Già mi piace. Adoro ciò che è diverso e unico.

Sulla copertina, faccette buffe e tanti cappelli originali, di paglia, velette, bombette, coppole. Copricapi più o meno eleganti e sbarazzini.

Mi viene alla mente il libro sulla tecnica de “I sei cappelli per pensare” di Edward De Bono (per pensare bene, bisogna interpretare dei ruoli, indossando idealmente dei cappelli di sei colori – bianco, rosso, giallo, nero, verde e blu – che rappresentano i diversi punti di vista, anche quelli più lontani dalla propria indole), ma non vi è alcun legame.

Il messaggio di questo delicato albo illustrato è ben altro. Così si narra che, a volte, ci sono dieci teste e solo nove cappelli: può cioè succedere che ci siano più bambini che cose da dare a tutti loro, una per ciascuno. Un grave dilemma! Bisogna trovare una soluzione al grave problema o si rischia davvero grosso.

Se ci sono dieci teste e solo nove cappelli, Georgina deve andarsene; se otto bocche e solamente sette zuccherosi e golosi pasticcini, è Eugenio a dover partire. Troppi nasi e pochi fazzoletti, oppure simpatici pennarelli verdi che non bastano a disegnare curiosi e ondeggianti ombelichi, e allora anche Alice e Ciro se ne devono andare.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due bambini. Restano solo due bambini. Ma qualcosa, o meglio, qualcuno, arriva. E basterà per tutti.

Chi sarà? Solo alcuni indizi: profumo di crema e di burrosa torta alle mele, abbracci calorosi, capelli turchini/violetti ed eleganti chignon, grembiuli avvolgenti, sughetti deliziosi, croccati crostini di pane, morbido zucchero filato, fiabe della domenica, pizzette colorate, budini proibiti, caramelle scintillanti, soldini per il giornalino di fumetti, prati verdi su cui correre, gattini da accarezzare, tuttociòchevuoi e leichetantomanca. LEI, la certezza di quando sei bambino, lei che bastava e basta per tutti. Lei che sembrava venire giù dal cielo illuminato dalle stelle. Un regalo inatteso.

Una storia che ci insegna che i beni materiali sono sempre limitati, ma i sentimenti non lo sono mai. E ci sono per tutti. Davvero per tutti. Perché i beni finiscono, i baci e gli abbracci no.

dieci teste nove cappelli kite
dieci teste nove cappelli kite

Micaela Chirif, Mercé Galí, Dieci teste, nove cappelli, Kite edizioni, Padova, 14 gennaio 2024, 40 p.

Micaela Chirif è una scrittrice peruviana di poesie e albi per bambini. È laureata in Filosofia e ha conseguito un Master in letteratura e libri per bambini. Ha ricevuto diversi premi, tra cui, nel 2017, una menzione della Medalla Colibrí IBBY Chile e il Premio Fundación Cuatrogatos. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue. Sito web

Mercé Galí cresce circondata da storie e poesie nella libreria dei suoi genitori a Barcellona. Dopo gli studi di Disegno e Illustrazione, si specializza in Incisione alla Facoltà di Belle Arti dell’Università di Barcellona. Lavora per l’illustrazione per bambini e ragazzi, con case editrici e riviste. Si dedica inoltre alla comunicazione culturale. Tiene laboratori per bambini e corsi per adulti. Espone libri d’artista e incisioni in mostre collettive e personali. La caratterizzano la spontaneità del tratto, le macchie, l’uso di collage e fotografia, la ricerca della semplicità, la valorizzazione dello humour. Pagina Facebook

L’energia elettrica costa più cara con il nucleare che con le fonti rinnovabili

L’energia elettrica costa più cara con il nucleare che con le fonti rinnovabili

I dati al centro del Report, diffuso anche da Kyoto Club, che fa parte della Coalizione, parlano chiaro: in Europa nel 2023, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (World Energy Outlook 2024), il costo di generazione dell’elettricità – considerando i costi complessivi della costruzione, del funzionamento dell’impianto, dell’investimento per la costruzione, gli oneri finanziari dell’ammortizzamento del capitale investito, i costi operativi per la durata della vita produttiva dell’impianto, il funzionamento, il combustibile e la manutenzione – prodotta dalle centrali nucleari in Europa è stato di 170 $/MWh, contro quella generata dal solare fotovoltaico pari a 50 $/MWh (3,4 volte di meno del nucleare), quella dell’eolico onshore di 60 $/MWh (2,8 volte di meno) e quella dell’eolico offshore pari a 70 $/MWh.

Per il nucleare i costi in conto capitale sono pari a 6.600 $/kW, con un capacity factor del 70% e con costi per il combustibile, per la gestione e la manutenzione di 35 $/MW/h; per il solare fotovoltaico i costi dell’investimento sono pari a 750 $/kW, con un capacity factor del 14% e con costi per la gestione e la manutenzione di 10 $/MW/h; per l’eolico i costi dell’investimento sono pari a 1.630 $/kW, con un capacity factor del 29% e con costi per la gestione e la manutenzione e di 15 $/MW/h.

Anche per il 2030 e il 2050 il nucleare è una forma di produzione di energia elettrica più costosa delle rinnovabili.
Parliamo, infatti, di una differenza di ben 100 $/MWh tra nucleare e solare per il 2030 e il 2050, 80 $/MWh per l’eolico onshore, per il 2030 e 75 $/MWh per il 2050. E per l’eolico offshore di 90 $/MWh per il 2030 e il 2050. Differenze di costi, più o meno elevate, che si riscontrano anche negli Stati Uniti, in Cina o in India.

Un possibile ritorno al nucleare in Italia è dunque qualcosa di insensato, che inoltre non tiene conto di due pronunciamenti referendari. Invece di accelerare  in modo adeguato lo sviluppo delle rinnovabili per arrivare alla piena decarbonizzazione della produzione di elettricità, il nuovo Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) – commenta 100% Rinnovabili Network – prevede uno scenario di ritorno al nucleare a fissione, con la costruzione di Small Modular Reactor (SMR), di Advanced Modular Reactor (AMR) e di micro-reattori. Il ritorno al nucleare, ancora di più per un Paese come l’Italia che ne è uscito da molti anni, avrebbe un costo molto alto”.  Vediamo, in sintesi, perché.

L’energia elettrica generata con gli SMR (i reattori modulari più piccoli proposti per l’Italia e che ancora non sono stati costruiti in nessun Paese occidentale ) costerà più di quella prodotta dai reattori più grandi.
A questa conclusione arriva la rassegna internazionale sui progetti in corso per gli Small Modular Reactor (SMR), pubblicata da The World Nuclear Industry – Status Report 2024 (Mycle Schneider Consulting Project Paris, September 2024). Ci sono poi i costi per lo smantellamento: in Europa, la più recente stima del 2019 del costo previsto di gestione dei rifiuti radioattivi generati dalle centrali nucleari, escluso lo smantellamento delle centrali, è nell’intervallo 422—566 miliardi di euro.

Da notare – si legge nel Report – come questi costi, oltre a quello del decommissioning e della gestione dei rifiuti radioattivi, non sono presi in considerazione nelle stime fatte dall’Agenzia Internazionale per l’Energia nell’Energy Outlook 2024. Da ricordare che il deposito dei rifiuti ad alta e media radioattività, di cui il nostro Paese è ancora in attesa, costerà almeno 8 miliardi di euroI sostenitori italiani del nucleare citano spesso il nucleare francese come esempio di successo economico. Nulla di più falso: EDF, la società francese che gestisce le centrali nucleari, fortemente indebitata, nel 2023 è stata interamente nazionalizzata dal governo francese, con una spesa di oltre 9 miliardi a carico dei contribuenti.”

Il Rapporto conclude affermando che, così come farà la maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, Germania compresa, anche l’Italia potrà soddisfare il proprio fabbisogno di elettricità, anche raddoppiato al 2050, non solo all’80%, ma al 100% con fonti rinnovabili di energia.

Qui il Report: https://www.kyotoclub.org/wp-content/uploads/rapporto_i_costi_del_nucleare.pdf.

Cover: foto di Legambiente

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Prezzi alle stelle, salari fermi: la stangata è servita

Prezzi alle stelle, salari fermi: la stangata è servita

di Patrizia Pallara

288 euro in più per mettere a tavola pranzo e cena, 169 per scaldare casa, fare la doccia, cucinare i pasti, quasi 100 euro per i trasporti. Sono alcuni dei rincari previsti in questo primo scorcio del nuovo anno, aumenti che avevano visto un rallentamento nel 2024, ma che adesso hanno ripreso la corsa soprattutto a causa dei costi energetici. I conti li ha fatti l’Osservatorio nazionale Federconsumatori che dopo il rialzo dei pedaggi autostradali, precedentemente scongiurato, ha stimato la stangata che ci aspetta: 914 euro a famiglia in un anno.

Rincari & rincari

Le voci principali? Energia, naturalmente, ma anche alimenti, assicurazioni, scuola, ristorazione. “La stangata in arrivo si abbatterà su una situazione già compromessa dai continui aumenti registrati negli ultimi anni, che hanno determinato modifiche nelle abitudini di consumo e rinunce – afferma l’associazione di tutela dei consumatori –. Per questo ci saremmo aspettati una manovra più incisiva, soprattutto dal punto di vista del sostegno alle famiglie. Non vediamo, invece, un impegno mirato da parte del governo sulla lotta alle crescenti disuguaglianze”.

L’inflazione

La causa della corsa inarrestabile dei prezzi? L’inflazione. Secondo le stime preliminari dell’Istat nel mese di dicembre l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’itera collettività registra un aumento dell’1,3 per cento su base annua e dello 0,1 su base mensile. Mentre l’indice armonizzato dei prezzi al consumo registra una variazione del più 0,1 su base mensile e del più 1,4 per cento su base annua. Nel 2024 i prezzi al consumo hanno registrato in media una crescita dell’1 per cento, con un netto calo rispetto alla media record del 2023 (che si attestava al più 5,7 per cento), dovuto soprattutto alla discesa dei beni energetici.

Boom dell’energia?

Sono proprio le bollette di luce e gas a preoccupare di più le famiglie. La tensione geopolitica in alcune aree, il rialzo stagionale dei prezzi all’ingrosso dell’elettricità, e delle quotazioni del gas per l’inverno, la scadenza dell’accordo tra Russia e Ucraina per il transito del metano di Gazprom verso l’Europa, fanno temere un boom dei prezzi nelle prossime settimane.

Bollette su

Aumenti che sono confermati dalla stessa Arera, l’Autorità di regolazione del settore: per il primo trimestre di quest’anno prevede un rincaro del 18,2 per cento del costo della luce per i clienti più fragili, quelli serviti in maggior tutela, e cioè circa 3,4 milioni di utenti (oltre 75 anni, percettori di bonus sociale, disabili, residenti in moduli abitativi di emergenza o in isole minori, utilizzatori di apparecchiature salvavita).

Per le bollette del gas, poi, alcune stime parlano di rialzi di circa il 20 per cento, altre analisi, come quella effettuata dal portale di comparazione Facile.it, hanno previsto un aumento del prezzo dell’energia di quasi il 30 per cento nei prossimi dodici mesi, pari a un rincaro di 272 euro tra luce e gas per chi è nel mercato libero.

Potere d’acquisto

A pagare di più questi aumenti sono le famiglie meno abbienti, che devono usare la maggior parte dei loro introiti per acquistare i beni essenziali. E se tutte le ricerche confermano che i salari in Italia sono fermi da anni, basti citare il report dell’Ocse secondo cui nel primo trimestre 2024 erano inferiori del 6,9 per cento rispetto a prima della pandemia, le famiglie mostrano segnali di una crescente difficoltà nell’affrontare la quotidianità: la propensione al risparmio è infatti diminuita, ci dice l’Istat, passando dal 10 al 9,2 per cento.

Misure alla portata

“È indispensabile che il governo si decida ad adottare serie e incisive misure – affermano da Federconsumatori –. La promessa e mai realizzata riforma degli oneri di sistema su beni energetici, per esempio, la creazione di un fondo di contrasto alla povertà energetica e un’azione di contrasto a quella alimentare, la rimodulazione dell’Iva sui generi di largo consumo, che consentirebbe un risparmio di oltre 516 euro annui a famiglia, lo stanziamento di maggiori risorse per la sanità pubblica, l’avvio di misure per riequilibrare le disuguaglianze esistenti, prima di tutto attraverso un rinnovo dei contratti, una giusta rivalutazione delle pensioni e una riforma fiscale equa, davvero tesa a sostenere i redditi medio-bassi”.

Articolo originale su Collettiva del 13 gennaio 2025 

In copertina: immagine da Etica sgr.

 

Per certi Versi /
Conosco la polvere

Conosco la polvere

Conosco la polvere
che in silenzio
si deposita sul marmo
Conosco la nebbia
che con grazia veste
un giorno di novembre
Conosco il tempo
lungo di un’attesa
e quello fragile
di una rosa

Immagine in copertina: microparticles-pixabay
 
Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino 

La crisi dell’automotive è la crisi dell’ Europa, nano politico

La crisi dell’ automotive è la crisi dell’ Europa, nano politico

L’ automotive europeo è in crisi, specie i due principali produttori di automobili: VW (Volkswagen + Audi) e Stellantis (FIAT-Chrysler e Peugeot). VW vorrebbe chiudere tre stabilimenti in Germania e tagliare del 10% le retribuzioni dei propri dipendenti; Stellantis (che ha appena licenziato il proprio CEO Carlos Tavares) sta ricorrendo a stop di produzione e di cassa integrazione (a Mirafiori sono 17 anni che c’è!).

Nel 2024 in Italia sono state immatricolate 1,56 milioni di auto, come nel 2023, ma 360mila in meno del 2019 (-18,7%). Colpa del minor potere d’acquisto delle famiglie italiane? Dei prezzi troppo alti? Della transizione all’elettrico fermo in Italia al 4,2%? Dello scarso interesse dei giovani per le 4 ruote? Un po’ di tutto. Negli ultimi mesi chi soffre di più è Stellantis (-40% in borsa), scavalcata in Italia anche da Dacia, Renault, Toyota che hanno puntato sull’ibrido. Poi c’è la cinese Byd (tutto elettrico) che ha raggiunto Tesla nelle vendite del solo elettrico nel 2024 (1,7 milioni), nonostante i dazi di Usa ed Europa. Tesla vende solo il 2,4% delle auto nel mondo, ma ha una capitalizzazione di borsa mostruosa (1.100 miliardi) che indica quanto l’elettrico abbia avuto un forte impatto anche finanziario. Per un confronto: VW ha 46 miliardi, Stellantis 37, Ferrari 76, Porsche 54, Mercedes 53, Bmw 50, Renault 14. La capitalizzazione in borsa Tesla è gonfiata sicuramente dai 210 milioni di seguaci su X di Musk, il cui titolo è sempre cresciuto (chi ha investito 1.000 dollari nel 2010 ne ha oggi 250.000) anche se per la prima volta nel 2024 il titolo Tesla ha perso l’8%.

Dal 2000 l’Europa, nonostante sia cresciuta a 27 paesi, ha dimezzato il proprio valore nella produzione mondiale di automobili: dal 31% a poco più del 15%. La quota produttiva persa dall’Europa è stata prodotta dalla Cina, passata dal 4% al 32% diventando la prima produttrice mondiale. Nel frattempo buona parte della manifattura e dell’ automotive europeo è stata spostata dall’Italia ai paesi dell’Europa Orientale, dove essa impiega ormai un quarto degli occupati: Ceca, Slovenia, Slovacchia, Serbia, Ungheria, Polonia, Romania. L’Italia rimane, in valore assoluto con 3,9 milioni di dipendenti nella manifattura, ancora leader (dopo la Germania con 7,5 milioni di dipendenti), anche se in continuo calo, in quanto la globalizzazione ha spostato il proletariato industriale europeo nella parte orientale. Le conseguenze sono quelle già viste in Inghilterra, Stati Uniti e Francia (i tre paesi dov’è nato il liberalismo con le rispettive rivoluzioni) e dove ad una classe operaia ben pagata, che votava in maggioranza Labour, è subentrato un terziario di lavoretti malpagati e demansionati che vota in maggioranza Tories. La recente crescita dell’occupazione in Italia si allinea a questo modello, in cui cresce il lavoro povero e cala quello industriale ben pagato. Il laburismo è nato dall’industrializzazione e da valori religiosi: la fine di entrambi lo ha minato alla radice.

