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PRIVATO È PEGGIO!
RIPUBBLICIZZIAMO LA GESTIONE RACCOLTA RIFIUTI A FERRARA!

PRIVATO È PEGGIO!

FLASH MOB
SABATO 22 FEBBRAIO – ORE 10
davanti alla sportello di Hera – viale Cavour 62

Hera Spa sembra avere il monopolio dei servizi nella nostra città: servizi pubblici che continuano ad essere dati in gestione al privato. Ma la verità è che “PRIVATO E’ PEGGIO” .

Lo vediamo tutti nelle bollette del servizio rifiuti, maggiorate dagli utili del gestore privato, e da una qualità scadente del servizio raccolta rifiuti, poco attento all’ambiente e alla salute dei cittadini,
e quindi alla qualità della vita.

RIPUBBLICIZZIAMO LA GESTIONE RACCOLTA RIFIUTI A FERRARA!

* PER LA RIPUBBLICIZZAZIONE DEL SERVIZIO DEI RIFIUTI URBANI
* PER FAR USCIRE HERA DAL SERVIZIO
* PER LA RACCOLTA PORTA A PORTA
* PER DIMEZZARE L’INCENERIMENTO DEI RIFIUTI

 

Chiuso il cracking di Eni-Versalis:
Brindisi si confronta sul futuro della chimica

Chiuso il cracking di Eni-Versalis:
Brindisi si confronta sul futuro della chimica.

Lo stop al cracking brindisino, anticipata di un ulteriore mese rispetto alla prevista per marzo 2025, ha suscitato forte preoccupazione tra lavoratori, sindacati e istituzioni. In risposta, la Cgil di Brindisi ha proclamato lo stato di agitazione e il blocco delle prestazioni straordinarie per i lavoratori dell’indotto, uomini e donne impiegate in manutenzioni e ristrutturazioni, trasporti, logistica e servizi, che rappresentano una fetta importantissima della forza lavoro nelle aree dei petrolchimici.

Il 15 febbraio in assemblea davanti ai cancelli

Fin dalle prime luci dell’alba del 15 febbraio i lavoratori di tutte le categorie presenti nell’area industriale si sono ritrovati davanti alla portineria del petrolchimico per discutere i nodi più critici della vertenza e ribadire il proprio no alla chiusura del cracking. Nella riunione di coordinamento di tutti i delegati di fabbrica si è cercato di sintetizzare una posizione unitaria e più forte in difesa dell’occupazione e del futuro della chimica di base. Nei prossimi giorni, assicurano fonti sindacali, proseguiranno le riunioni congiunte delle diverse confederazioni presenti nell’area.

Nei giorni precedenti la Cgil e le categorie coinvolte sono tornate a chiedere al Governo il riconoscimento dell’area di crisi complessa per il territorio di Brindisi e, all’Eni, impegni chiari su un risarcimento della collettività attraverso forestazioni urbane, elettrificazione dei mezzi pubblici, posa di pannelli solari sui terrazzi di scuole ed enti locali.

Lavoratori in assemblea nell’area del petrolchimico brindisino

Una crisi che minaccia l’intero settore

La chiusura dei cracking di Brindisi e Priolo segue una serie di dismissioni analoghe avvenute negli ultimi anni a Porto TorresGela e Porto Marghera. Questa scelta rischia di compromettere la tenuta dell’intero settore della chimica di base, con ripercussioni su siti strategici come Ferrara, Mantova e Ravenna. Secondo il sindacato, il mancato mantenimento degli impegni sugli investimenti futuri e l’assenza di garanzie occupazionali rappresentano, in tutta Italia, una grave minaccia per 20 mila lavoratori.

Risulta che Versalis voglia lasciare in marcia l’impianto di produzione del polietilene e pertanto l’etilene che dovrà alimentare l’impianto di polimerizzazione dovrà essere necessariamente importato dall’estero. La chiusura del ciclo del cracking in Italia esporrà con certezza il nostro sistema industriale al reperimento di materie prime dall’estero esponendolo all’imprevedibilità del mercato.

Leggi anche: Quanto è importante il cracking per l’industria italiana?

 

In Absentia, continua presenza.
L’ultima raccolta di Alessandro Canzian

In Absentia, continua presenza.
L’ultima raccolta di Alessandro Canzian

Se c’è una cosa che è possibile sperimentare ‘facilmente’ con la poesia, soprattutto in presenza di testi brevi, è l’efficacia di una lettura completa fatta cioè con gli  occhi, con la bocca (dunque voce e orecchie) e con la mente.

Per maggiore chiarezza diciamo che con il termine mente, non bisogna limitarsi al ‘nostro cervellino’ ragionevole, quello che fa i calcoli, che guida l’auto o che vuole sapere come vanno a finire le cose. La mente nella poesia è sempre una questione di sensi-cuore-vita: è certamente testa ma unita a intuizione, percezione ed emozione.

In genere quando leggiamo un testo (saggistico, narrativo, giornalistico, etc…) sperimentiamo la lettura vorace degli occhi, soprattutto se si è animati da una sorta di automatismo a scoprire chi è, per così dire, … ‘l’ assassino’. Raramente sperimentiamo la lettura con le labbra (o a voce alta) e meno che meno quella con il cuore.

Nella poesia invece accade – ripeto: per la natura breve del verso, delle strofe e del componimento – di poter fare ritorno più e più volte e in modalità differenti su ogni singola parola, nota, intonazione e pausa.

Nel fare questo ci si accorge così che se, ad esempio, un poeta “parla del silenzio” di Dio, l’ascolto in primis diventa, fondamentale.

Nel caso di In absentia, l’ultima raccolta di Alessandro Canzian (Interlinea Edizioni, Novara, 2024) l’efficacia di questa lettura poetica, tripartita tra occhi, labbra e cuore risulta fondamentale.

Cerchiamo quindi di entrare in questi “dispositivi poetici” dei quali parla Martin Rueff nell’ottima post-fazione alla raccolta di Canzian.

Allora, prima di tutto, gli occhi. «Le poesie delle tre sezioni [Minimalia, In fondo e In absentia]sono per la maggior parte delle strofe di cinque versi (il francese usa la parola quintil) non rimate e costruite su una nitida opposizione drammatica…» dice Rueff, ma a me ( ai miei occhi) queste poesie brevi hanno subito richiamato dei tanka al di là dell’assenza del rigoroso susseguirsi di sillabe lungo i 5 versi del componimento classico giapponese (5-7-5-7-7).

Lo scopo della forma del tanka , come richiamato da uno dei suoi maggiori poeti moderni, il giapponese Tsukamoto Kunio (1922-2005), “…è quello di mostrare delle visioni”.  E infatti questi pseudo-tanka di Canzian  sono carichi di immagini filtrate dall’occhio della mente

Le lenzuola distese
sono più casa delle case.
Grate, gronde e greppi.
Da lontano un geco
le traversa mozzato.
[pg.21]

Tali visioni lasciano intravedere, paesaggi distrutti, corpi di ragazze sbrindellati, lenzuola, tovaglie piene di briciole, spighe di grano tra la polvere (Donbass, Gaza). Immagini di un universo caotico i cui frammenti non trovano ricomposizione alcuna in un’armonia vitale.

Nulla di vivo si muove
dicono dei nervi come
delle rane, le rane scoppiate.
Le rane che rincorrevamo di notte
come oggi l’inverno.
[pg.42]

I due versi finali dei quintil-tanka di Canzian possono sembrare esplicativi di quanto espresso nei primi tre, cioè possono argomentare o rafforzare il vano tentativo di recuperare un ordine, un’armonia o una senso almeno visivo, per lo meno quantitativo

Hanno spiantato per chilometri
qualunque cosa viva
alberi compresi.
Conta quanti loro morti
valgono uno dei nostri.
[pg.46]

Ma allo steso tempo in altri testi, gli ultimi due versi possono essere contradittori, cioè quasi a smentire, negare o contrastare, ciò che si è espresso nei primi tre. È tipico del tanka questo dispositivo poetico “basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità…”, come felicemente intuito da Martin Rueff

Lasciata la ragazza a terra
senza jeans e maglietta e il resto
della notte a venire
con la pancia scoperchiata
sembra una libertà.
[pg. 47]

Passiamo alle labbra o meglio a quel ticchettio appena percepito delle dentali e labiali che sbattono in bocca prima di farsi sentire. Senza farsi sentire troppo. Proprio come quel topo, figura misteriosa che Claudia Mirrione individua come correlativo oggettivo di Dio, un Dio che sussurra appena o tace del tutto, quasi a voler ricordare che il destino del poeta è da sempre quello di affrontare un corpo a corpo con il silenzio.

Già, il silenzio di Dio così…  fragoroso dopo la creazione

Il quinto giorno Dio rimase
In un silenzio attonito.
Par qualche istante
il rumore dell’universo.
[pg.57]

Per il Dio di Canzian non esiste il settimo giorno, quello del riposo. Dio è sempre a lavoro e non può fermarsi nemmeno per una risposta, perché non ha tempo per (e non è Tempo per) rispondere.

Il sesto giorno riprendemmo
a parlare, io e Dio.
«Usami come uno straccio
da cucina» disse lui.
Per anni la cucina
lasciata così com’era.
[pg.58]

Quando Giobbe (o il Poeta) in preda al dolore interroga Dio perché vorrebbe avere una risposta sulle ragioni della umana condizione, Dio gli risponde in mezzo alla tempesta:

Dov’eri quando io mettevo le basi sulla Terra? Dillo se hai tanta sapienza”. Insomma Dio non risponde affatto alla domanda diretta di Giobbe ma lo invita piuttosto ad osservare la complessa architettura del creato. Per questo il Poeta è costretto ad assentarsi dal mondo: per osservare meglio.

Continua Dio, in absentia, a parlare con Giobbe: “Conosci tu il tempo in cui partoriscono le camozze? Hai osservato il parto delle cerve? Sai contare i mesi della loro gravidanza?…”. Nel testo biblico il discorso di Dio continua per tre capitoli: una vera e propria lezione di storia naturale.

Che bisogno c’è, ci si domanda. E perché mai questo lungo viaggio “into the Great Wide Open” costituisce un rimedio contro il silenzio e l’assenza?

Probabilmente perché la nostalgia di quello che stiamo perdendo deve essere sempre ravvivata. Perché ogni vita persa, anche quella di un topo, esige di restare indimenticabile.

Allo stesso modo una poesia come questa di Alessandro Canzian esige di essere letta, anche se nessuno la legge o pochi la leggeranno con gli occhi, le labbra e il cuore.

Perché come dice Giorgio Agambenil destinatario di una poesia  non è una persona reale ma un’esigenza”: continuare a dire e a fare sempre le medesime cose. In silenzio. In absentia.

Nella rubrica di poesia “Parole a capo” del 23 gennaio scorso https://www.periscopionline.it/parole-a-capo-alessandro-canzian-alcune-poesie-tratte-da-in-absentia-300487.html , abbiamo pubblicato alcune poesie del libro  “In absentia” di Alessandro Canzian.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Le voci da dentro /
Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

Le voci da dentro. Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

Pubblichiamo un bell’articolo di Claudio Bottan, vicedirettore della rivista Voci di dentro, scrittore e attivista per i diritti umani.

La sua è una riflessione che ci scuote, che ci interroga, che non dovrebbe lasciarci indifferenti di fronte alla situazione sempre più drammatica delle carceri italiane. Purtroppo chi dovrebbe farlo, preferisce evitare di occuparsene e anche di preoccuparsene, come se le persone tragicamente decedute non meritassero attenzione solo per il fatto di essere ristrette.

Sono in molti a pensare che l’argomento carcere non li riguardi; io credo invece che tutti dovrebbero interessarsi al modo in cui si pensano e si organizzano i luoghi dove scontare una pena, perché è da questo osservatorio che si può constatare se e quanto la nostra società creda nell’educazione e nella rieducazione.
(Mauro Presini)

 Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

di Claudio Bottan

Qualche mese fa ha scosso tutti la vicenda di Youssef, morto in carcere a San Vittore dove era recluso in attesa di giudizio a soli 18 anni appena compiuti. Seguiva una terapia psichiatrica. Per vizio totale di mente, doveva andare in una comunità terapeutica per essere curato e non in carcere, ma non c’erano posti disponibili. Youssef è morto carbonizzato nel bagno della sua cella dopo che era stato incendiato un materasso. Bisogna ancora capire se l’incendio sia stato innescato come protesta o se sia stato un gesto autolesionista da parte di Youssef.

Ma lo sdegno per l’atroce fine di quel ragazzino egiziano che in carcere non ci doveva stare è durato poco, poi si è tornati a parlare di sicurezza e certezza della pena. Eppure le fiamme si alzano spesso nelle nostre prigioni. Per comprendere le dimensioni del fenomeno basta considerare la frequenza con cui le cronache ci raccontano di incendi nelle carceri italiane.

Negli ultimi giorni ci sono stati roghi nel carcere minorile di Firenze, con due ragazzi in ospedale, e a Modena dove un 25enne è rimasto gravemente ustionato. Qualche giorno prima è stata la volta di Belluno. Gravemente ustionati, e trasportati in eliambulanza a Padova, due magrebini di 30 e 24 anni detenuti presso la Casa Circondariale Baldenich. I due avevano appiccato un incendio all’interno della loro cella, utilizzando i vestiti, carta e dell’olio.

Nell’estate del 2023, invece, un detenuto ha dato fuoco al materasso e ha atteso che il denso fumo lo accompagnasse alla morte. Si è chiusa così la vita di Abdelilah, 35 anni, marocchino. Il cadavere del detenuto viene trovato nel bagno della cella dagli agenti della penitenziaria che, nel tentativo di salvarlo, restano intossicati e sono costretti ad andare in ospedale.

Il 3 giugno 1989, undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere Le Vallette di Torino. Morirono in pochi minuti, stordite e soffocate dalle esalazioni letali rilasciate dal rogo di trecento materassi di poliuretano accatastati sotto un portico, appena arrivati per sostituire quelli vecchi utilizzati nelle celle.

Una strage che pare non aver insegnato nulla: a distanza di oltre tre decenni il fuoco arde ancora nelle celle nell’indifferenza generale. Bruciano soprattutto gli istituti per minori. Al Quartucciu, in Sardegna, un detenuto ha dato fuoco alla cella e le fiamme sono presto divampate rendendo inagibile tutta la sezione. Non è andata meglio al minorile Malaspina di Palermo, dove si sono verificati diversi episodi di protesta e lo scorso ottobre un detenuto che chiedeva di essere portato in ospedale, nonostante il parere negativo del medico, ha dato fuoco a suppellettili, lenzuola e materassi provocando un incendio. A Casal del Marmo, a Roma, gli incendi sono ormai all’ordine del giorno.

La dinamica è sempre la stessa: materassi, cuscini, lenzuola e coperte incendiati per protesta, per noia o per follia, usando il fornellino in dotazione come lanciafiamme. All’arrivo in carcere vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta polverosa, bucata e dall’odore sgradevole: il “corredo”.

Il cuscino è spesso strappato, mentre il materasso è una striscia di poliuretano dello spessore di pochi centimetri adagiato su una lastra di lamiera forata. Quel fetido pezzo di gommapiuma, impregnato dagli umori dei precedenti inquilini con bruciature di sigaretta, evidenti chiazze di piscio, sangue e vomito, riporta una data di scadenza che normalmente risale a qualche anno prima. Difficile credere che si tratti di materiale ignifugo.

D’altra parte, l’Ordinamento penitenziario e il Regolamento di applicazione DPR del 30 giugno 2000 n. 230 non ne fanno cenno se non all’art. 9 al capitolo “vestiario e corredo, “Per ciascun capo o effetto è prevista la durata d’uso” e ancora “L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati. Se l’anticipato deterioramento è imputabile al detenuto o all’internato, questi è tenuto a risarcire il danno”. C’è sicuramente una antica circolare del Dap che dispone l’acquisto di materassi ignifughi. Da ciò deriva di conseguenza che alla data di scadenza il materasso va sostituito, altrimenti perde parte della proprietà ignifuga.

La caratteristica distintiva di un materasso ignifugo è la capacità di auto estinguere la fiamma, prevenendo la rapida propagazione in caso di incendio. Per comprendere meglio questo concetto, immaginiamo un incendio nel quale il materasso della camera di pernottamento è coinvolto: se il materasso è veramente ignifugo, osserveremo il suo sciogliersi lento anziché la fiamma propagarsi. Questo rappresenta chiaramente il segno dell’autoestinguibilità, impedendo la diffusione del fuoco.

Un aspetto altrettanto significativo da considerare è l’emissione di fumi. In situazioni di incendio, oltre al rischio del fuoco stesso, si verifica anche il pericolo di respirare gas tossici dannosi per la salute. La normativa impone l’obbligo di utilizzo dei materassi ignifughi certificati per le strutture ricettive con più di 25 posti letto.

In genere si pensa ad un obbligo di utilizzo di materassi antincendio che persiste per hotel e alberghi ma, in realtà, i letti ignifughi omologati di classe 1IM devono essere obbligatoriamente utilizzati anche dalle strutture di riposo, di comunità, di alloggio come residenze sanitarie, RSA, case famiglia, case di cura, cliniche private, aziende sanitarie, ospedali che abbiano, appunto, più di 25 posti letto disponibili. E le carceri, in perenne condizione di sovraffollamento, non sono forse equiparabili alle strutture ricettive?

I detenuti che bruciano le celle per protesta lo sanno che il fumo nero intossica chi lo respira, infatti si coprono la testa con asciugamani bagnati, cercando di stare lontani dai materassi; ma le celle sono piccole e quasi mai ci riescono. Quindi: o si intossicano o si ustionano o muoiono. L’intossicazione spesso è denunciata dagli agenti, che intervengono per evitare il propagarsi delle fiamme e lamentano la mancanza di dispositivi di protezione.

Ma le carceri, si sa, non sono alberghi. E allora, cosa c’è di strano se le persone detenute vivono in dieci in celle pensate per quattro, se il cibo è insufficiente e scadente, se non ci sono le docce, se manca l’acqua calda, se i cessi sono a vista, se fa un caldo torrido d’estate e un freddo gelido d’inverno?

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Monte Giogo di Villore:
un Monte da amare con un monte di amore!

Monte Giogo di Villore: un Monte da amare con un monte di amore!

Giovedì 13 al Circolo I tre castagni a Villore, Vicchio del Mugello, i produttori locali delle Comunità di Villore, Corella e Gattaia, si sono ritrovati con il Comitato Tutela Crinale Mugellano, aderente alla Coalizione TESS, Transizione Energetica Senza Speculazione, per fare il punto della situazione rispetto allo stato dei territori interessati ai lavori dell’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore.

L’Assemblea pubblica, viva e partecipata, ha rivendicato l‘alto valore ambientale dei territori dell’area Giogo di Villore Giogo di Corella nell’Appennino Mugellano, l’eccellenza delle produzioni locali BIO e IGP, la presenza di Comunità attive, produttori locali privati e aziende agricole, alcune delle quali riunite nel Consorzio del Mugello per il marrone IGP, famoso marrone biondo fiorentino da tavolo, ottimo per la trasformazione in farina e il marron secco.

L‘elevata concentrazione di biodiversità favorisce l’apicoltura, l‘abbondanza di acqua pura le coltivazioni; la bellezza dei Sentieri CAI di rilevanza nazionale ed europea attrae appassionati del turismo lento, escursionisti, amanti della natura che portano benessere economico nel settore dell’accoglienza e della ristorazione.

La mostra fotografica e le proiezioni hanno evidenziato il progressivo degrado e devastazione dei paesaggi e degli ecosistemi naturali presenti ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, habitat di specie protette, con 20 km di sbancamenti, abbattimenti di ettari di foreste, creazione di strade inesistenti e distruzione della Sentieristica CAI. L’Assemblea ha messo a punto un documento per dare voce ai territori e alle comunità esistenti, con le loro specifiche caratteristiche ed esigenze di tutela, rispetto e conservazione, al fine di mantenere e promuovere una salutare e produttiva convivenza tra ambiente naturale, esseri viventi ed esseri umani.

