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“Poveri a noi” di Elvio Carrieri al Premio Strega
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Vite di carta. “Poveri a noi” di Elvio Carrieri al Premio Strega
Dunque Poveri a noi, romanzo d’esordio di Elvio Carrieri, è entrato nella dozzina del libri semifinalisti allo Strega 2025. L’ho finito due mattine fa e l’ho lasciato decantare, come per prendere fiato dopo un’aggressione verbale.
Dunque l’ha scritto un ragazzo di vent’anni e ci ha messo dentro un’amicizia, la città di Bari, il dialetto barese, una architettura. Questi gli ingredienti che elenca a chi gli chiede che romanzo sia Poveri a noi.
Vediamoli con ordine. Gli amici che si frequentano da vent’anni sono Libero, che a ventinove anni insegna Letteratura Italiana nel carcere di Bari, e Felice detto Plinio, ancora bloccato al corso di laurea in Filologia per un esame che non riesce a superare.
Nel cortile della scuola media Felice a undici anni è stato picchiato violentemente da alcuni compagni e Libero non ha fatto nulla per aiutarlo. Il senso di colpa per non essere intervenuto lo corrode negli anni che seguono e anche ora invade il suo presente e il ruolo di narratore che si è dato nel libro.
Una memoria intermittente su quella violenza gli buca il sonno ancora dopo tanto tempo e gli procura incubi.
I due si muovono per le strade di Bari come due Demosteni e tranciano giudizi sui palazzi e sui figuri che popolano i vicoli, sapendo che la loro sagacia linguistica li eleva sopra i comuni cittadini. Anche nel locale che frequentano, mentre conversano sul Satyricon petroniano, sanno di essere riconosciuti per quel loro “bias comportamentale”.
Che lingua parlano i due snob? Usano il barese: seguendo il filo lessicale dei sottotitoli ai nove capitoli si incappa in altrettante parole chiave della Weltanshauung del capoluogo pugliese. Certo, lo mescolano con l’italiano colto e col gergo generazionale, lo infarciscono di riferimenti letterari.
Basti l’esempio del primo capitolo: dopo il titolo altisonante ecco una parola che viene dal profondo del barese e inchioda un tipo umano, altre volte bolla una costante del comportamento umano. Il capitolo titola Lottatori e contemplatori (Felice e Libero è intuibile che appartengano al secondo gruppo) e ha per sottotitolo Trmón, che è lo stigma dialettale con cui i due sono chiamati dai cozzari dei vicoli, sempre pronti a venire alle mani, e sta per imbranati. A Firenze si direbbe che sono dei bischeri, a Milano dei pirla.
Resta la città con la sua architettura: il narratore ne parla con la stessa ambivalenza con cui Carrieri si rapporta a Bari, dove è nato. Con amore per la sua bellezza e con odio per l’ambiguità corrotta di certa sua politica. Dunque camminando lungo la Via Sparano Libero (sarà giunto il momento di definirlo l’alter ego dell’autore) ammira l’eleganza di certi palazzi e si indigna pensando a tutti quelli che nel dopoguerra sono stati abbattuti per far posto a palazzoni più alti e senza bellezza.
Come lettrice aggiungo un quinto tema che nel libro occupa un discreto spazio, il contrasto tra città e paese. Letizia, la psicologa di cui Libero si innamora, è nata in un paese della Valle D’Itria e la sua paesanità a lui sembra un peccato originale difficile da emendare, specie se lascia tracce nell’accento con cui Letizia gli si rivolge chiamandolo Prfssò.
Letizia sembra eccellere, tuttavia, quando veste i panni della psicologa e inquadra dentro i nomi giusti il rapporto labile che Libero ha con il padre, fuggito all’estero quando lui aveva quindici anni. Ci sa fare Letizia, sa dare consigli e si muove con spirito pratico nella quotidianità.
Il suo riscatto consiste però nel fatto che sta imparando a parlare il dialetto barese. Di Plinio, quando fa la sua conoscenza, dice con arguzia che è un priso, vale a dire un “inetto alla praticità del vivere” e anche Libero, per quella sua attitudine a pensare troppo, un po’ priso è.
Ho sentito una lettrice su Youtube avvicinare questo romanzo a La coscienza di Zeno di Italo Svevo, per il rapporto conflittuale che entrambi i protagonisti hanno con la propria coscienza. E anche per il senso di inadeguatezza con cui vivono, che li rende narratori inaffidabili quando raccontano di sé senza un ordine cronologico.
Penso che no, non siano gli stessi i presupposti della scrittura di Carrieri. Poveri a noi è un libro che punta sulla lingua e ne fa la protagonista, rinunciando a una trama che abbia consistenza e capacità attrattiva. Semmai ripropone la fiacchezza esistenziale di certa narrativa postmoderna e nel farlo si appoggia a uno scoperto citazionismo.
Nota bibliografica:
- Elvio Carrieri, Poveri a noi, Ventanas, 2024
- Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Cappelli, 1923
Cover: immagine di Bari tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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Roberta Barbieri
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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