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Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods:
se invece di Trump tornassimo a Keynes?

Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods: se invece di Trump tornassimo a Keynes?

Facciamo l’ipotesi teorica che i dazi di Trump non siano uno strumento negoziale per portare vantaggi agli Stati Uniti ma una vera politica per riportare la manifattura in patria, ridurre il deficit commerciale e quello pubblico. E’ un’ipotesi teorica perché qualche giorno fa Trump ha fatto un accordo temporaneo (3 mesi) con la Cina per ridurre i dazi dal 145% al 30% (10% i dazi della Cina) e con il Regno Unito che potrà esportare in Usa 100mila auto con dazi solo del 10% (anziché 25%), zero dazi per acciaio e alluminio (mentre per il resto 10%), in cambio di acquisti di aerei americani Boeing per 10 miliardi, di carne di manzo made in Usa, etanolo, chimica e macchinari. Seguirà probabilmente un accordo temporaneo analogo con l’Europa.

E’ in corso una lotta tra chi (Bannon, Maga) vuole tornare ad un’America più protezionista che ricostruisce le comunità locali distrutte da globalizzazione, povertà e droghe (e con meno immigrati possibile, come vuole anche il Regno Unito) e le multinazionali high tech (Elon Musk in testa) che non vogliono chiusure, zero dazi e più immigrati professional (sono già il 40% di tutto il personale nelle big tech). Se dovesse prevalere (com’è probabile) l’ala Maga resteranno i dazi (seppure ridotti). Il nuovo protezionismo “light” Usa costringerebbe i paesi con surplus commerciale a dirottare parte del loro eccesso di produzione altrove. Dove, non è chiaro, in quanto non c’è nessun paese disposto ad assorbire tante merci quanto lo sono stati per decenni i consumatori americani o gli operai americani, che hanno visto lentamente chiudere le proprie fabbriche. Non si potrà non riconoscere che il sistema “aperto” ha prodotto una distruzione non solo della classe operaia americana della manifattura, ma anche nel resto del mondo avanzato e in Europa (specie al Sud).

Ma come è possibile allora che l’occupazione americana vada così bene? Gli occupati americani aumentano ogni trimestre ad un ritmo di 150-200mila occupati, ma non si dice che ciò avviene per la forte immigrazione. Negli Stati Uniti l’occupazione dal 2014 al 2023 è cresciuta di 15 milioni di unità, ma in un Paese che aumentava la popolazione di 18 milioni; mentre sparivano gli alti salari della manifattura si diffondevano i posti con bassi salari nei servizi vari. Un fenomeno simile è avvenuto anche in Europa, dove gli occupati sono cresciuti di 16 milioni e la popolazione di soli 6 milioni, con effetti di grande beneficio soprattutto nei paesi dell’Est Europa dove è stata delocalizzata parte della manifattura europea e tedesca.

 

 

A ben vedere le cose sono andate meglio in Europa che negli Stati Uniti, l’esatto contrario della narrazione mainstream sulle “magnifiche sorti e progressive” del neo liberismo globalizzato americano. Idem per l’Italia dove è cresciuto il lavoro (+9,2% dal 2021 ad oggi) ma è calato il monte salari delle buste paga del 6,1% (post inflazione). Ciò è dovuto al fatto che chi va in pensione guadagnava di più dei neo assunti, ma anche al fatto che con un parziale recupero dell’inflazione c’è stato uno slittamento verso le aliquote fiscali più alte (fiscal drag); ciò spiega perché l’Irpef è salita dai 198 miliardi del 2021 ai 235 del 2024 (fonte Ministero delle Finanze). Nonostante gli sgravi del Governo ai ceti bassi, le loro busta paga nette sono minori di 4 anni fa e così dicasi per i milioni che sono saliti sopra i 28mila euro lordi o i 50mila. Chi invece paga sui redditi di capitale, la cedolare secca sugli affitti, le rivalutazioni delle società non quotate, etc. cioè i benestanti, paga aliquote simili a quelle dei poveri. Se poi si nota che le spese in ricerca si stanno riducendo dal 2020 (già erano basse) e che cresce la distribuzione agli azionisti, si capisce bene perché l’Italia declina pur “aumentando” il suo lavoro, che è sempre più povero.

Ciò spiega perché già dal 2016 negli Stati Uniti tutti i politici hanno cominciato a mettere in dubbio l’efficacia del libero scambio e lo stesso TPP, il trattato di libero scambio Trans Pacific. L’idea era che non c’era bisogno di “maggiore globalizzazione” ma di fare in modo che quella esistente fosse vantaggiosa anche per gli americani. Trump ritirò l’adesione al TPP, Biden in molti aspetti proseguì. Oggi l’America assorbe gran parte del risparmio e del surplus commerciale degli altri paesi mentre si riduce anno dopo anno la sua produzione manifatturiera (oggi al 15% sul totale mondiale, quando era quasi la metà nell’immediato dopoguerra). Se questo processo fosse continuato avrebbe portato al crollo dell’economia americana. Molti provvedimenti (anche di Biden) sono stati all’insegna del rientro in patria della manifattura e del sostegno alle aziende made in Usa. Trump ha spinto in modo ancor più radicale, anche se non sarà solo coi dazi che lo si potrà risolvere. Per multinazionali e banche le cose andavano bene così. I fondi finanziari hanno fatto una montagna di soldi assorbendo l’eccesso di risparmio degli europei e del resto del mondo e trasformandolo in asset finanziari ed è per questo che hanno assunto una influenza crescente sui politici e, in alcuni casi, li hanno anche corrotti.