Fonte: Eurostat

Chi ha perso di più in Europa, in termini di produzione di autoveicoli, è stata l’Italia. Ex Fiat (Stellantis) è arrivata a 283mila auto e 192 mila veicoli in totale 475mila: erano 2 milioni nel 1989. La via “inglese” è stata aperta anche in Italia e darà i suoi frutti avvelenati. L’occupazione della manifattura italiana ha preso una batosta micidiale, prima con la globalizzazione, poi con l’entrata di 100 milioni di lavoratori dei Paesi dell’Est in Europa a seguito dell’allargamento del 2004. Ora cerca di riprendersi, ma la subalternità agli Stati Uniti mette a rischio l’intero modello basato sulla manifattura; i nostri artigiani (-400mila in 10 anni), i piccoli negozi delle nostre piccole e medie città desertificate da Amazon. Qui sotto riporto una statistica su una speciale produzione, quella delle macchine utensili: essa mostra come l’area tedesco-austriaca-italiana sia ancora leader nel mondo e quanto sarebbe importante avere un’Europa e un’Italia autonome e indipendenti e non neo colonie delle multinazionali degli altri. Nella seconda colonna la produzione è divisa per abitanti.

La transizione dell’automobile dal motore a combustione a quello “green-elettrico” vede l’Europa in netto ritardo rispetto alla concorrenza sino-americana, per la scarsa lungimiranza mostrata nell’ultimo decennio. La strategia è stata decisa troppo tardi e senza quel supporto pubblico che hanno avuto sia gli Stati Uniti nel 2023 e ancor più la Cina con molto anticipo (10 anni fa). Il blocco alla produzione di auto a combustione (che diverrà effettivo a partire dal 2035) è stato deciso nel 2023, ma da anni era chiaro che la mobilità mondiale si sarebbe spostata verso un modello più ecosostenibile. Il fatto è che in Europa lo “Stato nazione (come scrive Emmanuel Todd) ha cessato di esistere. Al suo posto c’é un’Unione Europea senza capacità di definire le proprie politiche interne ed estere in modo indipendente e senza ingerenze esterne”. La transizione all’elettrico ha posto norme, ma prive di investimenti e sostegni pubblici come si sarebbe dovuto fare. E mentre ci si lamenta per il clima, si investe silenziosamente da 20 anni in armi. I dati Sipri mostrano come le spese militari di USA + Europa siano cresciute dal 2000 al 2023 (a prezzi costanti) del 61%.

I produttori europei di auto hanno deciso di “ignorare” l’elettrico  – che all’inizio era una nicchia di mercato – per sfruttare i vantaggi dove il margine di profitto era maggiore (motore endotermico in auto di media e grossa cilindrata), trovandosi poi a doversi adattare, una volta costretti, alle nuove normative.

I produttori cinesi, che hanno uno Stato-nazione, sono stati sostenuti da generosi aiuti pubblici, hanno investito in nuovi prodotti e processi per l’elettrificazione, migliorando l’integrazione di nuove componenti software, elettroniche e meccaniche; così oggi la cinese Byd ha raggiunto Tesla nelle vendite del solo elettrico. L’Europa è così indietro non tanto sulla tecnologia, dove resta leader per brevetti (come dice anche il prof. Zirpoli, Cà Foscari) ma sull’efficienza produttiva, l’automazione e la rete di ricarica. Se tutti avessimo un’auto elettrica (full, non ibrida) ci sarebbero le code e infatti i consumatori europei ne comprano poche.

I cinesi hanno anche puntato su piccole auto a basso costo non prodotte in Europa e Usa, dove la domanda dei consumatori è massima (le vecchie utilitarie), mentre in Europa i produttori spingevano per un crescente spostamento verso auto sempre più grandi, potenti e costose. Dal 2000 al 2021, per i consumatori europei il costo medio delle auto è cresciuto del 66% (contro un aumento dell’inflazione del 38%), il che si è riflesso su come è stata concepita l’auto elettrica in Europa: auto costose, grandi e pesanti, per cui i consumatori europei ora si rivolgono o alle ibride o alle auto cinesi piccole ed economiche (da qui i dazi imposti ai cinesi).

C’è poi sullo sfondo il problema delle materie prime: la Cina oggi è leader nelle terre rare, litio, cobalto, grafite e, di conseguenza, nelle batterie, per cui la Cina non solo compra sempre meno auto dall’Europa, ma esporta in UE con i propri modelli, più efficienti ed economici.

L’Europa si trova nella situazione di rincorrere in un’industria in cui è sempre stata leader. L’anno prossimo arrivano per i costruttori europei le sanzioni imposte dall’Europa (se vendono poco elettrico e producono troppa CO2). Cosa succederà? Se le auto sono troppo costose non le compra nessuno, se non le compra nessuno scattano le sanzioni, se scattano le sanzioni non ci sono soldi per innovare e per ridurre i costi: un loop potenzialmente letale per l’Europa.

In Giappone Nissan e Honda in crisi si uniscono, ma non Toyota che non è mai andata in crisi. Come mai? Ha puntato da subito sull’ibrido (endotermico + elettrico) e su altre soluzioni: il motore ad acqua che estrae idrogeno che, per ora, non è sicuro perché in caso di incidente è come una bomba. Questo è il parere di Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova, esperto di transizione della mobilità, che sostiene che la tecnologia dell’elettrico sarà solo una delle tecnologie che innoveranno la mobilità (non tutti possono andare in elettrico, non ci sono né le materie prime né la rete).

Per riguadagnare il proprio ruolo di leadership mondiale, l’Europa dovrà dunque farsi portatrice di una nuova idea di mobilità, cambiando approcci e obiettivi e ripartendo dagli investimenti (sia pubblici che privati) nella ricerca che, per un secolo, le hanno permesso di essere leader mondiale. Anche in questo caso il “libero mercato” deregolato non è affatto lungimirante e senza una nuova Europa, che sia un vero Stato-nazione, il declino è assicurato. La mancanza di uno Stato-nazione e la logica dei Ceo – libero mercato, profitti a breve – ha prodotto una catastrofe. A pagare saranno i lavoratori, indeboliti come “proletariato” da continue delocalizzazioni (altrove e a Est). Il futuro sarà nello sviluppo integrato di software, telecomunicazioni, infrastrutture, chimica (per le batterie), processi di produzione più efficienti, riciclo e riuso. Per farlo serviranno tanti investimenti sia pubblici che privati. L’Europa, se fosse uno Stato sovrano, ne avrebbe le potenzialità, investendo nei settori di interesse dei suoi cittadini. Ma oggi come vassallo degli Stati Uniti l’interesse è riarmarsi.  Sta qui la crisi di tutti i Governi liberal-democratici: la mancanza di autonomia e visione di lungo periodo e la caduta di difesa dei ceti popolari. 

 

Foto cover tratta da Public Domain Media

 

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Si ricomincia? No: si continua a sperare

Si ricomincia? No: si continua a sperare.

Ho letto le parole di Don Andrea Zerbini su Periscopio [Qui] e [Qui] quando avevo da poco terminato il libro intervista di Jon Fosse con Eskil Skjeldal (Il mistero della fede, Baldini Castoldi, 2024). Così, proprio sotto i miei occhi – letteralmente – si iscrivevano, anzi si incidevano, degli stessi, identici, propositi.

Quei propositi che Don Andrea ha inteso ingraziarsi nell’inizio di questo nuovo anno: primo, continuare a scrivere che è un modo di ricadere nel tempo attuale; secondo, continuare quindi a nascere di nuovo, a “rinascere”, per riprendere un viaggio che (non) si sa dove ci condurrà [Qui].

Jon Fosse (poeta e narratore, Premio Nobel per la Letteratura nel 2023) racconta di essere stato accompagnato nella sua infanzia dalle parole del poeta Henrik Wergeland che sua madre aveva ricamato e appese su una parete della loro casa:

Osserva attento e vedrai
il grande nel piccolo.
Pensieri divini si levano
nel tenero filo d’erba.

Scrivere ha a che fare con questa cosa qua, con l’intrecciare, come dice Don Andrea, “le parole poetiche con la parola di Dio”, il grande con il piccolo, la radice profonda con il filo d’erba al vento. L’invisibile con il visibile.

A questi propositi vorrei aggiungerne uno mio, personale, e cioè quello di ridare significato a una parola che per il suo continuo uso – e, a volte, abuso – rischia di perdere il suo senso proprio: speranza, la parola è speranza.

Insieme alla parola resilienza, impropriamente utilizzata per cose lontane dalla pertinenza sua propria (la scienza dei materiali), speranza è l’altra onnipresente parola sulla quale poco o per niente si associa quell’intreccio del quale si parlava all’inizio. E anche quando si tenta questo intreccio lo si fa nel modo sbagliato.

Già Vaclav Havel si era sottilmente soffermato sulla «speranza» come qualcosa da non dover per forza collegare a un “forzato” e forzoso lieto fine futuro. Ricordate? «La speranza non è la convinzione che una cosa finisca bene, ma la certezza, che una cosa abbia senso al di là da come andrà a finire».

La speranza dunque sembrerebbe più legata al senso delle cose e meno a un futuro ottimistico, per quanto al di là da venire.

Vi è però un intreccio ancora più stringente e dal mio punto di vista più… poetico e dunque appartenente alla stessa essenza dell’uomo. Don Andrea infatti ci ricorda, attraverso le parole del teologo Karl Rahner, che “quando un uomo nel profondo del suo cuore impara ad ascoltare la Parola… allora incomincia a diventare un uomo che non può più essere completamente insensibile ad ogni parola poetica”.

L’intreccio di cui parlo è quello proposto da Raimon Panikkar, filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo di cultura indiana e catalana: «…per me la speranza non è del futuro. Questa, a mio parere, è la grande fallacia, la grande trappola. La speranza non è del futuro ma è dell’invisibile. Di quest’altra dimensione che è già qui, che è tra di noi, che è là. Se io non la vedo allora mi dispero, se io la vedo allora ho speranza. Io non spero nel futuro, il futuro non viene più tardi” [da La speranza è dell’invisibile, AnimaMundi Edizioni, 2021].

Parafrasando Don Andrea quindi non solo «nascere  è cadere nell’ora» ma lo è anche sperare. Ma a ben guardare sperare somiglia tanto a scrivere, perché quando scrivo malattia dico anche guarigione, se scrivo morte dico anche vita, se scrivo natura dico anche Dio.

E a questo proposito Jon Fosse nel suo libro intervista dice: «E il mondo è solo cattivo? Ho incontrato troppe persone buone per crederlo. Sono convinto che l’essere umano sia fondamentalmente buono. E la natura è solo cattiva? Ho vissuto troppi momenti belli nella natura per poterlo pensare. E il cielo stellato è anche sopra di me».

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Salviamo l’Appennino, salviamo i crinali del Mugello! L’assemblea popolare di Vicchio.

Salviamo l’Appennino, salviamo i crinali del Mugello!
L’assemblea popolare di Vicchio.

Domenica scorsa 5 gennaio, i Comitati per i crinali liberi dell’Appennino Mugellano hanno organizzato un’Assemblea pubblica a Vicchio presso Il Circolo Il Tiglio in difesa del Monte Giogo di Villore Corella e dell’Appennino Mugellano dalla colonizzazione industriale eolica in atto. All’Assemblea pubblica, grande, viva e attenta partecipazione della popolazione di Vicchio che ha riempito la sala e ha posto numerose e interessanti domande sul futuro dei territori del Mugello e dell’Appennino Tosco-Romagnolo. [Qui la cronaca della Assemblea pubblica su Ok Mugello

Il Comitato Tutela Crinale Mugellano, il Comitato No eolico industriale Firenzuola, Il Comitato I nostri crinali di Castel del Rio Monte Terenzio hanno illustrato i progetti di impianti industriali sull’Appennino e lo stato dei lavori progetto eolico Monte Giogo di Villore attraverso l’esposizione di una Mostra fotografica.

Durante l’Assemblea sono state illustrate soluzioni concrete alternative per la produzione di energie rinnovabili  e sono state raccolte firme di adesione alla Lettera aperta alla Regione Toscana della Coalizione TESS, Transizione Energetica Senza Speculazione, per la sospensione dei lavori industriali sul Monte Giogo di Villore Corella, sui confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, aree che devono essere per la Strategia nazionale sulla biodiversità, necessariamente tutelate e protette, in quanto costituiscono la zona buffer del Parco stesso e sono contigue a importanti e famose Zone a Speciale Conservazione come la ZSC Muraglione Cascata dell’Acquacheta.

I lavori interessano per chilometri la Sentieristica Nazionale ed Europea del CAI, deforestandola, sbancandola, rendendola impraticabile, per farne infrastruttura dell’impianto industriale eolico, con grave danno irreversibile per il turismo escursionistico, lento e naturalistico, che tanto benessere e ricchezza porta all’economia locale.  Un’economia che vive soprattutto della bellezza e dei paesaggi del Mugello, conosciuti in tutto il mondo.

Anche domenica scorsa i produttori locali, come per l’ultima recente Assemblea pubblica a Dicomano, hanno sostenuto i Comitati con le loro produzioni nel contesto di territori soggetti ad esproprio, declassati a siti industriali, privati delle tutele ambientali e dei vincoli paesaggistici, svalutati in modo definitivo e condannati a divenire siti idonei, con procedure semplificate, al potenziamento e all’estensione dell’eolico.

Gli interventi dei Comitati uniti per i crinali liberi hanno illustrato vari e articolati motivi per cui l’Appennino deve essere considerato, dalla Regge Regionale Toscana di prossima approvazione, area inidonea ad impianti industriali, atta ad essere preservata in ordine alla sicurezza idrogeologica delle valli, la mitigazione climatica delle foreste, la qualità delle acque, la tutela della sentieristica nazionale ed europea, la bellezza dei paesaggi e il valore delle produzioni ed economie locali che sono il motivo del ripopolamento della montagna.

I Comitati uniti per i crinali liberi dell’Appennino danno appuntamento a tutti Sabato 25 gennaio, Sala Pio La Torre, Via Giotto 17 a Borgo San Lorenzo, FI, all’Assemblea pubblica della Coalizione Tess, Transizione Energetica senza Speculazione, sul tema dei criteri per la definizione delle aree idonee, oggetto della prossima Legge Regionale Toscana.

Vi aspettiamo numerosi all’insegna del motto della Scuola di Barbiana: I CARE.  Nel caso specifico I CARE i crinali dell’Appennino, i territori del Mugello e della Toscana!

Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali Liberi

Comitato No eolico industriale Firenzuola

Comitato I nostri crinali Castel del Rio Monte Terenzio

Coalizione TESS, Transizione Energetica Senza Speculazione.

Nella foto di copertina e in quella nel testo i lavori di sbancamento sul Crinale Mugellano per le infrastruttura del progettato impianto eolico industriale

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L’Italia dei sogni di Giorgia Meloni

L’Italia dei sogni di Giorgia Meloni.

La conferenza stampa della premier. Un milione di posti di lavoro creati, Musk difeso con le unghie e con i denti, avanti tutta su premierato e giustizia.


(9 gennaio 2025)

Obiettivo lavoro: un milione di posti

I dati sull’occupazione sono “molto incoraggianti anche per la qualità di questo lavoro che è prevalentemente stabile. Sono 280mila le nuove assunzioni in 2 anni ma, se considerassimo anche quelle a tempo determinato, arriviamo ad un milione. Penso che Silvio Berlusconi potrebbe essere fiero di noi. Arriveremo al milione di posti di lavoro”, ha dichiarato la presidente del Consiglio, ribadendo i progressi raggiunti dal governo sul fronte dell’occupazione. Tuttavia, ha aggiunto: “Non si fa mai abbastanza. Il tema del lavoro giovanile è sicuramente una priorità”.

Formazione e orientamento: chiave per il futuro dei giovani

Meloni ha sottolineato che la soluzione al problema del lavoro giovanile non risiede solo nei contratti, ma deve partire dalla formazione e dall’orientamento: “Abbiamo un paradosso: giovani che non trovano lavoro e settori produttivi che non trovano professionalità. Dobbiamo rimettere insieme le cose, con una formazione seria e un orientamento che indirizzi i giovani verso settori dove c’è richiesta di occupazione ben retribuita”.

Incentivi legati all’occupazione: la strategia del governo

Meloni ha poi spiegato l’approccio adottato dal governo per affrontare le crisi industriali e aziendali: “Nella legge di bilancio abbiamo introdotto un sistema di incentivi premiali, condizionati al mantenimento dei livelli occupazionali e al non ricorso alla cassa integrazione. Questo per difendere i lavoratori e garantire la sostenibilità del sistema occupazionale”.

Cover: Conferenza-stampa-della-presidente-del-consiglio-giorgia-meloni (Foto: Sara Minelli ©Imagoeconomica)

 

Patrioti della Costituzione

Patrioti della Costituzione

Il 2025 è iniziato con un compleanno importante, i 228 anni della bandiera italiana, e in primavera vedrà celebrare l’80′ anniversario della Liberazione. Sono due momenti altamente simbolici della storia nazionale che trovano un comun denominatore nella nostra Costituzione.
Al tricolore, simbolo delle lotte per l’unità e l’indipendenza del Risorgimento, è dedicato l’art. 12 della Carta. Il 25 aprile 1945, invece, è stato il “fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione” come ha ricordato il presidente Mattarella, nel tradizionale discorso di fine anno.