L’assemblea pubblica, domenica 16 Febbraio dalle ore 18.00 si sposterà a Firenze alle Piagge, da Don Alessandro Santoro, fondatore della Cooperativa Il Cerro nei terreni di  a San Lorenzo, località Il Santo, nella Comunità di Villore.

Venerdì 21 Febbraio alle ore 18.00 presso il Circolo Il tiglio a Vicchio, l’Assemblea delle Comunità di Villore, Corella, Gattaia e San Godenzo si aggiornerà nuovamente per rendere pubblico il Documento definitivo, volto a ribadire la contrarietà delle Comunità alla prosecuzione dei lavori del Progetto eolico Monte Giogo di Villore:

un Monte da amare con un monte di amore!

Comitato Tutela Crinale Mugellano  Crinali Liberi
(Coalizione TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione)

Cover: L’assemblea del 13 febbraio a Tre Castagni

Emma Ruzzon, studentessa dell’Università di Padova: “Basta competizione, siamo stanchi di piangere i nostri compagni…”

Emma Ruzzon, studentessa dell’Università di Padova: “Basta competizione, siamo stanchi di piangere i nostri compagni…”

Di seguito riportiamo alcuni brani del discorso di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova, tenuto n paio di giorni fa da Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti dell’ateneo patavino.
Se avete meno di trent’anni (studenti, lavoratori o disoccupati) … o se avete più di trent’anni (docenti, genitori o semplici cittadini) … o se siete politici, deputati o ministri, le parole di Emma sono rivolte proprio a voi. Ascoltatela.

«…Credo siano evidenti a tutti le contraddizioni della narrazione mediatica attorno al percorso universitario: ci viene restituito il quadro di una realtà che fa male, celebrate eccellenze straordinarie, facendoci credere che debbano essere ordinarie, normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, con i propri modi»: le parole di Emma Ruzzon, rappresentante dei 70mila studenti dell’Università di Padova, hanno una carica dirompente. La giovane parla durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo padovano e si rivolge direttamente alle autorità presenti in sala, compreso il ministro Bernini. «Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire come attivarsi per rispondere a questa emergenza. Ma serve il coraggio di mettere in discussione il sistema merito-centrico e competitivo …».

Enna conclude il suo intervento ricordando gli 80anni dalla Liberazione del Nazifascismo e si toglie la camicia nera per denunciare la politica repressiva del governo nei confronti dei manifestanti e degli studenti in particolare.

Qui il discorso integrale:
https://www.instagram.com/enricogaliano/reel/DGFZXyUBf3z/

Cover: Emma Ruzzon, immagine da YouTube

Dal Festival di Sanremo un impatto economico pari a 245 milioni di Euro

E anche questo Festival di Sanremo ha chiuso i battenti. Al di là di detrattori ed appassionati, dei tanti che lo prendono (troppo) sul serio e di chi proprio non lo manda giù, il Festival di Sanremo continua ad avere un ruolo significativo per l’industria discografica italiana, come riporta un nuovo Report della Federazione Industria Musicale Italiana – FIMI che analizza in profondità il ruolo strategico degli investimenti delle case discografiche nell’indotto del Festival.

La nuova pubblicazione FIMI evidenzia come tali investimenti siano il motore che alimenta un ritorno economico significativo e in continua espansione: secondo le recenti stime di EY, infatti, l’edizione 2025 genererà un impatto economico complessivo pari a 245 milioni di euro. Le case discografiche, da sempre protagoniste e instancabili motori dell’industria musicale italiana, si confermano gli attori indispensabili non solo nella promozione degli artisti e nella produzione musicale, ma anche come volano economico per l’intero settore. Gli investimenti strategici supportano iniziative che abbracciano diversi ambiti, dalla pubblicità alla promozione live, contribuendo a creare un ecosistema virtuoso in cui la creatività si sposa con la crescita economica, con un effetto moltiplicatore di grande rilievo anche se le economie per le imprese restano limitate all’1,5 % dei ricavi del settore.

Il Report offre una panoramica completa dell’impatto sul mercato dei brani in gara, i cui ascolti in streaming sono aumentati del 463% negli ultimi cinque anni, andando a ricoprire una percentuale di mercato ormai superiore al 2%. Tuttavia, il valore degli investimenti che le aziende destinano al Festival supera di gran lunga il ritorno immediato in termini di ricavi, dimostrando un impegno che ora necessita di una revisione strutturale. L’avvicinamento ai trend musicali attuali si evince d’altronde dalla crescita del numero dei platini dei singoli in gara al Festival (241 in totale, dal 2013 al 2024) – che ha raggiunto un’impennata negli ultimi 4 anni – e dalla partecipazione in gara per il quarto anno consecutivo dell’artista con l’album best-seller dell’anno: si tratta di Taxi Driver di Rkomi (2021), Sirio di Lazza (2022), Il coraggio dei bambini di Geolier (2023) e Icon di Tony Effe (2024). Per il terzo anno consecutivo, poi, un brano in gara a Sanremo è diventato il singolo best-seller dell’anno secondo le rilevazioni FIMI-GfK: Brividi di Mahmood & Blanco nel 2022, Cenere di Lazza nel 2023 e Tuta Gold di Mahmood nel 2024. Inoltre, il 57% dei brani in gara all’ultima edizione del Festival è entrato nella Top 100 dei Singoli più venduti del 2024.

E l’incidenza non è solo rilevata nelle chart annuali: negli ultimi quattro anni, infatti, i singoli in gara a Sanremo hanno conquistato l’intera Top Ten Singoli della chart settimanale successiva al Festival. Si tratta di dati che si inseriscono in uno scenario musicale che parla sempre più italiano (nel 2024 il repertorio locale ha rappresentato l’84% della Top 100 Album annuale) e soprattutto sempre più giovane (negli ultimi dici anni l’età media degli artisti in Top Ten Album annuale è diminuita del 13%), in linea con il ringiovanimento del pubblico televisivo del Festival che nel 2024, secondo i dati Rai, ha conquistato uno share dell’82% nella fascia 15-24 anni – segnando l’intrattenimento di prima serata più giovane di sempre. Sono proprio gli investimenti mirati del settore discografico a plasmare l’ecosistema musicale celebrato dal Festival di Sanremo, riuscendo a rispondere alle sfide e alle opportunità di un mercato sempre più dinamico e competitivo, pur ricavandone ad oggi una fetta molto esigua di ricavi.

Qui il Report sull’impatto economico di Sanremo ’25

In copertina: Sanremo 2025 – immagine digital news, licenza Creative Commons

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

 

CUCIRE LA PALESTINA.
Sul flash mob del 15 febbraio

CUCIRE LA PALESTINA.
Sul flash mob del 15 febbraio.

Ferrara, 15 febbraio. Dopo una infinita settimana di freddo e di pioggia tagliente, oggi c’è il sole, l’aria fina e il cielo pulito, una tale sorpresa che ti scopri ottimista nonostante le quotidiane brutte notizie. Dobbiamo arrivare al 2 per cento del Pil di spese militari, dice Ursula von der Leyen, che per l’Italia vuol dire altri 11miliardi di Euro, Una cosa talmente scandalosa, talmente folle, che probabilmente accadrà, e abbastanza presto.

Immagine da Facebook

È bello camminare in centro; ed è incredibile: Ferrara è governata dagli ignorantissimi fascisti del terzo millennio, eppure resiste, non cede un grammo sulla sua bellezza. La resistenza della città di pietra batte la nostra resilienza 5 a 0.

Arrivo all’appuntamento delle 16 in Piazza Cattedrale, davanti al cantiere infinito del Duomo, siamo, rapido calcolo, in centocinquanta, forse in duecento, formiamo un grande cerchio con cartelli e bandiere, donne e ragazze, come sempre, in larga maggioranza.

“Siamo in tanti”, dico a un’amica che mi sta a fianco: “NO – risponde – siamo in pochi. Dove sono tutti i bravi ferraresi mentre la Palestina è condannata a morte?”.

A turno le donne, le palestinesi e le ferraresi, “recitano” frase per frase il documento delle Donne per la Palestina . Un grande striscione chiede una cosa semplice e sacrosanta, di  Riconoscere lo Stato di Palestina. È quello che non vuole Trump, e di conseguenza non vogliono né il Governo e il Parlamento italiano, né il Consiglio Comunale di Ferrara.

Sul selciato, dentro il cerchio, 4 lunghe strisce di stoffa, nero bianco verde e rosso, i colori della bandiera palestinese.  Le strisce sono accostate l’una all’altra, ma il vento di marzo le scompiglia, le fa volare via; per fare la bandiera occorre cucirla: e una ventina di donne si inginocchia, prima gli spilli, poi l’ago e il filo.  Ed è questo, mi pare, il messaggio più potente, un antico gesto femminile di cura che diventa metafora, racconto di un popolo che da 80 anni vuole conquistare, anzi, ri-conquistare la propria terra, la propria patria.

Patria questa volta è una bella parola, è Terra Madre. Esattamente come lo fu per “gli italiani senza Italia” del Risorgimento.
Ho cercato il nome di chi ha cucito la prima Bandiera Italiana nel 1794 (quella ancora conservata a Reggio Emilia);  naturalmente non c’è il nome della donna o delle donne che la cucirono, ma solo quello dei due uomini che la “inventarono”: Luigi Zamboni, giovanissimo studente a Bologna, insieme al più noto Cesare Battisti.  Li ricordiamo giustamente come martiri, ma senza un ago, un filo e una donna, la bandiera italiana non sarebbe mai nata.

Ferrara, 16 febbraio. Così è per le donne palestinesi che cuciono la loro bandiera portando in tutto il mondo il dolore e le lacrime di un popolo violentato e il diritto a una patria e a uno Stato sovrano.

Cucite la vostra storia donne palestinesi, alla fine la bandiera sarà pronta…

Leggi Su Periscopio, due giorni fa, alla vigilia del flash mob, Chi ha paura della Palestina,

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore.

 

LA GALLERIA DEL CARBONE CAMBIA CASA.
Il 16 febbraio 2025 la prima mostra

LA GALLERIA DEL CARBONE CAMBIA CASA.
Il 16 febbraio 2025 la prima mostra

 “Ho sempre avuto il piacere di percorrere piano la città, ogni passo un suono, un odore, un ritmo. una parola, un respiro…Piccole strade scure e segrete. La storia e le storie che trasudano dalla porosità dei mattoni e i nomi delle vie che raccontano il passato.E siamo stati attratti ambedue, come fosse una malia, da questa strada: Via del Carbone.”

Così scrive Lucia Boni in un passaggio del delizioso ‘quadernino’ come lei lo definisce intitolato CARBONE D’ARGENTO, una raffinata dedica, in forma di ‘dialogo con Giuliana’, alla Galleria del Carbone, sogno condiviso e realizzato dai tre protagonisti di questo testo sublime, insieme ai tanti artisti e appassionati che da 25 anni frequentano questo luogo dell’arte.

Su iniziativa di Luciana Tufani, sempre attenta a far conoscere e promuovere le ‘belle scritture’ tra gli eventi organizzati dalla Biblioteca del Centro Documentazione Donna, lunedì 20 dicembre scorso Lucia Boni ed io abbiamo dialogato su Carbone d’Argento e sulla Galleria, che proprio al compimento dei 25 anni lascia Via del Carbone 18a e si trasferisce in Via Vignatagliata 41.

In verità, io faccio notare all’autrice, introducendo la nostra conversazione, che la Galleria del Carbone, anzi la Via da cui essa ha preso il nome, compare solo a pagina 24, nelle righe con cui si apre questo mio scritto. E per di più, mai come soggetto autonomo, bensì sempre inserita nella città, della quale si sentono suoni e rumori, si annusano odori, si osservano muri e colori che cambiano con le stagioni. Perciò chiedo a Lucia di parlarci subito della Galleria e ne viene fuori un quadro fatto di vivaci ed intense attività culturali: mostre di pittura, scultura, laboratori artistici, letture, concerti, presentazioni librarie, collaborazioni con enti culturali e singoli artisti anche provenienti da paesi stranieri, viaggi. Già, perché non di sola Galleria si tratta, ma di una vivace e propositiva Associazione che raccoglie numerosi volontari e appassionati, che affiancano con idee e contributi preziosi l’instancabile lavoro di Paolo Volta e Lucia Boni stessa. Il 2025, anno delle ‘nozze d’argento’, è iniziato con i lavori di trasloco e il trasferimento nella nuova sede e l’intenzione è di proseguire, anzi intensificare il lavoro artistico e culturale, traendo nuova linfa dagli stimoli che potrà dare la nuova sede e la nuova Via, che da anni offre spazi ad artisti ferraresi.

Poi il nostro sguardo si concentra sull’oggetto di questo incontro: il piccolo ma prezioso “Dialogo con Giuliana” che ha una copertina d’argento con una suggestiva immagine, un bellissimo disegno realizzato da Paolo Volta, che mi piace evocare con le parole di Lucia in chiusura del testo: “Stasera in cielo c’è una luna piena, grande, in fondo alla strada, appoggiata sul tetto della casa che fu di Giorgio De Chirico. La luna ci guarda negli occhi. La sua luce si riflette sui ciottoli che la riverberano e la via è una roggia con polle d’acqua brillanti che paiono di metallo argentato. Queste serate fanno innamorare. Via del Carbone stasera è ‘Carbone d’Argento’”.

Il dialogo è immaginato fra l’io, che è Lucia, e il tu, che è Giuliana Magri, che (scrive l’autrice nella postfazione) “ha contribuito, con la sua presenza e disponibilità, a rendere possibile, nell’anno 2000, il realizzarsi di un progetto che sembrava troppo ambizioso…”. Ma, come già detto, la Galleria compare tardi, nel testo, perché in esso dominano i ricordi, centrati su quello che appare, fin dalle prime righe, come il lui, terzo protagonista del dialogo: lo vediamo, evocato da Giuliana  “andare su quelle strade nel centro della città medievale fin da quando era piccolino, anche nel sonno, dormendo nella carrozzina o in braccio a mamma e papà…Lui il senso della città  ce l’ha ad occhi chiusi e l’ha acquisito prestissimo…La città, le strade  le conosce senza vederle, non le vuole vedere, determinato ad immaginarle e ad indovinarle…lui era serio, gli piaceva la città dipinta, pensata, sognata. Guardava con grande rispetto i quadri di mio papà… (si parla qui di Antenore Magri, zio di Paolo, per apprezzare i cui lavori, si legge poco più avanti, bisogna misurarla la città, passo dopo passo, luce dopo luce in tagli netti…).

Il dialogo presenta una struttura compositiva molto interessante, con un gioco affascinante in cui le parole entrano ed escono dalle virgolette e si muovono lungo un percorso definito dagli  ‘a capo’ e dai numerosi spazi bianchi, in un alternarsi di discorsi diretti ed enunciati narrativi e sembra a tratti di sentirle, quelle due voci, di Lucia e Giuliana, che ora dal vivo non possono più parlarsi, ne puoi cogliere i toni, i sussurri, i rimpianti.

Il quadernino si apre con una breve ed efficace prefazione di Corrado Pocaterra: <Quanti occhi e quanti chiodi sono passati dalla Galleria del Carbone, i primi attaccati alle opere, i secondi al muro…Cosa rimarrà di tutto questo? …Puntiamo tutto sulla memoria di quelli che hanno messo ‘le mani nel carbone’…>
Mi sembra un passaggio adatto a fare da trait d’union tra due diverse occasioni di incontro che ho avuto con la Galleria in questo suo momento di cambiamento. La prima, la presentazione di Carbone d’Argento. La seconda, giovedì 13 febbraio, la Conferenza stampa indetta dal Direttivo dell’Accademia d’Arte Città di Ferrara, l’associazione no profit di cui la Galleria è lo spazio espositivo, nella nuova sede.

Nella bella e luminosa sala che ci ha accolto sono esposte opere degli artisti scelti per la mostra di inaugurazione, che si svolgerà domenica 16 febbraio alle ore 18. Ad illustrare tempi e modi del trasferimento da Via del Carbone 18a e intenti e progetti dell’Associazione di riferimento, abbiamo trovato il Direttivo quasi al completo: il Presidente Paolo Volta, la Segretaria e Tesoriera Lucia Boni e i Consiglieri Corrado Pocaterra e Ulrich Wienand (assente per indisposizione il Consigliere Gianni Cestari). Presenti anche gli artisti Daniela Carletti e Sergio Zanni.

Dagli interventi ben articolati abbiamo potuto percepire i caratteri di un mondo fatto di intensa collaborazione e partecipazione, di vitalità e vivacità culturale, di attenzione agli artisti locali e stranieri. Abbiamo potuto condividere storie ed emozioni, nei momenti in cui ha prevalso il racconto di ciò che è stato e pure, e soprattutto, gli entusiasmi di ciò che sarà, quando sono stati illustrati, a grandi linee, i tanti, nuovi progetti. Dalla ricca documentazione che ci è stata consegnata, mi piace riportare qui l’incipit del testo di illustrazione della mostra scritto da Enrica Domenicali, che soddisfa il mio desiderio di preciso inquadramento nello spazio, con dettagli toponomastici e storici ricchi ed esaurienti, del luogo di cui si parla, e i successivi capoversi dedicati alla mostra vera e propria.

Imposte di legno pesanti, fissate con lunghe viti di metallo, stanno sul portone d’ingresso di un’antica bottega in Via Vignatagliata 41, la nuova sede della Galleria del Carbone. A togliere quelle imposte si percepisce che sei l’ultimo di tanti, si sente l’avvicendarsi delle generazioni, delle memorie, in questo ritaglio della città che per secoli fu il ghetto degli ebrei ferraresi. Poco più su, al civico 33, c’è la casa di Isacco Lampronti, medico, rabbino e filosofo dal sapere enciclopedico, al 44 c’era il forno delle azzime, al 79 la scuola ebraica, dove insegnava Bassani, dopo le leggi razziste del 1938. Al 39, dove c’è oggi la Bottega di Riccardo Biavati, e prima anche gli studi di Sergio Zanni e Paolo Zappaterra, abitava Nissim Melli, il nonno del grande pittore Roberto. Gianfranco Goberti, negli anni, ha avuto addirittura tre studi in Vignatagliata: al 32, 33a, 57, in ordine topografico e temporale.

Qui, arriva ora anche la Galleria del Carbone, carica di una storia lunga un quarto di secolo e che subito, appena rimbiancati i muri, riprende l’attività con la mostra “Ripartiamo”. Un titolo che è un annuncio ed insieme un proposito.

Ad inaugurare questa nuova stagione sono chiamati cinque artisti ferraresi, cinque amici storici del Carbone che negli anni ne hanno sostenuto ed arricchito il percorso: Maurizio Bonora, Paola Bonora, Gianfranco Goberti, Gianni Guidi, Sergio Zanni. Amici del Carbone e amici tra di loro, tutti cresciuti alla scuola del Dosso Dossi e tutti legati dall’Arte, che tutti hanno praticato ed insegnato. Sostanzialmente coetanei, con Paola, la più giovane, distanziata di un lustro dal fratello Maurizio e così, per tutti, “Paolina”, e Gianfranco, il più grande, mancato due anni fa, i loro percorsi artistici sono autonomi, originali, forse appena sedotti, all’inizio, da certo astrattismo organico di matrice bolognese e certamente dal clima di protesta sociale al volgere degli anni Sessanta del Novecento.

Poste qui, le une accanto alle altre, nello spazio ordinato della Galleria le loro opere si confrontano e mostrano gli esiti di riflessioni originali, espresse da temi e poetiche sostanzialmente diverse per ciascun autore, accomunate tuttavia dalla formazione comune che si traduce e si intende nel rigore della ricerca e nell’impeccabile resa formale.