Non è un caso che tutte le banche nel mondo stanno felicemente prosperando sopra le macerie di tante manifatture ed operai. La narrazione era che “mobilità dei capitali e deregolamentazione” avrebbero arricchito tutti e rafforzato il dollaro. In realtà mentre i ricchi americani traevano enormi vantaggi a spese dei lavoratori e pensionati americani, anche gli industriali e finanzieri cinesi e tedeschi non erano da meno, in quanto la globalizzazione ha indotto tutte le imprese a rilocalizzarsi con la scusa della competitività: creando nuove filiere in paesi poveri  con salari più bassi, norme sulla sicurezza più blande, maggiore inquinamento da trasporti (specie da quando è stato inventato il container) e tasse più basse ovunque (si stimano 150 miliardi di euro in meno ogni anno nella sola Europa).

La narrazione era che così i poveri cinesi (et similia) si sarebbero arricchiti…la globalizzazione si faceva per i gli “ultimi”, i diseredati, quasi fosse un messaggio evangelico (sic!). L’effetto reale è sotto gli occhi di tutti (per chi vuole vedere): impoverimento per il 50-60-70% di chi vive nei paesi avanzati, riduzione delle imposte e del welfare, meno spese per sanità e istruzione, salari più bassi o, là dove crescono, meno di un tempo rispetto al valore aggiunto che generano, più debiti degli Stati, abbandono degli investimenti nelle infrastrutture e nelle energie rinnovabili proprio nel momento dell’aggravarsi della crisi climatica. Siamo giunti al paradosso che la finanza fino al 2008 ha pensato di guadagnare convincendo le famiglie americane ad indebitarsi per acquistare a rate una casa, con mutui insostenibili.

Del resto cos’è la disuguaglianza, se non uno spremere la maggioranza delle famiglie per trasferire reddito e patrimoni a quel 10% sempre più ricco al mondo? Il fatto è che questo modello non è sostenibile perché porta ad una riduzione della domanda interna, dei consumi, a maggiore indebitamento e ad un surplus dell’export…finchè c’è qualcuno (USA) disposto al deficit commerciale. Ma ora pare che il n.1 al mondo non sia più disponibile ad assorbire tutto questo.

Il permanere di questa guerra dei dazi ha di sicuro effetti negativi su tutti e prima di tutto sugli Stati Uniti, creando un clima di incertezza e anarchia com’è stato solo 200-300 anni fa. Per la stabilità finanziaria e dei portafogli di chi possiede azioni, la speranza è tornare al passato globalista. Ma esso non farà che impoverire ulteriormente le classi operaie. Prendiamo la Germania. Potrebbe passare da un avanzo di bilancio ad un disavanzo, abbassare le tasse sui lavoratori più poveri, aumentando così il loro reddito. Investendo poi su ponti, strade, treni e infrastrutture, energia verde, alleggerendo i mutui su chi compra la prima casa, crescerebbe la domanda interna, il tenore di vita, l’occupazione. L’Europa potrebbe seguire. Se poi si introducesse una normativa che finalmente elimina almeno i paradisi fiscali al suo interno, con una BEI che finanzia i grandi progetti infrastrutturali europei, forme di sussidio alla disoccupazione comuni, una crescente convergenza dei sistemi di pensione europei, tutta l’Europa si solleverebbe in un nuovo rinascimento. La Bei potrebbe emettere debito come fa il Tesoro Usa coi suoi tresaury, con finanziamenti internazionali se non trova quelli interni (che pure ci sono se pensiamo che gli europei risparmiano 30mila miliardi all’anno). Si potrebbe poi introdurre anche un’imposta sui grandi patrimoni dei più ricchi in tutta Europa. Se Cina e altri paesi seguissero, ci sarebbe uno straordinario aumento del tenore di vita all’interno di tutti i paesi e l’indebitamento scenderebbe. L’aumento dei consumi darebbe vita ad una nuova fase di rilancio degli investimenti. Il sistema basato di più sulla domanda interna con dazi limitati, potrebbe poi evolvere verso un sistema più aperto dove i dazi rimarrebbero per quei paesi che sfruttano i loro lavoratori e su cui potrebbe avviarsi un vero confronto, nel nome della Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII e dell’iniziativa del nuovo Papa Prevost (Leone XIV) che auspica la difesa del lavoro in tutto il mondo.

Manifattura significa non solo alti salari ma interrelazioni spesso vitali con altre industrie. Se l’Ilva di Taranto chiude ci sarà un effetto a catena sugli impianti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e sulle industrie italiane che si riforniscono di acciaio, com’è stato per la chiusura del cracking Eni di Marghera per la chimica. Per questo è importante ridare peso allo Stato, alla politica industriale e alla manifattura.

Sembra difficile ma fu fatto a Bretton Woods. Lì si formarono nuove regole che originarono un grande sviluppo nei primi 30 anni post bellici, all’insegna della domanda interna. Poi quelle regole erano imperfette, ma le ragioni di Keynes si potrebbero riprendere e quello che allora apparve uno sconfitto, sarebbe ora il vero vincitore: la sua idea del bancor (una moneta di riserva mondiale fatta da molte monete e da materie prime), di uno sviluppo globale basato sull’eguaglianza, sulla cooperazione e la pace e lo sviluppo della domanda interna. I popoli sarebbero d’accordo: molto meno i super ricchi e la finanza.

 

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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