La bandiera tricolore fu dichiarata “vessillo di Stato” dall’assemblea della Repubblica Cispadana nel 1797, su iniziativa del deputato ferrarese Giuseppe Compagnoni. Una copia di quella storica bandiera è conservata nell’aula del Consiglio Comunale di Ferrara: ricorda a tutti che l’idea nazionale italiana è indissolubilmente legata ai valori di libertà, uguaglianza e fraternità che hanno inaugurato l’età moderna della democrazia in Occidente.
Un legame rinnovato, tra il 1943 e il 1945, dagli uomini e dalle donne che scelsero di battersi contro l’occupazione nazista e gli epigoni della feroce dittatura fascista: siamo abituati a chiamarli partigiani ma loro si definivano “patrioti”.  Il vero “patriottismo della Costituzione” nasce dalla loro lotta e sacrificio: è bene non dimenticarlo dato che negli ultimi decenni, in Italia, si è cercato spesso di annacquare la carica ideale della Resistenza per inseguire la chimera di una memoria storica condivisa su quegli eventi. Non credo sia possibile e nemmeno auspicabile: solo la ricerca storica, fondata sull’analisi seria delle fonti e libera da pregiudizi ideologici, può aiutarci a comprendere gli aspetti più controversi del passato ed evitarne l’uso politico distorto a seconda delle convenienze o memorie di parte.

Recentemente il sen. Alberto Balboni, autorevole esponente della destra ferrarese, ha lanciato la proposta di “rinunciare alle dicotomie inutili e superate del passato in favore di un rinnovato patriottismo costituzionale”, suscitando un vivace dibattito sulla stampa locale.
Per andare in quella direzione, tuttavia, servono gesti concreti e dal valore inequivocabile: il partito di Giorgia Meloni rimuova la fiamma tricolore dal simbolo e chiuda definitivamente le porte ai nostalgici di un passato fallimentare per l’Italia.

Tutte le forze politiche, invece, dovrebbero far propria la vera lezione di “patriottismo costituzionale” impartita a fine anno dal Presidente della Repubblica: oggi la nostra Patria appartiene anche a chi, avendo “origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”.

Questa idea includente di “Patria”, aperta alla collaborazione con altri popoli e al rispetto della dignità umana, ha animato tanto il Risorgimento quanto la Resistenza, in antitesi a una idea esclusiva e distruttiva di primato nazionale. I partiti che oggi dichiarano di riconoscersi pienamente nei valori democratici e antifascisti della Costituzione partano da questa rinnovata consapevolezza per celebrare in modo unitario l’80′ anniversario della Liberazione, senza ipocrisie e polemiche di parte.
Potrebbe essere un primo, fondamentale, passo per riavvicinare tanti giovani all’impegno politico.

Davide Nanni
Consigliere Comunale PD Ferrara

RAFAH: la no man’s land del fronte sud

RAFAH: la no man’s land del fronte sud

Al di qua e al di là del Fronte Sud, come viene chiamato a Tel Aviv, o del Confine con l’Egitto , come viene chiamata a Gaza, la spirale di morte e distruzione che si sprigiona dal microcosmo di Rafah è da ultimo girone dell’inferno.

Il muro di Berlino consisteva in una frontiera tra due stati che divideva in due parti la città.

E’ stato costruito a partire dal 1961 come risultato della Seconda Guerra Mondiale, prima come barriera di filo spinato che si ergeva tra strade e palazzi, poi come doppio muro di cemento che ha interrotto strade e diviso palazzi.

Il muro di Rafah consiste in una doppia frontiera tra tre stati che divide in tre parti la città.

E’ il muro di Berlino al quadrato.

E’ stato costruito a partire dal 1982, come risultato della vittoria israeliana della Guerra dei Sei Giorni e divide i Territori dell’Autonomia Nazionale Palestinese della Striscia di Gaza dall’Egitto con un corridoio appartenente a Israele.

Le foto storiche più significative del muro di Berlino impresse nella memoria collettiva sono quelle che raffigurano l’inizio, cioè la costruzione, le fughe di soldati disertori, le famiglie divise, le attività di sorveglianza  armata  dei vopos, corpi speciali di guardie di frontiera, le vittime dei tentativi di fuga e sono quelle che raffigurano la fine, cioè la sua distruzione avvenuta nel 1989.

Le foto storiche più significative del doppio muro di Rafah sono quelle scattate di nascosto dalle pattuglie e lontano dalle torrette blindate, tra gli spiragli e nei punti più elevati e ritraggono i componenti di famiglie smembrate che tentano di comunicare ad alta voce tra le tre parti della loro stessa città, sotto il tiro di vopos pronti a sparare senza scrupoli, senza preavviso e senza doverne motivarne la necessità a nessuno.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 photo Franco Ferioli

Ancor più significative sono divenute le immagini attuali, che presentano l’unica apertura nel doppio muro di Rafah – chiamato Valico o Frontiera o Check Point Rafah – come via di uscita dall’ultimo girone dell’inferno della Striscia di Gaza per 1,5 milioni di civili in fuga dalla morte e dalla distruzione delle proprie abitazioni, costretti ad ammassarsi nelle aree antistanti. Se e quando avverrà, l’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza da parte dell’I.D.F. Esercito di Difesa Israeliano, non potrà che avvenire attraverso questo imbuto della morte presentandolo come un corridoio umanitario.

Se Gaza può ragionevolmente essere considerata la città “madre di tutte le ingiustizie” patite dai profughi di guerra palestinesi, Rafah, Piccola Berlino del Mondo Arabo, tagliata in tre da un muro dietro il quale sventolano prima le bandiere israeliane poi, dopo poche decine di metri, quelle egiziane, ne è figlia legittima e primogenita.

Prima che ogni sua infrastruttura civile venisse completamente rasa al suolo, in ordine di apparizione a Rafah si incontrava prima un muro di cemento, cancelli e reticolati percorsi da scariche elettriche, poi uno slargo asfaltato sorvegliato a vista da soldati israeliani in assetto di guerra, poi un altro insieme di barriere insuperabili… e ancora Rafah, dall’altra parte, quella egiziana.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 Al Qarya as Suwaydiya photo Franco Ferioli

Rafah era un’unica città, il muro l’ha divisa in tre, i militari israeliani hanno prima segnato il confine con filo spinato, poi hanno aggiunto blocchi di cemento fino creare un vero e proprio corridoio tenuto costantemente sotto sorveglianza e sotto tiro d’arma da fuoco, la Philadelphi Route, o Corridoio Philadelphia, che inizia a ovest nella zona di el-Barahma e termina dentro alle acque del Mare Mediterraneo.

Israele è un Paese in guerra fin dalla sua nascita ed è interamente recintato: in meno di vent’anni ha investito a questo scopo circa 6 miliardi di shekel, un miliardo e mezzo di euro.  Il confine settentrionale, quello della Linea Blu, chiuso e controllato dal contingente militare internazionale UNIFIL di stanza in Libano, ha 80 chilometri di barriere; altri 97 si trovano nelle Alture del Golan lungo il confine con la Siria; 34 sono nel Negev per chiudere parte dei 300 km di confine con la Giordania.
La separazione fisica più conosciuta è in Cisgiordania ed è ciclopica: oltre 700 chilometri di muri che separano in due parti anche Gerusalemme Est da Gerusalemme Ovest.

Da nord a sud l’intera Striscia di Gaza è chiusa da un muro militare di 60 km e qui, sulla linea di confine meridionale, in questi quattordici chilometri di confine egiziano, quando si riesce ad isolare un singolo aspetto del muro, ci si accorge che è in relazione con un altro ancor più letale per chiunque tenti di addentrarsi in una distesa di macerie o osi attraversare una spaventosa no man’s land.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001Tel as Sultan photo Franco Ferioli

Per tragica ironia della sorte il nome Rafah, può significare ‘luogo piacevole’.

Secoli or sono lo era davvero: la Rph degli antichi egizi, “Rafihu” degli Assiri, “Ῥαφία, Rhaphia” dei Greci, “Raphia” dei Romani, רפיח “Rafiaḥ” degli ebrei, “Rafh” del califfato arabo, era il passaggio obbligato di carovane che hanno mantenuto millenari traffici commerciali tra Asia e Africa attraverso comode piste sabbiose che da Gaza si snodavano lungo la fascia costiera e attraversavano piccole oasi lussureggianti, ricche di sorgenti di acqua dolce zampillanti a ridosso del mare.

La Bibbia narra che Maria, Giuseppe e Gesù bambino, primi profughi della cristianità, riuscirono a fuggire dalla strage degli innocenti ordinata da re Erode il Grande percorrendo questa Via Maris e raggiungendo Rafah.

La fuga in Egitto, uno dei temi biblici del Nuovo Testamento più ricorrenti nelle opere pittoriche della storia dell’arte religiosa come salvifico episodio della natività, sta attualmente assurgendo ad emblema della mortalità inflitta contro nuovi innocenti da parte di nuovi tiranni.

Il Vangelo secondo Matteo, i testi apocrifi del Nuovo Testamento e la tradizione della Chiesa Copta riportano storie miracolose avvenute a Rafah: sogni premonitori, alberi che si inchinano, fiere del deserto che si ammansiscono, idoli che crollano. Per centinaia di migliaia di profughi palestinesi nessuna speranza di miracoli, nessuna via di scampo, nessun imbocco verso l’uscita di sicurezza, nessun gradino per le scale di emergenza. Di fronte ai loro occhi e al loro destino si presenta solo una discesa a precipizio nel baratro di un inferno in terra, sbarrato da una porta chiusa in un triplo muro davanti ai resti di una città cancellata dalla faccia della terra.

Quando vi giunse nel 1863, l’esploratore francese Victor Guérin notò la presenza dei resti di un antico un monumento composto da due grandi colonne di granito che veniva chiamata Bab el Medinet,La Porta della Città”.

Litografia di Ernst von Hesse-Warteg 1881

La leggenda narra che anche sulle sponde dello Stretto di Gibilterra vennero erette due colonne, sormontate da una statua rivolta a est che recava nella mano destra una chiave, mentre nella sinistra teneva una tavoletta che recava l’iscrizione non plus ultra, “non più oltre”. Se con questa frase Ercole intendeva definire il limite del mondo civilizzato, sottolineando il pericolo per i mortali di spingersi oltre, nella Rafah di oggi le sue due colonne sono scomparse: ad apparire è il limite estremo raggiunto dalle atrocità di un genocidio.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 photo Franco Ferioli

La sua storia moderna è un’escalation di criminalità iniziata immediatamente dopo la guerra del 1948 quando vennero istituiti i primi campi profughi per i rifugiati di guerra della Nakba: le tendopoli, come Brasil Camp o Canada Camp appena oltre il confine nel Sinai, così chiamate dai nomi degli stati di provenienza delle forze internazionali dei caschi blu dell’ONU, o come Hamas Camp, vennero immediatamente chiuse e circondate da muri.

Rafah Hamas Refugees Camp 1996 photo Franco Ferioli

Nella crisi di Suez del 1956 che coinvolse Israele, Gran Bretagna, Francia ed Egitto, 111 persone, tra cui 103 rifugiati, nel campo profughi di Rafah furono uccise dall’esercito israeliano durante un massacro di cui le Nazioni Unite non sono mai state in grado di chiarirne le circostanze.

Nel settembre 1996, durante i cosiddetti ‘incidenti del tunnel’, le mitragliatrici degli elicotteri d’attacco AH-64 Apaches dell’aviazione israeliana hanno aperto il fuoco sulla popolazione civile che protestava scagliando pietre. Ogni proiettile era lungo nove centimetri. Il più vecchio dei ventisei ragazzi uccisi aveva ventidue anni.

Nel marzo 2003, durante i terribili mesi della seconda Intifada palestinese, con l’esercito israeliano impegnato nella demolizione di centinaia di abitazioni e lo sfollamento di migliaia di persone iniziate nel 1971 sotto il comando del generale Ariel Sharon per imporre il controllo sulla “zona cuscinetto” lungo il confine a ridosso del muro, la ventitreenne cittadina statunitense Rachel Corrie, osservatrice e attivista dell’organizzazione non violenta International Solidarity Movement, è morta schiacciata da un bulldozer militare nel corso un’azione di opposizione pacifica alla demolizione dell’abitazione in cui risiedeva la famiglia del medico Samir Masri.

Poche settimane dopo, l’11 aprile 2003, durante un attacco dell’esercito israeliano a Rafah, lo sparo un cecchino ha colpito alla testa Tom Hurndall, attivista britannico dell’I.S.M. mentre stava cercando di mettere in salvo un bambino in fuga tra i proiettili. Dopo nove mesi di coma, morirà all’età di 21 anni. Sempre a Rafah, il 2 maggio del 2003, James Miller, un cameraman e documentarista inglese, viene colpito a morte da un proiettile.

Quando nel settembre 2005, Israele ritirò le colonie dalla Striscia di Gaza, Rafah rimase divisa in tre parti e nel 2009 iniziarono i lavori per costruire una nuova barriera sotterranea alla profondità di 25 – 30 metri, con un muro d’acciaio a prova di bomba, per impedire lo scavo e i traffici dei tunnel.

Dopo che la notizia dell’approvazione del progetto venne pubblicata dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, si venne a conoscenza che il progetto sarebbe costato circa 2,2 miliardi di shekel circa 500 milioni di euro- e che per scavarlo lungo i 14 km di frontiera tra l’Egitto e la Striscia di Gaza da Tel al Sultan a Sarsuriya. sarebbe stata adottata una tecnica innovativa con una ragnatela di condutture che dal Mare Mediterraneo avrebbe portato l’acqua necessaria per allagare la fascia di territorio prima di procedere agli scavi.

La Rafah palestinese giace su una superficie di 64 km quadrati dove prima del 7 ottobre 2024 vivevano circa 300mila persone. Con l’esplosione del conflitto tra Israele e Hamas e la fuga dei civili dal nord di Gaza, ha visto la propria popolazione crescere fino a 1,5 milioni.

Prima del 7 ottobre chi provava a transitare attraverso questa frontiera, se era palestinese, doveva richiedere un visto speciale e attendere mesi per conoscere la risposta delle autorità militari israeliane; nei rarissimi giorni di apertura e negli ancor più rari casi di risultati positivi, ogni controllo doganale individuale durava dalle otto alle dieci ore.

Oggi per riuscire ad uscire vivi da Gaza attraverso il muro di Rafah l’unica via da percorrere è tentare di aggirare il tunnel delle speculazioni gestite dalle autorità militari israeliane e dalle organizzazioni mafiose egiziane che stanno lucrando nel mercato nero del rilascio dei visti, dei permessi di espatrio e delle procedure di riconoscimento delle identità dei fuggitivi, dei richiedenti asilo, degli ammalati e degli aventi diritto al ricongiungimento famigliare all’estero.

I fotogrammi che correlano l’articolo sono originali, tratti da “OUT of RAFAH” , reportage a supporto della campagna internazionale di raccolta fondi “Help Ikhlas’ Family Survive in Gaza” https://gofund.me/67036c48

Cover: Gaza Strip Rafah Wall 2001 photo: Franco Ferioli

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Parole a capo
Gianna Andrian: “Felicità” e altre poesie.

La felicità è una ricompensa che giunge a chi non l’ha cercata
(Alain)

 

Magica notte di maggio

Cammino in un cielo notturno
capovolto
con polvere di stelle
sparsa
tra l’erba alta delle rive dei fossi.
Galleggiano,
si accendono, si spengono…
ora si riaccendono.
Sono le lucciole
di una magica notte di maggio

(Nei pressi di San Bartolo – Maggio 1998)

 

Novembre

Affettate
dalla nebbia
che a strati
sale
sono le case
d’intorno
Senza gravità
sospesi
sono gli alti
pioppi cipressini
ormai
indifesi
Ma
graffiata
dai rami spogli
ora
la nebbia
lacrima
E gocciolano
gli alberi
intrisi
come melanconici
visi.
Ed è magia
ed è silenzio
ed è, della Natura,
sinfonia
voce
fioca
flebile
del vento.

 

Gioco antico

Piatto è il sasso:
lanciato
sulla superficie dell’acqua
rimbalza, si alza
saetta e scivola
ricade.
Netto è il tonfo:
il sasso è ingoiato dalla corrente.

Antico gioco
che sa di niente,
ma non per me
non per la mia mente
che ritorna fanciulla.
Malinconia e tristezza
in breve il gioco
annulla.
Disteso ora è il volto …
e rido
finalmente.