E, per tornare a Lucia, soggetto di partenza di questo mio scritto, mi piace ora chiudere con altre sue parole, tratte dal ‘racconto’ delle variegate fasi del trasloco da una sede all’altra.

La ’vecchia’ sede di Via del Carbone non dista molto da Via Vignatagliata e, con buon impegno, si è potuta trasbordare molta parte del carico: scatoloni, strutture, arredi e suppellettili varie, con trasporti a mano, nelle serate libere da altri impegni, attraversando i crocchi di chi conversa fumando e bevendo aperitivi, vincendo la folla di passeggiatori in Via Mazzini, scarrellando rumorosamente sui ciottoli, caricando e scaricando merci varie sull’auto stracolma di qualche socio compassionevole. Avrei voluto filmare tutta questa storia, e vedere ‘di nascosto l’effetto che fa!’.

Riprendiamo quindi e verrebbe da chiederci: ‘’dove eravamo rimasti?’’, visto che non è passato, infine, troppo tempo e si deve soltanto riprendere il filo del discorso, momentaneamente interrotto. Nessuno di noi vuole ‘rottamare’ ciò che è stato, convinti, come siamo, che nulla si crea se non c’è un’esperienza pregressa sulla quale appoggiarsi, ma diventa necessario comunque rinnovarsi. Abbiamo tanti amici della Galleria del Carbone che ci hanno sostenuto fin dall’inizio nel campo dell’arte e della cultura in generale.

Vogliamo riprendere da alcuni nomi tra i tanti, tantissimi, a cui siamo legati anche da affetto, per poter continuare nella nostra nuova avventura.

La prima mostra del “nuova vita della galleria:

“RIPARTIAMO”

Opere di Maurizio Bonora, Paola Bonora, Gianfranco Goberti, Gianni Guidi, Sergio Zanni

Domenica 16 Febbraio 2025 alle ore 18
Galleria del Carbone
Via Vignatagliata 41 – Ferrara 

In copertina: due panoramiche della mostra RIPARTIAMO

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Per certi Versi /
Avvilito il dolore

Avvilito il dolore

È avvilito il dolore

si percuote

in un misero volo

 

come uccello

impaurito da sparo

cade su un foglio

 

il bianco lo acceca

si snatura tra le righe

e scompare

 

come nebbia di valle

ai piedi del sole

 

In copertina: beccaccia in volo , immagine da BigHunter.it

 Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino 

Presto di mattina /
L’aurora della parola e la sua traiettoria

Presto di mattina. L’aurora della parola e la sua traiettoria

La Parola

Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d’amore nell’umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?
(G. Ungaretti, Vita d’uomo, 232)

L’esodo della parola

Stamattina, abbandonato sul primo banco in chiesa, un mazzolino di bacche rosse e spine di una rosa selvatica. L’ho raccolto e messo tra le mani oranti e immobili di Nasael, il silenzioso angelo del presbiterio di santa Francesca Romana. È l’angelo dell’esodo, il cui nome in ebraico significa ‘il Dio che rialza e fa partire’. Fa partire il desiderio, le parole anche: quelle solo concepite e ogni preghiera muta in chiuse labbra.

Ho pensato alle spine, grida di silenzio. Le bacche rosse, invece, promesse che porteranno frutto a suo tempo.

Ecco, mi sono detto: parole, perdute e ritrovate, custodite nel silenzio, di una madre che aspetta un figlio che ancora non ritorna.

L’esilio della Parola

Un doppio esilio, quello del divino nell’umano e quello, destino di ogni prece, dell’umano nel divino. Un solo roveto ardente che brucia senza consumare, dolente pianta e promessa di futuro. Il dolore del distacco non passa e ferita non rimargina, come fu dal primo giorno; ma bacche rosse tra le spine come fiamme vive, ridestano l’attesa di Qualcuno, negli animi a lui aspiranti e da lui ispirati, da lui attratti e a lui viandanti, come parole non nate in attesa del soffio, dell’ispirazione.

Al discepolo che chiedeva perché Dio fosse apparso in un roveto, il Rabbi Joshua rispose che ciò era per insegnare che non vi è alcun luogo sulla terra in cui Dio non sia presente: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto”» (da Esodo Rabhah, 2,5).

Come è possibile questo?

Ci soccorre un aforisma; una forma breve e incisiva che sintetizza l’esperienza spirituale di Ignazio di Loyola e dei suoi compagni circa la presenza del divino nell’umano, dell’infinito nel finito, della tenerezza nella forza: “Non esser limitato da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino” (Non coerceri a maximo contineri tamen a minimo divinum est).

Responsabilità delle parole per investigare il mondo e il suo mistero

È stato questo il dono e il compito testimoniato proprio da Giuseppe Pontiggia che, per amore del linguaggio chiaro, aveva il gusto degli aforismi attraverso cui condensare con precisione un intero universo in forme concise:

«La radice della parola aforisma è la stessa di orizzonte. Il verbo greco horίzo significa delimitare. Orizzonte è all’origine il cerchio che si apre allo sguardo» (Opere, a cura di Daniela Marcheschi, I Meridiani, Mondadori Editore, Milano 2004, CVI).

E continua anche ora ad essere guida affabile e affidabile in quella mappa variegata e cangiante, ritmica e prospettica della sua opera testuale, nel nostro viaggio in compagnia delle parole e della letteratura.

«Uno scrittore che si avventura nella narrazione non tende a portare alla luce sé stesso (attività che risulta singolarmente gratificante per troppe persone), ma cerca in una terra incognita il punto di incontro con sé stesso e con gli altri. Questo viaggio comporta la traversata del linguaggio e il suo ritrovamento» (Opere, 1495).

Dalle radici all’apice dei rami fruttiferi

La letteratura è un itinerario vitale di ricerca e verifica, architettura di un cosmo che si costruisce come i cerchi di un albero e dei suoi rami attraverso la linfa, in tensione tra fuori e dentro sotto e sopra, verità e bellezza e soglia permanente tra ogni albero e l’intera foresta delle parole.

Egli non ha fatto della letteratura un’archeologia. Essa «ha un senso solo se si confronta con le cose essenziali che ci riguardano». Non è la ripetizione del già detto, ma la scoperta del non ancora, di ciò che verrà.

Così scriveva sul senso della letteratura ne L’isola Volante: «Nella sua accezione debole il senso della letteratura è modesto. Si può capire l’Arcadia e riconoscerne la funzione, anche civile e morale, nella società del Seicento: ma far parte di un gregge di pastori poetanti non merita probabilmente tutte le energie e le pene che la letteratura esige.

I suoi imbarazzanti rituali si ripetono anche oggi in forme diverse e giustificano sia le adesioni sia le assenze. Nella sua accezione forte si sviluppa in una duplice direzione, individuale e collettiva. Nel cielo di una vita può diventare una costellazione: interrogazione sull’ esistere, gioco rivelatore, scoperta inesauribile di quello che non si sapeva di sapere.

Il luogo comune che in letteratura tutto è stato detto – così rassicurante, così deludente – ci aiuta con la sua falsità ad avvicinare un punto essenziale: che la letteratura è sempre sorpresa e conferma. Non ricalca il noto (altrimenti non avremmo la sorpresa), ma al tempo stesso svela quell’ignoto che non ci è estraneo» (ivi, 1494-1495).

Confini che creano sconfinatezza

«Più in là, sì più in là, più in là, più in là…» (Gerard Manley Hopkins). C’è una ulteriorità che custodisce il linguaggio con cura amorosa. Questo sguardo penetrante fu reso possibile a Pontiggia per una scelta: quella di porre come centrale la correlazione tra etica e linguaggio, ovvero la costante ricerca della dimensione etica del linguaggio unita alla responsabilità verso le parole.

Si diventa responsabili se ne conosci la storia, come ascolto delle ragioni e degli affetti delle parole. Responsabile «solo se possiedi la “storia” di una parola, le sue risonanze remote, i suoi molteplici significati, poi sei in grado di capirla, di usarla da scrittore o da studioso, di farne vibrare tutte le armoniche» (Giuseppe Pontiggia, Investigare il mondo. Atti del Convegno Internazionale Di Studi nel decimo anniversario della scomparsa, Interlinea, Novara 2005, 41).

«Indagare la storia etimologica delle parole, riportarne alla luce il significato e il potere originario, significa in primo luogo risvegliare lo stupore del lettore di fronte ad esse. Lo stupore è elemento primo dell’intuizione creativa, il nucleo originario da cui trae origine l’opera.

Pontiggia si pone in linea col pensiero espresso da gran parte della tradizione classica – “lo stupore viene sempre posto, da Aristotele, a Cartesio a Einstein, alla radice del conoscere” – e che trova una teorizzazione efficace, nel Novecento, all’interno dell’opera di Jacques Maritain. L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia.

Lo stupore di fronte alla storia etimologica dei termini viene accresciuto dal senso di ignoto che ogni singola parola porta in sé. Una percezione costante che, attraverso l’analisi linguistica, permea e dà forma, a livello estetico e morale, all’intera architettura narrativa» (G. Vaccari, Etica e fiducia nel linguaggio, in Investigare il mondo, 159).

Etica e stile persuasivo

Sono queste le polarità a cui si ispira e si sviluppa la sua scrittura e il suo insegnamento nei corsi di scrittura creativa. Questi infatti «non erano tenuti per proporre, suggerire o imporre un modello unico, bensì per sensibilizzare e modificare i tanti pregiudizi e la disposizione mentale e operativa dei suoi interlocutori di fronte al problema dello scrivere e all’oralità stessa, sovente fraintesa quale forma di “spontaneità espressiva”.

I suoi erano quindi corsi per “contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio, che sia insieme etica e retorico-espressiva”. Etica, perché si considerava essenziale “l’acquisizione di un linguaggio responsabile”; e retorico-espressiva perché si mirava “alla persuasione in una duplice valenza: psicologica ed estetica”.

L’insegnamento di Pontiggia mirava così non a informare, non a dare regole precostituite, bensì a praticare e comunicare la forza dell’esperienza della parola in sé e della parola letteraria, vissuta con intensità» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, in Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie: tecniche della scrittura e utopie della lettura, Marietti 1820, Bologna 2018, 10-11).

Il coraggio di attingere in sé stessi

Per Pontiggia occorre ritrovare il significato più autentico della parola “retorica” come era in origine, oggi invece sinonimo di tecnica artificiosa e falsa. Dice quello stile di relazione, un modo di porsi nei confronti dell’altro, nell’oralità come nella scrittura, che non facilita solo l’espressione del pensiero ma addirittura serve a trovarlo, a coglierlo nell’atto stesso comunicativo, capace di suscitare nell’immediatezza del discorso nuove forme di ispirazioni nel dire e nello scrivere.

Non basta un retroterra di conoscenze, di studi, di letture: «è certo che, per scrivere anche in campo critico, bisogna avere ad un certo punto il coraggio di attingere in sé stessi con una risolutezza radicale per trovare veramente le ragioni del nostro rapporto con il testo. L’atteggiamento che suggerirei è quello di una concentrazione fiduciosa su sé stessi, nel senso di attingere a sé stessi per arrivare a dire quello che solamente chi scrive può dire» (Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere).

Secondo Giuseppe Pontiggia scrivere (come parlare) «è progetto e sorpresa; e questi due elementi sono, insieme con l’ispirazione, l’essenza stessa della creatività anche in campo letterario. È progetto, come insegna l’etimologia del termine, in quanto ciò che è gettato in avanti: un procedere, un avanzamento in una costruzione architettonica di cose, che si vogliono esprimere, e una attenzione premurosa per esse e le parole che le dicono, nell’ideazione e nel farsi delle frasi, nella definizione del nostro pensiero» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, 5).

Occorrerà poi essere consapevoli della differenza tra un discorso autoritario ed uno persuasivo, tra un linguaggio autorevole e l’arte della retorica, avendo presente l’etimologia latina a cui attingono sia il termine ‘autore’, sia ‘autorità’.

Augere = portare all’esistenza, far nascere qualcosa; da cui “accrescere”, “aumentare”, “ingrandire” qualcosa che esiste già, ma allo stesso verbo è possibile correlare un significato più forte: “generare dal proprio seno” perché l’autorità deriva da chi l’agisce, dal suo autore (Emile Benveniste).

«La poesia condensa in una metafora l’aurora della parola e la sua traiettoria»
(Pontiggia, Opere, 1369)

Scrive Pontiggia ne Il Giardino delle esperidi (Opere, 638): «“L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare”. Ma perché il silenzio e perché la poesia? C’è una frase di Thomas Mann che suggerisce una risposta: “Eterno è il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che si esprimano bene”».

Vedere un Mondo in un granello di sabbia,
E un Cielo in un fiore selvatico,
Tenere l’Infinito nel cavo della mano
E l’Eternità in un’ora
(William Blake)

Leggera scorre e agita.
La Sabbia.
Infine, nella batea rimane una pepita
(Guilherme de Almeida).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Cosa vuole davvero Trump? E l’Europa sa cosa vuole?

Cosa vuole davvero Trump? E l’Europa sa cosa vuole?

Le prime azioni di Donald Trump, ma anche il suo programma elettorale, prefigurano una rottura dell’America liberale che abbiamo conosciuto: meno libero mercato e più sovranismo, meno partecipazione alle organizzazioni internazionali e più colonialismo, meno spese per il controllo del mondo e più attenzione agli interessi degli americani. Così almeno sperano quei 77 milioni di americani, non certo tutti ricchi, che l’hanno votato e che hanno visto ridursi lavoro e salario sotto i governi dei Democratici. Trump critica la decisione dell’allora presidente Jimmy Carter di riconoscere nel 1977 il diritto di Panama a controllare l’omonimo canale, in quanto minaccia gli interessi “nazionali”; e già Reagan negli anni ottanta aveva proposto di uscire dall’Unesco.

Trump vuole decidere da solo e non avere i vincoli e contrappesi tipici della democrazia liberale. Nei prossimi due anni lo può fare e vedremo cosa succede. Per ora ha anche l’appoggio di tutto il mondo del business (finanza e grandi multinazionali) che spera di fare affari anche con lui e poter bloccare le azioni degli antitrust (sia USA che UE), evitando la concorrenza con piccoli nascenti competitors.

Zelenskij, capendo l’aria che tira, vuole entrare nelle sue grazie. Infatti adesso non chiede più soldi per gli armamenti,  ma afferma: “siamo felici di intensificare la cooperazione tra le industrie minerarie dei nostri due paesi”. Parlando come si mangia significa: siamo felici di svendere a condizioni privilegiate agli americani quel che ci resta dei giacimenti  delle terre rare ucraine. Agli europei, che pure hanno speso la metà di quanto hanno stanziato in armi gli Stati Uniti, si daranno le briciole e il 30% delle terre rare ucraine finirà nelle mani dei russi dopo l’avanzata dell’esercito negli ultimi 12 mesi.

I dazi che Trump vuole imporre sono un modo per tornare al mercantilismo, la prima teoria economica del 1600 quando, influenzati dalle conquiste coloniali (e dai vantaggi che ne derivarono col commercio), si sosteneva che la ricchezza di una nazione derivava dal mercanteggiare al fine di accumulare ogni materia prima (tra cui oro e schiavi) proveniente dalle colonie. Oggi sono materie prime le terre rare e le rotte marittime. Gli Stati Uniti non vogliono inoltre più svolgere il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto per decenni, che chiudeva il deficit di domanda interna delle aree in surplus (Cina e Germania su tutte).

Qualcosa Trump potrà fare tra minacce e dazi veri: del resto la nostra Iva al 22% cos’è se non un dazio all’import, visto che negli Stati Uniti l’iva federale non esiste e sono i singoli Stati che applicano una “sales tax” che varia dall’1% all’11%? Ma in realtà dietro al mercantilismo ci sono altre strategie, come fare più affari a spese dei vassalli occidentali e rafforzare la morente manifattura made in Usa ormai vicina al collasso (ha 5 milioni di dipendenti rispetto ai 4 dell’Italia e a 8 della Germania) che determina il più grande deficit commerciale al mondo (-1.210 miliardi nel 2024, +14% sul 2023; era quasi a zero 25 anni fa). Nei servizi l’avanzo è invece di 293 miliardi e nel complesso la bilancia dei pagamenti è in deficit per 917 miliardi.

Dopo l’incontro col primo ministro giapponese Ishiba, Trump ha trasformato quella che era una pericolosa vendita (per l’interesse nazionale USA) della US Steel (acciaio) ai giapponesi della Nippon Steel (per 15 miliardi di dollari), in un enorme investimento in Usa “a favore del lavoro americano e dell’industria manifatturiera USA”. Dopo questo accordo per i dazi contro il Giappone (che ha un avanzo commerciale con gli USA di 68 miliardi annui) “si vedrà” ha detto Trump. Così i dazi contro l’Europa servono per convincere gli imprenditori europei a investire negli Stati Uniti (Elkann ha già dichiarato che investirà 5 miliardi con Stellantis) per creare lavoro americano e rafforzare la loro manifattura. Anche a Gaza si vorrebbe usare la fine della guerra per giganteschi affari a vantaggio degli interessi nazionali Usa.

Operando in questa direzione, Trump smantella parte del capitalismo che abbiamo conosciuto con la globalizzazione, che mescolava liberi scambi con disuguaglianza, ma svilisce anche alcune mitigazioni alla logica del puro capitalismo predatorio, tipiche della cultura liberale come: antitrust, vera concorrenza, welfare, tutela dei diritti delle minoranze, indipendenza della magistratura, della stampa, libere elezioni. Tutti aspetti che si sono molto deteriorati sotto lo tsunami della globalizzazione e degli stessi governi dei Democratici a partire dal 1999. Si pensi solo all’uso della forza e della guerra (della politica e della finanza) per imporre certi interessi nazionali (Belgrado e Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Maidan in Ucraina nel 2014, UE come mero mercato) in quanto si credeva di essere diventati i padroni del mondo.

L’ascesa di Cina e Russia e dei BRICS, organizzatisi dal 2009 e favoriti proprio dalla globalizzazione americana, ha avviato quel declino USA che ora Trump vorrebbe fermare. Al di là infatti della narrazione delle élite europee e di Nato sui super poteri degli USA, dell’Intelligenza Artificiale, del dominio sul mondo del dollaro e della finanza anglosassone, gli Stati Uniti hanno serie debolezze legate alla disgregazione in atto della società americana, ai conflitti crescenti sull’immigrazione e al gigantesco deficit commerciale dovuto alla scomparsa della manifattura che ha fatto scoprire come le guerre (anche quelle future, se non sono nucleari) si perderanno tutte contro Cina e Russia per il fatto che i soldi non sostituiscono né gli eserciti (uomini in carne ed ossa da mandare al macello), né la fabbricazione di armi e munizioni (ci vuole la vile “terra” della manifattura e non solo il “cielo” di Starlink).

Daron Acemoglu (recente premio Nobel in economia) e Francis Fukuyama (politologo) hanno scritto su Foreign Policy che solo un liberalismo rifondato può contenere il populismo autoritario in America e in Europa. E forse c’è bisogno anche di qualcos’altro, visto che proprio Fukuyama che aveva preconizzato “la fine della storia” nel 1992, non ci ha preso per niente.

Tra Trump e Musk (e anche le altre big company) si profila uno scontro a breve: Trump ha preso i voti di 77 milioni di americani che vogliono salari e benessere in contrasto con la logica dei profitti delle big company e di Musk.

Se l’America sceglie il neo colonialismo (dazi e mire coloniali su Canada, Panama, Groenlandia, Messico, Gaza come riviera di lusso, le terre rare dell’Ucraina, l’Europa come eterno vassallo…), tenere fuori i migranti significa entrare in collisione non solo con le big company ma anche con Cina, Brics e resto del mondo. Ecco perché può fare la voce grossa soprattutto coi suoi vassalli: Giappone, Corea del sud, Canada e soprattutto Europa, ultimo alleato vassallo senza guida politica e quindi alla sua mercè (27 nani alla corte di Trump), con probabili effetti di prossima disgregazione.

