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Il vaso rosa di Josè Mujica

Una notte di 12 anni (La noche de 12 años) è un film del 2018 scritto e diretto da Álvaro Brechner basato sul libro Memorie dal calabozo, 13 anni sottoterra.

Il film racconta gli anni di prigionia e isolamento dei dirigenti del gruppo di guerriglia urbana Tupamaros, José Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernández Huidobro.

Nel 1973 in Uruguay, da poco diventato una dittatura militare, i tre uomini furono imprigionati in minuscole celle, dove per oltre 12 anni subirono torture fisiche e psicologiche, in totale isolamento.
Uno di questi tre uomini José Mujica, sarebbe diventato il presidente uruguaiano del quale proprio in questi giorni è stata annunciata la morte ma della quale non si ha ancora certezza: è cifra di questi tempi – tanto globalizzati, intelligentemente artificiali ma confusi – non essere capaci di acquisire la veridicità di una notizia.

Da guerrigliero tupamaro a presidente della Repubblica uruguayana: questa è stata la più incredibile parabola di un uomo a cavallo tra due millenni, José Mujica, meglio noto come “El Pepe”, l’apologeta della sobrietà e soprattutto il politico che nella storia recente ha tenuto, secondo molti, “il migliore discorso del mondo”.

(N.d.r. Leggi il testo integrale del discorso di José Mujica  pubblicato in un’altra pagina di Periscopio Qui)

Dopo anni di prigionia e torture, col ritorno della democrazia nel 1985, Mujica venne scarcerato con altri “companeros”, entrò in politica sino a venire eletto presidente della Repubblica dal 2010 al 2015. Il presidente più povero del mondo, venne definito, dato che tratteneva per sé solo una piccola quota dello stipendio per darlo quasi tutto ai bisognosi.

Il regista di Una notte di 12 anni , Álvaro Brechner, ha sempre ribadito che il film non intendeva trattare la dittatura di quel periodo storico del Paese, ma “… il viaggio esistenziale di alcuni uomini in lotta per conservare una propria dignità, il proprio spirito…” durante la discesa nel peggiore degli inferni.

C’è un episodio emblematico che spiega meglio di tante parole questa lotta per preservare lo spirito e la dignità di donne uomini e di una nazione, durante gli anni della dittatura uruguayana. Nel film viene ben rappresentata ed è la scena quando la mamma di Mujica fa recapitare nel carcere un piccolo vaso da notte di colore rosa, quello che Pepe usava da bambino.

Con quel gesto la donna voleva comunicare al figlio di bere , continuare a bere, raccogliere e continuare a bere la sua stessa urina. Pepe aveva sempre sofferto di un malattia ai reni aggravata nel corso della sua lunga latitanza.

Subito dopo il loro arresto, proprio in una delle prime notti all’inizio della prigionia, Pepe e i suoi compagni vennero prelevati dalle loro celle, nell’ambito di un’operazione militare segreta che sarebbe durata ben dodici lunghi anni.

Da quel momento in poi, Pepe e i suoi amici divennero di fatto desaparecidos sebbene venissero spostati in continuazione da un carcere all’altro del Paese. Furono assoggettati a forme di torture psicologiche estreme. L’ordine dell’esercito era: “Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia”.

Sempre separati ciascuno nella propria minuscola cella (calabozos) i prigionieri trascorrevano la maggior parte del tempo incappucciati, legati, in silenzio, privati di necessità fondamentali, denutriti, dimenticati da tutti tranne dai loro cari come la mamma di Mujica che seguì, per quanto le fosse possibile, il calvario di suo figlio.

Nel film il regista mostra i pensieri a cui i prigionieri si aggrapparono  per vincere le allucinazioni e il rischio di impazzire per davvero: il ricordo delle proprie famiglie, il sogno di riabbracciare le persone care.  A fianco a queste immagini oniriche e poetiche ci sono poi quelle più crude e impietose  dei corpi consumati nel gelo delle piccole celle, dei volti stupidi e crudeli dei carcerieri.

Nel 1985, alla caduta della dittatura militare in Uruguay, Pepe Mujica, venne liberato, assieme ai suoi compagni e decisero, prima di riprendersi la vita, di ritrovarsi in un convento dei francescani conventuali. Dovevano parlare, parlarsi, dopo anni e anni di silenzio e solitudine. Prima di tornare alle loro famiglie, ai propri quartieri, alle proprie case; al proprio impegno politico.

Quando nel 1994, fu eletto deputato Mujica disse: «Mi sento come un fioraio in Parlamento». Coltivare fiori era stato il suo primo mestiere. Nel 2009, l’ex-guerrigliero divenne presidente dell’Uruguay. «Il presidente più povero del mondo» che continuò a vivere in una modesta chacra, una piccola fattoria di tre stanze, circondata dai fiori, con la sua compagna di una vita e una cagnetta con tre zampe.

Recentemente, nel poco tempo che gli restava da vivere, ha chiesto di essere lasciato in pace. Aveva deciso di interrompere le terapie contro il cancro che lo stava divorando. «Sono un anziano e me ne vado. Ma sono felice perché ci siete voi giovani». E gli si può credere. Credo che abbia vissuto davvero da uomo libero e felice di quella felicità che viene mostrata in una delle ultime scene del film quando esce del carcere.

Felice. Felice come un bambino che abbraccia il suo piccolo vaso rosa pieno di fiori.

Il vaso rosa

A José «Pepe» Mujica

 

Ho vissuto qui come

un bambino che gioca

a nascondino nell’infantile

dolcezza che non distingue

il giorno dalla notte;

a parlare con le formiche

e i ragni negli angoli dell’alba,

con le rane e i grilli

in quelli della sera;

a immaginare alberi

che tendono le braccia

verso terra senza resa.

 

Oh, e quelle notti di luna

in fondo al pozzo

di cieli invisibili e stelle.

Io, come la lumachina,

anch’io desideravo

vedere la fine del sentiero

e costruirmi una casa nuova

di legno e pietra antica

ma senza ferro a ricordarmi

clangori e attriti dei colpi

sulle mie ossa rigide e fredde;

e desideravo piantare gladioli

alti e sottili come aghi

a bucare nuvole e nembi

per liberare acqua e finalmente

riempire il mio vasino rosa

l’unico arredo di questo pozzo

per i miei fiori l’unico vaso.

 

E ho imparato che la vita

è solo l’arte sobria

di organizzare

le speranze meno austere

e che libertà in fondo è solo

pazzia o pietà.

Se rimani sobrio

senza sprecare nulla

non una goccia, un secondo

un solo fiato

capisci che la pietà

è la migliore delle pazzie

e crederlo la forma più sublime.

 

 

Le filastrocche e le preghiere

sono gli unici beni

dei quali essere prodigo.

Lo devo a questa terra

che mi aspetta, alla gente

che verrà domani, all’amore

e a quella piccola cagnetta

con tre zampe.

La partita si vince qui,

si vince adesso

in fondo a questo pozzo

che non ha più acqua

non ha più luce e aria

ma ha solo la pietà

di questa lumachina

che con niente è felice e

lo sarà molto con poco.

 

[G. Ferrara, Appunti di viaggio di un funambolo muto, Edizioni Tracce, 2015]

In copertina: José Mujica,  2016 (immagine Wikimedia Commons)

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

 

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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