Ride la mia bocca
ridono gli occhi
ride la mano
che
pronta
afferra un altro sasso
e attende
ancora una volta
quel piccolo miracolo.

La scaglia marmorea
solleva gocciole d’argento fuso
s’invola
e bacia appena
la liquidità che tocca
e poi scappa…

Guizza saltellando
due o tre volte
prima che l’abbraccio
concentrico e mortale
metta fine ad un sogno,
al breve viaggio
con un dondolìo lieve
sul canale.

 

I narcisi

Un ricordo
trasfigurato dal tempo
mi rimane.
Sembra ieri
quando le tue mani
risalivano il mio corpo;
sostavano sulle lievi rotondità del seno;
un dito ne sfiorava il profilo
disegnandolo nell’aria;
un ventaglio, le tue dita,
si apriva tra la mia chioma.
Ora non più:
la terra ti ha voluto.
L’avrà saziata il tuo corpo?
Si sarà impregnata dei tuoi umori?
Ho piantato bulbi
su quella terra
e, al limitare dell’inverno,
fioriscono narcisi.
Da troppi inverni, oramai,
recido i gialli fiori
che sprigionano il tuo profumo
catturato dalla terra
e rimandano la luce
che emana la tua anima.

 

Felicità

Ti ho rincorsa per tutta la vita;
poi,
d’improvviso,
mi sono fermata.
Voltandomi ti ho vista:
eri dietro di me.

 

(Un grazie all’autrice per avere autorizzato la pubblicazione di questi suoi versi).

Gianna Andrian, da anni si occupa di associazionismo e volontariato nel settore culturale. Ha fondato il Gruppo Caschi Blu della Cultura di Ferrara che dal 2015 organizza conferenze aperte al pubblico che trattano di arte, storia, territorio, ambiente, archeologia, turismo, letteratura e poesia.  Organizza eventi culturali come mostre fotografiche e artistiche collaborando con diversi artisti locali. Si diletta a scrivere, soprattutto racconti e poesie, a volte anche in vernacolo (dialetto veneto) partecipando a concorsi letterari e a Reading poetici.

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 266° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Stop invio nuove armi italiane in Ucraina.
Firma la petizione in nome della Costituzione

Stop invio nuove armi italiane in Ucraina

Redazione di PeaceLink

L’ 8 gennaio 2025,  34 esponenti della cultura, società civile e movimento pacifista hanno presentato una petizione al Parlamento contro conversione nuovo decreto per invio di armi italiane in Ucraina

La Costituzione italiana sancisce chiaramente che:
“Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità” (Art. 50).
Questa iniziativa si colloca quindi pienamente nei diritti democratici dei cittadini, evidenziando un’urgente necessità di riflessione sulle scelte di politica estera e militare del nostro Paese.

Questa iniziativa ha come primi firmatari l’arcivescovo Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi, e Alex Zanotelli, missionario comboniano e direttore della rivista Mosaico di Pace, di Pax Christi. La petizione sottolinea come un ulteriore invio di armi contribuirebbe all’escalation bellica in Ucraina, alimentando un conflitto senza prospettive di soluzione negoziale e avvicinando l’Italia a un coinvolgimento diretto nel conflitto. Inoltre, il documento denuncia le gravi conseguenze economiche e sociali di una crescente militarizzazione delle economie europee, con drastici tagli al welfare per finanziare spese di guerra.

I firmatari invocano il pieno rispetto della Costituzione, che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
La petizione andrà ora al vaglio del Parlamento, che sarà chiamato a decidere se convertire in legge il decreto.

Sotto puoi leggere il testo completo della petizione e aderire: come singolo o come associazione:

Invitiamo tutti a firmare la petizione e a diffonderla
La petizione è stata redatta ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione

I promotori  e primi firmatari della petizione al Parlamento Italiano sono: 

  1. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo e presidente Pax Christi (primo firmatario della petizione insieme ad Alex Zanotelli)
  2. Alex Zanotelli, missionario comboniano e direttore del mensile di Pax Christi Mosaico di Pace
  3. Elena Basile, già Ambasciatrice in Svezia e Belgio, attualmente a riposo
  4. Piero Bevilacqua, già ordinario storia contemporanea Università di Roma La Sapienza
  5. Ginevra Bompiani, scrittrice
  6. Marina Boscaino, portavoce comitati contro ogni autonomia differenziata
  7. Maurizio Brotini, sindacalista Cgil
  8. Luciano Canfora, professore emerito dell’Università di Bari, filologo classico, storico e saggista
  9. Don Angelo Cassano, presidente di Libera (Puglia), sacerdote
  10. Andrea Catone, storico e saggista, direttore della rivista “MarxVentuno”
  11. Angelo D’Orsi, già professore di storia delle dottrine politiche dell’Università di Torino
  12. Roberta De Monticelli già Professore Ordinario di Filosofia moderna e contemporanea all’Università di Ginevra già Professore Ordinario di Filosofia della persona all’Università San Raffaele di Milano. Attualmente Senior Collaborator dell’Università San Raffaele, in quanto Direttrice del Centro di Ricerca PERSONA e della rivista ”Phenomenology and Mind”
  13. Alessandro Di Battista, giornalista, scrittore, già parlamentare
  14. Monica Di Sisto, giornalista di Askanews, esperta in commercio internazionale e economia solidale
  15. Andrea Fumagalli, docente di Economia Politica all’università di Pavia, membro del blog Effimera.org e del Bin-Italia (Basic income network).
  16. Domenico Gallo, Presidente di Sezione onorario Corte di Cassazione
  17. Alfonso Gianni già parlamentare e membro del governo Prodi secondo, attualmente direttore della rivista trimestrale Alternative per il Socialismo
  18. Claudio Grassi, già senatore della Repubblica, portavoce di “Il coraggio della pace: disarma”
  19. Raniero La Valle, giornalista e saggista, già direttore del quotidiano cattolico l’Avvenire d’Italia, già parlamentare
  20. Michele Lucivero, Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’Università, docente di Storia e Filosofia
  21. Fabio Marcelli, copresidente del CRED (Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia)
  22. Laura Marchetti, docente di Antropologia e Pedagogia Interculturale all’Università di Reggio Calabria, già Sottosegretario di Stato
  23. Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, mediattivista, già docente di Lettere
  24. Lea Melandri, scrittrice, saggista, giornalista, Presidente della Libera Università delle Donne di Milano.
  25. Vito Micunco, referente Comitato per la pace Bari
  26. Luisa Morgantini, sindacalista e attivista per la pace, già vice Presidente Parlamento Europeo, presidente AssoPacepalestina
  27. Moni Ovadia, uomo di teatro
  28. Sabrina Pignedoli, giornalista, saggista, ex europarlamentare
  29. Carlo Rovelli, scienziato, fisico, saggista e divulgatore scientifico italiano, specializzato in fisica teorica, attualmente docente in Francia all’Università di Aix-Marseille
  30. Linda Santilli, attivista politica femminista, insegnante
  31. Enzo Scandurra, già ordinario di Urbanistica nell’università Sapienza di Roma
  32. Vauro Senesi detto Vauro, disegnatore
  33. Francesco Sylos Labini, saggista, dirigente di ricerca del Centro Ricerche Enrico Fermi
  34. Massimo Wertmuller, attore

PETIZIONE AI PARLAMENTARI, EX ART. 50 COSTITUZIONE,
PERCHÉ NON CONVERTANO IN LEGGE IL DECRETO CHE AUTORIZZA L’INVIO DI ARMI ALL’UCRAINA

Chiediamo ai parlamentari italiani – ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione Italiana – di formulare un atto di indirizzo contrario ad alimentare la guerra in Ucraina mediante la ulteriore fornitura di armi e di rifiutare la conversione in legge del decreto legge 200/2024. Riteniamo che questo nuovo invio vada contro gli interessi stessi della popolazione ucraina, che in sempre maggior numero rifiuta di andare a combattere (800.000 renitenti alla leva, secondo la stima del presidente della commissione Affari economici del Parlamento ucraino, Dmytro Natalukha, riferito al quotidiano “Financial Time”).

Data di inizio: 1 gennaio 2025

Il 27 dicembre è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 200 relativo a disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, fino al 31 dicembre 2025, previo atto di indirizzo delle Camere.

Le radici profonde di questa, guerra vanno ricercate nella crescente avanzata della NATO e delle sue basi militari verso i confini della Russia (l'”abbaiare della NATO alla porta della Russia”, come ha detto papa Francesco, “Corriere della Sera”, 3 maggio 2022) e nell’oppressione e discriminazione dei russi di Ucraina praticate dal governo ipernazionalista instauratosi dal 22 febbraio 2014 a Kiev, dopo l’estromissione violenta del presidente regolarmente eletto Janukovic. A seguito della svolta antirussa del nuovo governo di Kiev, il popolo della Crimea il 16 maggio del 2014 con un referendum votò per l’annessione alla Russia. Dal 2014 al 2022 si è svolta in Ucraina una guerra tra il governo di Kiev e le autoproclamate repubbliche popolari russofone di Lugansk e Doneck, che ha provocato oltre 14.000 morti e decine di migliaia di feriti. Gli “Accordi di Minsk” (2014-2015) che prevedevano un’ampia autonomia per le regioni russofone del Donbass e avrebbero potuto fermare la guerra, non furono mai implementati dal governo di Kiev con una necessaria riforma costituzionale; uno dei più rilevanti protagonisti della politica europea, la ex cancelliera tedesca Angela Merkel, ha dichiarato che essi servivano solo a prendere tempo perché Kiev potesse adeguatamente armarsi per la guerra (intervista a “Die Zeit”, 15 dicembre 2022). Nel 2019 è stata inserita nella Costituzione ucraina la volontà di adesione alla NATO. 

L’avanzata della NATO ad Est, percepita dalla Russia come minaccia alla propria sicurezza, e la negazione dei diritti della popolazione russa in Ucraina hanno sempre più esacerbato i rapporti tra Russia e Occidente. Piuttosto che il dialogo, la mediazione, l’accordo, è stata privilegiata la strada della contrapposizione frontale (anche a livello culturale, con campagne russofobiche e la messa al bando dell’arte e della letteratura russe, che sono parte costitutiva e fondante del patrimonio culturale europeo). La proposta di una trattativa globale sulla sicurezza, presentata da Mosca a USA e NATO nel dicembre 2021, fu lasciata cadere nel vuoto, dando alla dirigenza russa l’ulteriore segnale che non vi fossero spazi di mediazione e soluzione pacifica. Questa situazione ha spinto Putin a ricorrere alla guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, proprio ciò che la Costituzione italiana ripudia espressamente, in coerenza con la Carta dell’ONU.

Anche dopo l’inizio della guerra ad alta intensità il 24 febbraio 2022, i tentativi di trattativa e mediazione tra le delegazioni di Ucraina e Russia – in Bielorussia prima, in Turchia dopo – sono falliti per la pesante ingerenza di un forte “partito della guerra” che si proponeva la vittoria completa e definitiva sulla Russia, di cui si preconizzava un rapido cedimento, se non un’implosione. USA, NATO, UE hanno sempre più armato Kiev, a cui sono andati, dalla sola UE, 130 miliardi di euro (Von der Leyen, 19 dicembre 2024). Il Parlamento europeo, in coerenza con i vertici UE e NATO ha istigato l’Ucraina a combattere fino alla “vittoria”, escludendo ogni ipotesi di negoziato. Ciò ha determinato una continua escalation bellica, con l’invio di armi sempre più letali in grado di colpire in profondità il territorio della Russia, in una sempre più pericolosa spirale di azioni e reazioni e un coinvolgimento sempre più ampio della UE e della NATO, col rischio concreto per i Paesi europei di scivolare da uno stato di cobelligeranza indiretta ad una belligeranza diretta (già anticipata con la folta presenza in Ucraina di istruttori, addestratori militari, ufficiali di collegamento di paesi europei).

Il sempre più massiccio invio di armi al governo di Kiev, comportando l’intensificazione e il prolungamento della guerra, ha provocato distruzioni incommensurabili e la morte di centinaia di migliaia di giovani ucraini sacrificati sull’altare di ragioni geopolitiche che nulla hanno a che vedere con la libertà ed il benessere del popolo ucraino e dei popoli europei. Dopo quasi tre anni di inutili massacri lo stesso presidente ucraino Zelensky (intervista a “Le Parisien”, 18 dicembre 2024), ha dovuto riconoscere che l’Ucraina non ha le forze per rovesciare le sorti del conflitto. Ciononostante le èlite europee continuano ad alimentare a dismisura la spirale della contrapposizione generale di lunga durata contro la Russia, e la militarizzazione – già annunciata e in parte avviata – delle società ed economie europee e il loro passaggio dal welfare al warfare, con tagli pesantissimi alle spese sociali per incrementare le spese di guerra.

Occorre uscire da questa logica perversa che sta mandando in rovina il nostro Paese (non si tratta solo delle enormi somme inviate a Kiev per la guerra, ma anche del forte aumento dei prezzi dovuto alla scelta del governo italiano di non acquistare più il gas russo a buon mercato, per rifornirsi da USA e altri Paesi a prezzi doppi o tripli) e ritornare alla Costituzione, che all’articolo 11 prescrive in modo netto, chiaro, inequivocabile, che L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il ripudio della guerra comporta per l’Italia l’obbligo di impegnarsi per fermare i conflitti, non di alimentarli con la fornitura di armi.

Sulla base di quanto su esposto

Noi cittadini della Repubblica italiana riteniamo che un ulteriore invio di armi a Kiev, come previsto dalla proroga del decreto:

– Alimenti un’escalation bellica che ha realisticamente come sola prospettiva un ulteriore coinvolgimento militare della UE e dell’Italia, fino a varcare la linea rossa di non ritorno di un coinvolgimento diretto del nostro Paese nella guerra contro la Russia, trasformando l’attuale cobelligeranza di fatto in guerra aperta, con conseguenze catastrofiche.

– Sia contro gli interessi della pace, alimentando la spirale di guerra e la prospettiva di un mondo di guerra, con aumento delle spese militari che sottraggono risorse a sanità scuola servizi sociali.

– Sia non solo contro i principi di pace e cooperazione internazionale che informano la nostra Costituzione, e violi la legge 185 del 1990, che vieta l’invio di armi a paesi belligeranti, ma vada anche contro gli interessi economici del nostro Paese, fortemente colpito dalle misure di embargo comminate dal 2014 contro la Russia e sempre più intensificate negli anni successivi. 

– Vada contro gli interessi stessi della popolazione ucraina, che in sempre maggior numero rifiuta di andare a combattere e di aprire nuovi cimiteri di guerra (800.000 renitenti alla leva, secondo la stima del presidente della commissione Affari economici del Parlamento ucraino, Dmytro Natalukha, riferito al quotidiano “Financial Time”). Un recente sondaggio dell’agenzia USA Gallup attesta che la maggioranza degli ucraini vuole negoziati e fine della guerra quanto prima possibile.

– Alimenti la contrapposizione contro la Federazione russa, un Paese che è geograficamente, storicamente, culturalmente, parte del continente europeo, un Paese rispetto al quale l’Italia non ha alcun contenzioso, nessuna controversia territoriale, né commerciale o economica, con cui, anche nel periodo della guerra fredda, seppe intessere proficui rapporti di cooperazione economica (basti ricordare qui la fabbrica di automobili di Togliattigrad, in cooperazione con la FIAT).

PER QUESTO 

CHIEDIAMO DI FORMULARE UN ATTO D’INDIRIZZO CONTRARIO AD ALIMENTARE IL CONFLITTO MEDIANTE LA ULTERIORE FORNITURA DI MATERIALI ED EQUIPAGGIAMENTI MILITARI AL GOVERNO UCRAINO E DI RIFIUTARE LA CONVERSIONE IN LEGGE DEL DECRETO LEGGE N. 200/2024

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La redazione di Periscopio aderisce a questa campagna.

Il mercato libero dell’energia lo paghiamo noi

Il mercato libero dell’energia lo paghiamo noi

Dal 1° gennaio 2025 l’Ucraina non ha rinnovato l’accordo quinquennale con la Russia per il transito di gas russo verso l’Europa. La Russia perde così l’ultimo miliardo di dollari all’anno da paesi europei (soprattutto da Ungheria, Slovacchia, Moldavia, Transnistria), che è pari a circa il 5% di tutto il gas consumato in Europa. La crisi del gas russo ha effetti non solo su quei paesi che ancora lo prendevano, ma sui mercati internazionali, in termini di aumento dei prezzi per tutti gli europei che lo importano. Il gas russo viene infatti sostituito da quello (spesso liquefatto) proveniente da altri paesi (Qatar, Stati Uniti, etc.) che costa molto di più. Oltre ai maggiori prezzi per tutti, alcuni paesi (Austria, Slovacchia, Ungheria, Moldavia) avranno anche problemi di reperimento (non l’Italia) e la Transnistria è già passata al carbone e ha chiuso scuole, ospedali e imprese. Sulla Federazione Russa l’effetto sarà minimo in quanto la Russia re-indirizza l’export verso Cina e Brics (che da gennaio ha 9 paesi in più) e accresce le sue capacità di costruire in proprio prodotti e servizi sfruttando le tecnologie e gli asset (come i treni Siemens) abbandonati da alcune multinazionali in Russia (ma non da tutte, come Unicredit).