Per rifondare il liberalismo (come dice Acemoglu) bisognerebbe ridimensionare i grandi tecno-feudatari delle big company del tech, ridare spazio all’antitrust e alla concorrenza delle piccole e medie imprese, alle norme a favore degli umani sull’Intelligenza Artificiale, rilanciare welfare e salari fermi da 40 anni, occuparsi dei diritti sociali e delle disuguaglianze, organizzare un’immigrazione legale dignitosa, rilanciare il multilateralismo equo, temi che sono stati abbandonati da decenni e che certo non saranno ripresi da Trump. Vedremo come andrà a finire, ma è probabile che si affermi un fenomeno non nuovo in America, cioè quello del ritorno ad un nazionalismo sovranista che si andrà scontrando con i nuovi attori emergenti nel mondo (Cina, Russia e Brics).

L’Europa purtroppo è del tutto assente. Potrebbe svolgere un ruolo enorme nel mondo basando lo sviluppo umano su pace, diritti e welfare per non soccombere ai dazi americani, favorendo molto di più la domanda interna, cioè i consumi dei propri cittadini, riducendo la dipendenza da merci, gas e petrolio che provengono dagli Stati Uniti, favorendo “made in Europa” come si è fatto con Airbus ma aiutando anche le piccole e medie imprese (e non solo i “campioni”) e su beni che rispondono a necessità di benessere reale e non inseguendo il riarmo voluto dall’alleato USA. Spazi fiscali non ci sono per fare entrambe le cose e la difesa si può fare riorganizzandosi e spendendo meno degli attuali 340 miliardi dei 27 nani (3 volte la Russia).
Potrebbe svolgere poi un ruolo autonomo nel mondo, rifondando tutte le istituzioni internazionali (a partire dall’ONU) sotto il segno dell’equità, del giusto equilibrio e non come ora sotto l’egida dell’America e dei potenti di turno usciti dalla 2^ guerra mondiale. La grande maggioranza dei paesi del mondo sarebbero d’accordo e l’Europa ne avrebbe un enorme vantaggio morale, economico e commerciale. Si tratterebbe di ripartire non da zero ma da tre, anzi dai sei fondatori.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Yoav Gallant: “Il 7 ottobre fu applicata la Direttiva Hannibal”

Yoav Gallant: “Il 7 ottobre fu applicata la Direttiva Hannibal”

A confermare le testimonianze finora sempre contestate dall’establishment israeliano ci ha pensato, nel corso di un’intervista televisiva, l’allora ministro della Difesa israeliano, poi cacciato dal premier Benjamin Netanyahu.

Nella sua prima intervista da quando si è dimesso dal governo israeliano, rilasciata al Canale 12 giovedì scorso, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant ha ammesso che il 7 ottobre all’esercito di Tel Aviv venne impartito l’ordine di eseguire la cosiddetta Direttiva Hannibal (“… il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze“)  contro i suoi stessi cittadini, causando numerosi morti anche tra i prigionieri oltre che tra i miliziani delle diverse organizzazioni palestinesi protagoniste del sanguinoso blitz. Ha parlato anche delle colpe di Benjamin Netanyahu e di aver saputo dell’attentato di Hamas mentre era in bicicletta. L’ordine, ha detto Gallant, venne applicato «tatticamente» ed «in certi luoghi» nei pressi di Gaza, mentre in altre circostanze non venne utilizzato.

Spiegando ai telespettatori in cosa consiste la direttiva o procedura Annibale, il giornalista Amit Segal ha spiegato che essa permette di aprire il fuoco contro degli obiettivi senza preoccuparsi dell’incolumità degli ostaggi israeliani. Eccone un estratto: “”il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze

Yoav Gallant – su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale al pari di Netanyahu – ha anche dichiarato che l’accordo con Hamas per lo scambio dei prigionieri era di fatto stato raggiunto già nell’aprile 2024, ma venne fatto saltare da Netanyahu a causa delle minacce da parte di Bezalel Smotrich (capo dell’estremista Partito Nazionale Religioso) di abbandonare l’esecutivo.

Purtroppo questi fatti vennero volutamente ignorate dal mainstream, snobbando anche le numerose inchieste pubblicate da autorevoli testate indipendenti convalidate da documenti e testimonianze di civili israeliani scampati al 7 ottobre 2023.

Già nel gennaio 2024 il quotidiano israeliano Yediot Ahronot aveva riferito che il 7 ottobre i comandi dell’esercito israeliano avevano impartito alle truppe l’ordine di eseguire la direttiva in maniera generalizzata, a costo di «mettere in pericolo la vita dei civili nella regione, compresi gli stessi prigionieri», avevano scritto i giornalisti Ronen Bergman e Yoav Zitun.

Persino il quotidiano israeliano Haaretz aveva subito avanzato seri dubbi sulla versione ufficiale del governo israeliano e, nel luglio 2024, aveva riferito che il 7 ottobre alle truppe israeliane era stato impartito l’ordine di non permettere a nessun veicolo di tornare a Gaza. Sempre a luglio 2024, anche i britannici Guardian e l’ultraconservatore Telegraph si occuparono della famigerata direttiva “Hannibal”.

Ora però l’ammissione di Gallant getta nuova luce su quanto avvenne nelle ore successive all’inizio dell’attacco palestinese contro Israele, confermando che una parte significativa delle vittime israeliane e dei lavoratori stranieri uccisi quel giorno sono da addebitare alla reazione indiscriminata e deliberata dell’esercito di Tel Aviv sulla base di una precisa direttiva degli alti comandi delle forze armate.

Secondo un bilancio ufficiale pubblicato il mese scorso, solo il 7 ottobre l’esercito israeliano ha utilizzato contro i combattenti che avevano sconfinato 11.000 proiettili, 500 bombe da una tonnellata e 180 missili.

Ovviamente tutti gli opinion maker sionisti, complici più noti dei criminali sionisti, tacciono di fronte a queste notizie insieme a tutto il sistema mediatico complice del genocidio del popolo palestinese.

Di seguito linkiamo tutte le inchieste indipendenti, immediatamente successive al 7 ottobre 2023, pubblicate da Contropiano.org, InfoPal e La Luce che narrano un’altra vicenda rispetto a quella sposata dal mainstream proprio sugli accadimenti del 7 ottobre 2023:

Nuove informazioni sulle menzogne israeliane sul 7 ottobre

I civili israeliani uccisi il 7 ottobre. Le responsabilità non sono solo palestinesi

Emerge un’altra verità sui civili israeliani uccisi nel raid palestinese del 7 ottobre

Israele conferma (involontariamente) che metà delle vittime israeliane del 7 Ottobre sono militari

Nuove Rivelazioni dai militari israeliani: abbiamo sparato sui kibbutz coi carri armati

Smentite, testimonianze false e nessuna prova: l’inchiesta del Times sugli stupri di Hamas smontata punto per punto

Smascherato il propagandista israeliano che sta dietro alla bufala degli “stupri del 7 ottobre”: è un truffatore

Conferma choc ONU: israeliani uccisi dai soldati israeliani il 7 Ottobre con Direttiva Hannibal

I doppi standard occidentali: la narrazione sul 7 Ottobre e il racconto del terrorismo israeliano in Libano a confronto

“Il mio nome è nessuno”: a proposito delle migliaia di ostaggi palestinesi prima del 7 ottobre

7 Ottobre 2023: il giorno che ha cambiato il discorso sul conflitto Palestinese-Israeliano

Come Israele ha ucciso centinaia di suoi cittadini il 7 ottobre

“Direttiva Annibale”. I media occidentali continuano a censurare lo scoop di Haaretz sul 7 ottobre

Il libro: “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione”

Capo dell’Intelligence militare israeliana rassegna le dimissioni a seguito del fallimento del 7 ottobre

“Arriveremo da voi con un’alluvione travolgente”: la storia non raccontata degli attacchi del 7 ottobre

Ex-ostaggio israeliano: mia madre è stata uccisa dalle IOF il 7 ottobre

Carri armati israeliani sono responsabili del bombardamento dei coloni israeliani a Be’eri il 7 ottobre

L’oppressione in Palestina non è iniziata il 7 ottobre, ma 106 anni fa, afferma ambasciatore palestinese nel Regno Unito

Spie di Hamas aiutate da “informatori interni” per l’attacco del 7 ottobre

Bambini nei forni? Inchiesta di Haaretz smentisce le fake news sul 7 ottobre

Israele non ha ancora detto una sola verità, non soltanto dal 7 ottobre, ma dalla Nakba del 1948

Inchiesta di The Gray Zone sul 7 ottobre: la maggior parte dei civili uccisi dall’esercito israeliano

Giornalismo mainstream tra fonti mai verificate e fake: la “decapitazione” di neonati da parte di Hamas non è mai avvenuta

Come un colonnello israeliano ha inventato la menzogna dei bambini bruciati da Hamas per giustificare il genocidio

“Hamas decapita i neonati”, la menzogna di guerra che piace al mainstream

AP confuta le accuse di violenza sessuale perpetrata da Hamas

La giornalista della CNN si scusa per aver detto che “Hamas ha decapitato i bambini”, ma i media italiani continuano con i fake

Su Israele e lo stupro

In copertina: Yoav Gallant, foto FMT.com, licenza Creative Commons

“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

Mandare a quel paese”, “Stare con le mani in mano”, “Pietro torna indietro” … sono alcuni modi di dire comuni e molto usati.

È capitato a ciascuno di noi di utilizzarli. Ad esempio, “Vai a quel paese”, spesso lo usiamo in modo silente, mentre ascoltiamo discorsi che non ci piacciono o vediamo comportamenti scorretti. “Vai a quel paese” non è solo un modo di dire, è anche un modo di pensare che rappresenta e riassume bene quello che la nostra presenza in contesti conflittuali ci porta a desiderare e precede spesso comportamenti di allontanamento.

Ma cos’è un modo di dire e perché si usa così di frequente? Con modo di dire o, più tecnicamente, locuzione o espressione idiomatica si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso (non modificabile) a un significato non composizionale, cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti.

Espressioni come “essere al verde”, “essere in gamba”, “prendere un abbaglio”, “tirare le cuoia” non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti. I modi di dire, o espressioni idiomatiche, sono un insieme di parole il cui significato non è interpretabile letteralmente, ma deve essere invece considerato in senso figurato. Quando, per esempio, diciamo a qualcuno di “togliersi dai piedi”, non stiamo chiedendo a una persona di spostarsi dai nostri piedi, ma piuttosto di andarsene e lasciarci in pace.

I modi di dire italiani sono tantissimi. Alcuni hanno radici bibliche, altri vengono dalla letteratura, gran parte di essi hanno invece un’origine popolare che racconta un pezzetto della nostra storia. È questo il principale motivo per cui ci piacciono così tanto. All’interno di una conversazione le espressioni idiomatiche aggiungono valore a quello che si sta dicendo, visto che ogni modo di dire aggiunge una particolare sfumatura alla conversazione. Ricordiamone alcuni:

Stare con le mani in mano” – L’espressione si usa nei confronti di una persona che non sta lavorando mentre tutti quelli attorno a lui si danno da fare.

Non ci piove” – Questo modo di dire di origine popolare, come la maggior parte delle espressioni che coinvolgono fenomeni atmosferici, descrive l’idea di sicurezza e ineluttabilità di ciò che viene espresso. Se “non ci piove”, vuol dire che ci si trova in un posto protetto e irraggiungibile da qualsiasi dubbio.

Mandare a quel paese” – Gli insulti hanno spesso delle origini misteriose che li rendono curiosi. In italiano, per esempio, quando qualcuno ci ha fatto esasperare, o ci ha fatto un torto, lo mandiamo a quel paese. Ma quale paese? Nessuno lo sa, ma c’è andata sicuramente molta gente.

Piove sul bagnato” – Questo modo di dire esprime tutta l’indignazione che si prova quando succede qualcosa di veramente ingiusto a chi non se lo merita. Se, ad esempio, un riccone vince la lotteria oppure una donna che è appena stata lasciata dal fidanzato perde anche la borsa … ecco, in quei casi “piove proprio sul bagnato”.

Acqua in bocca” – La leggenda narra che una donna molto devota, ma allo stesso tempo particolarmente pettegola, avesse chiesto aiuto al suo confessore. “Che cosa devo fare” chiedeva “per non sparlare più della gente e smetterla di commettere questo peccato?” Il sacerdote, molto saggio, le suggerì un liquido miracoloso che, a suo dire, avrebbe frenato il desiderio di sparlare e rivelare i segreti altrui. “Ne prenda alcune gocce e le tenga in bocca” le disse “vedrà che è miracoloso!”

Avere un diavolo per capello” – Questa espressione descrive una persona furiosa. Non si tratta semplicemente di essere così arrabbiati da temere di essere posseduti dal demonio, non si tratta nemmeno di avere pensieri maligni per le persone che ci disturbano. La situazione è decisamente più problematica. Qui, di satanassi che turbano la mente ce ne sono a migliaia e sono lì a saltellare sulla testa e a tirare i capelli furiosamente.

Un altro aspetto molto curioso delle espressioni idiomatiche è che lo stesso concetto può essere espresso in maniera molto diversa da lingua a lingua: in italiano, per esempio, diciamo “volere la botte piena e la moglie ubriaca”, quando intendiamo che qualcuno sta esagerando con le pretese o che vuole avere due cose allo stesso momento che non si possono avere assieme.

Gli inglesi dicono “have your cake and eat it too” (avere la torta e mangiarsela), i tedeschi dicono “du kannst nicht auf zwei Hochzeiten gleichzeitig tanzen” (non si può ballare contemporaneamente a due matrimoni”), gli spagnoli “no se puede estar en misa y repicando” (non si può assistere alla messa e suonare le campane), mentre i francesi dicono “vouloir le beurre et l’argent du beurre” (volere il burro e i soldi del burro).

La particolare coesione interna delle espressioni idiomatiche consente flessibilità lessicale e sintattica che avviene principalmente con l’inserimento o la sostituzione di un termine oppure con variazioni sintattiche. A volte è possibile, ad esempio, l’inserimento all’interno della frase di avverbi o aggettivi.

È possibile dire “Francesca si è tolta un grande peso dallo stomaco”, mentre nell’espressione “Tirare la pesante carretta” l’aggettivo pesante priverebbe la frase della sua idiomaticità (Cacciari 1989). Allo stesso modo l’espressione “fare quattro passi” consente la variazione “fare due passi”, ma la sostituzione di qualsiasi altro numero al posto di due o quattro farebbe perdere il significato idiomatico alla frase. L’espressione “mettere le carte in tavola” consente la forma passiva (le carte sono state messe in tavola), mentre altre espressioni completamente fisse non lo consentono.

Esistono dunque espressioni idiomatiche assolutamente congelate, che non accettano alcun tipo di modificazione.  Il grado di immodificabilità e di cristallizzazione di un’espressione idiomatica sarebbe, inoltre, da mettere in relazione con il tempo di conservazione di tale espressione nella lingua. Quando una nuova espressione ne entra a far parte essa possiede, secondo Cutler (1982), una certa flessibilità sintattica, che tende a scomparire con il tempo, rendendo l’espressione idiomatica sempre più cristallizzata. [vedi anche:Qui ]

Davvero curiosa la storia delle espressioni idiomatiche che rappresentano bene un pezzo della nostra storia. Sono un libro aperto dal quale si può imparare a conoscere il nostro passato e che ci danno indicazioni sostanziali su come vivevano e su cosa pensavano i nostri predecessori, le persone che hanno vissuto prima di noi, i nostri nonni e i nonni dei nonni.

Mi sembra importante, aldilà dello studio tecnico e sistematico della lingua che lasciamo ai linguisti e ai glottologi, la consapevolezza che i modi di dire non sono affatto banalità ma che di fatto sono elementi essenziali del nostro modo di comunicare.

È proprio attraverso l’uso del linguaggio e la sua condivisione che gli esseri umani costruiscono una idea di mondo e la trasmettono alle generazioni future. È attraverso la condivisione del linguaggio che ci riconosciamo come comunità d’intenti e disconosciamo chi non la condivide. È attraverso il linguaggio che avvengono alcuni dei più importanti processi di socializzazione, è attraverso il suo uso che le attività scolastiche fondano la loro propedeuticità e il loro forte valore pedagogico.

Credo che tutto questo faccia molto riflettere anche sull’uso che ognuno di noi fa ogni giorno del linguaggio, ogni parola che usiamo ha un suo valore, un significato che è dato in parte dal suo potere cristallizzato e in parte dal contesto in cui viene usata. Ogni parola che usiamo nei confronti delle nuove generazioni contribuirà alla costruzione della loro idea di mondo. Trasmettere contenuti distruttivi attraverso il linguaggio è una responsabilità enorme, perché instillerà in chi sta imparando una cornice sociolinguistica che poi sarà quasi impossibile da sradicare.

La lingua tenta di descrivere la realtà e si trasforma rapidamente come il contesto temporale in cui viviamo. La parola racconta qualcosa di noi, descrive oltre al mondo di provenienza e appartenenza, anche la personalità e l’identità di chi la usa. Per questo una maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo consente di comprendere meglio l’altro e di instaurare relazioni e “conversazioni” consapevoli.

Il linguaggio non è neutrale, non può essere libero da una visione concettuale. Ciascuna concezione ideologica contiene una visione della realtà fisica e sociale preferita. Ogni concezione della realtà prescrive una visione di cosa le persone vedono e del modo in cui lo definiscono e lo valutano. Sapir e Whorf (1937) sostengono che noi sentiamo, vediamo e maturiamo esperienze nei modi che sono prevedibili a partire dalle abitudini linguistiche della comunità a cui apparteniamo, le quali ci predispongono a certe scelte interpretative. Il modo in cui le persone denominano una situazione influenzerà il loro comportamento in quella stessa situazione.

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MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE
La Mostra al Museo Internazionale della Maschera di Abano Terme al 15 febbraio al 6 aprile 2025

MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE
Mostra al Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”
Abano Terme – dal 15 febbraio al 6 aprile 2025

Sabato 15 febbraio, 2025 alle ore 11:30 al Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”  si inaugura con il patrocinio del Comune di Abano Terme, Provincia di Padova la mostra “MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE” a cura di Paola Pizzi, Sarah Sartori e Walter Valeri, in collaborazione con Balamòs Teatro APS, diretta dal regista e pedagogo teatrale  Michalis Traitsis responsabile del progetto teatrale Passi Sospesi con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu, attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale SAT di Giudecca, attualmente chiusa) col contributo della Regione Veneto e Comune di Venezia.

La mostra è  composta da maschere realizzate dai detenuti del carcere maschile di Padova alla fine degli anni ’80, e documenti realizzati nel corso degli anni successivi: servizi fotografici, video, locandine del progetto teatrale Passi Sospesi. Tutti i percorsi laboratoriali, gli spettacoli, le iniziative collaterali esposti, sono stati documentati con il materiale fotografico di Andrea Casari e  video di Marco Valentini, presentati in numerose rassegne, mostre, iniziative, convegni, in Italia e all’estero.

A partire dagli anni Ottanta il teatro in carcere – già presente in alcuni istituti con attività amatoriali o tradizionali – ha assunto significati importanti, metodologie sperimentali e obiettivi che si sono consolidati nel tempo, esprimendo delle vere e proprie eccellenze in Veneto. “Ricordo come fosse ieri il volto del direttore, il personale di custodia in apprensione,  gli operatori penitenziari entusiasti, l’impegno straordinario dei detenuti nel costruire le loro prime maschere originali. La gioia nel vedere che ce l’avevano fatta!”, afferma Paola Piizzi, direttrice del Museo.