Il prezzo del gas alla borsa Ttf di Amsterdam il 3 gennaio 2025 era 0,49 dollari al metro cubo (era meno della metà nei 10 anni del periodo pre-guerra, è arrivato a 3,3 nel picco massimo del 2022 ed era 0,28 a febbraio-marzo 2024). Se non ci sarà presto un accordo di pace in Ucraina, gli aumenti di prezzo si riverseranno sulle prossime bollette degli europei e degli italiani: “…circa 250-300 euro a famiglia –dice Davide Tabellini di Nomisma energiae circa 30mila a impresa. Il problema maggiore riguarda le imprese, in quanto cala la competitività di quelle italiane che lo pagano 5-6 volte in più di quelle americane ed è il più alto in Europa. In Italia non si è fatto niente per aumentare la produzione nazionale di gas e lo andiamo a prendere negli Usa a 13mila km. di distanza, fatto col fracking inquinante: un assurdo”.

Come ho scritto in altro intervento, in alcuni settori come la sanità il servizio pubblico si rivela più efficiente ed efficace del privato e costa meno. Così è anche nel settore dell’energia e del gas, dove l’Italia non ha una sua produzione e importa 2/3 dell’energia che consuma.

L’Italia ha il più grande giacimento geotermico al mondo e solo un intervento pubblico dello Stato, tramite anche una propria impresa (Enel, Eni), può godere delle risorse per investimenti di lungo periodo che possano generare grandi vantaggi per i cittadini italiani: come ha fatto la Norvegia coi suoi giacimenti di gas, che oggi fruttano al fondo sovrano dello Stato e ai suoi cittadini (che ne sono proprietari) circa 40mila euro per abitante solo nel 2024, facendo dei norvegesi i cittadini più “ricchi” al mondo.

Il prezzo della materia prima (se importata) è determinato soprattutto dal grande volume che uno Stato può acquistare e, poiché il valore aggiunto che aggiunge alla materia prima è modesto (trasporto, vendita, contatore,…), non conviene avere 700 aziende private in concorrenza tra loro (com’è in Italia) che devono vivere aggiungendo costi ulteriori ai clienti per remunerare i propri servizi di marketing e le minori economie di scala che hanno rispetto ad un unico grande operatore pubblico. Soprattutto se questo è controllato nei suoi prezzi da una Autorità indipendente pubblica (come è nel caso di Arera in Italia), che dà garanzie ai clienti che i prezzi siano equi. Clienti che non devono impazzire per confrontare decine di offerte in un settore complesso e soggetto a forti variabilità di prezzo. (Per informazione del lettore: il prezzo del gas incide anche sul costo dell’energia elettrica).

Bastava vedere l’andamento del prezzo del gas nel mercato libero e in quello tutelato negli ultimi 10 anni per capire che passare dal mercato tutelato a quello libero non portava vantaggi e tantomeno avrebbe permesso di spuntare sui mercati internazionali del gas prezzi più bassi. Un’analisi Arera dice che negli ultimi 10 anni il servizio a maggior tutela ha avuto prezzi medi più bassi del “libero mercato”. Perché infatti dovrebbe costare meno la materia prima se anzichè esserci un solo grande cliente (un’azienda pubblica dello Stato) ci sono centinaia di piccole imprese? Lo Stato, peraltro, gode anche di un potere politico che un’azienda privata non può avere. E, curiosamente, in questo caso la retorica mainstream contro l’inefficienza delle piccole imprese non viene dichiarata.

Oggi sappiamo anche che Arera ha multato varie imprese per aver imposto extra costi ai propri clienti. I rilevanti profitti fatti da quasi tutte le imprese private dopo gli aumenti del gas dovuti alla guerra in Ucraina erano basati sul fatto che il prezzo alla borsa Ttf di Amsterdam era aumentato, ma molti contratti con la Russia (e altri paesi) erano di durata annuale o biennale e quindi il prezzo della materia prima pagata in realtà era fisso. Le multe antitrust sono arrivate ma sono pari all’1% degli extra profitti fatti (che vanno in gran parte agli azionisti).

Non è stata quindi una buona idea accettare il diktat dell’Europa, che esigeva che in Italia passassimo dal gennaio 2024 al “libero mercato”, accordo fatto da Draghi nell’ambito delle cosiddette “riforme” del PNRR, che vogliono mercati “liberi” sempre meno regolati dai singoli Stati.

Per fortuna nel mercato tutelato per gas e luce sono ancora rimasti i più fragili (3,5 milioni di cittadini disabili, anziani, indigenti) che pagano meno. Ma non si vede perché non potremmo tutti stare in questo servizio pubblico senza impazzire, peraltro, a dover cercare di risparmiare perdendo un sacco di tempo per cercare servizi privati che alla fine costano sempre di più di quello garantito dal servizio pubblico. Un tema su cui occorre misurarsi per evitare che i cosiddetti movimenti populisti o sovranisti abbiano sempre più presa.

 

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

 

L’omino arriva sempre di giovedì

L’omino arriva sempre di giovedì

Giovedì è il giorno di chiusura del suo locale. Una bellissima casa fuori Bologna, lui abita sopra e il ristorante sta sotto, molto accogliente, minuscolo con grandi vetrate che guardano la campagna, camino gigante in sala, accanto ai pochi tavoli, dove l’omino prepara grigliate, polenta e abbrustolisce il pane, poche cose nel menù ma tutte di prima scelta, piatti bolognesi tipici, ottimi dolci che prepara lui insieme a salsine uniche, particolari servite in ciotoline di terracotta. Tovaglie candide, bicchieri raffinati, sedie di legno con la paglia. A inizio primavera, l’omino, raccoglie nei fossi e argini la buona cicoria qui chiamata cioccapiatti, lavata e preparata con cura poi condita con pancetta abbrustolita, olio e aceto accompagnata al pane caldo di camino ed è il piatto più richiesto.
L’omino perché è piccolo e tarchiato e arriva sempre in tenuta da lavoro, pantaloni e camicia bianchi e pure il grembiule, sempre bianco, un cravattino nero che gli dà un’aria vagamente da comico di avanspettacolo o Busteriana.
Sceglie sempre il tavolo vicino al banco, contro al muro, il giovedì lo lascio libero per lui, entra, sorriso in una faccia serena e appisolata, ciao ragazzi come và?
Ordina due focacce con pancetta e cipolla, una birra media “non ho fretta fate pure gli altri tavoli”, mangia lentamente, mi chiede di sedermi e chiacchierare un po’, “siediti fangeina (bambina), dai poco, poco.” Dice di sua moglie che entra ed esce da case di cura per depressione malinconica. L’ho vista qualche volta con lui, una signora che pare una vecchia Mary Poppins, cappellini, occhiali, gonne lunghe, scarpe anni ’30, sguardo fermo, parole ripetute e sorriso che non arriva agli occhi, l’omino mi dice che qualche volta ne ha paura, “la notte dormo poco la sorprendo a fissarmi seduta sul letto ed un peccato perché nella cucina del ristorante è lei che fa tutto, si occupa di ogni cosa io invece mi perdo, bado ai cani, alla legna, al giardino e faccio spesa, probabilmente senza di lei si chiude.”
Ordina il dolce, sempre una zuppa inglese, poi perso nei suoi pensieri si addormenta sul tavolo, a fine serata lo svegliamo gentilmente, vai tu Ste dai vuole sempre te a prendere l’ordine…” scusate ragazzi ma dormo così poco, adesso vado”, ma no signor Dante, non si preoccupi, faccia con calma, se vuole l’accompagno alla macchina, “no fangeina, sono in lambretta.”
Lambretta che sa di anni persi, lontani, quando magari lui caricava la fidanzata dietro e pensavano di aprire un bel ristorante insieme.
Si alza stiracchiandosi, non ha mai un cappotto, una sciarpa, paga ed esce nella notte, assonnato, chiuso dentro ai suoi problemi come in un vaso di vetro e mi pare un piccolo triste pupazzo bianco di neve.
Auguri signor Dante (l’omino)

Qui, dove continuiamo a incontrarci 

Qui, dove continuiamo a incontrarci

Lo sapevo che Ferrara sarebbe stata la cornice perfetta per un incontro. Lo è stata nell’ottobre del 2014 quando John fu ospite del Festival di Internazionale per parlare con Teju Cole e Maria Nadotti di “quel che abbiamo in comune”. Lo è oggi che lo vedo seduto al tavolino di un bar presso il listone, con il suo ombrello appoggiato alla sedia e la sua immancabile borsa a tracolla.

John Peter Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017)

Quel giorno, precisamente il quinto giorno dell’ottobre di 7 anni fa, chiesi a John Berger un autografo sul suo Capire una fotografia. Attesi l’uscita della maggior parte del pubblico che aveva assistito al dibattito nel Teatro battezzato “Abbado” proprio quell’anno. Impazientemente avanzai nella lunga fila e finalmente arrivato davanti a lui, mentre firmava la mia copia, ebbi solo il tempo di dirgli :«Quanto mi piacerebbe parlare di poesia con lei!». Mi sorrise e rispose: «Un giorno, chissà…».

Ed eccolo il giorno!

«Ricorda John» – una volta gli disse il fantasma della madre – «i morti non rimangono dove sono sepolti, tornano dove sono stati felici da vivi».

«Quindi il tempo non conta e il luogo sì?», domandò John.

«Non un luogo qualsiasi John, è il luogo dove ci si incontra»

Mi vennero alla mente queste parole nell’avvicinarmi al suo tavolino osservandolo nella sua immobilità quasi a voler richiamare l’attenzione. Senza dubbio voleva farsi notare. Voleva proprio farsi notare. Da me.

«È vero avrei dovuto dirti dove ci saremmo incontrati e non un giorno, chissà… » – e mi sorrise nell’ identico modo di quel giorno di ottobre.

La conversazione interrotta 7 anni prima riprese così, naturalmente, grazie al luogo dove eravamo e a dispetto dei tempi, delle età e soprattutto delle provenienze. Colse la mia sorpresa.

«Fin da giovane l’ho sempre vissuta così; ero sempre qualcuno che veniva da un’altra parte», mi disse. Anche oggi in effetti è così.

Quella frase comunque mi precipitò nel giusto mood bergeriano, quello nel quale sempre mi riducevano ( pre-ci-pi-ta-to ) le cose che avevo lette e ascoltate da lui.

D’altra parte è proprio grazie a lui che ho imparato questo: ognuno di noi non proviene da un posto ma da una lingua e dunque si appartiene alla parola più che ad un luogo.

«Allora, avevi detto che volevi parlare di poesia, ebbene? Ti renderai sicuramente conto che parlare di poesia è questione di…sguardi e non di parole».

Come avevo fatto a dimenticarlo! Avevo di fronte…l’uomo che aveva trascorso la sua vita a Guardare e che aveva spiegato a tutti come osservare un’opera d’arte e come da questa veniamo osservati.

Avevo di fronte uno che si era occupato, per tutta l’esistenza, dello sguardo, ricordandoci che «vedere è avere visto» perché la nostra vista (ma potremmo dire ogni nostro senso e dunque ogni pensiero) è allenato da percezioni che si sono man mano stratificate nella specie e nell’individuo e che dunque ci orientano.

Non potevo chiedergli… parole sulla poesia e allora mi rifugiai nelle poesie scritte da lui.

Chiesi al cameriere di portarmi un caffè e tirai fuori dal mio zainetto il libro con le sue poesie.

«Vedi John: hanno raccolto in questo libro, Il fuoco dello sguardo, le tue poesie disseminate nei saggi, nei romanzi, nei racconti e persino nei taccuini con i tuoi disegni che ci hai regalato negli anni trascorsi insieme. Cominciamo da qui? Cosa ne pensi?»

John sfogliò sorridendo le pagine di questo “suo” libro postumo che forse non aveva mai preso in considerazione durante la sua vita e lesse con voce bassa e piana una delle poesie

«In una sacca di terra

ho sepolto tutti gli accenti

della mia lingua madre

riposano lì

come aghi di pino

raccolti da formiche

un giorno il grido malfermo

di un altro vagabondo

potrebbe incendiarli

allora caldo e confortato

tutta la notte sentirà

la verità come una ninnananna

Che dici?» – continuò a voce più alta – «Non mi sembra così pessimistica come mi dissero gli agenti sovietici quando perquisirono i bagagli e sbirciarono nei taccuini durante il mio viaggio in Russia del 1983…».

«No, per niente!» – risposi – «Probabilmente loro si imbatterono in un’altra delle tue poesie e forse  proprio qui è il punto, se posso permettermi, della tua poesia…»

«Ma prego, prego dimmi pure. Ti ascolto» – continuò fissandomi.

«La tua poesia emerge. Appare. Sorge…Non ho altre parole per farmi capire. Essa emerge dal…racconto…dal campo di battaglia…dal bosco. Ecco proprio così: la tua poesia emerge come una… radura in un bosco».

Non fu la fronte a corrugarsi ma l’intero viso: le rughe grandi e profonde intorno alla bocca e quelle più piccole che si irraggiavano dai canti laterali degli occhi. Sorrideva con quella espressione di  quieta felicità di chi ha fatto un bel giro sulla moto e ha appena tolto il casco per accogliere il luogo che lo accoglieva.

Rassicurato dal suo viso e da un cielo di smalto esaltato dal contrasto con le sfumature pastello del duomo e del campanile, continuai:

«Radure, le tue poesie sono radure. Uno cammina nel bosco del tuo linguaggio e quando avverte quella sensazione spaziale di “smarrimento” o di “ritrovamento”, d’improvviso, la radura, la poesia, appare per restituirlo a un processo del quale smarrimento o ritrovamento sono solo accidenti».

«Bene. Abbiamo detto tutto quello che si poteva dire sulla poesia – disse alzandosi dalla sedia e sistemandosi la sua borsa a tracolla – Ora andiamo a Comacchio ad accogliere le anguille che arrivano dal golfo del Messico».

Probabilmente notò il mio imbarazzo e la mia goffaggine nell’alzarmi dalla sedia per seguirlo. Lo vidi fermarsi vicino un pino piantato in una piccola aiuola lì vicino e piegarsi per guardare qualcosa a terra.

In quel mentre il cameriere mi raggiunse e mi fermò in malo modo. Avevo dimenticato di pagare la consumazione.

«Scusami tanto davvero, mi sono distratto. Ecco ti pago i due caffè», dissi.

«Si vede che sei distratto» – mi rispose lui – «ne hai preso solo uno».

Guardai nella direzione di John e gridai in modo malfermo: «Aspettami John, arrivo». Poi mi rivolsi al cameriere e dissi: «Pagati un caffè sospeso. Ciao e scusami ancora».

Mi voltai per raggiungere John ma lui era scomparso. Guardai in ogni direzione: sul listone, verso via Mazzini, all’imbocco di via San Romano. Niente. John era andato via.

Mi avvicinai all’aiuola dove lo avevo visto l’ultima volta e lì, posati su una sacca di terra, degli aghi di pino richiamarono la mia attenzione. Senza dubbio volevano farsi notare. Volevano proprio farsi notare.

Da me.

Questo racconto è stato pubblicato su La macchina sognante il 31 dicembre 2021

Letture consigliate:
John Berger, Qui, dove ci incontriamo (Here is Where We Meet, 2005), traduzione di Maria Nadotti, Torino, Bollati Boringhieri, 2005
John Berger, La speranza, nel frattempo, con Arundhati Roy e Maria Nadotti, Bellinzona, Casagrande, 2010
John Berger, Capire una fotografia (Understanding a Photograph, 2013), a cura di Geoff Dyer, trad. Maria Nadotti, Roma, Contrasto, 2014
John Berger, Il fuoco dello sguardo. Collected Poems, a cura di Riccardo Duranti, Mompeo (RI), Coazinzola Press, 2015

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie  di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Italia: galleggiare in un mare d’ignoranza

Italia: galleggiare in un mare d’ignoranza
In margine al 58° Rapporto Censis 2024

Incuriosito dal clamore suscitato, subito sedato da giornali e televisioni, ho dato una letta al rapporto Censis 2024, giunto alla 58esima edizione, sulla situazione sociale del paese e ne sono rimasto stupefatto.

Rapporto CENSIS 2024 – Qui il testo completo

Molte cose le immaginavo, ma vedere le mie fantasie suffragate dai dati di un Istituto  come il Censis mi ha suscitato preoccupazione ed amarezza, uno scenario sociale ben peggiore di quello che pensavo. Come non venire sopraffatto da questi sentimenti negativi nell’apprendere che il “bel Paese” è popolato da ignoranti che neanche si rendono conto di vivere su un territorio pieno di meraviglie millenarie.
Provo a riassumere in alcuni dati cosa ho trovato leggendo quelle pagine.

Quasi uno studente su due delle superiori, il 43,5%, non raggiunge il traguardo di apprendimento in italiano, percentuale che sale a 47,5 se parliamo della matematica. Non va meglio alle medie dove la percentuale di studenti che non raggiungono il traguardo in italiano arriva quasi al 40% e con la matematica si sale al 44%. 

A chiedere agli italiani quasi uno su tre non conosce l’anno dell’Unità d’Italia e nemmeno di quando è entrata in vigore la Costituzione. Uno su cinque non sa dire chi era Giuseppe Mazzini e uno su due non sa quando è scoppiata la Rivoluzione francese.

Il 41,1% dice che Gabriele d’Annunzio ha scritto l’Infinito e per il 35,1% Eugenio Montale potrebbe essere stato un presidente del Consiglio degli anni Cinquanta. Eppure l’analfabetismo nel nostro Paese è stato praticamente debellato (sono rimaste solo 260 mila persone), mentre i laureati sono cresciuti dell’8,4%.

Il 18,4% non può escludere con certezza che Giovanni Pascoli sia l’autore de I Promessi Sposi e, infine, il 6,1% crede che il sommo poeta Dante Alighieri non sia l’autore delle cantiche della Divina Commedia.

Si riscontra poi l’incapacità di collocare correttamente sulla carta geografica le città straniere, se il 23,8% degli italiani non sa che Oslo è la capitale della Norvegia, ma anche le città italiane, se il 29,5% non sa che Potenza è il capoluogo della Basilicata. Le difficoltà di calcolo lasciano perplessi, se per il 12,9% degli italiani la moltiplicazione di 7 per 8 non fa necessariamente 56.

E l’ignoranza regna sovrana anche in merito ai meccanismi istituzionali, visto che più di un italiano su due, ossia il 53,4%, non attribuisce correttamente il potere esecutivo al Governo, bensì al Parlamento o alla magistratura.

La Marcia Mondiale per la Pace si conclude a San José di Costarica

La Marcia Mondiale per la Pace si conclude a San José di Costarica

La giornata è stata concepita come un percorso all’interno della città di San José con camminate, discorsi, inaugurazioni, laboratori, mostre, canti e balli, performances artistiche in un gioioso clima di festa, con molti bambini, scuole, famiglie, attivisti sociali, insegnanti, musicisti ad accompagnare i membri dell’équipe base della Marcia.

E’ stato possibile seguire in tutto il mondo questa cerimonia di chiusura grazie alla diretta streaming organizzata dal canale YouTube della UNED, l’Università del Costa Rica che ha aderito alla Marcia e l’ha accompagnata idealmente per tutto il percorso.

La Marcia Mondiale ha percorso anche questa volta tutti i continenti attraversando una settantina di paesi, nonostante le numerose difficoltà, ricordando le necessità urgenti della cessazione dei conflitti, del disarmo nucleare, della educazione alla nonviolenza, della non discriminazione, della cura del pianeta, della riforma dell’ONU.

Come ha ricordato nell’occasione Rafael de la Rubia nel suo discorso le attività della Marcia continueranno anche dopo questa data con un intenso piano di attività tra tutte le persone, associazioni e istituzioni che la Marcia ha unito e che sentono l’urgenza di mettere il tema della pace e della nonviolenza al centro delle attività umane.

Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFrancese

La foto in copertina e quelle che seguono sono di  Federica Fratini

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(da Pressenza del 05.01.25)

“Voci di dentro”, un canto di libertà dietro le sbarre

“Voci di dentro”, un canto di libertà dietro le sbarre

Per presentare diversi giornali dal carcere, vorrei partire da una rivista che si chiama “Voci di dentro”, da non confondersi con la nostra rubrica che si chiama invece “Le Voci da dentro”. Per farlo uso un articolo che è già stato pubblicato sul Dubbio del 24 febbraio scorso e che riprendo qui per gentile concessione dell’autore: il bravo giornalista Damiano Aliprandi. A questo link è possibile scaricare gratuitamente i vari numeri della rivista: https://vocididentro.it/la-rivista/File-pdf

(Mauro Presini)

Nel cuore dell’Abruzzo, da oltre un decennio, un’ombra di speranza si insinua tra le mura carcerarie, infrangendo il gelido silenzio che le avvolge.

È il riflesso della rivista Voci di dentro, un canto di libertà dietro le sbarre.

Nata dall’impeto coraggioso di Francesco Lo Piccolo, giornalista e presidente della Onlus Voci di dentro, questa pubblicazione si erge a baluardo della giustizia e dei diritti umani, offrendo una voce a coloro che il sistema penale ha ridotto a mera “cosa”, privandoli della loro umanità.

Con un’impressionante periodicità di dieci numeri all’anno, la rivista si propone di smascherare le ingiustizie e le violenze che permeano il tessuto carcerario e la società stessa.

La portata di questa iniziativa va oltre i confini del carcere.

La rivista raggiunge le aule scolastiche degli istituti penitenziari italiani, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e altre autorità competenti, diffondendo gratuitamente la sua testimonianza di speranza e cambiamento.

Finanziata in parte dalla Regione Abruzzo e sostenuta da contributi privati, Voci di dentro è diffusa anche online, permettendo a chiunque di accedere liberamente alle sue pagine cariche di emozioni e verità scomode.

Con il recente lancio del numero Regimi, la rivista affronta con fermezza il tema della repressione e della guerra, con l’intento di scuotere le coscienze.

In un periodo in cui la paura sembra aver annichilito la nostra capacità di indignarci, Voci di dentro ci ricorda il potere rivoluzionario delle parole e l’urgenza di dare voce al silenzio.

Con 80 pagine senza pubblicità, questo nuovo numero si apre con un’immagine carica di significato: ‘Atleti con la palla’, una foto del 1937 scattata a Wunsdorf, presso una struttura utilizzata dalla scuola della Wehrmacht.

Questa immagine, con il suo sottile richiamo al dispotismo che permea corpi e istituzioni, costituisce il preludio ad un’analisi profonda e coraggiosa dei regimi che dominano il nostro mondo.

“Regime” e “guerra” sono le parole chiave di questo numero, parole che sono state svuotate del loro significato originario, trasformate in concetti banali e accettati.

Ma Voci di dentro si rifiuta di piegarsi a questa banalizzazione, scegliendo di affrontare la loro vera essenza e le riflessioni che esse impongono.

Attraverso una serie di articoli e contributi, la rivista invita i suoi lettori a riconsiderare il valore e l’urgenza di questi concetti, a fronteggiare la paura che essi suscitano e ad abbracciare la necessità di costruire la pace in un mondo segnato dalla violenza e dalle disuguaglianze.

Il carcere diventa il palcoscenico su cui si consumano molte delle ingiustizie e delle violenze legate ai regimi di potere.

“Regime” diventa una parola che va al di là delle frontiere delle istituzioni politiche, per infiltrarsi nelle dinamiche quotidiane di controllo e oppressione che caratterizzano il sistema penitenziario.

La dignità diventa un bene prezioso, spesso calpestato e vilipeso da una “tirannia” che si cela dietro una facciata di legalità.

Ma Voci di dentro non si ferma qui.

Attraverso una miscela di reportage, analisi e testimonianze dirette, la rivista esplora le connessioni tra guerra e regime, svelando le complicità nascoste che mantengono in vita questo ciclo di violenza e oppressione.

In questa rivista, i giornalisti non sono i professionisti seduti dietro scrivanie come il sottoscritto, bensì sono i detenuti stessi e le persone che hanno conosciuto il peso dell’emarginazione e dell’ingiustizia.

È proprio il loro sapere, maturato attraverso esperienze di vita uniche e spesso dolorose, che diventa la linfa vitale di questa rivista.

Le loro storie, le loro testimonianze, i loro punti di vista, diventano la materia prima per una informazione più vicina alla realtà vissuta da chi è stato marchiato dalla marginalità.

Nel testo alcune cover della rivista Voci di dentro

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

AAA AMICIZIA VERA CERCASI – no perditempo!

AAA AMICIZIA VERA CERCASI – no perditempo!

Ma che belle quelle amicizie da film Disney, di quelle forti, di cui non dubiteresti mai, proprio perché sono “vere”, nel senso di costruite ad arte dagli sceneggiatori per creare una finta vera amicizia, magari tra due protagonisti che inizialmente si odiano ma che poi, dopo una serie di avvincenti peripezie sono disposti a rischiare la vita l’uno per l’altro, proprio per trasmettere un ideale, un’idea astratta di ciò che si dovrebbe ipoteticamente fare o non fare con le persone a cui si dice di volere bene quotidianamente, quasi come un’abitudine, un motto, un blando ritornello espropriato di ogni significato intimo e profondo, impoverito della sua sensibilità originaria, di cui sembra rimanere solo un’idea, un’etichetta, un appiglio alla convenzione degli esseri umani, che si dicono “ti voglio bene”, come “buon Natale”, ma poi chi si è visto si è visto, i fatti miei sono i miei, e dei tuoi, se ho tempo, spettegolo.

I regali sono una convenzione, le quattro chiacchiere al pub sono una convenzione, “ci sono nel momento del bisogno” è una favoletta che ci raccontiamo prima di andare a dormire, a meno che per “bisogno” non si intenda il “mio” e non il “tuo”. Le “amicizie” sembrano un’occasione di ostentazione, di finzione di ciò che non si è, un auto-elogio al sé che avremmo voluto essere e di cui non siamo nemmeno la metà di ciò che mostriamo agli altri, un modo per interpretare un ruolo, per evadere da noi stessi e non dover affrontare chi siamo davvero.

Il significato di amicizia sembra quindi essere stato interpretato al contrario dai più: l’amico dovrebbe essere quella persona speciale con cui ci si sente del tutto a proprio agio nell’essere davvero sé stessi, non l’opposto di ciò che si è, proprio perché si ha timore di manifestare i propri reali sentimenti, perché si teme di non essere considerati come vorremmo, perché siamo i primi a non accettarci e quindi perché dovrebbero farlo gli altri.

L’amico di oggi, che si “interessa” a come stai, c’è quando ha tempo, se ha tempo, di incastrarti tra le sue reali priorità, perché se servi a qualcosa bene, sei tra le sue mezze priorità, sennò i tuoi sentimenti avranno importanza più in là.

Poco importa se quello che provi lo provi oggi, se il bisogno di un conforto sincero allevierebbe la tua sofferenza in quel determinato momento, l’amico non ha tempo, l’amico ha altro da fare, e tu non puoi far altro che capire, raccogliere i tuoi sentimenti e brutte esperienze e fartele passare da solo, magari conservarle in una valigia, da tirare fuori all’occorrenza, magari quando quell’amico avrà bisogno di una parola sincera da parte tua, o magari, ancora meglio, per il te stesso del futuro, più consapevole e maturo, cosciente che nessun altro potrà capirti meglio di quanto tu possa fare da solo, che sei l’unico realmente in grado di aiutarti a superare quei momenti di fragilità.

L’amico di oggi c’è per una chiacchiera, ma, mi raccomando, non bisogna andare troppo a fondo, non bisogna essere troppo sé stessi, non bisogna cercare troppa empatia, sennò pesa, sennò stanca. Essì, perché non va più di moda dire come realmente ci si sente, e non va di certo di moda preoccuparsi troppo, consolare troppo, condividere troppo il dolore con l’altra persona. Non va di moda essere empatici, l’empatia l’abbiamo già usata a sufficienza quando eravamo piccoli, quando moriva la mamma di Bambi, e non ci ha fatto stare bene, ci ha fatto stare male, quindi perché usarla di nuovo, per qualcun altro poi. Basta, abbiamo già dato.

L’amico di oggi c’è per una birra, per fare shopping, per andare ad Ibiza, ma se ti senti solo e hai avuto una brutta giornata al lavoro, la pacca sulla spalla e una frase di circostanza sembra il massimo del suo impegno per te, e tu devi pure apprezzare, il loro sforzo, che cavolo, non ti rendi conto del tempo che hanno sacrificato per dirti quella stronzata?

L’amico c’è per te, ma nel senso che c’è per sé, se si sente solo, se non ha nulla da fare, se nell’ABC dell’amico perfetto c’è scritto che una parola d’affetto va detta, sennò sei un cattivo amico, poco importa se quella parola strozzata aveva meno affetto delle cento che avrebbe potuto dirti ChatGPT.

Poco importa se c’è più menefreghismo e competizione, che stima e rispetto, perché ci sentiamo di tanto in tanto lo stesso, come d’abitudine: tu sei per me una simpatica routine che mi fa sentire meno la mia profonda solitudine quando non ho null’altro da fare.

Perché ,tutto ormai importa poco, se non sé stessi, se non la propria frustrazione, il proprio egocentrismo, o il proprio bisogno di ricevere attenzioni (senza darle).

Sarebbe tutto inevitabilmente perduto, se non ci fossero, fortunatamente, quelle meravigliose eccezioni alla regola, che sono pur sempre eccezioni, ma brillano costanti quando ci si sente circondati da una marea di merda. Quei sorrisi REALI, che scrutano il tuo dolore, perché vogliono farlo, non perché lo chiedi, quegli sguardi che trattengono lacrime, non perché recitino nella soap opera della vita, ma perché ti vedono, ti sentono, e vogliono sentire ciò che provi e perché lo provi, perché non vogliono far altro che aiutare, senza troppe chiacchiere, senza messaggini di routine scarsi in grammatica e faccine di vomitevole ipocrisia.

Ed è lì, che ti rassereni, con quell’amico, unico, da cui ti senti capito, da cui ti senti accolto, a cui vorresti dare la vita combattendo un drago, combattendo il piattume di una vita grigia, fatta di insulsi convenevoli e blande chiacchiere di cui non frega a nessuno, con quell’amico con cui ti capisci con uno sguardo, con cui condividere la fiaba Disney della vita, con cui sperimentare l’audacia di essere totalmente sé stesso senza la paura di essere troppo o troppo poco.

Per leggere gli articoli di Giusy De Nittis su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Per certi Versi /
Primo sole

Primo sole

A piedi scalzi
ricama la terra
con girotondi distorti

disegna favole nuove
con fiori di grano
da raccontare ai figli
nei giorni d’inverno

rammenda orli una fata
con aghi di storie
nel tempo di donna

con acqua di grondaia
battezzo i giorni aridi
che bruciano lenti

nella siccità del primo sole
raccolgo i fiori
della bambina scalza

 
Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino e Roberto Dall’Olio, alternando una voce femminile ad una maschile.

Sempre “Infinito Antonioni”: Ferrara c’è

A Ferrara si torna a parlare di Michelangelo Antonioni, del suo linguaggio per immagini, del suo genio indiscusso. L’occasione: la presentazione del libro “Infinito Antonioni. Una ricerca rivoluzionaria sulle immagini”, alla Biblioteca Ariostea, il 10 gennaio alle ore 17. Ferrara c’è e, con lei, le sue immagini.

“Un regista non fa altro che cercarsi nei suoi film”. Michelangelo Antonioni

“Infinito Antonioni. Una ricerca rivoluzionaria sulle immagini” – presentato nel gotha della letteratura come Bookcity Milano 2024 o alla scorsa edizione della fiera nazionale della piccola e media editoria Più Libri, Più Liberi di Roma (presentazione che potete rivedere qui) – è un nuovo e articolato saggio a cura di Elisabetta Amalfitano e Giusi De Santis, con i contributi di Giulia Chianese, Iole Natoli e Francesca Pirani, pubblicato da L’Asino d’oro edizioni. Corredano il libro le interviste a Elisabetta Antonioni, fondatrice dell’Associazione Michelangelo Antonioni, a Tiziana Appetito, presidente dell’Archivio storico di cinema Enrico Appetito, al regista cinematografico Enrico Bellani e all’attrice e regista teatrale Daria Deflorian. La Prefazione è del giornalista e critico cinematografico Enrico Magrelli.

Lo abbiamo letto, è molto completo e a tratti complesso, ma rappresenta un lavoro accurato e minuzioso che fa scoprire lati nascosti di un regista per molti versi rivoluzionario. Altro che incomunicabilità. È un viaggio nella creatività, fra le crisi e le nuove forme espressive dell’autore che ha segnato il cinema del neorealismo italiano, aprendo la strada a quel “neorealismo interiore” che non intende occuparsi solo dei fatti e della realtà storico-sociale, ma anche degli esseri umani, dei loro sentimenti e dei loro turbamenti.