Col passare degli anni il Teatro in carcere ha posto sempre di più l’accento sull’esperienza, sulla pratica teatrale, sull’attività diretta e laboratoriale dei detenuti, sulla funzione terapeutica e pedagogica del palcoscenico, piuttosto che sul mero spettacolo di intrattenimento. Oggi quest’esperienza espositiva, aperta al pubblico, ai giovani e alle scuole, si configura come una pratica formativa importante e consolidata, che aiuta la riscoperta delle capacità e sensibilità personali dei carcerati, con modalità umane, operative ed espressioni educative specifiche, all’interno degli Istituti di pena; dove la ragione intima di ogni intervento artistico rimane il detenuto e il suo benessere. Il Centro Maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme, fondato e diretto da Donato Sartori, è stato il primo in Italia e in Europa a realizzare un laboratorio teorico-pratico di maschere create dai detenuti, alla fine degli anni ‘80. Quel seminario, protratto nell’arco di due anni, si è poi concluso con uno spettacolo memorabile dal titolo Non basta dire, testi e musiche di Alberto Todeschini. Rappresentato all’interno del carcere di Padova il 27 gennaio 1990 e, successivamente, con gli stessi detenuti-attori il 31 marzo all’esterno del carcere, nell’ambito della rassegna teatrale organizzata dal Comune di Padova e da Arteven.          

            Certo da allora molte cose sono cambiate, non sempre in meglio bisogna dire,  ma i filmati, i gesti, le maschere, lo spettacolo a cui hanno dato vita i detenuti in quell’esperienza pilota di Padova e, negli anni successivi a Venezia, sono i protagonisti indiscussi e sorprendenti di questa bella mostra che è costata mesi di lavoro. “Rappresentano la creatività nata dietro le sbarre, per dar voce e dignità ai detenuti, a sé stessi, al proprio dolore, alle proprie future speranze. E’ l’inizio di una volontà di cambiamento che va festeggiata.” Dice il poeta e drammaturgo Walter Valeri. Unica e rara nel suo genere la mostra “Maschere e volti dietro le sbarre”, realizzata con coraggio dal Museo Internazionale della Maschera e Balamòs Teatro,  è l’incipit, la memoria delle origini del teatro in carcere, congiuntamente ad un’aggiornata testimonianza di collaborazione con gli Istituti Penitenziari di Venezia al servizio della cultura e della società civile.

La mostra è gratuita e resterà aperta sino a domenica 6 aprile 2025. Nel corso della mostra è previsto un fitto calendario di incontri, testimonianze, dibattiti e filmati.

Maschere e Volti

di Domenico Giuseppe Lipani

Scriveva Montesquieu nei sui appunti di un viaggio da Graz a L’Aia che a Venezia la maschera “non è un travestimento, se mai un incognito”: non un modo per contraffarsi in un altro, ma per non sembrare nessuno. E così essere liberi dall’individuo che si è (o quale dagli altri è riconosciuto), per divenire soggetto libero di agire, non nascosto bensì protetto dalla maschera. Insomma, la maschera ha a che fare con l’identità in una maniera più profonda della semplice negazione, perché ne è in una certa misura complemento, spazio possibile di una sua affermazione, complice del soggetto agente.

Questa mostra mette insieme maschere e volti, mediati e riuniti dal lavoro teatrale in carcere, ossia dal tempo dell’azione libera in uno spazio di privazione.

In queste maschere e in questi volti cosa vediamo? Cosa siamo capaci di riconoscere? Quale risposta sappiamo dare al loro sguardo interrogante?

Il volto dell’altro, secondo Levinas, ci interpella, ci mette in questione, ci chiama a rispondere: in questo senso ci rende responsabili. La richiesta di relazione, che il volto altrui ci impone nella sua incommensurabilità e nella sua totale trascendenza, mette in discussione il Me, le sue certezze e le sue pretese di autosufficienza: l’incontro con il volto dell’altro ci obbliga a uscire da noi stessi.

In questo senso il lavoro teatrale in carcere è la costruzione di uno spazio proprio in cui si riacquista un volto, volto come visum cioè sguardo e immagine – così come vediamo in queste fotografie – ma anche volto come splendore e come – etimologicamente – desiderio. Il volto dell’allievo ricostruito ad arte, cioè con la consapevolezza del suo intento espressivo, lo restituisce alla sua natura di soggetto di desiderio, togliendolo dall’unica dimensione reificante di oggetto di trattamento. L’aspetto che mi pare utile sottolineare sta nella dimensione “artificiale”, cioè a dire artistica, di questo processo. Si restituisce un volto alla persona grazie alla maschera teatrale, sia essa oggetto materiale o metafora del personaggio che agisce, sottraendolo alla maschera sociale che invece nega e occulta. Attraverso la maschera teatrale rivelo l’altro in me e vedo l’altro davanti a me.

Diversamente dalla dimensione ludico-rituale del teatro, le maschere fuori di esso sono oggetti che nascondono e annullano. Il carcere stesso è una maschera del controllo sociale. Dietro di esso scompaiono le vite, i dolori, le fatiche, le aspirazioni. Il potere che vi si esercita mira alla frammentazione di ogni identità o alla sua riduzione a poche, controllabili dimensioni. Il lavoro teatrale negli spazi di reclusione mira a ricomporre questa frammentarietà verso una molteplicità di tanti sé possibili. Osare immaginarsi altro, per arricchire ed espandere – il teatro sì! deve essere uno spasso! – le possibilità della persona.

Il teatro in carcere è ormai una realtà riconosciuta e diffusa, sia sul versante artistico che su quello istituzionale. In Italia nel 2021 su circa 230 istituti di pena ci sono state esperienze teatrali in almeno 127 di essi. Alcune di queste esperienze sono ormai radicate da molti anni, lavorano con continuità e vivono una situazione di riconoscimento formale da parte dell’istituzione carceraria, altre sono ancora estemporanee e vengono attivate di volta in volta sul singolo progetto.

Si tratta di attività che si situano in una posizione ibrida tra lavoro artistico e processo rieducativo, o come viene detto in termini burocratici dalla legislazione italiana ‘trattamentale’. La possibilità stessa di entrare nelle carceri con progetti teatrali si deve storicamente alla legge Gozzini del 1986, che aveva lo scopo di valorizzare l’aspetto rieducativo della pena rispetto a quello meramente esecutivo, in accordo con l’art. 27 della Costituzione italiana. Ciò permise al teatro, che era già presente, salvo poche eccezioni, per lo più con esperienze di carattere amatoriale, di entrare negli istituti di pena grazie al lavoro di registi e compagnie professionistiche. Nel giro di pochi anni si disegna una mappa articolata di esperienze, che di fatto dà vita ad un nuovo teatro, con caratteristiche diverse da un artista all’altro ma con taluni orientamenti e sviluppi condivisi.

Se da un lato l’amministrazione carceraria sottolinea l’aspetto trattamentale ed educativo delle esperienze, dall’altro gli operatori teatrali tendono per ovvie ragioni a mettere in risalto il lato propriamente artistico. Talvolta si tende a depotenziare il lavoro teatrale riducendo l’artista alla sola dimensione di operatore sociale/culturale, non riconoscendo le linee di ricerca sui linguaggi artistici, il loro collocarsi dentro un più generale sviluppo del teatro contemporaneo, la qualità estetica del lavoro.

Sembra di essere davanti ad una contraddizione insanabile, tra chi legge il senso di queste operazioni in chiave prettamente sociale/educativa e mette in evidenza soprattutto il fine etico e terapeutico delle prassi e chi lo legge in chiave prioritariamente artistica rilevando come l’utilità sociale sia direttamente proporzionale – e conseguente – alla qualità artistica e all’efficacia estetica. Questa contraddizione, forse solo apparente, attraversa più o meno tutti gli ambiti di quello che in Italia va sotto il nome di teatro sociale, e nei paesi anglofoni è più diffusamente chiamato applied theatre.

Certo le differenze ci sono e non sono riassumibili in una mera questione di generi artistici. Il teatro di interazione sociale non è un genere teatrale, dentro un sistema estetico di generi. Come affermava tempo fa Richard Schechner: “We do not deny either the social aspects of aesthetic theatre or the aesthetic aspects of social theatre but rather point out differences of purpose, audiences, venues, and production values”[1].

Ritengo personalmente che questa contraddizione sia solo superficiale e che solo la qualità di un lavoro artistico assoluto e puntiglioso, “monacale”, può garantire adeguate ricadute su tutto il sistema carcere. Non si tratta di semplice trattamento, dunque, di un’attività educativa tra le altre, o peggio di in-trattenimento, si tratta piuttosto di uno sguardo trasformativo attraverso il teatro, che si situa in uno spazio terzo, sospeso, non connivente con l’istituzione né banalmente complice con le aspettative dei detenuti. Un teatro che è essenzialmente politico perché, come spiega Hannah Arendt, crea un’occasione e uno spazio di libertà, di “utopia della polis”[2], dentro il carcere che dell’utopia è l’antinomia. E dunque un teatro che si situa lungo linee di sviluppo che hanno caratterizzato la ricerca artistica già dalle rivoluzioni novecentesche, e dalla loro conseguente dilatazione dell’agire teatrale, di quei teatri fuori dal Teatro, come li definì Fabrizio Cruciani. E che rispetto a quelle tendenze non si è acquietato nel sistema economico/istituzionale del teatro stesso, nelle sue propaggini burocratizzate dei teatri nazionali o in quelle a volte troppo autoreferenziali del teatro di ricerca. Ma ha cercato, cerca ancora, nella dimensione costretta del carcere di mantenersi fedele all’idea, che fu già di certe illuminanti esperienze di metà Novecento, di un teatro d’arte per tutti[3].

Il progetto in carcere “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro, di cui in questa mostra si possono vedere materiali e fotografie, non prevede solamente l’attivazione di percorsi teatrali, con laboratori e produzione di spettacoli ma un’offerta culturale ampia, che include incontri con importanti maestri del teatro, del cinema e della cultura contemporanea. Un percorso formativo a tutto tondo, per fare del carcere un luogo veramente riabilitativo. Inoltre, lavorando contemporaneamente anche all’Università, nelle scuole e nei percorsi di salute, Balamòs Teatro e il suo direttore artistico, Michalis Traitsis, hanno contaminato più volte i diversi percorsi creando occasioni di incontro tra i diversi gruppi, facendo venire in carcere bambini delle scuole primarie e studenti universitari e, quando possibile, inserendo gli allievi-detenuti nei progetti fuori dal carcere. Gli incontri vengono costruiti nel tempo con la pratica continua del laboratorio, costruendo una lingua comune, grazie ad una coerente disciplina teatrale. Si sono create così le condizioni di potersi riconoscere nel lavoro e attraverso di esso.

Un laboratorio teatrale in un carcere trascende il semplice dato del lavoro attraverso le tecniche del teatro e incide profondamente sulla costruzione delle persone attraverso il frame di interazione sociale in cui si trova immerso e da cui ricava il senso stesso della sua identità. Se la costruzione del sé passa attraverso un processo di negoziazione con l’altro e dal riconoscimento reciproco, inutile sottolineare come dentro l’istituzione totale questa negoziazione è costretta dentro i vincoli di etichette rigide, che segnano norma e devianza e per la quale il detenuto è fissato nell’unico ruolo di criminale, e l’unica relazione possibile con lui è data dal controllo e dalla privazione. Un detenuto è in prima istanza qualcuno che non dispone di uno spazio e di un tempo propri, e dunque non dispone di un proprio vissuto. La sua vita è regolata burocraticamente. In questa unica dimensione consentita la sua identità viene destrutturata e vengono innanzitutto compresse le necessità relazionali del sé. Le stesse istanze rieducative, proprio in quanto ‘ri-educazione’ sono in realtà la definizione di una norma da ristabilire e di una devianza dalla norma. E in questo la stessa rieducazione non mette al centro l’individuo con la sua specificità ma la norma stessa. Il laboratorio teatrale, al contrario, comporta la centralità della persona e delle sue necessità relazionali e in esso la dimensione performativa si fa pratica del sé. Il laboratorio è prima di tutto un ethos, cioè prima ancora che un set di valori, un luogo reale e metaforico da abitare: da cui ci si può allontanare e a cui si può tornare. In una prospettiva goffmaniana non sono gli stati interni dell’individuo che determinano il senso della sua azione ma i frames metacomunicativi. Se la cornice del carcere definisce l’identità del carcerato, il laboratorio teatrale è in prima istanza la creazione di una cornice nuova, uno spazio dentro al carcere che non è carcere e nel quale pertanto i partecipanti sono altro e ricostruiscono attraverso la performance la pienezza di un nuovo sé. Come dice il Marco Polo calviniano a Kublai Khan a proposito dell’inferno dei viventi: «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Per far ciò il laboratorio teatrale funziona in prima istanza come strumento che accresce la consapevolezza delle proprie possibilità espressive e la percezione di sé come soggetto portatore di messaggio, soggetto responsabile, che può responsare. In secondo luogo, il laboratorio si fa strumento di rilettura della propria biografia, grazie ad una drammaturgia delle necessità degli individui, che permette ad un tempo di narrare sé stessi – di identità narrativa parlava Ricouer – e immaginarsi come altro da sé. Decolonizzare l’immaginario dalla sola dimensione della maschera istituzionale e mettersi nei panni altri, per accettare la molteplicità delle identità che ognuno di noi può accogliere.

Il lavoro teatrale si struttura come una sorta di itinerario da dentro a fuori, per giungere ad un’espressione formalizzata nello spettacolo, come momento privilegiato di incontro con l’altro.

Quando parliamo di spettacoli, tuttavia, dovrebbe essere chiaro che stiamo parlando dell’esito di un percorso, determinato dalla qualità del percorso stesso e dai materiali creativi ed emotivi che il gruppo ha messo insieme, costruendo una propria identità collettiva a partire dal laboratorio. Non si tratta mai di progetti pensati a monte, facendo calare dall’alto un testo o un’idea di spettacolo, ma di trovare una via comune che possa favorire maieuticamente l’espressione di sé. In questo processo si può incontrare materiale drammaturgico strutturato, come nel caso delle Troiane di Euripide, messo in scena nel 2012 e ripetuto poi altre volte fuori e dentro il carcere, o si possono montare insieme materiali disparati, in parte autoprodotti in parte suggeriti dal conduttore e ricavati da testi pre-esistenti come nel caso di Cantica delle donne, uno spettacolo del 2016, che ha avuto diverse repliche fuori dal carcere, in teatro e all’Università di Ferrara. Il processo che porta allo spettacolo è sempre fondato su una dimensione dialogica tra individuo, gruppo, regista. E assume un contorno preciso dato dall’apporto peculiare che ogni singolo può dare al lavoro, ridefinendo di volta in volta la propria identità nello spettacolo, grazie al riconoscimento del gruppo prima e della comunità degli spettatori dopo. Bisogna trovare il proprio respiro nei materiali espressivi e trovare con i compagni e con gli spettatori un respiro condiviso. Si tratta di opere a struttura aperta, i cui partecipanti possono variare – uno dei principali ostacoli in una casa circondariale è la difficile stabilità del gruppo: per motivi di esecuzione della pena, gente sempre diversa entra o esce dal carcere in un continuo turnover. Lo spettacolo, quindi, cambia insieme alle persone che vi prendono parte. I frammenti si ricompongono, dentro un canovaccio di massima.

In questa maniera era costruito, ad esempio, Cantica delle donne, in cui frammenti poetici, danze e canti di donne venivano consegnati allo spettatore sotto forma di lettera. Frammenti propri e altrui, che diventavano lo strumento di una comunicazione di sé pienamente autentica. Attraverso la mediazione dell’espressione poetica – fisica, coreutica e verbale –, da un lato si protegge l’intimità del dato biografico, dall’altro gli si dona un senso più grande, capace di traghettare le persone oltre il dolore che sono state, verso la bellezza che possono essere.

Diceva Kantor che il teatro è «il luogo che svela, come un guado segreto nel fiume, le tracce di un passaggio dall’altra riva alla nostra vita»[4]. Questo è stato il laboratorio per gli allievi del laboratorio in carcere di Balamòs Teatro, un guado dalla vita frammentata del detenuto alla pienezza di un sé da costruire giorno dopo giorno.

[1] J. Thompson, R. Schechner, Why «Social Theatre»?, in «TDR», XLVIII/3 2004, p. 11.

[2] Sulla politica come spazio di libertà, vedi H. Arendt, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995.

[3] Mi riferisco ovviamente al Manifesto del Piccolo di Grassi e Strehler.

[4]  «The place that reveals – as some fords in the river do – the traces of transition from “that other side” into our life» (T. Kantor, A journey through other spaces: essays and manifestos, 1944-1990, University of California Press, Berkeley 1993, p. 146).

In copertina: foto di Andrea Cesari, progetto Passi Sospesi di Balamos Teatro 

DAVIDE E IL MOSTRO
Un vero amico è sempre vero, anche se è immaginario

DAVIDE E IL MOSTRO
Un vero amico è sempre vero, anche se è immaginario.

Nell’ambito di R.ACCOLTO, programma culturale organizzato dalla Cooperativa Integrazione Lavoro al Fienile di Baura, sabato 22 febbraio alle 16.30 verrà proiettato il documentario DAVIDE E IL MOSTRO, regia di Francesco Squillace.

Nel 2024 ha ricevuto selezione ufficiale al festival “Visioni dal mondo” e all’ “International Festival Reflection of Disability in Art”, e da poco ha ricevuto selezione ufficiale per il festival “Los Angeles – Italia”, il festival di Los Angeles dedicato al cinema italiano che si terrà al Chinese Theatre di Hollywood, il prestigioso teatro dove si svolge la cerimonia di consegna degli Oscar.

Racconta la storia di Davide, oggi trentenne, a cui da bambino è stata diagnosticata la Sindrome di Asperger (autismo ad alto funzionamento).
Davide non riusciva a comunicare con gli altri bambini e ha vissuto molte difficoltà, finché non ha preso per la prima volta in mano una matita. Da quel momento la sua vita è cambiata: il disegno è diventato la sua forma di comunicazione con il mondo.
A quattordici anni ha creato il suo alter-ego con le sembianze di un mostro nero e peloso, Patatone, che non riesce ad avere amici perché tutti si soffermano sul suo aspetto senza prendersi il tempo di scoprire il suo carattere gentile.

“Davide e il mostro” è il racconto della parabola di crescita e di formazione di Davide, l’esperienza dei suoi genitori e la loro reazione alla diagnosi, l’amicizia vera (anche se immaginaria) tra Davide e il “suo” mostro; si avvale delle testimonianze dei familiari, degli insegnanti che lo hanno seguito nella pubblicazione di tre libri di illustrazioni, del suo editore, di una psicologa specializzata in autismo, del Presidente dell’Associazione con cui Davide collabora da anni.

Il mostro del titolo è Patatone, ma è anche come Davide a tratti ha visto se stesso, come spesso la società vede i diversi; ma soprattutto, è il tramite attraverso cui Davide riesce da anni a raccontare se stesso.

Il docufilm racconta una storia individuale ma aspira a rappresentare un concetto in cui tanti si possano riconoscere: credere nelle persone e non giudicarle, guardare oltre alle etichette imposte. Perché alla fine è solo questo che, nei rapporti, può fare la differenza.