A dialogare con una delle autrici, la giovane attrice Giulia Chianese, saranno la storica Antonella Guarnieri, vicepresidente Anpi Ferrara e fino al 2020 referente del Museo del Risorgimento e della Resistenza (l’abbiamo intervistata a proposito del suo podcast “I fantasmi della bassa”), il fondatore della Ferrara Film Commission, l’architetto e curatore d’arte Alberto Squarcia, presidente onorario del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica(abbiamo intervistato anche lui, già nel 2015) e il pittore e scultore Luca Zarattini,  vincitore, tra gli altri, del Premio Niccolini 2016 e selezionato alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo a Tirana nel 2017. Sarà presente anche Elisabetta Antonioni.

Il libro prende spunto da una giornata di studi dedicata al regista nel 2019 e nasce da una proposta che la casa editrice romana ha rivolto alle cinque autrici, chiedendo loro di continuare e ampliare le ricerche. Per sviscerare un’opera cinematografica che resiste, ostinatamente, al trascorrere del tempo.

Frutto di anni di viaggi e studi nel capoluogo estense il primo capitolo di Giulia Chianese, in particolare, propone un ritratto interamente dedicato alla città di Ferrara e al rapporto profondo che ha sempre legato Antonioni ai luoghi della sua infanzia e della giovinezza. “Ho lasciato Ferrara con un bagaglio di affetti e di immagini che ho portato sempre con me ovunque sono andato”, si legge nell’incipit del volume, il cui intento è quello di restituire un’immagine del regista ferrarese lontano dagli stereotipi che lo hanno sempre considerato un regista difficile, estraneo alle dinamiche del suo tempo, definendolo freddo e astratto intellettuale. Antonioni torna a prendersi lo spazio che gli è sempre appartenuto, nella città che lo ha visto crescere e che le cinque autrici sostengono abbia contribuito in maniera determinante alla formazione del suo immaginario artistico e della sua sensibilità umana.

C’è tanta Ferrara in questo libro, tanto amore per le sue nebbie, i suoi mattoni che assorbono i suoni e le sue antiche pietre che riflettono i raggi del sole mattutino, in lunghe camminate attraverso i sogni. Le mura nascoste agli abitanti con alti terrapieni, mura che si incontrano con le strade e si smorzano nel verde. Pause, silenzi, fruscii, bisbiglii. Le stesse atmosfere metafisiche che Antonioni viveva. Poco è cambiato. “Lasciare una città. È perderle tutte”, diceva. Nulla di più vero, molto chiaro a noi vagabondi del mondo.

Dai luoghi dell’infanzia, in cui il piccolo Nino studiava violino e pianoforte e disegnava scenografie, e dell’adolescenza, e, poi, lungo le vicende italiane dagli anni Trenta fino agli ultimi anni Ottanta, si dipana il ritratto di un uomo e di un artista in continuo rinnovamento.

In primo piano, l’originalità del suo sguardo, il rapporto fecondo con l’attrice Monica Vitti, il legame con la pittura, ma anche il suo impegno politico, che ne mettono in risalto la sorprendente poliedricità. Scoprire il “big bang” delle immagini, come queste si formano e che cosa comunicano sono stati i punti fermi del suo indagare.

“Mi sentivo più portato istintivamente verso il mondo dell’immagine, verso questo tipo di espressione che non verso la parola. La parola è sempre stata faticosa per me e lo è tuttora, anche se più o meno la penna in mano la so tenere”.

Antonioni, ricorda Giulia Chianese, “sceglie di parlare per immagini: immagini silenziose ma ricche di senso che, come anche il suo modo di costruirle – la rottura con i meccanismi tradizionali della narrazione, i tempi dilatati, i dialoghi che lasciano spazi ai silenzi – saranno la guida e gli strumenti di tutta una vita per raccontare quello che in pochi altri sono stati capaci di raccontare”. Uno spazio fisico può influenzare il modo di fare immagini di un artista, può riflettersi nello ‘spazio interno’ di chi lo abita. E “dell’aria che si respira Ferrara, del silenzio delle sue strade e dei suoi vicoli stretti, del cotto ferrarese che assorbe i suoni e permette di immergersi in una dimensione metafisica, del silenzio della nebbia (…), del fare le cose quando le cose intorno sembrano ferme, Antonioni ne ha fatto una poetica”.

Ci sono poi i ricordi di Elisabetta Antonioni, l’amata nipote che sempre Giulia Chianese ha incontrato in via Cortevecchia, dove, al civico 57, c’era l’ultima casa in cui Antonioni aveva vissuto prima della sua partenza per Roma nel 1940, ricordi di giochi sui quali si affaccia anche Tonino Guerra, il vecchio cinema Ristori; e il contesto socio-politico dell’epoca, che prenderà vita grazie alla storica Antonella Guarnieri, attraverso il racconto dei fatti accaduti tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, anni in cui il fascismo ferrarese nacque e si appropriò della città e di parte della cultura dell’epoca: “Saranno solo Antonioni, insieme ai migliori amici Giorgio Bassani e Lanfranco Caretti, a dar vita a una sorta di cenacolo letterario”, dove i tre iniziano un sodalizio fecondo che li legherà per molti anni. Nel saggio, il capitolo “Antonioni intellettuale antifascista, dalla parte degli ultimi”, di Elisabetta Amalfitano, ripercorre questo periodo dove il giovane Michelangelo, pressoché invisibile, pare avere il cartello ‘vietato morire’ stampato sul cuore. Con un grande vuoto interiore, parlando del suo tempo non attraverso i fatti ma tramite gli stati d’animo che in essi vivono.

Michelangelo ed Elisabetta Antonioni, foto la Nuova Ferrara

Ad approfondire l’analisi degli spazi che le autrici evocano nel libro, dipingendo una Ferrara “silenziosa e senza tempo”, sarà invece l‘architetto Alberto Squarcia, che indagherà il rapporto con il modo di creare immagini dei film di Michelangelo Antonioni, mentre a fare immergere ancor di più lo spettatore nel processo della creazione artistica del regista, in costante dialogo con luoghi e ambienti circostanti, sarà il pittore e scultore Luca Zarattini.

Il libro indaga, si diceva, sul come la città di Ferrara abbia contribuito alla formazione del pensiero per immagini nei film di Antonioni, come lo spazio in cui ha trascorso i primi 28 anni della sua vita, in un momento storico così particolare come la nascita del fascismo, ha influito sulla creazione del suo immaginario artistico. Una ricerca iniziata da bambino, negli stessi luoghi dove i pittori metafisici dipinsero “la grande pazzia del mondo nascosta dietro la materia”, che riproporrà una volta lasciata la sua città, nelle immagini dei suoi film. Immagini che, volte a indagare sempre più a fondo le dinamiche e i sentimenti dell’essere umano, faranno emergere solamente la “memoria” di quei luoghi vissuti.

E poi, fra le pagine e nei film, ci sono i profumi, gli amori e le donne, acute, intelligenti, moderne, immagini femminili anticonvenzionali, anticipatrici della loro spesso imperscrutabile e inestricabile complessità, reticenti e irriducibili alla norma patriarcale.

“Il costante desiderio di volersi affrancare dalla parola, nella rappresentazione cinematografica”, scrive Iole Natoli, “ha spinto (il regista), istintivamente, verso il mondo dell’immagine, permettendogli, allo stesso tempo, di cogliere, dell’immagine femminile, quel modo assolutamente intimo e originale di ‘parlare senza parlare’: l’’assurda’ pretesa delle donne di essere capite solo per un gesto, uno sguardo, per la scelta di un particolare colore di un abito o per una sfumatura nella voce”.

 

Per Antonioni, non si tratta semplicemente di mettere al centro del quadro un’immagine di donna, come faceva Federico Fellini con le sue figure giunoniche, ma di sentire il pensiero femminile manifestarsi in sé, e questa è stata, fra le altre, una vera e propria rivoluzione.

Osservando con attenzione, sempre, anche affidando al suono uno scarto espressivo, usandolo come linguaggio autonomo. Altra rivoluzione. E la storia continua.

“Ciò che mi piace fare più di tutto è guardare”. (…) “L’idea mi viene attraverso l’immagine”. Michelangelo Antonioni

 

LE AUTRICI

Elisabetta Amalfitano, foto Picasa

Elisabetta Amalfitano insegna storia e filosofia al liceo Machiavelli di Firenze. È autrice di numerosi saggi di filosofia e cinema su riviste scientifiche e volumi collettanei, e collabora con la rivista “Left”. Con L’Asino d’oro edizioni ha pubblicato “Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo” (2012), “Le gambe della sinistra” (2014) e “Controstoria della ragione” (2022).

Giulia Chianese

Giulia Chianese si laurea alla facoltà di Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo all’Università di Roma Tre con una tesi sul linguaggio delle immagini e si forma come attrice all’accademia di recitazione Fondamenta a Roma. Nel 2016 vince il bando Torno subito e si trasferisce a Los Angeles dove frequenta il Lee Strasberg Theatre&Film Institute. Ha collaborato con Luce Cinecittà all’annuale festival cinematografico Cinema Italian Style (2018) ed è stata presentatrice ufficiale dell’edizione 2022 del Festival Isola del Cinema di Romq. Nel 2024 ha realizzato il suo primo lungometraggio da protagonista.

Giusi de Santis

Giusi De Santis si laurea in Lettere alla Sapienza Università di Roma, dove è stata cultrice della materia Teoria e interpretazione del film. Ha lavorato presso la Fondazione Cinema per Roma per quattro edizioni del Rome Film Fest e presso la compagnia Leone Cinematografica come responsabile editoriale per cinema e serie tv “Dramaturg” della compagnia Occhisulmondo, affianca anche altre realtà della scena teatrale italiana. Collabora con la rivista “Left”, dove cura la rubrica di cinema ed è autrice di saggi e racconti.

Iole Natoli, foto Cinemio

Iole Natoli è regista, script supervisor e autrice di poesie. Ha collaborato con registi come Ettore Scola, Marco Bellocchio e Andrea Segre. Script supervisor per Gomorra – la serie (stagioni 1-3) e docente di Teoria e tecnica del linguaggio e di grammatica cinematografica presso scuole di cinema e università, è autrice di “A un millimetro dal cuore” (2002) e “Incanto” (2010), cortometraggi candidati ai David di Donatello. Attualmente collabora con diverse società di produzione per la revisione delle sceneggiature.

Francesca Pirani, foto Mymovies

Francesca Pirani, laureata in Storia e critica del Cinema e diplomata in regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, ha collaborato come sceneggiatrice e aiuto regista con Marco Bellocchio ne “La visione del sabba” (1988) e “Il sogno della farfalla” (1994). Ha realizzato come regista i lungometraggi “L’appartamento” (1998) e “Una bellezza che non lascia scampo” (2001), presentati a diversi festival internazionali e assieme a Stefano Viali il film “Beo” (2017) che ha vinto il premio come miglior documentario italiano al Rome Indipendent Film Festival. Il suo ultimo film, “Vakhim” (2024) è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia nella sezione Notti Veneziane.

Tutte le fotografie di Ferrara nell’articolo sono di Valerio Pazzi, che ringraziamo

JIMMY CARTER E GLI ACCORDI DI CAMP DAVID

JIMMY CARTER E GLI ACCORDI DI CAMP DAVID

Il 9 gennaio gli Stati Uniti osserveranno una giornata di lutto nazionale in onore dell’ex presidente Jimmy Carter, morto  lo scorso 29 dicembre all’età di 100 anni. E’ stato forse  il Presidente meno amato e più sottovalutato. Ingiustamente

James Earl Carter Jr., detto Jimmy (1924 –2024), è stato il trentanovesimo Presidente degli Stati Uniti d’America (1977–1981), dopo essere stato Governatore della Georgia (1971–1975). Da vero outsider ha vinto la nomination democratica per le elezioni del 1976, dove ha sconfitto il presidente repubblicano in carica, Gerald Ford. Carter è stato insignito nel 2002 del premio Nobel per la pace.

Queste le motivazioni del premio riportate dalla commissione norvegese del premio: «Il Comitato norvegese dei Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la Pace per il 2002 a Jimmy Carter, per i decenni di sforzi incessanti dedicati alla ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, all’avanzamento della democrazia e dei diritti umani, e alla promozione dello sviluppo sociale ed economico. Nel corso della sua presidenza (1977-1981), la mediazione di Carter fu un contributo vitale agli accordi di Camp David fra Israele ed Egitto, di per sé un successo sufficiente a meritare il Nobel per la Pace. Quando la Guerra Fredda fra Est ed Ovest era ancora dominante, Carter pose un’enfasi rinnovata sul ruolo dei diritti umani nella politica internazionale». […].
Il terzo ed ultimo paragrafo della motivazione è quello in cui si può leggere più chiaramente la strategia politica del Comitato Nobel, un messaggio diretto all’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush e ai suoi progetti, che pure il Comitato non cita mai, di offensiva in Iraq. «In una situazione come quella attuale, segnata dalle minacce dell’uso del potere, Carter è rimasto fedele ai principi secondo cui i conflitto devono per quanto possibile essere risolti attraverso la mediazione e la cooperazione internazionale basata sul diritto internazionale, il rispetto per i diritti umani e lo sviluppo economico».

Nell’ambito dei conflitti arabo-israeliani, gli Accordi di Camp David sono stati accordi firmati dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin il 17 settembre 1978, dopo dodici giorni di negoziati segreti a Camp David. Tali accordi sono stati firmati alla Casa Bianca sotto l’auspicio del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter e hanno portato direttamente al trattato di pace israelo-egiziano del 1979. Gli accordi di Camp David sono due distinti trattati divisi in più capitoli.

Il primo accordo è diviso in tre parti. La prima è stata un programma quadro per istituire una autonoma autorità auto-disciplinante in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ed attuare pienamente la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza ONU (si veda: https://www.treccani.it/enciclopedia/risoluzione-onu-242_(Dizionario-di-Storia)/). È meno chiaro riguardo agli accordi relativi al Sinai, ed è stato interpretato diversamente da Israele, Egitto, e dagli stessi Stati Uniti. Il destino di Gerusalemme, come avverrà in occasione degli accordi di Oslo del 1993, è stato deliberatamente escluso dall’ accordo. La seconda parte affronta le relazioni israelo-egiziane. La terza i “Principi associati” che devono applicarsi alle relazioni tra Israele e tutti i suoi vicini arabi.

Il secondo accordo delinea una base per il trattato di pace che sei mesi più tardi avrebbe deciso il futuro della penisola del Sinai. Israele aveva accettato di ritirare le sue forze armate dal Sinai, evacuare i suoi abitanti civili, ottenendo in cambio delle normali relazioni diplomatiche con l’Egitto, la garanzia della libertà di passaggio attraverso il canale di Suez e di altri corsi d’acqua nelle vicinanze e una restrizione sulle forze che l’Egitto avrebbe posto sulla penisola del Sinai, in particolare al limite di 20–40 km da Israele. Israele ha, altresì, convenuto di limitare le proprie forze ad una piccola distanza (3 km) dal confine egiziano e di garantire il libero passaggio tra l’Egitto e la Giordania. Con il ritiro, Israele ha perso Abu-Rudeis, campi petroliferi nella parte occidentale del Sinai.

La stipula di un trattato di pace tra l’Egitto ed Israele, che pone fine a trent’anni di ostilità (l’ultimo episodio bellico era stata la guerra del Kippur, avvenuta nel 1973) è un evento eccezionale aldilà di alcune direttive disattese e di alcune conseguenze non previste.

A Camp David furono adottati due documenti: il “Quadro per la pace in Medio Oriente” e il “Quadro per la conclusione di un trattato di pace tra Egitto ed Israele. Mentre quest’ultimo andò in porto (il trattato fu firmato a Washington il 26 marzo 1979), dopo una complessa seconda tornata negoziale tra Medio Oriente e Washington che necessitò di un difficile viaggio di Carter in Oriente dal 7 al 13 marzo 1979, il primo restò solo un documento programmatico. (si veda: https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-10/quo-243/camp-david-successo-o-fallimento.html).

Aldilà di una situazione geopolitica difficile con intricate storie di guerre, conflitti e sangue senza sosta, aldilà del fatto che forse noi occidentali non conosciamo e non conosceremo mai del tutto le dinamiche, gli interessi, le pressioni, e i credi dei soggetti in gioco, sicuramente questi accordi sono la prova che delle singole persone possono ancora fare la differenza, che essere rappresentanti e sostenitori della democrazia può fare la differenza, che la fede nella forza degli accordi pacifici e nella possibilità dell’uomo di trovare soluzioni “ragionate”, incide in maniera sostanziale.

Il 6 ottobre del 1981, al-Sadat venne assassinato da Khalid al-Islambuli, esponente di un’organizzazione terroristica riconducibile alla Jihad islamica egiziana, che intendeva punirlo per la pace stipulata con Israele, durante una parata militare al Cairo in occasione della commemorazione per l’inizio della guerra.

Menachem Wolfovitch Begin è stato primo ministro di Israele dal 1977 al 1983. A causa delle conseguenze della guerra in Libano, che si trascinerà sino al 2000, e della grave crisi economica caratterizzata da un’iperinflazione, nel 1983 rassegnò le dimissioni passando le redini al suo collega di partito Yitzhak Shamir. Un personaggio controverso con cui era difficile dialogare e costruire relazioni rispettabili e durature. Eppure, ci si era riusciti, e gli Accordi di Camp David, seppure nella loro non completezza e parziale applicazione, rappresentano uno dei momenti più significativi di pacificazione del Medio Oriente. In quel momento si è davvero potuto sperare nella pace, In un cambio di assetto geopolitico che portasse benefici a tutti e permettesse di guardare al futuro con maggiore serenità riuscendo ad eludere quel ripiegamento all’indietro e su sé stessi che, come un brutto serpente, risucchia verso il rancore e l’odio per tutti. L’odio porta alla guerra e la guerra alla morte di molti innocenti. L’odio uccide sempre, non sbaglia, si chiamò odio proprio per quello.

Nel giorno della scomparsa di Jimmy Carter in cui si enumerano le tante cose che è riuscito a fare come presidente degli Stati Uniti, ricordare il suo ruolo nella stipula degli accordi di Camp David è dovuto. Proprio quel “lavoro” testimonia la sua bravura e la sua fede incrollabile nei processi democratici e attesta il suo miglior testamento politico.
Quello che successe a Camp David non può non far riflettere ancora adesso, proprio in questo momento in cui le zone che si era tentato di pacificare, sono di nuovo martoriate. Chi si ricorda i titoli dei telegiornali di quei giorni viene assalito dalla nostalgia della speranza che si respirava e chi non c’era deve colmare la sua assenza andando alla ricerca dei documenti dell’epoca e cercando di capire tutto quello che successe in quei giorni. Può essere utile a tutti come esercizio di comprensione e come testamento di un modo di fare politica che rimette la politica stessa tra le azioni maggiormente illuminate ed etiche che si possano intraprendere.

I testimoni dell’epoca documentano che il presidente Carter volle da subito un’atmosfera informale. Non c’era protocollo per i piazzamenti a tavola, non c’era un dress code (il presidente americano circolava in blue jeans), ma soprattutto non c’era la stampa, proprio per evitare che dichiarazioni improvvide dei partecipanti finissero per congelare le posizioni e impedire un negoziato sostanziale. L’intento di Carter riuscì solo in parte, nei dieci giorni finali del negoziato Sadat e Begin non si parlarono mai direttamente, benché le loro villette fossero affiancate. In alcuni momenti — ricorda lo stesso Carter — Sadat e Begin si affrontarono a muso duro (riguardo al confine internazionalmente riconosciuto e all’occupazione del territorio egiziano, come pure sullo sgombero dei coloni israeliani). In una fase drammatica, Sadat e Begin fecero per abbandonare la sala riunioni, Carter li rincorse sulla porta, sbarrando loro il passaggio, scongiurandoli di non rompere le trattative e di fidarsi di lui. In un altro momento, Sadat chiese addirittura un elicottero, pronto a ripartire. Alla fine, anche se non in tutta la loro interezza e potenziale portata, i trattati furono siglati dalle due parti. Quel lavoro di Carter resta ammirevole e se più tentativi in quel senso e in quella direzione fossero stati fatti, la situazione internazionale sarebbe sicuramente migliore.

Proprio per questo è importante ricordare il presidente Carter e salutarlo con molto rispetto. Per aver agito tentativi ammirevoli e per la determinazione con cui li ha perseguiti. Perché cose di questo tipo ed esempi di tale portata possano servire a farci ritrovare il senso della politica, quella vera che aiuta la gente, che non strilla, che non è volgare ma che prova con la massima onestà a lavorare verso una idea di pace. Grazie presidente Carter, buon viaggio.

Cover: Gli Accordi di Camp David, 17 settembre 1978 – (foto L’Osservatore Romano)

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Presto di mattina /
Nascere è cadere nel tempo

Presto di mattina. Nascere è cadere nel tempo

Inizio d’anno

Continuare a scrivere è il mio proposito. Sarà come riprendere un viaggio, senza sapere dove ti porterà e fino a quando. Così lo chiedo come una grazia nel gesto di un affidamento: scrivere come «nascere è un cadere nell’ora». Ho, infatti imparato da Giuseppe Pontiggia che la scrittura è «esplorare ciò che ancora non si sa e portarlo alla luce».

È l’ora del nascere di nuovo. Non è solamente un esercizio di trascrizione delle proprie esperienze o ricordi perché «l’avventura della parola scritta è di riservare sorprese al suo autore. Quando inizia il suo viaggio, che può durare un libro o una pagina, sa il punto di partenza, ma non di arrivo. Il testo glielo rivela e può essere una conoscenza inesauribile».

Scrivere è incontrare l’inatteso che ti sorprende, e scopri alla fine che il testo scritto ne sa più di te e tu impari cose nuove dalla tua scrittura: «Questo vale, in modo eminente, per il linguaggio poetico e narrativo. Ma vale in misura più circoscritta, ma non meno decisiva, anche per un saggio o un articolo.

Scrivere è inventare – cioè etimologicamente trovare, dal latino invenire – qualcosa che non si sapeva e che il testo svela. Questo è il senso idealmente più importante dello scrivere» (Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, Mondadori, Ebook, Milano 2020, 156; 145).

Da non dimenticare in questo viaggio sarà un altro consiglio di Pontiggia sull’uso delle citazioni: «Citare è un’arte difficile. Non è appropriarsi di una espressione, ma farla propria» (L’isola volante, Mondadori, Ebook, Milano 2018, 134).

«La parola poetica semente di Dio»

Continuerò poi ad intrecciare ancora le parole poetiche con la parola di Dio, con il pensiero dei teologi e le istanze della spiritualità cristiana, che pongono a loro fondamento l’ascolto della Parola. Uditore della Parola anch’io ho cercato infatti di fare mia la lectio spirituale del teologo Karl Rahner che ricordava come la poesia appartenga alla stessa essenza dell’uomo.

Per questo «la riflessione dei credenti, non può considerare a priori estraneo nulla di ciò che riempie le ore sublimi dell’uomo, che deve essere ricondotto integralmente a Dio, poiché in fondo in tutti i campi del mondo, per quanto siano differenti, deve maturare l’unica semente di Dio» (La parola della poesia e il cristiano, in Saggi di Spiritualità, Paoline Roma 1965, 231-232).

Di più. «Noi cristiani dobbiamo amare e difendere la poesia, perché dobbiamo difendere l’umano, poiché Dio stesso l’ha assunto nella sua realtà eterna» (ivi, 245).

Per Rahner occorrerà così andare incontro ad ogni poesia «veramente grande con cuore aperto e con semplicità, rispettoso e – forse dolorosamente e pieno di compassione – amante, poiché essa parla dell’uomo… Quanto più profondamente una grande poesia introduce l’uomo nei reconditi abissi della sua esistenza, tanto più lo costringe a fronteggiare autorealizzazioni umane oscure e misteriose, che si nascondono in quella equivocità nella quale l’uomo sostanzialmente non può dire con sicurezza se egli è in grazia o se è perduto» (ivi, 247).

Allevare la parola, portarla verso l’alto, verso il culmine di sé che è il cuore: «Coltivare la poesia è allora coltivare la vita, diventare uditori della parola della vita e viceversa: quando un uomo nel profondo del suo cuore impara ad ascoltare le parole del Vangelo veramente come parola la Dio, data da Dio stesso, allora incomincia a diventare un uomo che non può più essere completamente insensibile ad ogni parola poetica» (ivi, 244).

«Il tempo cuore dell’esistenza»

Così la natività e l’inizio dell’anno sono similmente un cadere nel tempo, luogo di una epifania, il venire alla luce. Nascere è così cadere nel cuore dell’esistenza, che si sottrae a qualunque forma di possesso; il tempo è la nostra unica condizione possibile, caratteristica essenziale della nostra vita.

Così scrive Abraham Joshua Heschel (1907-1972): «Nella civiltà tecnica, noi consumiamo il tempo per guadagnare lo spazio. Accrescere il nostro potere sullo spazio è il nostro principale obiettivo. Tuttavia, avere di più non significa essere di più: il potere che noi conseguiamo sullo spazio termina bruscamente alla linea di confine del tempo: e il tempo è il cuore dell’esistenza.

Conseguire il controllo dello spazio è certamente uno dei nostri compiti. Il pericolo comincia quando, acquistando potere sullo spazio, rinunciamo a tutte le aspirazioni nell’ambito del tempo. Esiste un regno del tempo in cui la meta non è l’avere ma l’essere, non l’essere in credito ma il dare, non il controllare ma il condividere, non il sottomettere ma l’essere in armonia» (Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 1972, 7).

Che il tempo sia superiore allo spazio lo ha anche ricordato papa Francesco nella sua prima Esortazione apostolica Evangelii Gaudium là dove ricorda: «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti.  Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto…

Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempoDare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce» (nn. 222-223).

«Nascere è cadere nel tempo»

Nella raccolta poetica di Marina Cvetaeva, Dopo la Russia e altri versi, (Mondadori, Milano 1988, 39-41 a cura si Serena Vitale), si trova una poesia dal titolo La Sibilla – Al bambino, come a voler profetizzare la Natività del Bambino di Betlemme. A commento di questo testo, l’artista scrive: «Questi versi sono stati tratti dal futuro, per un’intima appartenenza [a esso]».

Al mio petto,
Bambino, aggrappati:
Nascere è cadere nel tempo.
Da stellari rocce di nessun dove,
Bambino mio,
Come sei caduto in basso!
Tu che eri spirito, sei diventato polvere.
Piangi, piccolo, per loro e per noi,
Nascere è cadere nell’ora!
Piangi, piccolo, ancora e ancora:
Nascere è cadere nel sangue,
E nella polvere,
E nel tempo…
Dov’è il bagliore dei suoi prodigi?
Piangi, piccolo: nascere nel peso!
Dov’è la vena delle sue grazie?
Piangi, piccolo: nascere nel conto,
E nel sangue,
E nel sudore…
Ma ti alzerai! Ciò che nel mondo è detto
Morte — è cadere nell’alto.
Ma vedrai! Ciò che nel mondo sono palpebre
Chiuse, è nascere alla luce.
Da oggi —
Per sempre.
La morte, piccolo, non è dormire ma alzarsi,
Non è dormire, ma tornare…
A nuoto, piccolo! Non è rimasto
Che un passo…
— Venire alla luce.
(Per questa traduzione sono ricorso a Lucio Coco, in Osservatore Romano, 23 dicembre 2024, 6).

 Scopriamo così in questo testo che nel mistero del tempo il cadere contiene un alzarsi, il nascere per caduta un nascere verso la luce; non solo una discesa rovinosa: un tempo sepolto, ma un’ascensione: “un cadere nell’alto”.

Si proviene da Nessun dove, Stellari rocce sono il non luogo dell’Eterno come l’Assoluto ha la sua epifania nel relativo, così il Senza tempo si rivela nel tempo e nella storia e nel silenzio, partorisce la Parola: «Tu che eri spirito, sei diventato polvere d’uomo».

Il segreto del tempo: vi è un tornare dalla morte, a nuoto, onda dopo onda dove sigillate palpebre si dischiudono alla luce come dopo un sonno.

Il Sempre duraturo/Everlasting è il seme gettato nel tempo, esso contiene insieme potenzialità: un passato, sviluppo: un presente e compimento: un futuro. Il dispiegarsi del tempo è la vita stessa nelle sue possibilità infinite, nei suoi passaggi critici, pesantezza, sudore, pianto e sangue ma poi sei rialzato e ti è detto: «Non è rimasto/ Che un passo…/ — Venire alla luce».

Scrive la Cvetaeva: «Nel mondo io non amo ciò che è profondo ma ciò che è alto», e commenta nell’introduzione al testo Serena Vitale: «Alto e basso, vetta e valle sono le coordinate essenziali della sua geografia dell’assoluto, del suo stesso sistema poetico, modulato lungo un’impervia scala ritmica che mima il processo di catarsi con la fisica, gestuale teatralità dell’intonazione. E la montagna – la vetta – è il luogo da cui risuona la sua voce, che inizia sempre dalla nota più alta, dall’epifania dell’esclamazione, dall’acme del sospiro e dell’urlo, e non consente pause, discese, e incalza il lettore sempre più su, più in alto» (ivi, XVII-XVIII).

«Nascere è cadere nell’ora!»

 «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!” (Gv 12, 27-28). L’oscurità iniziò verso mezzogiorno (l’ora sesta) e si protrasse sino alle tre del pomeriggio (l’ora nona), ora dell’effettiva morte di Gesù: «Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15, 33; 37).

È difficile per me giunti a questo punto non far corrispondere al testo poetico della Cvetaeva – non giustapposto ma come uno specchiarsi dapprima, un rincorressi poi, l’intrecciarsi infine delle parole le une nelle altre – quelle di un inno poetico/celebrativo a Cristo della chiesa antica fatto proprio dall’apostolo Paolo, incastonato in modo mirabile nella lettera ai Filippesi. Si dispiega dall’alto, preesistenza in un movimento di abbassamento inaudito, dalla condizione di Dio a quella di schiavo e per questo abbassamento egli è stato innalzato, portato in alto e il suo nome sopra di tutti i nomi.

È la storia di Gesù Cristo in poesia: dall’umiliazione all’esaltazione (2,6-11).
L’annientamento e l’umiliazione di Gesù Cristo (2,6-8): caduto nel tempo
L’esaltazione e proclamazione di Gesù Cristo (2,9-11): caduto nell’alto

6 Colui che esisteva di un’esistenza divina
non cercò avidamente di conservare questa uguaglianza con Dio
7 ma alienò se stesso, prendendo esistenza di schiavo,
divenne uguale agli uomini;
e, ritrovato all’esterno come uomo,
8 umiliò se stesso (e) divenne ubbidiente fino alla morte,
fino alla stessa morte di croce.
9 Per questo Dio lo ha anche tanto innalzato
e gli ha donato il nome che (è) sopra ogni nome,
10 affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio
dei celesti e terreni e subterreni
11 ed ogni lingua confessi: Signore (è) Gesù Cristo,
a gloria di Dio Padre.
(Fil. 2, 6-11)

Questo ritratto cristologico è inserito in un contesto etico. È appello all’unità e unanimità del sentire; è preceduto infatti dall’esortazione di Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo». Come a dire: si trovi in voi, gli uni per gli altri, lo stesso suo sentire, lo stesso amore, la stessa forma della sua umanità.

Come Cristo Gesù ha preso la nostra umanità, così noi ci rivestiamo della sua e dunque assumiamo il suo stesso criterio di come valutarci nei confronti degli altri: un’umiltà che diventa responsabilità, che pensa all’altro prima che a se stesso. Un sentirsi responsabili al modo con cui Cristo si è reso responsabile di noi fino ad umiliarsi, annichilirsi nella polvere. E per questo è stato rialzato da un Altro ed elevato in alto il suo Nome.

La via delle comete

Iosif Brodskij ha definito Marina Cvetaeva «la voce più tragica di tutta la letteratura russa. La sua poesia è estremamente tragica, non solo nel contenuto – fin qui niente di nuovo, in particolare nella letteratura russa –, ma anche nella lingua, nella prosodia. La sua voce, la sua poesia, ti dà quasi l’idea o la sensazione che la tragedia sia all’interno della lingua stessa (Conversazioni, Adelphi, Milano 2015, [ed digitale 2017], 104) e tuttavia pur nelle sue esperienze drammatiche ha percorso il suo destino sempre cercando la sua via, inseguendo la luce di una stella, la via delle comete, che è la poesia, per esprimere anche oggi il cadere e l’innalzarsi, l’alto e lo sprofondo, il perdersi e il ritrovarsi della nostra condizione umana.

Il Poeta
Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni … Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo
è passo di cometa.
(Dopo la Russia e altri versi, 93).

E con non poca meraviglia ho trovato nascosta tra le sue pagine una benedizione ed una confessione per l’anno appena nato che va a cadere nel tempo.

Benedico il lavoro d’ogni giorno,
benedico il sonno d’ogni notte.
La grazia del Signore e – del Signore il giudizio,
la buona legge e – la legge della pietra.
E la mia porpora polverosa con tanti buchi …
E il polveroso bordone tutto raggi!
Ancora, Signore, benedico – la pace
in casa d’altri e il pane nel forno altrui!
lo sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
Io crescerò e lo ridarò centuplicato.
lo sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l’umida pioggia
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.
(Marina Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, UEF, Milano 1992. 79-80)

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