Davide sul divano

Queste le parole con cui Davide si presenta:

Nasco a Milano l’11 giugno del 1993. A 2 anni ho visto “Biancaneve e i sette nani”, un cartone Disney del 1937 e ho preso un elenco telefonico per imitare la strega cattiva quando prepara la pozione per avvelenare la mela. A quattro anni sapevo già disegnare molto bene. Disegnavo Paperino e altri animali. Nel 2002 sono andato in un centro estivo organizzato dalla Comuna Baires, facevo teatro e ho preparato due spettacoli: “La scuola” e “Il tesoro e i vampiri”. Nel 2005 ho cominciato a disegnare il primo personaggio della mia fantasia, l’asinello Alberto con tutti gli altri suoi amici, che erano: Pixie il maialino, Bruto il gatto, Tina la gallina. Poi con il mio amico Ricardo ho disegnato e doppiato il primo cartone “Lillo lava i piatti”, lui faceva il papà e io facevo Lillo. Nei primi mesi del 2008 ho ideato il primo cortometraggio “Mini Hulk” e ho interpretato Davide Stilton che viene disturbato da un malvagio scienziato più vecchio di lui che lo trasforma in un mostro verde e viscido che semina il terrore per Milano. Sempre nel 2008 creo un nuovo personaggio, un mostro nero e peloso e lo chiamo Patatone, al quale mi piace prestare la mia voce.”

Informazioni

Guarda il trailer di Davide e il mostro:

La proiezione si svolgerà al Fienile di Baura (Via Raffanello 79, Baura – Ferrara) con la presenza del regista che, a seguire, si fermerà per una conversazione con il pubblico.

Ingresso libero con prenotazione compilando il modulo di partecipazione (anche da qui: https://forms.gle/FjS9yuQtoNqoAm7a9) o scrivendo a info.lstferrara@gmail.com

A chi è interessato si chiede la cortesia di essere puntuale perché il regista dovrà rientrare a Milano in serata.

INFORMAZIONI SPECIFICHE

Titolo: DAVIDE E IL MOSTRO

Anno di produzione: 2024

Paese: Italia

Durata: 60 minuti

Genere: Documentario biografico

Produzione: Tartarulla

Girato interamente a Milano, con il supporto di Lombardia Film Commission

 

CAST TECNICO

Regia, sceneggiatura e montaggio Francesco Squillace

Story editor Flavia Scaramozzino

Illustrazioni Ilaria Assenza

Grafiche Ilaria Delbono

Musiche originali Filippo Zattini

Missaggio Luca Manuel Castillo

Cover: Davide che disegna solo, fotogramma del film

Chi ha paura delle Donne per la Palestina?
Mozioni, unanimismo, ipocrisia… e 70.000 morti

Chi ha paura delle Donne per la Palestina?
Mozioni, unanimismo, ipocrisia… e 70.000 morti.

Guardiamo Gaza ridotta in macerie, le case sbriciolate, la fila biblica degli scacciati che ritornano a piedi in quell’inferno. Poverini i palestinesi! Ma sì, siamo tutti per la Palestina, chiediamo anche noi (perfino come Trump e Giorgia Meloni) “due popoli due stati”.  Alzi la mano chi è per la Palestina! Tanto non costa niente.

Poi finisce come con la mozione (bruttina e reticente) presentata in Parlamento da (quasi) tutta l’opposizione e bocciata sonoramente in aula. Lo sappiamo, in Europa (con Trump e prima di Trump) Il governo italiano è il più filosionista e guerrafondaio. Ma (anche) sulla questione palestinese la posizione del Centrosinistra appare timida e contraddittoria. La ricerca dell’unanimismo (ossessione storica del PD) genera topolini impotenti. E pazienza per il popolo palestinese!

E finisce ancora peggio a Ferrara, dove l’opposizione consiliare partorisce una (bruttissima) mozione ‘pro Palestina’, che firmano tutti: PD , 5 Stelle, Lista La Comune, Lista Anselmo . Cosa non dice la mozione? (la trovate qui sotto scritta in verde vergogna). Non dice dei 70.000 morti di Gaza, donne, bambini, vecchi, malati… . Non dice che quello che sta facendo Netanyahu è un “genocidio” e una “pulizia etnica” (parola vietate). Non dice della sanguinaria politica coloniale e sionista di Israele,  Non dice del mandato di arresto spiccato contro Benjamin Netanyahu della Corte Penale Internazionale dell’Aja. Non dice dell’ultimo folle piano di deportazione di Donald Trump, avversato dalla comunità internazionale nel silenzio assenso del governo Meloni. E cos’è questo non dire se non ipocrisia?

Questa brutta mozione però, con un colpo di coraggio residuo, si intitolava (e chiedeva) il “riconoscimento dello Stato di Palestina”. Naturalmente sarebbe stata bocciata dalla maggioranza di destra in Consiglio Comunale visto che, com’è noto, il governo italiano non ne vuole assolutamente sapere: il governo in carica, e prima il governo Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi, Letta…,
Ma (per Dio) almeno presentatela! È una mozione zoppa, ma abbiate almeno il coraggio di andare al voto!
Invece, martedì scorso (l’altro ieri) le forze di opposizione hanno ritirato la mozione!!!
Perché? Tralascio i pettegolezzi del retrobottega della politica e mi avvalgo della facoltà di non commentare. Lascio al lettore giudizio e commento.

Una cosa però va detta. La nostra opposizione (in Italia come a Ferrara), invece di inseguire un unanimismo perdente e cucinarsi in proprio (nel citato retrobottega) mozioni piene di omissioni e di equilibrismi politici, ha una fonte diretta e autentica a cui attingere, la voce delle donne palestinesi. La cosa migliore? Fatela scrivere a loro le vostre mozioni.  
(Francesco Monini)


Donne per la Palestina – Ferrara

Dopo 70.000 morti, in maggioranza donne e bambini, e decine di migliaia di feriti, una piccola pausa in questo massacro che mira allo sterminio dell’intero popolo palestinese.

Sta succedendo sotto i nostri occhi, con l’accondiscendenza della maggior parte dei governi occidentali, estremo risultato di un’occupazione coloniale violenta che prosegue dal 1948. Non inizia dal 7 ottobre 2023, dove 1206 persone sono state uccise e altre decine sono state rapite. L’uso continuo del 7 ottobre come giustificazione per il massacro di più di 70.000 persone evidenzia un pensiero razzista: i morti israeliani valgono di più.

La volontà di Israele di annientare il popolo palestinese è un emblema ripetuto da esponenti del governo e dell’esercito fino ai disegni sulle magliette di alcuni soldati con donne in stato avanzato di gravidanza, il ventre è al centro del mirino, “Uno sparo, due uccisioni”.  Negli anni 80 il demografo israeliano Arnon Soffer scriveva “L’utero palestinese è un’arma biologica”.

La salute delle donne è volutamente minacciata da decenni: con il moltiplicarsi di check-point raggiungere gli ospedali è sempre più difficile per le gestanti e ha contribuito all’aumento della mortalità neo-natale (quasi 5 volte più elevato, di quello in Israele e in Italia) e all’aumento delle donne morte per parto; alcune sono state costrette a partorire per la strada e in molti casi a perdere il proprio bambino.

Nella nostra piccola Ferrara, con già migliaia di morti sotto le bombe, abbiamo sentito l’anno scorso in Consiglio Comunale, un consigliere della maggioranza di destra dichiararsi contro il cessate il fuoco perché “le donne palestinesi si riproducono come nutrie”.
Se lo scopo è lo sterminio di un popolo non servono azioni mirate alla caccia di Hamas e il massacro di donne e bambini non è un effetto collaterale.

L’esercito israeliano agisce nella totale impunità: la fondazione “Hind Rajab” ha raccolto prove di crimini di guerra semplicemente in internet dove i soldati stessi pubblicano, per vantarsi, migliaia di foto e filmati di uccisioni di donne e bambini.

Gaza, una prigione a cielo aperto da oltre 16 anni, è stata bombardata indiscriminatamente a tappeto. Sono stati distrutti interi quartieri civili, ospedali, scuole, chiese e moschee.
Una pulizia etnica di un milione e mezzo di persone senza acqua, cibo, carburante e forniture mediche, soggette a ordini di “evacuazione” di massa, generalizzati, arbitrari e confusi, per sfollare con la forza quasi tutta la popolazione; la negazione e il blocco della fornitura di servizi essenziali, dell’assistenza umanitaria e di altri rifornimenti salvavita come gli anestetici e le incubatrici hanno trasformato Gaza nel più grande campo di sterminio a cielo aperto del mondo attuale.

L’esercito israeliano ha imposto a Gaza condizioni di vita che hanno creato una miscela mortale di malnutrizione, fame e malattie, esponendo i Palestinesi a una morte lenta e calcolata, come ben descritto dalla sentenza del Tribunale Internazionale.
L’impatto è stato particolarmente duro sui bambini piccoli e sulle donne incinte o che allattano, e sulle donne in generale: distruggere le donne per distruggere il tessuto sociale e lanciare un avvertimento di sottomissione e dominio.
Per questo chiediamo il riconoscimento dello stato di Palestina, la fine dell’occupazione e dell’apartheid.

Mozione minoranza riconoscimento dello Stato di Palestina

  • Il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli, come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite;
  • La risoluzione 67/19 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 2012 ha conferito alla Palestina lo status di Stato Osservatore non membro;
  • Numerosi Stati membri dell’Unione Europea e altri Paesi hanno già riconosciuto lo Stato di Palestina: attualmente sono 135 i Paesi che hanno deciso di riconoscere unilateralmente lo Stato di Palestina, tra questi diversi membri dell’Unione Europea: Svezia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Cipro, Slovacchia, Ungheria, Malta, Polonia e Romania;
  • Il conflitto tra Israele e Palestina può essere risolto solo con la soluzione a due Stati, negoziata secondo i dettami del diritto internazionale;
  • Una soluzione a due Stati richiede il riconoscimento reciproco e la volontà di una convivenza pacifica;
  • Il giorno 13 ottobre 2014 la Camera dei Comuni inglese ha approvato a larghissima maggioranza una mozione per riconoscere lo Stato di Palestina e  analoghe iniziative a quelle della Camera dei Comuni britannica sono state prese dai Parlamenti di Irlanda, Spagna e Belgio, mentre il Parlamento francese ha votato il 28 novembre 2014 una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina;
  • Il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo importante per promuovere la pace e la stabilità in Medio Oriente e per supportare una soluzione equa e duratura del conflitto israelo-palestinese;
  • Numerose amministrazioni comunali italiane hanno formalizzato la stessa richiesta.

VISTO CHE

  • Gli spregevoli attacchi terroristici di Hamas contro Israele sono da condannare fermamente, senza se e senza ma, ed è pertanto necessario attuare strategie che vadano nella direzione della ricerca della pace;
  • Rimane opportuno separare gli atti terroristici dalla responsabilità della popolazione civile inerme, dentro la Striscia di Gaza e in Cisgiordania;
  • Nella Striscia di Gaza i bombardamenti, le distruzioni di scuole, di centri sanitari, di abitazioni civili hanno messo a rischio la sopravvivenza dell’intera popolazione civile, afflitta da mancanza di cibo, di acqua, di case e di assistenza medica;
  • Il proseguimento della guerra a Gaza e in Medio Oriente va contro le ragioni, i diritti e la legittima aspirazione alla libertà del popolo palestinese, vittima delle politiche espansioniste dell’attuale governo israeliano e di una lunga occupazione dei loro territori condannata più volte dalle Nazioni Unite perché illegale, in quanto contraria al diritto internazionale;
  • Le violenze e le violazioni dei diritti umani compiute durante l’occupazione militare dei territori palestinesi, che dura ancora oggi, sono state condannate anche dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhcr) e sono alla base del processo di radicalizzazione politica che ha portato notevoli consensi all’organizzazione di
  • Tutto ciò dimostra quanto sia indispensabile che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati nazionali non si fermino alle dichiarazioni di condanna ed al richiamo alle parti di fermare la violenza, ma che prendano posizione per eliminare definitivamente gli ostacoli al processo di pace tra Israele e Palestina favorendo una soluzione che permetta a entrambi i popoli di vivere in pace e sicurezza reciproca.

CONSIDERATO CHE

  • “Ferrara individua nella pace un bene essenziale per tutti i popoli e indica nel rispetto rigoroso dei diritti democratici, politici e umani la condizione indispensabile atta a preservarla; a questo fine promuove e divulga iniziative culturali di ricerca, di educazione e di informazione tese a fare del territorio comunale un luogo di pace che sappia favorire forme concrete di cooperazione internazionale, anche con le Associazioni che promuovono i valori della pace e della solidarietà internazionale; (art.4 comma 2b Statuto Comunale)
  • L’invito al riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Comune di Ferrara rappresenterebbe un gesto simbolico di grande importanza e concreta solidarietà verso il popolo palestinese.

TUTTO CIÒ PREMESSO E CONSIDERATO, IL CONSIGLIO IMPEGNA IL SINDACO DELLA CITTA’ DI FERRARA

  • Ad attivarsi presso la Presidenza del Consiglio, pienamente e formalmente, ribadendo la posizione espressa dalla Città Ferrara per il riconoscimento dello Stato di Palestina secondo le Risoluzioni delle Nazioni Unite;
  • Ad attivarsi presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, nell’ambito dei rapporti internazionali per promuovere le posizioni espresse, da intendersi anche come un contributo importante nella lotta al terrorismo del fondamentalismo religioso, e favorire un’azione coordinata a livello internazionale che veda l’Italia, l’Unione Europea e le Nazioni Unite artefici di un nuovo processo di pace in Medio Oriente affinché la tregua faticosamente raggiunta a Gaza possa portare al definitivo riconoscimento reciproco degli Stati Israeliano e Palestinese;
  • A diffondere il contenuto di questa mozione presso la cittadinanza di Ferrara e promuovere iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del riconoscimento dello Stato di Palestina, sulla situazione del popolo palestinese, sulla necessità di una pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi in piena sicurezza e libertà.

Gruppo del Movimento 5 Stelle
Cons. Marzia Marchi

Gruppo Partito Democratico
Massimo Buriani

Gruppo La Comune di Ferrara
Cons. Anna Zonari

Gruppo Lista Civica Anselmo Sindaco
Cons. Fabio Anselmo

Cover:  Maria Maddalena e Maria di Cleofa, particolare del Compianto sul Cristo Morto di Nicolò dell’Arca, 1464 circa, Santa Maria della Vita, Bologna.

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore.

 

Parole a capo
Quattro Poesie del tempo presente

Quattro Poesie del tempo presente

il tempo gramo si accoppia con il nuovo tempo e genera vecchie opinioni”
(Helmut Heissenbuttel)

 

NELLA PARENTESI DI TEMPO

Era una giornata del fine settimana iniziato di un grigio screziato, nella Pianura Grande
dove non era sorto né tramonterà il sole rimasto lassù in alto.
Era una giornata come milioni di altre di una settimana quasi terminata come tantissime
trascorse e frantumate in tante azioni lillipuziane, incombenti minimi, pezzi di pane comprati e altri invecchiati di mollichine date agli uccelli stanziali della Pianura Grande e pettirossi fidelizzati nel giardinetto a nord tra vecchi muri e un tettuccio dove di nuovo
passava il gatto nero
dal collarino rosso e uno nuovo tigrato che si era smarrito e voleva entrare in casa
e si strusciava sulle gambe e si arrampicava troppo in altro sul ligustro inclinato, era evidente che prendeva misura per saltare nel giardino di lato, quello con il boschetto di nandina tutto fiorito di bacche scarlatte e di tuie alte al confine di fronte.
Le tuie sono sempreverdi snelli e azzurri e, talvolta ,ci si impiglia la nebbia, contro.
Quando riprendeva il passaggio di gatti sul tetto del ripostiglio in fondo al giardinetto, significa, che l’inverno non segna più il passo.
Tra poco miagoleranno ancora d’amore i gatti tra i cespugli, versi lamentosi e prolungati.
Lei pensava sotto sotto che l’amore, felino o no, facesse male.
E la Pianura Grande non l’aveva dissuasa.
Cos’era l’amore, dopo tanto tempo nel Territorio Vastissimo, oggi, dal cielo ovattato?
Mah, un portare l’acqua con le orecchie, in un imperterrito scorrere di sabbia.

(Alida Stroili)

 

*

Notte immobile e nera
avanzo tradito di sera,
stasi immonda d’odio.
Sola avanza e si leva,
lieve luce di lume.
È preghiera di giusti,
a costruire d’ognuno
il nuovo mattino.

(Stefano Agnelli)

 

*

 

DISACCORDI
Fuggono i giorni in vortici impazziti
dai calendari
uno via l’altro e senza sosta mietono
indifferenti ciechi.
Mi affanno inutilmente ad inseguirli
per trattenerne un lembo
per rubare un brandello al tempo avaro
di qua dal buio.
E come a ricercare
rifugio la memoria
torna a quei giorni giovani lontani
lenti e supini, parevano immobili…
Li precorreva l’immaginazione
traboccante di sogni e attese certe,
bruciante di impazienza e di azzardi
spericolati.
Così passa la vita a ricercare
un punto di armonia
e la saggezza di accordarsi al tempo.
(Marta Casadei)

 

*

 

FERMATA IMPROVVISA

ritaglio panorami immaginari
per evadere oltre l’orizzonte,
superando i confini del giorno
accarezzando altri profili del tempo.
spolvero sorrisi, sogni,
silenzioso
e mi scopro tra le mani
solo un biglietto d’andata.

scendo alla prossima
fermata
alleggerendo l’autobus
dei miei problemi

quando un miserere
incrocia volti d’impazienza.

(Pier Luigi Guerrini)

 

NOTA: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 271° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
(In copertina: Foto di Jim Black da Pixabay)

È PARTITA LA CAMPAGNA PER LIBERARE FERRARA DA HERA

È PARTITA LA CAMPAGNA PER LIBERARE FERRARA DA HERA

Lo sai che Hera è stata multata nel dicembre 2024 per quasi 2 milioni di € dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) per aver imposto prezzi iniqui ed eccessivi agli utenti del teleriscaldamento a Ferrara?

👿 Hera negli anni passati ha fatto pagare agli utenti del teleriscaldamento a Ferrara il 45% in più di quanto sarebbe stato equo incassare. 👮🏼‍♀Lo ha rilevato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha condannato Hera ad una multa di quasi 2 milioni di € per abuso di posizione dominante e per aver impedito ai consumatori di beneficiare dell’uso di fonti rinnovabili a costi contenuti per produrre un bene essenziale come il calore.

💰💰💰Questo perché non esistendo all’epoca une regolamentazione nazionale chiara per le tariffe del teleriscaldamento, Hera ha pensato bene di fissare in sostanza unilateralmente, con la copertura del Comune di Ferrara, le tariffe del teleriscaldamento: un bell’esempio di pratica speculativa! 🤯

#liberiamoFerraraDaHera

Nota: Periscopio aderisce alla campagna “Liberiamo Ferrara da Hera”

 

Vite di carta /
“Un loden senza inverno” di Roberto Dall’Olio

Vite di carta. Un loden senza inverno di Roberto Dall’Olio

Chi vorrebbe indossare un loden, pur bello e di qualità, che non è della sua misura esatta? Aprire l’anta dell’armadio e preferirlo all’altro più nuovo e calibrato sulla propria figura. Lo vuole il figlio, se, come accade in questa recente raccolta di Roberto Dall’Olio, autore storico di Periscopio con oltre 300 poesie pubblicate e tra i fondatori del sodalizio poetico Ultimo Rosso. Questo loden racchiude in sé la memoria del proprio padre, il “babbo” che dopo la morte attraversa liricamente le oltre cento poesie del libro.

Sono tante le cose che vorremmo sentir dire a Roberto nel corso della presentazione che stiamo per iniziare alla Biblioteca Popolare Giardino. È l’ultimo giorno di gennaio e a quest’ora fuori si è fatto buio. Quando si apre la porta gli amici che entrano a piccoli gruppi sono delle epifanie. Li riconosciamo e ci avviciniamo per salutarli. Per Maria Calabrese e per me, che abbiamo pronta una scaletta con le domande, l’emozione, anziché lasciarsi addomesticare, si fa più densa.

Con questo comincia il ciclo di cinque incontri poetici alla BPG il cui titolo, Quando tace il rumore della folla, allude alla poesia come silenzio e in silenzio la sala strapiena ascolta la presentazione che faccio delle numerose pubblicazioni che Roberto ha al suo attivo.

Poi Maria cala dentro a Un loden senza inverno, dentro il forte sentimento di bene che lega figlio e padre e le tante modulazioni con cui trascolora pagina dopo pagina.  Lì la seguo a mia volta per aggirarmi tra temi, nomi, oggetti, percorsi che il figlio compie dentro il ricordo del padre Orfeo e ne riemerge con uno sguardo rinnovato sul sé.

Che dire di una raccolta così intima in presenza dell’autore e di amici. A noi che la presentiamo piace dare conto della comunicazione intercorsa tra il poeta e chi non è più, indagare sulle parole che ridisegnano il vissuto col padre e il presente senza di lui. Maria legge alcuni testi, ne ricava i luoghi attraversati insieme dal padre e dal figlio, il DNA familiare che ha legato Roberto al “babbo” e a “mia mamma”.

L’amico Alberto Poggi si unisce al dialogo con la sua chitarra e con la voce e allarga gli spazi dell’immaginario che condividiamo qui stasera.

Mi inserisco e vado dentro ai testi in cui compaiono le foto scattate da Orfeo con competenza e passione, a Roberto fa piacere ricordare che suo padre è stato allievo del medicinese Enrico Pasquali, uno dei fotografi più importanti del neorealismo italiano.

Respiro e raggiungo la poesia dedicata alla “bici”, è lì che voglio arrivare per ricordare anche il mio di padre. So che i presenti possono perdonare questa incursione nella mia perdita personale perché, nel momento in cui delego alla scrittura poetica di Roberto l’espressione della mia malinconia per le infinite pedalate della giovinezza, sento che posso farlo anche a nome di tutti. Glielo dico: la tua poesia parla sul mondo anche per me.

Che sia questo il senso più largo della poesia confessionale a cui aderisce la poesia di Roberto? Fa i nomi di Robert Lowell e Anne Sexton, poeti del pieno Novecento statunitense che ora andrò a leggere.

Maria intanto legge passi da alcuni testi in cui sono evidenti i caratteri della poesia civile a cui si è votata a lungo la scrittura di Roberto. Basti ricordare Irma, il libro dedicato alla lotta che Irma Bandiera ha condotto da partigiana contro il Male assoluto, oppure La Storia insegna, il poema storico-civile abitato tra le altre dalla figura di Antonio Gramsci.

Ci piacerebbe leggere di più, aggiungere riferimenti alle altre raccolte. Maria ritrova una poesia dedicata a Bologna anche in Se tu fossi una città, il brillante volume uscito nel 2019.

Mi sono distratta: sto seguendo un’intuizione che mi è nata da quella nota di poetica sulla poesia confessionale. Non sarà che anche la narrativa, intima e insieme universale, con cui stanno emergendo nel panorama letterario italiano scrittrici come Maria Grazia Calandrone e Claudia Durastanti si può definire narrativa confessionale ?

Eccomi di nuovo dentro ai testi del Loden per porre l’accento sulla forma, do esempi di quei grumi lessicali che hanno emozionato Maria e me, veri scudisci che spiazzano chi legge, specie se posti alla fine del testo: “A volte/è proprio difficile/accettare il passaggio/Accettare/Ha un che/di spaccare/Forse non a caso/Causa/Un dolore bianco/Primitivo/Senza/pausa

“Ma li terrò/Tutti i dischi/Di quell’America/Che era nei tuoi scaffali/E diventò patrimonio/Del mio UNESCO/La mia giovinezza/La mia vita”.

Anche riscritti così di seguito, i versi mostrano la loro brevità, il testo che li aggrega è affusolato come una stalattite di parole che colano verso il basso chiamate da una legge interna di gravità. Nel commentare Tutto brucia tranne i fiori, l’opera dedicata alla storia passionale e intellettuale di Abelardo ed Eloisa, il grande critico Andrea Battistini riconosce a Roberto “un modernissimo stile franto, con versicoli perfino monosillabici…a inseguire un flusso di coscienza senza punteggiatura che perfino nel perseguire il monologo interiore è sempre rivolto a un interlocutore, a un “tu” poetico che esclude la solitudine”.

Da sinistra Alberto Poggi, Roberta Barbieri, l’autore e Maria Calabrese

Gli chiediamo se nel Loden la comunicazione col padre, dando espressione e voce al dolore, lo ha potuto emendare.

In parte, risponde. Ma il discorso sarebbe lungo.

La ricchezza poetica dei testi di Roberto è una cattiva bussola che quasi non ce ne ha fatti accorgere, ma l’orologio segna l’ora in cui dobbiamo concludere questo incontro a più voci.

Il resto lo fa l’amicizia, e insieme andiamo fuori a ritrovare l’inverno.

Nota bibliografica:

  • Roberto Dall’Olio, Un loden senza inverno, Pendragon, 2024
  • Roberto Dall’Olio, Se tu fossi una città, L’Arcolaio, 2019
  • Roberto Dall’Olio, La Storia insegna. Poema storico-civile, Pendragon, 2007
  • Roberto Dall’Olio, Irma, L’Arcolaio, 2017
  • Roberto Dall’Olio, Tutto brucia tranne i fiori, Moretti e Vitali, 2015

Cover e immagini nel testo fornite dalla Biblioteca Popolare Giardino

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Panikkar – Latouche e le bugie del Pensiero Unico e della globalizzazione.
Intervista all’ecofilosofa Gloria Germani

Pluriversum di Serge Latouche e Raimon Panikkar, la falsità del Pensiero Unico e della globalizzazione.
Intervista all’ecofilosofa Gloria Germani.

Il libro “Pluriversum. per una democrazia delle culture” è forse uno dei più rivoluzionari testi di Raimon Panikkar scritto insieme al filosofo-economista Serge Latouche.
Gloria-Germani

Di questo tema ne parliamo con l’ecofilosofa fiorentina Gloria Germani, laureata in filosofa occidentale e poi in filosofia orientale (Università di Firenze, Università di Pisa, New York University), che da trenta anni lavora nell’ambito della cultura e dell’industria dell’audiovisivo. Si è dedicata soprattutto al dialogo interculturale tra Oriente e Occidente con i suoi libri ed ha focalizzato il suo attivismo e i suoi scritti verso l’ecologia profonda, le spiritualità e le epistemologie indigene, la critica della visione scientifica moderna occidentale e la sua colonizzazione dell’immaginario. Allieva di Caterina Conio, ha conosciuto e studiato i protagonisti del dialogo interculturale come Henri Le Saux, Raimond Panikkar, Madre Teresa di Calcutta, Serge Latouche, Helena Norberg Hodge, Vandana Shiva e primo tra tutti, il Mahatma Gandhi. Amica ed allieva del giornalista Tiziano Terzani, è considerata la più grande esperta del suo pensiero, che oggi promuove attraverso incontri e libri. Ha fatto parte del Centro Studi Caterina Conio e fa parte del Centro Gandhi di Pisa, dell’Associazione per la Decrescita, di Navdanya International, della Rete per l’Ecologia Profonda ed ha organizzato in Italia due convegni internazionali Economics of Happiness.

Il libro è purtroppo troppo poco conosciuto, ma è forse una delle ferree critiche all’universalismo occidentali. Che cosa significa e perchè è rivoluzionario?

Pluriversum. Verso la democrazia delle culture, Jaka Book, 2018

Sì, è davvero un libro rivoluzionario e la lunga introduzione di Serge Latouche scritta dopo la morte di Panikkar (1918-2010) è davvero potente e sa mettere in luce il maggior problema che abbiamo oggi: “l’impostura rappresentata dall’universalismo occidentale”. Latouche e Panikkar si erano conosciuti personalmente e il francese ricorda bene l’amico denunciare quello che oggi viene chiamato e deprecato come il Pensiero Unico. Perché oggi abbiamo un Pensiero Unico? Perché esso si manifesta nell’unica Narrazione della Globalizzazione o occidentalizzazione del Mondo?

Raimond Panikkar, come sappiamo, era nato da padre indiano e madre spagnola e nella sua lunga carriera di accademico, teologo e intellettuale interculturale, ha denunciato con forza che “esistono sistemi di pensiero e culture tra loro incompatibili e incommensurabili” che si traducono in modi di vivere diversi. Ciò significa che se ammettiamo un super sistema, cioè un punto di vista superiore, il pluralismo viene distrutto e destinato a rimanere (come oggi avviene) come mero folclore ad uso turistico.

In ogni caso “è sufficiente dare un’occhiata alla stampa quotidiana, per rendersi conto del feroce etnocentrismo che caratterizza non solo il 90% dell’informazione”, ma si badi bene, anche gli studi e gli articoli culturali, come la maggior parte della produzione accademica.
Come fa notare Latouche, la critica di Panikkar alla globalizzazione e all’economizzazione del mondo lo avvicina a pensatori radicali come Jacques Elull e Ivan Illich, ma in lui il teologo ha spesso occultato il filosofo. Da qui la necessità di mettere insieme alcuni suoi articoli e saggi ormai introvabili in un volume (Pluriversum. Verso la democrazia delle culture, pubblicato in Francia nel 2013 e in Italia nel 2018) che dia più forza a questo pensiero anche in ambito laico.

Panikkar ha chiarito con forza che la Scienza non è né neutrale, né universale e che la tecnologia moderna è “il cavallo di Troia” dell’occidentalizzazione del mondo. In questo senso il filosofo catalano ha molti punti di contatto con Tiziano Terzani, e su ciò ho già scritto estesamente (G.Germani, Il mito del Progresso in Panikkar e Terzani, in AA.VV. La decrescita tra passato e Futuro, Napoli, 2018).

Il tema fondamentale affrontato nel volume da Panikkar e Latouche è quello dei diritti umani. In questo articolo importantissimo del 1982, Panikkar ha dichiarato che essi non sono universali, ma sono concetti occidentali. In che cosa consistono?

Il concetto di diritti umani è una delle “finestre sul mondo”, cioè quelle idee che presuppongo intere e diverse cosmovisioni. Come sottolinea Latouche, la dichiarazione del 1948 non nasce da un dialogo, ma scaturisce dal protestantesimo liberale e si è diffusa come imposizione occidentale. Non per niente il Mahatma Gandhi, interpellato nel 1947 dal segretario dell’ONU, dichiarò ufficialmente che non conosceva un diritto che non nascesse da un dovere precedentemente assolto. Quindi si rifiutò di partecipare alla stesura della Carta Diritti dell’Uomo. (Cfr. G. Germani, Verità della decrescita, Castelvecchi, p. 73 sgg.)

Il concetto di Diritti Universali dell’Uomo presuppone quello di individuo che, come Latouche ha sottolineato in altri studi – nasce in Europa all’inizio dell’Ottocento e non esisteva prima. In altri contesti, l’uomo era una rete di relazioni complesse, perché una persona è tutto il tessuto che le sta attorno. L’idea di individuo è frutto di un riduzionismo tipico del pensiero moderno.

Ugualmente Scienza ed Economia sono due dimensioni del nocciolo duro dell’Occidente che quest’ultimo considera universali ma che in realtà impone con forza. “L’odierna società paneconomica è assolutamente intollerante – scrive Panikkar – nei confronti di qualunque attività umana (ad esempio la contemplazione) che non sia produttiva”, cioè economica e finalizzata a un risultato economico.

L’adozione della nozione di diritti universali – sottolinea Panikkar – è “una continuazione della sindrome coloniale”, cioè la credenza che alcune idee (Dio, Chiesa, Impero, civiltà occidentale, scienza, tecnica moderna) siano così alte da poter esser diffuse su tutta la terra. Ma si tratta di una presunzione, direi immatura e puerile. Ci sono inoltre molti postulati che stanno alle spalle della nozione dei diritti. I Diritti dell’Uomo, per come li conosciamo, difendono l’individuo di fronte alla società in generale, e dallo Stato in particolare. Quindi si postula che l’essere umano è un individuo e la società una sorta di sovrastruttura. Ma si postula anche che gli esseri umani siano autonomi rispetto al cosmo; che l’uomo sia superiore a tutti gli altri esseri senzienti, che la società non sia il riflesso di un ordine prestabilito o divino, ma esclusivamente la somma di individui liberi. Tutti questi postulati sono semplicemente assenti in altre culture, mentre “continuano ad essere usati come un arma politica”.

Molto illuminante a questo proposito è la riflessione sul concetto indiano di Dharma, che significa ordine etico, legge, caratteristica delle cose, verità, moralità, giustizia.Il dharma -scrive Panikkar – è ciò che tiene insieme, che dà coesione e quindi forza ad ogni cosa, alla realtà e in ultima analisi ai tre mondi ( triloka).Il mondo in cui la nozione di Dharma occupa un posto centrale e che pervade tutto, non ha alcun interesse a mettere in evidenza il “diritto “di un individuo contro un altro o di un individuo nei confronti della società, ma si preoccupa piuttosto di accertare il carattere dharmico ( giusto, vero, coerente) o adharmico di una cosa e di un’ azione nell’insieme del complesso. Qui il punto di partenza non è l’individuo ma la totalità nella sua complessa concatenazione del reale”.
Questa prospettiva indiana – messa in luce da Panikkar – è particolarmente importante, perché la fisica stessa, da Einstein in poi ma soprattutto da Heisemberg, Bhor, Bohm, ha chiarito che non esistono sostanze indipendenti e separate come abbiamo ingenuamente creduto da Newton e Cartesio.

Il nostro mondo è oggi schiacciato da un lato dall’ipertrofia dei nazionalismi e dall’altro dall’omologazione del mercato globalizzato. La “democrazia della culture” di cui parlano gli autori, secondo te, può essere realizzabile? Se sì a partire da quali presupposti?

Lo Stato Sovrano come sappiamo è uno dei frutti del pensiero occidentale illuminista. Gli Stati Sovrani hanno circa due secoli, ma quanto potranno durare? Panikkar propone “come alternativa la bioregione che consiste in regioni naturali in cui le mandrie, le piante, gli animali, le acque, e gli uomini formano un insieme unico e armonico”.
Questa prospettiva molto ecologista è l’unica che può prospettare un futuro all’Ecosistema che ci ospita (cfr.A.Naess), il quale al contrario è totalmente minacciato dal sistema scientifico industriale, con gli enormi rischi oggi evidenti. Il sistema scientifico-tecnico-industriale costituisce appunto il Pensiero Unico, il super sistema che sta distruggendo culture millenarie e che sta alla base della globalizzazione, del cosiddetto “Progresso” e insieme del collasso climatico.

Nel libro si parla addirittura della necessità non solo di liberare l’essere umano dalle strutture sociali che lo opprimono, ma anche dalla sua liberazione da quel tempo che divora tutta l’esistenza umana e monopolizza tutto il suo essere generando alienazione e perdita della dignità. Di quale tempo parlano e quale tempo dovremmo vivere?

E’ necessario prendere coscienza che ci sono varie idee del tempo e quella che oggi diamo per scontata, non è universale, né comune a tante altre culture. Come scrive Latouche: “la concezione del tempo nel quale si vive ha un ruolo fondamentale nel determinare il modo in cui si conferisce senso a ciò che si vive. Un’immersione nella concezione circolare del tempo che si trova in numerose culture modifica la prospettiva “. Andrebbe sottolineato con forza che “esiste una concezione giudeo-cristiana-marxista contemporanea” ed è questa che dà alla morte quell’aspetto di frustrazione e di interruzione (cattiva o sbagliata) perchè impedisce la realizzazione dei nostri progetti.
Se si abbandona l’idolatria per il tempo lineare, perde senso la separazione tra vita attiva e vita contemplativa. La riflessione di Panikkar e con lui di tutta la cultura degli indiani, ci invita a riconsiderare la concezione occidentale della Storia. Come aveva ben compreso anche Tiziano Terzani, “la storia non li ha mai interessati. Non l’hanno mai scritta; non ci hanno mai riflettuto molto sopra. Per loro quel succedersi di fatti è come sabbia sollevata da folate di vento: mutevole e irrilevante”.

Un ‘altra idea che ha un impatto fortissimo sulla politica e la nostra attualità, è quella di “sviluppo” – definita da Latouche, nel nostro testo, un’impostura. “Questo termine – precisa Panikkar – suggerisce un insieme di valori – quali la concezione di una forma specifica di progresso, di tempo lineare, di una dipendenza tra i beni materiali e il benessere umano e via dicendo – che non sono degli universali transculturali”.
La distinzione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo fu lanciata infatti dal presidente americano Truman nel 1949. Fu precisamente da allora che – come ci ricorda Panikkar in un altro testo – tramite la parola ufficiale delle Nazioni Unite, che l’80% dell’umanità venne considerato “sottosviluppato” o “in via di sviluppo”. Questi Paesi “sottosviluppati” non hanno però creato il collasso climatico! Dobbiamo riflettere!

Le nostre società opulente devono riscoprire il valore della Verità. Quale verità?

Certamente si, e tutte le prospettive di pensiero a cui abbiamo accennato sopra, lo richiedono. Per capire la Verità, occorre studiare più Gandhi, piuttosto di Marx.
Concludo con un pezzo molto bello di Latouche tratto dal suo ultimo libro “Lavorare meno, lavorare tutti, non lavorare affatto “(Bollati Boringhieri, 2023): “La compressione del tempo è un effetto fondamentale della distruzione del mondo concreto provocata dal produttivismo della società della crescita.

In Occidente l’invenzione dell’orologio in pieno Medioevo, è stato il punto di partenza dell’artificializzazione del mondo e dunque della sua desacralizzazione. Questo strumento di imbrigliamento del reale inaugura la rivoluzione dei Tempi moderni. Diventando meccanico e reversibile, il tempo comincia a perdere la sua “concretudine”. Non è più legato ai cicli solari e lunari, al ritmo delle stagioni e dei raccolti, dei cambiamenti e degli avvenimenti. I punti di riferimento del vissuto non sono più forniti dal compito (seminare, falciare, raccogliere, potare gli alberi da frutto ecc.), né i ritmi dalle feste religiose o profane, ma da un meccanismo astratto. Il tempo diventa una grande omogenea che non ha più legami con il vissuto, trasformato a sua volta, sempre più, in una massa informe. A quel punto tutte le attività si fondono nel lavoro, tutti i valori nel denaro.

Il lavoro, il tempo e il denaro si trasformano così in una stessa e unica sostanza, sulla quale il mercante può speculare. Si sopprimono i giorni festivi, si introduce il lavoro della domenica, il lavoro notturno e ovviamente il lavoro delle donne e dei bambini. Contato e scambiato, il tempo diventa l’oggetto centrale dell’economia. Bisogna produrre sempre di più in un tempo determinato. Bisogna accelerare i ritmi della vita e ridurre i tempi di durata (comprese quelle della vita degli oggetti). Fuorviata dalla religione della crescita, la modernità è costretta ad adattarsi alla velocità, sinonimo di potenza, di audacia, di progresso, di risultati, di record, di controllo del tempo e dello spazio. Per questo, l’idea che le innovazioni tecniche potrebbero permettere di abolire il lavoro rimanendo nello stesso contesto generale è una grande mistificazione.”

Questo articolo è uscito con altro titolo su Pressenza del 7 febbraio 2025

In copertina: Raimon Panikkar  (foto Officina Filosofica

Parole e figure /
San Valentino, fra baci e abbracci

Albi per San Valentino, fra baci e abbracci

Si avvicina San Valentino e, come ogni anno, ci piace suggerire ai nostri fedeli lettori cosa regalare ai loro innamorati, mariti, figli, fidanzati o genitori che siano. L’innamorato può essere chiunque e di ogni età. Come tradizione, dunque, ecco tre magnifici albi dai colori delicati che parlano di baci, amore e scelte. Buona lettura.

PS: Avevamo già parlato de La baceria di Felice, che potete aggiungere alla lista, a testimonianza di quanto ci piacciano i baci (insieme agli abbracci).

Maria José de Telleria, 79 baci + 1, Kite edizioni, Padova, 2022, 32 p.

Baci in scatola, baci che arrivano da lontano in una comoda scatola di cartone, un lunedì mattina, giorno della settimana dove ogni sorpresa è la benvenuta. Se è questa poi…

Che amore incontenibile! Che bella, preziosa e unica idea! Di che lasciare a bocca aperta.

Regalo fantasmagorico. Profondo respiro, aspettate un attimo, qualcosa non torna.

Che cosa fareste se vi recapitassero una scatola di ottanta baci ma ne mancasse uno? Chiedere ai vicini? Pensereste forse che l’hanno aperta all’ufficio postale e allora ecco pronto un modulo di reclamo? Meglio magari andare alla compagnia di spedizioni al porto per cercare di capire il doloroso mistero? O pensereste, invece, che durante il viaggio qualcuno ne ha sottratto uno? Oppure potrebbe esserci un’altra spiegazione?

Una storia sul senso di incompletezza e sull’imprevedibilità della vita. Correre per credere.

Maria José de Telleria collabora come illustratrice con riviste argentine e spagnole ma dedica la maggior parte del suo tempo a progetti come autrice integrale. Le sue illustrazioni sono state esposte in Argentina, Italia, Giappone.

Satoe Tone, Dove batte il cuore, Kite edizioni, Padova, 2°14, 32 p.

Un albo dai colori tenui, l’azzurro domina. Sembra una fiaba di altri tempi.

Una coppia di gatti innamorati passeggia lungo la sponda di un lago sotto il cielo stellato. Lei è Bianca, lui è Nero, sono dolcissimi. Sono diversi ma si completano.

Il gatto vorrebbe donare alla sua amata le luci che vede sull’acqua e prova ad afferrarle ma prima gli restano le foglie tra le zampette, poi una conchiglia, e ancora un pesce e un polpo gigante. Si getta nell’acqua profonda, tutto è buio. Nulla da fare. Si ostina in mille e ancora mille modi senza riuscirci, perché quelle luci sono il riflesso delle stelle.

Per fortuna lei non ha bisogno di prove d’amore, sa già tutto quello che deve sapere.

Satoe Tone è nata in Giappone e vive in Italia. Ha studiato illustrazione e graphic design a Kyoto e in Inghilterra. Kite Edizioni ha pubblicato la sua opera prima come autrice totale Questo posso farlo (2011) e Il mio migliore amico (2012). Nel 2012 è stata selezionata per l’Annual della Fiera del libro di Bologna. I suoi albi, dalle illustrazioni delicate e soffici, si rivolgono sia ai giovani lettori sia agli adulti, illustrando temi universali (l’identità, l’amicizia e l’amore) attraverso prospettive insolite e sviluppi imprevedibili, nel segno di una spiritualità e di un senso del divenire orientali.

Yael Frankel, (amore) A prima vista, Kite edizioni, Padova, 2022, 32 p.

L’orsa si crede una signora e fa cose da signora: si prende cura di sé, si tiene informata, segue l’arte e lavora qualche giorno a settimana. Un signore, invece, si crede un orso e fa cose da orso: cerca il miele, va nel bosco, dorme. Quando lei lo incontra desidera di nuovo sentirsi un’orsa, accade anche a lui, però al contrario. Ma i dettagli non contano.

A volte si è qualcuno ma si vorrebbe essere qualcun altro, a volte si è qualcun altro ma si vorrebbe essere qualcuno. Ma quando l’amore arriva, c’è chi ci vuole proprio così come siamo. E finalmente anche a noi va bene così. Chi lo avrebbe mai detto?

Una storia sulla capacità dell’amore di restituirci a noi stessi e insegnarci chi siamo.

Yael Frankel vive a Buenos Aires, dove lavora come grafica e illustratrice. Nel 2013 è selezionata per il catalogo “México Iberoamerican Illustration”. Nel 2014, viene selezionata per il “Sharjah Children’s reading festival exhibition”, il “Ukranie Cow Design festival” e il “Portugal Illustration Festival” e, nel 2016, al Bologna children’s book fair, Italia. È arrivata finalista nell’edizione 2016 del Silent book contest, Italia.

 

Il mio giardino Persiano.
Omaggio a Mahsa Amini e alle donne iraniane

Il mio giardino Persiano. Omaggio a Mahsa Amini e alle donne iraniane

A fine gennaio  è arrivato nelle sale italiane Il mio giardino persiano, film in concorso al Festival di Berlino 2024, per la regia di Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam, vincendo il premio della Giuria Ecumenica, a cui i registi non hanno potuto partecipare di persona essendo stati raggiunti dal divieto iraniano di lasciare il Paese.

Insieme a loro, sono coinvolti in un lungo processo, con l’accusa di propaganda contro il regime, libertinismo e volgarità, i due attori protagonisti Esmail Meharabi e Lili Farhadpour, che dopo l’uscita del film non riescono più a lavorare e non possono lasciare l’Iran.

Ho visto il film senza sapere i risvolti drammatici che hanno accompagnato la sua uscita, più che altro attratta dall’ambientazione in un Paese che mi ha sempre incuriosito e l’ho trovato di una delicatezza e armonia struggenti.

Il film mette in scena due temi particolarmente difficili da trattare: la solitudine degli anziani e il loro rapporto con l’amore. Nel sottofondo emerge la condizione della donna iraniana, nel film  impersonata dalla settantenne Mahin, sorprendentemente libera e volitiva, in un contesto sociale a dir poco deprimente.

La routine di Mahin , vedova da molto anni, si riduce alle videochiamate con i figli all’estero, alla spesa quotidiana, e ai rari incontri scontati e ripetitivi con le amiche. Un’anziana come tante in tutto il mondo, affondata in una solitudine senza sogni, in una vita che sembra non riservare più sorprese, se non la novità di un ulteriore acciacco.

Unica nota stonata, nel comportamento irreprensibile che ci si aspetta da un’anziana iraniana dalla bellezza ormai sfiorita, è una certa insofferenza verso l’hijab, il velo obbligatorio per le donne, per cui viene rimproverata dalla “polizia morale”, mentre cerca di difendere una ragazza fermata nel parco per la ciocca di capelli che sfugge dal velo: anche lei non lo indossa bene, signora!, le dicono bruscamente i poliziotti.

Tuttavia non credo essere stata questa unica ripresa della repressione, ottusamente rigida, della polizia governativa a scatenare la censura del film e il processo a registi e attori. Ben più grave è la decisione improvvisa di Mahin di tornare alla vita vera, di aprirsi all’imprevisto dell’amore.

Mahin appare una donna dalla straordinaria indipendenza simbolica, che prende l’iniziativa nel scegliere un compagno e invitarlo ad entrare nella sua vita. Con un approccio minimalista alla messa in scena la svolta parte dal  gesto mattutino di riprendere a truccarsi gli occhi, gesto insolito, simbolo di una quotidianità ormai trascorsa, di una femminilità perduta da recuperare.

Dopo essersi preparata accuratamente, in una mensa per pensionati di cui Mahin ha i buoni pasto, nota un coetaneo, separato dal branco, più intento a masticare che a comunicare con il mondo esterno. Da quel momento parte l’impresa coraggiosa di Mahin di scoprire la sua identità, andarlo a cercare e infine farsi accompagnare, dato che è un taxista, invitandolo poi a casa per trascorrere una serata insieme.

L’uomo, che si presenta con il nome Faramaz è piacevolmente sorpreso dell’intraprendenza di Mahin, che ammette di non possedere, e risponde con gentile dolcezza a tutte le sue richieste. Ne scaturisce una notte indimenticabile, dopo una cena finalmente preparata per qualcuno, Mahin riprende i gesti di un passato felice, bevendo vino, scambiando confidenze, ascoltando musica e ballando.

Sboccia in un attimo l’amore, quella sensazione esaltante che pareva per entrambi per sempre perduta e ora ritrovata. La femminilità di Mahin ri-sboccia prorompente e allegra, mentre Faramaz esibisce il suo apporto maschile nel riparare le luci del suo amato giardino persiano, unica cura amorevole che illumina le giornate solitarie di Mahin.

L’amore fra i due anziani si esprime con gentilezza, allegria, grande accettazione reciproca, lontanissimo dall’accusa di “volgarità” con cui il regime ha incriminato il film. Penso che la vera censura sia verso il coraggio delle donne iraniane, insofferenti non solo al velo, ma a tutte le sovrastrutture sociali che le vogliono spegnere, che impongono regole estranee alla loro libertà individuale.

Ho interpretato il finale del film, che conclude la notte dell’amore con la morte, forse per un infarto, di Faramaz, come la difficoltà a far entrare l’avveramento di un sogno nella continuità quotidiana, sogno esorbitante nella dura realtà circostante.

Le riprese del film, coprodotto da Iran, Francia, Svezia e Germania, sono state interrotte dopo l’assassinio da parte del regime di Masha Amini nel settembre 2022, da cui è partito il movimento Woman, life, freedom. In suo onore e di tutte le donne iraniane, i registi hanno deciso di terminarlo, come documento dello scarto esistente fra la reale sensibilità del popolo iraniano e le insensate proibizioni dei “guardiani della rivoluzione”.

Trailer del film:

In copertina : Fotogramma di Il mio giardino persianoimmagine di Spazio Alfieri – Firenze.

Per leggere gli articola di Eleonora Graziani su Periscopio clicca sul nome dell’autrice. 

Sotto attacco i principi fondamentali della legge 185/90 sul commercio delle armi: domani il voto in parlamento

Sotto attacco i principi fondamentali della legge 185/90 sul commercio delle armi, domani il voto in parlamento.

Legge 185/90 sotto attacco: a rischio il principio fondanti della normativa sul commercio delle armi

Domani, martedì 11 febbraio alle 14:30, la Commissione competente voterà in via definitiva il Ddl di modifica della legge 185/90, la normativa che da 35 anni regolamenta con principi di trasparenza e responsabilità l’export di armamenti italiani.
Le associazioni pacifiste, riunite nella mobilitazione promossa dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, denunciano il rischio di uno stravolgimento della legge che ne snaturerebbe il senso originario, vanificando decenni di battaglie per un controllo democratico sul commercio di armi.
I quotidiani PeaceLink  e Periscopio aderiscono a questa campagna e ne rilanciano con forza l’importanza. Il complesso industriale-militare sta lottando con tutte le sue forze per prendere il controllo della normativa e occorre reagire.

Una legge voluta dal movimento pacifista

La legge 185/90 è nata grazie alla pressione delle associazioni pacifiste e del mondo cattolico, con il sostegno di personalità come padre Ernesto Balducci e don Tonino Bello. Il suo obiettivo era chiaro: impedire che l’Italia vendesse armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani.
Il principio fondante della legge è che il commercio di armamenti non può essere considerato un’attività economica come le altre, ma deve essere subordinato a criteri etici e alla politica estera del nostro Paese che dovrebbe conformarsi all’articolo 11 della Costituzione, basato sul ripudio della guerra come strumento di regolazionedri conflitti.
La normativa prevede un controllo parlamentare sull’export di armi, con la presentazione di una relazione annuale, e vieta esplicitamente forniture militari a nazioni coinvolte in guerre o che violano gravemente i diritti umani.

Un attacco alla trasparenza e al controllo democratico

Le modifiche in discussione mirano a ridurre i meccanismi di trasparenza, delegando sempre più potere decisionale all’esecutivo e sottraendo al Parlamento il ruolo di controllo. Questo rischia di trasformare l’Italia in un esportatore di armi senza vincoli etici, facilitando affari con paesi coinvolti in conflitti armati, come già avvenuto con la vendita di sistemi militari a nazioni responsabili di bombardamenti indiscriminati su civili.

La mobilitazione continua: difendere la legge 185/90

PeaceLink e Periscopio aderiscono alla campagna della Rete Italiana Pace e Disarmo e invitano cittadini e associazioni a mobilitarsi per fermare questo stravolgimento normativo. Chiediamo che i giornalisti diano visibilità alla campagna.

Chiediamo un’azione immediata

  • Sostenere la petizione pubblica per la difesa della legge 185/90.
  • Esigere che i parlamentari si oppongano alle modifiche che minano la trasparenza.
  • Partecipare alle iniziative di pressione sull’Aula di Montecitorio, dove la votazione finale è prevista a partire da lunedì 17 febbraio.

Non possiamo permettere che venga snaturata una delle poche leggi che mettono al centro il ripudio della guerra e il rispetto dei diritti umani.

Cover : foto da Pagine Esteri su licenza Creative Commons

UN NUOVO MESTIERE

UN NUOVO MESTIERE.
Un racconto

Arturo non era un informatico, ma quella cosa gli era sembrata strana in un’azienda all’avanguardia, quel personal computer sepolto sul tavolo non se lo spiegava, senza però il coraggio di formulare la domanda. Ma era una domanda inutile, perché era seduto nell’ufficio numero 999, davanti al famoso Erasmo, che neanche a dirlo conosceva in anticipo la risposta: Ci ho provato, ho moltiplicato la memoria ram, potenziato il processore e la velocità ma il computer non ce la fa, non ce la può fare; non c’è intelligenza in grado di tener dietro a tutto. A tutto?, chiese timidamente Arturo. A tutto, continuò il numero 999, perché Tutto vuol dire TUTTO, e il computer è uno solo. Proprio come me. Quassù tanto vale puntare sull’esperienza e arrangiarsi con carta e penna, il vecchio metodo artigianale. Il famoso Erasmo sbattè la mano destra su un faldone dormiente sulla scrivania, alzando una spessa nube di polvere.

L’ufficio di Erasmo era piccolo e stretto, da ogni angolo del pavimento crescevano pile di cartelle e faldoni, bisognava camminare dentro trincee di carte. Arturo si sentì soffocare e si alzò dalla sedia. Certo, lo raggiunse la voce calda di Erasmo, Possiamo parlare fuori, andiamo all’aperto, ti faccio strada.
Il corridoio sembrava interminabile e infinite le porte che davano negli uffici degli impiegati e dei funzionari. Su ogni porta nessun nome o grado, solo un numero, come negli hotel. A metà percorso, si apriva sulla destra una grande vano, la mensa aziendale perfettamente accessoriata. Un gruppo di avventori procedeva in fila indiana, costeggiando il bancone del self service, tenevano in mano un vassoio azzurro. Parlavano tra loro, sembravano allegri.

Arrivarono in fondo al corridoio. Non c’era nessuna porta, solo un grande arco che dava all’esterno. Sulla soglia Erasmo si fermò e si voltò verso Arturo che lo seguiva a qualche metro: Attento ora a uscire, guarda dove metti i piedi, un passo falso e finisci a terra. Uscirono. Erasmo, il famoso numero 999, indicò una panchina verde bottiglia. Mettiamoci seduti, qui non ci disturba nessuno, abbiamo tutto il tempo, e tranquillizzati, i problemi si risolvono. Raccontami, comincia dall’inizio. Il tono paterno fece il suo effetto e dopo qualche minuto di silenzio il senza numero Arturo fu pronto a parlare, a svuotare lo stomaco e aprire il suo cuore.

Il fatto è che io questo mestiere non l’ho mai fatto, non lo conosco, non fa per me. Io facevo il meccanico, il meccanico specializzato in camion, bestioni enormi come gli articolati e gli autosnodati. Non è facile capirci qualcosa e aggiustare un motore che pesa milletrecento chili. Ho fatto il meccanico tutta la vita, sono entrato in officina che ero un ragazzino e ci sono rimasto fino alla pensione. Nella mia zona ero uno dei più bravi, mi bastava ascoltare il rumore di un motore e capivo subito dove stava il problema e dove bisognava intervenire. Mi scusi signor Erasmo è che quando parlo dei miei motori non la finisco più. Ma vede anche lei che il mestiere di meccanico con il mestiere che dovrei fare adesso non c’entra proprio niente.

Arturo continuò: Quando sono arrivato sul posto e ho preso servizio ero pieno di buona volontà, mi sentivo pronto, felice di mettermi finalmente alla prova. Ma appena l’ho visto e ho cominciato a seguirlo, quando ho capito di cosa si trattava e cosa avrei dovuto fare, mi è caduto il mondo addosso. Erasmo fermò l’eloquio di Arturo con un semplice gesto della mano: Ma tu hai seguito tutte le lezioni del corso? Arturo si sentì quasi offeso; aveva partecipato al corso di formazione, con diligenza. Ricordava che tra i docenti c’era lo stesso Erasmo, e a lui ora mostrò il foglio dorato del suo diploma.

In quel momento un gruppo di uomini e di donne uscì all’aperto e passò davanti alla loro panchina. Parlavano sottovoce, sorridevano, tutti partecipi di una placida serenità. Quel posto era proprio un angolo di paradiso, protetto da qualsiasi tempesta. Solo lui, pensò Arturo, era in preda ai dubbi, solo lui si sentiva fuori contesto. Erasmo agitò nell’aria una mano davanti agli occhi di Erasmo, come per spazzare vie tutte le sue paure: La tua esperienza ha un nome, si chiama ansia da prestazione, molti l’hanno provata prima di te quando hanno affrontato il lavoro per la prima volta. Forse anche io al mio primo incarico, ma non posso ricordarlo, è stato molto tempo fa, in un’era antichissima. Come dice il mio numero, oggi mi occupo del soggetto numero 999, ma oggi come allora il lavoro da fare è sempre lo stesso; noi Arturo, noi due e tutti gli altri dobbiamo solo custodire.

L’angelo Arturo si sentì un po’ rinfrancato. Ormai Erasmo, quell’angelo di lunghissimo corso, decise di tenergli una piccola lezione: Non spetta a te sciogliere i dubbi, risolvere i problemi, programmare la vita di Arlindo, il bambino di sette anni che ti è stato assegnato. Quindi non doveva, e mai avrebbe potuto, volgere al bene il male, casomai  Arlindo, diventato uomo, fosse caduto nel buio del peccato. La legge del libero arbitrio valeva per tutti, per gli uomini come per gli angeli. Lo stesso Arturo, senza accorgersene, era stato custodito per settantaquattro anni; ora toccava a lui custodire. Ma Come? Con amore, rispose Erasmo. Ma ancora non capiva: Il salmo 15 dice a Dio “proteggimi” ma io non sono Dio, io non so come fare. Con i motori studiavo il manuale d’istruzioni. Ecco, gli era tornata l’angoscia.
Erasmo scosse la testa: Lascia perdere camion e motori, è roba passata, e lascia da parte anche il salmo 15, e  quel “custodiscimi” ripetuto e ripetuto nel canto liturgico dei nostri fratelli maggiori. Ecco, per farti capire: Sei di fianco al letto del tuo bambino, dorme agitato, si scopre, e tu che fai? che devi fare? tu lo copri semplicemente con la coperta. Alla lettera, lo proteggi. E rimani lì, al tuo posto, non ti muovi, non lo lasci solo. Non c’è altro. Ed è molto, anche se assomiglia a niente. È il tuo nuovo mestiere.

Si era levato un vento gelido, strano in un luogo come quello. Si  alzarono in fretta dalla panchina e tornarono  indietro verso il celeste istituto.

Note:
Salmo 15

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Per certi Versi /
Se fossi una poesia

Se fossi una poesia

 

Se fossi una poesia

vorrei posarmi

sopra un foglio

come si posa il respiro

su un ricordo

 

vorrei parole mansuete

a comporre la malinconia

e lettere maiuscole

a raccontare l’amore

 

vorrei baciare la carta

con la passione

che illumina l’anima

d’inchiostro

 

Se fossi una poesia

vorrei che mi scrivessi tu

 

In copertina: Gustav Klimt, Fregio di Palazzo Stoclet, Bruxelles, 1905-1909, Mosaico

 
Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino