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Climate change, uscita dal fossile o riduzione del danno?
La COP27 nei media italiani e stranieri

“Per rispettare gli Accordi di Parigi bisogna alzare l’asticella in materia di mitigazione e adattamento: ad oggi gli impegni presi ridurrebbero le emissioni del 5-10% al 2030. Troppo poco: serve tagliarle del 30-45%, altrimenti arriveremo a toccare i 2,4°C entro il 2100!”. Ridurre le emissioni: è questo il tema centrale trattato alla COP tenutasi a Sharm El-Sheikh, la ventisettesima conferenza delle parti sul clima. Ne hanno parlato a Radio3 Scienza, intervistati da Elisabetta Tola  – poco prima del termine dei lavori previsti per il 18 di novembre, ma slittati al 20 – Ferdinando Cotugno, giornalista freelance, collaboratore del quotidiano Domani, e Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network. Altro tema della massima importanza nell’agenda dei lavori della Conferenza, la questione del “loss and damage”, il risarcimento delle perdite e dei danni provocati dalla crisi climatica, obiettivo questo fissato nell’incontro tenutosi nel 2021 a Glasgow. Fa rilevare Cotugno quanto nei negoziati sul clima, visti i tempi ristrettissimi e la complessità delle questioni, contino le singole parole e addirittura la punteggiatura.

In un editoriale apparso il 26 novembre su Domani[1], Cotugno scrive chenon c’è leva di marketing, o politica, o economica, che non tenteranno di usare gli oltre seicento lobbisti che si aggiravano per la COP27, ma anche la retorica saudita ai tavoli negoziali per concentrarsi sul clima e non parlare di specifiche fonti di energia. Volevano che i combustibili fossili rimanessero fuori dalla bozza di accordo e ci sono riusciti”. Diverse sono le analisi a livello mondiale apparse sui più importanti quotidiani, dice Cotugno, “su come funziona lo sforzo dell’Arabia Saudita (e del suo «rinascimento»), di continuare a perpetrare la dipendenza globale da petrolio per decenni, ben oltre qualunque margine per avere un aumento della temperatura entro il limite di 1,5°C. Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, già oggi produce un barile di petrolio su dieci. Non esiste un futuro sostenibile se questa produzione non cala: è questo il mandato della scienza. Ma negli ultimi cinque anni i soldi del regime saudita hanno prodotto 500 studi universitari per dimostrare il contrario, gettando dubbi sull’elettrificazione dei trasporti, promuovendo benzine alternative o addirittura sistemi di cattura delle emissioni mobili da inserire sui tubi di scappamento dei veicoli”. “Solo negli Stati Uniti – continua Cotugno – il regime saudita ha pompato 2,5 miliardi di dollari negli atenei. Secondo una nota ufficiale del ministero dell’Energia «gli idrocarburi devono continuare a essere una parte essenziale del mix energetico globale per decenni». Il paradosso è che l’Arabia Saudita sta lavorando per arrivare a produrre metà della sua elettricità da fonti rinnovabili nel 2030. Il punto, però, non è quello che fai a casa tua. Il punto è il petrolio che continui a estrarre e vendere nel mondo”.

Ma cosa è successo realmente a Sharm el Sheikh?
Ne scrive Gwynne Dyer, che commenta i risultati della COP su Politics, in un articolo ripreso da Internazionale.it. “Dopo lunghe trattative, anche notturne, i presenti sono riusciti a concordare la creazione di un nuovo fondo che compensi i paesi poveri di loss & damage (perdite e danni) subiti a causa di eventi climatici estremi. Il denaro verrà dai paesi sviluppati le cui emissioni passate e attuali sono all’origine dei danni provocati, e – dice il giornalista canadese – dovrebbero bastare altri due o tre anni per istituire la nuova agenzia per perdite e danni”.

Il risultato della Conferenza è confermato anche da Sofia Belardinelli, che, sul sito di Micromega (https://www.micromega.net/ambiente/), scrive del “successo raggiunto al termine dei negoziati in una delle COP sul clima più lunghe di sempre, storica per alcuni aspetti, ma deludente sotto moltissimi punti di vista. Tra i principali successi raggiunti va senz’altro annoverato il fatto che nel testo finale sia stata inserita la risoluzione di istituire un fondo economico internazionale per far fronte alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico. In tal modo, viene per la prima volta riconosciuta ufficialmente la centralità della giustizia climatica, che porta con sé il riconoscimento implicito della diversa ripartizione delle responsabilità storiche nell’aver causato i cambiamenti climatici. Di questo successo – scrive Belardinelli – hanno gioito soprattutto i paesi in via di sviluppo, che si trovano nella posizione di essere al tempo stesso coloro che hanno meno contribuito a causare l’attuale crisi climatica ma che ne pagano, già oggi, le più aspre conseguenze”.

“La creazione del fondo loss & damage è il più grande risultato di giustizia climatica mai ottenuto, ribadisce Cotugno. “In cambio si è dovuto rinunciare a sforzi più incisivi sulla mitigazione, rinviando il tutto a Cop28, ma c’è una cosa che non si deve sottovalutare: il fondo danni e perdite è anche uno strumento di mitigazione”, e poi “questa gigantesca opera di responsabilizzazione degli inquinatori è anche una vittoria dell’attivismo e della società civile ambientalista. Per trent’anni i paesi industrializzati avevano ignorato la questione danni e perdite perché non volevano prendere atto delle conseguenze della crisi climatica. A Sharm el-Sheikh hanno dovuto farlo, ed è stato un grande risultato”. Si può dire che a Sharm el-Sheikh “un pezzo di colonialismo è finito”, perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea “hanno dovuto non solo concedere il fondo, ma anche accettare una decisione a cui erano contrari senza ricevere nulla in cambio”.

“E’ anche una questione culturale”, afferma sempre Cotugno nell’intervista a Radio 3 Scienza. Nei paesi «occidentali», il Nord del mondo, si è ancora abituati a vedere la crisi climatica come qualcosa che riguarda il futuro, nei paesi del Sud come qualcosa del presente. Il Nord del mondo “vive ancora come si fosse nell’ultimo dopo-guerra”. Un profondo cambiamento è quindi necessario.

E una spinta in questo senso è venuta dalla grande sorpresa di questa COP, la vera leader del fronte dei “vulnerabili”, Mia Mottley, premier delle Barbados. “È stata lei – scrive Sara Gandolfi, inviata del Corriere della Sera – a lanciare una proposta nuova e dirompente sulla finanza climatica e sulla riforma dei prestiti internazionali, che sarà sicuramente e presto al centro del dibattito mondiale”, raccogliendo una standing ovation quando in sessione plenaria ha spiegato “come una tassa del 10% sui profitti delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili avrebbe contribuito alla finanza per il clima con ben 37 miliardi di dollari nei soli primi 9 mesi di quest’anno. Cifra che equivale più o meno alle perdite economiche dell’alluvione in Pakistan”.

Mottley, scrive invece Repubblica.it, nota per gli impegni climatici promossi dalla sua isola e per il programma Roof to Reefs di protezione della biodiversità, è stata inclusa fra i “campioni della Terra” delle Nazioni Unite, e c’è chi la vede come futura segretaria generale dell’Onu. Il Time poi l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo. Ma a lei interessa soltanto una cosa: “In questo mondo possiamo avere un senso di responsabilità verso il nostro ambiente, ma anche verso le generazioni future. Ecco cosa desidero più di tutto”.

Intervenendo a Radio 3 Scienza, Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network, il movimento italiano per il clima, fa presente invece come si parli di “mitigazione e adattamento, ma ancora poco di riduzione dell’uso dei combustibili fossili” e come “occorra più coraggio da parte delle grandi economie del mondo che devono prendersi maggiori responsabilità nel cambiamento”, considerando che “la permanenza della CO2 in atmosfera può arrivare anche a 100 anni!”.

Anche in questa edizione i 35.000 delegati in rappresentanza di 195 nazioni non sono riusciti a mettersi d’accordo sul fatto che il mondo debba smettere di bruciare combustibili fossili per produrre energia e a definire azioni decisive e immediate per contenere l’innalzamento delle temperature entro il grado e mezzo previsto come limite dagli Accordi di Parigi del 2015. Altrimenti nel 2100 vivremo in un modo più caldo di 2,4-2,8 gradi. “Questo – scrive sempre Gwynne Dyerè ciò che si ottiene quando un’istituzione globale è governata dal consenso.
Tutti hanno diritto di veto, compresi i paesi che dipendono dal carbone, dal gas e dal petrolio, e gli interessi a breve termine di alcuni (denaro e rapida crescita economica alimentata dai combustibili fossili) si scontrano con l’interesse a lungo termine della collettività”. “Questo è il prezzo da pagare per appartenere a una specie che sta ancora emergendo da un lungo passato tribale e che ha sviluppato una civiltà ad alta tecnologia e ad alta energia prima ancora di essere culturalmente attrezzata per gestirla”, argomenta il giornalista.

Marinella Correggia sul Manifesto del 19 novembre parla di una COP senza accordo, e riporta una dichiarazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans sulla questione del fondo per i disastri climatici chiesto dal blocco G77+Cina. La mossa a sorpresa dell’accettazione viene giustificata così da Timmermans: “Non eravamo convinti dell’utilità di un Fondo ad hoc per le perdite e i danni causati da eventi climatici nei paesi più vulnerabili, ma siccome i G77 sono affezionati all’idea, li abbiamo ascoltati”. Motivazione quanto meno bizzarra!
“La proposta europea, continua Correggia, oltre a circoscrivere i destinatari ai «paesi più vulnerabili», impone «precise condizioni», e proponendo quello che chiama un «accordo pacchetto», chiede in cambio maggiori ambizioni da parte di tutti nel taglio delle emissioni e pretende una base di donatori ben più ampia rispetto al blocco occidentale”.

Meena Raman, coordinatrice della rete di attivisti Third World Network, cogliendo il nodo della questione, evidenzia che “la scala dei disastri è così enorme che i paesi sviluppati ne temono le implicazioni finanziarie”. Ma la proposta Ue aveva anche lo scopo di rompere l’asse negoziale G77 e Cina, mettendo nell’angolo quest’ultima che sarebbe vincolata sia a target nelle emissioni nazionali sia a esborsi finanziari per il loss and damage.
Un negoziatore cinese sulla questione ha infatti dichiarato: “Anche noi siamo un paese in via di sviluppo e subiamo enormi danni climatici”. Il paese, pur essendo ormai al primo posto al mondo quanto a emissioni totali (ma non a quelle pro capite), nella Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici del 1992 era classificato fra quelli in via di sviluppo, e finora aveva evitato l’obbligo di contribuire alla finanza climatica per i più poveri.

Visti i tanti nodi sul tappeto, quando ormai si era giunti al termine previsto della Conferenza, la presidenza egiziana ha annunciato che i negoziati sarebbero continuati oltre i termini. Questo anche a causa del silenzio degli Stati Uniti sulla proposta europea; Stati Uniti che più di tutti dovrebbero contribuire al Fondo, a cui lavorerà un Comitato di transizione con 24 paesi membri e che sarà reso operativo entro fine 2023. “Per ora, è il commento del think tank Power Shift Africa (https://www.powershiftafrica.org/), abbiamo una cassaforte vuota”. Chi darà, chi riceverà, come, quando e quanto si chiedono in molti, specie tra i rappresentanti dei paesi più vulnerabili. “Del resto – aggiunge Correggia – sempre più lobbisti del fossile (sponsor a parte) affollano le annuali conferenze al capezzale del clima”, a cominciare da Hill & Knowlton, l’agenzia multinazionale di pubbliche relazioni con oltre 80 uffici nel mondo, che ha curato la comunicazione per la conferenza delle parti COP27 a Sharm el Sheikh, malgrado i suoi decenni al servizio della disinformazione e greenwashing dei suoi clienti fossili.

Massimo Tavoni e Pietro Andreoni, in un lavoro presentato sul sito de lavoce.info[2], hanno mostrato come la scienza economica del clima, sviluppatasi di recente, permetta di quantificare, seppure con margini di incertezza, i rischi economici legati al cambiamento climatico e di identificare sistemi di finanziamento compensativi. Una delle ragioni per cui le negoziazioni alla COP hanno proceduto molto lentamente “è che quantificare i danni dei cambiamenti climatici e le relative richieste finanziarie è un compito complesso”. L’Agenzia europea per l’ambiente ha stimato una cifra di mezzo trilione di euro per la sola Europa negli ultimi 40 anni.

Sul sito greenreport.it[3] del 20 novembre è invece descritta la delusione del segretario generale dell’ONU, António Guterres, per i limitati risultati raggiunti, dopo i due giorni in più di drammatici negoziati in cui è stato raggiunto l’accordo che ha stabilito il meccanismo di finanziamento per compensare i vulnerabili per “perdite e danni” dovuti ai disastri indotti dal clima. Il luogo dove si è tenuta la Conferenza delle Nazioni Unite, non lontano dal Monte Sinai, ha ricordato Guterres, “è appropriato per parlare di una crisi di proporzioni bibliche i cui segni sono ovunque, come ci indicano le vittime delle recenti inondazioni in Pakistan che hanno inondato un terzo del Paese”. “Dobbiamo ridurre ora e drasticamente le emissioni (oltretutto alla luce dei nuovi report IPCC usciti quest’anno sempre più duri e incalzanti), e questo è un problema non affrontato da questa COP, anche se è stato compiuto, ma non sarà sufficiente, un passo importante verso la giustizia accogliendo la decisione di istituire un fondo per perdite e danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo, e che ha permesso di evitare, in extremis, il totale fallimento dell’incontro”.

Facendo riferimento a Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice, e al suo libro «L’imbroglio dello sviluppo sostenibile»[4], Costantino Cossu, sul Manifesto del 23 novembre, nell’articolo «L’ambiente e la crescita non vanno a braccetto. L’inganno delle COP», riprende le parole di Guterres. “Il tentativo di tenere insieme la crescita economica con la sostenibilità ambientale, cioè il cosiddetto sviluppo sostenibile, è stato l’obiettivo delle ventisei Conferenze delle parti che si sono svolte a partire da quella sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. Poiché la crescita economica è la causa dell’insostenibilità ambientale, i due obiettivi sono inconciliabili, come dimostra il fatto che dal 1992 la crisi ecologica si è aggravata”.

L’agire umano – afferma Pallante – in particolare quello economico, non è più ambientalmente sostenibile. In altri termini, sviluppo economico e mantenimento degli equilibri ecologici sono incompatibili. Perciò parlare di sviluppo sostenibile è una truffa, alla quale si prestano persino molti ambientalisti”. Allora tutti “i tentativi di frenare la corsa verso il disastro ambientale che non prevedano una riduzione, ragionata e programmata a livello globale, della crescita economica sono inefficaci. Tutt’al più rallentano quella corsa, ma non la arrestano”.
L’esempio più stringente è quello delle fonti energetiche rinnovabili: eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Per attenuare l’effetto serra “la strada maestra non è la ricerca di fonti pulite che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti. Questo è necessario, ma non basta”. Secondo Pallante “per portare nuovamente in equilibrio il rapporto tra attività umane e ambiente occorre ridurre la domanda complessiva di energia”, attraverso un modello di decrescita che introduca “criteri qualitativi nella valutazione delle attività produttive e quindi di riduzione selettiva del Pil facendo scendere la quantità delle merci inutili e dannose che peggiorano le condizioni di vita: la decrescita allora non è il meno contrapposto al più, ma il meno quando è meglio”. Un argomento molto complicato da affrontare, mentre si preferisce puntare ad una transizione verso modelli produttivi che riducano drasticamente le emissioni solo attraverso soluzioni tecnologiche.

A conclusione di questa rassegna, qualche annotazione sulla partecipazione italiana alla Conferenza di Sharm el-Sheikh. Cosa ha fatto e quale ruolo ha svolto il governo italiano? Molto poco, viene detto dai vari osservatori e commentatori, specie nella fase più “politica” del negoziato dove i nodi tecnici andavano risolti politicamente. Se le figure più importanti dei governi europei, ministri e vice-ministri dell’ambiente, sono state presenti e hanno partecipato concretamente ai tavoli delle contrattazioni, per l’Italia nessuna figura di rilievo del governo ha seguito le fasi cruciali del negoziato e senza un’agenda per seguire i lavori: è di fatto mancata la presenza italiana.

Il ministro dell’Ambiente e della Sovranità Energetica Gilberto Pichetto Fratin – si legge sul sito del giornale on-line fanpage (www.fanpage.it/)[5]  – lascia la COP27 prima dei negoziati decisivi, e il governo di Giorgia Meloni è l’unico tra i grandi paesi industrializzati a non gestire direttamente i negoziati più importanti sul futuro del mondo”.
Alessandro Modiano, ex ambasciatore in Egitto nel ruolo di inviato per il clima e capo delegazione per l’Italia è l’unico rimasto a Sharm el-Sheikh, ma con un mandato debole e senza ruoli politici nel nuovo governo. “L’Italia – scrive fanpage – che dovrebbe essere preoccupata dei cambiamenti climatici al pari di altri paesi europei e del mondo, è anche la prima linea dell’Europa per quanto riguarda un altro fenomeno che è destinato ad aumentare in maniera significativa: quello dei migranti climatici, la cui spinta non può che essere destinata ad aumentare”.

ECCO, think tank italiano dedicato alla transizione energetica e ai cambiamenti climatici (https://eccoclimate.org/it/), a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo, rilevava “impegni vaghi e una scarsa attenzione all’agenda climatica da parte della premier e della sua maggioranza, a cominciare da una «sorta di reticenza nell’identificare la decarbonizzazione quale variabile chiave per ridisegnare i sistemi energetici nazionali»
La priorità dell’azione di governo sembra essere il «perseguimento della sicurezza energetica indipendentemente dalla tipologia delle fonti di energia e a prescindere dalle ricadute sul clima». A ben vedere, conclude fanpage, “l’impegno del governo a COP27 è andato esattamente così, e di fatto il risultato più importante di Meloni è stato quello di aprire alla collaborazione sul gas con l’Egitto, dopo due parole di circostanza sui casi Zaki e Regeni”.

Il sito greenreport.it riprende il tema del ruolo e della presenza italiana alla COP27 partendo da quanto ricordato dal direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, Alessandro Giannì, relativamente alle affermazioni di Giorgia Meloni che, intervenendo al vertice sui cambiamenti climatici di Sharm El-Sheik, ha dichiarato “al mondo intero che l’Italia farà la sua parte per il clima”. Ma in che modo? Puntando su trivelle, rigassificatori e depositi di gas e continuare a favorire le solite compagnie che stanno macinando extraprofitti miliardari?
Il che vuol dire – conclude Giannì – “ignorare gli urgenti appelli della comunità scientifica che ci invita ad abbandonare al più presto i combustibili fossili”.

Note:

[1] https://www.editorialedomani.it/ambiente/cop27-lezioni-fossili-loss-damage-cina-torino-inquinamento-newsletter-cg3ov1m6.
[2] https://www.lavoce.info/archives/98787/dalleconomia-del-clima-un-aiuto-ai-negoziati-sulle-compensazioni/
[3] grennreport.it, quotidiano on-line per un’economia ecologica – https://greenreport.it/news/clima/il-quasi-fallimento-della-cop27-solo-un-piccolo-passo-aventi-verso-la-giustizia-su-perdite-e-danni/.
[4] L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, di Maurizio Pallante, LiNDAU, 2022.
[5] https://www.fanpage.it/attualita/la-cop27-decide-il-futuro-del-mondo-ma-il-governo-italiano-vola-via-al-momento-dei-negoziati/

 

Storie in pellicola / Siccità

Un tema di grande attualità, impietoso, devastante e terribilmente serio. Abbiamo visto i nostri fiumi smagrire, quel magro che non è lo snello sinonimo di benessere, ma un asciutto dei più asciutti che non lascia presagire nulla di buono. Il Grande Fiume per primo. La siccità. Questa tragedia causata dall’uomo stesso, che non da più, alla natura, la possibilità di ricaricarsi e riprendersi dagli attacchi impetuosi e imperiosi di un faber che ormai disfa. Le temperature miti di questo inverno non sono semplice bel tempo ma crisi climatica.

A toccare questo tema importantissimo è il film fuori concorso all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia, Siccità, di Paolo Virzì, cui è andato un riconoscimento speciale per essersi “assunto la grande responsabilità di esporre un tema così devastante e di incredibile attualità”, interpretato, fra gli altri, da Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Monica Bellucci, Max Tortora.

È un film nato durante il lockdown – peraltro, uscito nelle sale dopo l’estate più secca degli ultimi 500 anni -, quando, dice il regista, con le strade delle nostre città deserte, chiusi ciascuno a casa propria, connessi l’uno all’altro solo attraverso degli schermi, è venuto naturale guardare avanti e interrogarsi su come sarebbe stata la nostra vita dopo.

La sceneggiatura è scritta a otto mani dallo stesso Virzì, Francesco Piccolo, Paolo Giordano e Francesca Archibugi. È un cinema che (pre)corre e, oserei, scalpita.

Abbiamo iniziato a fantasticare su un film ambientato tra qualche anno, scrive Virzì nelle sue note di regia, in un futuro non così distante dal presente. Immaginando alcuni racconti da far procedere ciascuno autonomamente, secondo la tecnica del film corale, che man mano scopriamo esser legati l’uno all’altro in un intreccio più grande. Quasi un destino.

Una galleria di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, ricchi e poveri, vittime e approfittatori, ugualmente innocenti e colpevoli, un’umanità̀ spaventata, affannata, afflitta dall’aridità̀ e dalla vacuità delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rancore, rabbia, che attraversa una città dal passato glorioso come Roma, che si sta sgretolando e “muore di sete e di sonno”. Un tempo che fu, un tempo che non ritorna. Un futuro incerto.

Silvio Orlando, @Greta De Lazzaris, Vision Distribution

Una città in cui non piove da tre anni, tanto tempo, troppo. Tutti si sono irrimediabilmente inariditi, essere umani, piante, vite e anche pensieri. Antonio (Silvio Orlando), a Rebibbia (ormai la sua sola e unica casa) per avere ucciso la compagna, non sa proprio nemmeno immaginare la possibilità di essere libero, Loris (Valerio Mastandrea), autista impolverato, parla ormai solo con i suoi fantasmi, Alfredo (Tommaso Ragno), un attore scalcinato e narcisista è ossessionato dai social e dai like, mentre la moglie Mila (Elena Lietti) porta avanti, da sola il bilancio familiare, facendo i conti con un figlio ribelle. Ci sono poi un ex commerciante in bancarotta (Max Tortora), Sara (Claudia Pandolfi), un medico che scopre una nuova epidemia legata alla siccità e il marito Luca (Vinicio Marchioni) che la tradisce.

Valerio Mastandrea @Greta De Lazzaris, Vision Distribution

Mentre, in uno scenario apocalittico, la città aspetta con ansia la pioggia, come un miracolo, i destini di tutti questi essere persi si incrociano, in una decadenza di tutto e di tutti. Uomini che hanno sete d’acqua ma, soprattutto, di salvezza. Come sopravvissuti.

In un universo fatto di polvere, sete, tradimenti, nostalgie, malessere, paure (le stesse che la pandemia ci ha risvegliato) e delusioni. Oltre che di tanta immobilità che non porta da nessuna parte. In un tempo davvero molto ma molto malato. Film moralmente impegnativo.

Siccità, di Paolo Virzì, con Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Max Tortora, Vinicio Marchioni, Italia, 2022, 124 minuti

GERMOGLI /
Meloni cade sull’accisa… A proposito di cioccapiatti

“Il cioccapiatti era così chiamato perchè quando lo si condiva nel piatto e quando lo si mangiava, scrocchiava (a Bologna cioccava). Il cioccapiatti è una specie di radicchio selvatico che è molto presente lungo gli argini del fiume Reno. Poi associato a persone bugiarde, inconcludenti, false ecc. in quanto sembra una verdura pregiata ma in realtà è amaro, duro ed una volta pulito non rimane nulla = persona con pochi contenuti. “

Treccani, voce tratta dal dialetto bolognese

Giorgia Meloni, cui possiamo senz’altro attribuire la paternità (o maternità?) del programma elettorale di Fratelli d’Italia, a un certo punto del programma scrive: “Sterilizzazione delle entrate dello Stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di Iva e accise”.

Adesso che è Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni le accise invece non le taglia. Non ci pensa nemmeno. Siccome l’estratto del programma di cui sopra campeggia su ogni social e organo di stampa – a prova che la contraddizione è troppo plateale persino per un’ informazione sdraiata sul potere come la nostra – Meloni reagisce come nemmeno un Forlani d’antan avrebbe saputo fare. Dice che quella frase significa che “se hai maggiori entrate dall’aumento dei prezzi del carburante, le utilizzi per abbassare le tasse. Ma noi non avevamo maggiori entrate, ovviamente.” Ma dove sarebbe il periodo ipotetico, nel programma della Meloni? Io non lo vedo. E poi: come non sono aumentati i prezzi del carburante? Nel periodo da settembre a ottobre 2022 sono aumentati, eccome. Basta guardare il sito del Ministero dell’Ambiente e Sicurezza energetica (qui). Poi in novembre e dicembre c’è stato un lieve calo, e quindi Meloni prende i dati che le fanno comodo.

Ma il capolavoro arriva dopo. Meloni aggiunge infatti: “per tagliare le accise non avremmo potuto aumentare il fondo sulla sanità, la platea delle famiglie per calmierare le bollette domestiche, per i crediti delle pmi: tutte queste misure sarebbero state cancellate per prevedere il taglio delle accise”.

Ma pensa: se tagli le tasse a tutti in maniera piatta fai fatica a pagare i servizi sociali! Si tratta di un’affermazione di buonsenso, fatta  – una volta salita al governo – da una che, per andarci, ha raccontato l’esatto contrario (arrampicandosi sulla flat tax e scrivendo che le accise le avrebbe tagliate, eccome).

Accidere in latino significa “cadere sopra”.  Meloni è caduta sull’accisa, ma tranquilli: domani nessuno se ne ricorderà. L’importante è promettere, perchè la nostra politica è basata sull’imbonitura. Magari cambia l’imbonitore, perchè quello di prima ne ha sparate troppe e troppo grosse.

 

 

Parole a capo
Gian Pietro Testa: alcune liriche da “Antologia per una strage”

Tra le numerose pubblicazioni del giornalista, scrittore e poeta Gian Pietro Testa, recentemente scomparso, ce n’è una che colpisce per la sua differenza, per la sua profonda  pietas.  Gpt, come spesso si firmava, nel 1980 era cronista del quotidiano l’Unità. La mattina di quel tragico 2 agosto fu tra i primi giornalisti ad accorrere in quel macello della stazione ferroviaria sventrata dalla bomba del terrorismo fascista.
Nello stesso 1980 Giampietro da alle stampe una raccolta di versi: 85 liriche, una per ognuna delle 85 vittime della strage. “Mi premette, anche e soprattutto, con la poesia – scriveva Gian Pietro Testa nella prefazione – di ridare voce a quella gente a cui la bomba assassina aveva spezzato il suono. Fu quella una mia violenza? Pensai, infatti, di ricostruire l’ultimo pensiero, l’ultima parola, l’ultimo desiderio, l’ultimo sogno di quelle persone che venivano portate via dal piazzale della stazione in una bara senza nome: un numero, un numero soltanto quelle vite erano diventate“. Riproponiamo qui alcune di quelle poesie, nella speranza che qualche editore si incarichi di ristampare il suo “Antologia per una strage” oggi purtroppo fuori commercio.

n. 11

Ricordi, Luca, tesoro,
che ti cantavo:
“Trotta, trotta,
Pier Ballotta,
un panin e una ricotta…”?
E tu ridevi? Sù, ridi Luca
e tu Carlo scusa se prima
mi sono arrabbiata,
stammi vicino, ora, ti prego.

n. 25

Antonino mi chiamo,
sono operaio,
ho traversato l’Italia
per avere un lavoro
e finire, infine,
ammazzato.
E’ la mia storia.

n. 32

I campi correvano via
dal treno
e sembravano paglia
e ho pensato allora
che vorrei tanto essere poeta,
immaginare prati verdi
fiori e acque.
Ma come si fa
a essere poeti
se il più forte
violenta il debole,
se i figli dei padroni
diventano padroni,
se padroni ancora ci sono,
se il denaro compra il giusto,
se ti ammazzano
mentre pensi
come fossi poeta?

n. 59

Ogni sera al cinema e alla TV,
o sui giornali
compare la vostra vergogna.
Parlano soltanto di voi.
Mettete il fumo nella mente
dei poveri di spirito
(perché loro sarà
il regno dei cieli)
per ingrassare ancora,
per ostruire
coi vostri escrementi
questo grande cesso del mondo.
E di noi farete piazza pulita.

n. 83

M’è toccato, mamma,
conoscere il mondo
in un attimo breve.
M’è toccato, mamma,
fare un gran salto
come avessi vissuto
tutti i miei anni.
M’è toccato, mamma,
conoscere l’odio.
Ma io ti cerco ancora,
mamma, ti prego
una ninna nanna.

Le poesie sono tratte da: Gian Pietro Testa, Antologia per una strage. Ferrara, Italo Bovolenta Editore, 1980 (Prima edizione) – Bologna, Minerva Edizioni, 2005 (Seconda edizione aggiornata). 

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Arrivederci Giampi, ciao Elettra. Ci ritroveremo

Giunge un tempo, difficile da gestire, quando l’età ti crea attorno il vuoto dell’assenza e che proustianamente solo la memoria riesce a rendere realtà. Gianpi sapeva bene che il nostro rapporto si fondava sul comune amore per Elettra che riusciva a coagulare attorno a lei affetti, stimoli intellettuali, sociali, umani.

Negli ultimi anni il gioco che inscenavamo era questo. Elettra mi aveva creato come personaggio in un suo bellissimo romanzo: Tavor. E per ragioni esistenziali e soprattutto per esigenze narrative. Così suona la dedica: La prima copia ai miei amici Vittoria e Gianni, personaggi importanti in queste pagine, persone importanti nella mia vita, Elettra. Ferrara Aprile 2005“.

Ecco allora nascere il cattedratico –ça va sans dire– Venturini. Anzi ‘Il Cattedratico-Presidente’ che nelle sue vacanze nel Rodigino in una famosa villa di nobili ferraresi vien chiamato “il Conte”.  Da qui il gioco instaurato con Gianpi, alias Gpt, alias Gian Pietro.

Nelle nostre quasi quotidiane telefonate Gpt sollevava il microfono e con voce stentorea chiamava Elettra dal suo studio: “E’ il Conte!”. Del resto, mentre la conoscenza con Elettra si perdeva nel corso degli anni, da quando cioè s’insegnava giovanissimi nell’Istituto Tecnico per Ragionieri, quella con Gpt. era più recente. Non però la conoscenza della sua famiglia.

Il padre il mitico dottor Testa che ha curato nei difficili anni del dopoguerra intere generazioni di adulti e bambini. La moglie che faceva parte del ristrettissimo gruppo delle donne, poche, che contavano in città, capeggiate dalla Contessa Teresa Giglioli Maffei, erede della più importante famiglia aristocratica di Ferrara. E ancora ricordo l’arrivo del dottore nella nostra minuscola cucina che riempiva quasi del tutto con la sua stazza. E con occhio critico palpeggiava sia me che mio fratello.

Poi nel corso degli anni, ho cominciato a leggere le opere di Gianpi. A cominciare dalla Strage di Peteano. E a proposito di ciò che quel libro e la militanza politica ha significato per lui tendo a condividere il giudizio di Fiorenzo Baratelli, intellettuale impegnato e figura di alto rilievo nella sua città e non solo: Oggi, lo voglio ricordare come amico e compagno di tante battaglie politiche e culturali condotte insieme durante la comune militanza nel Pci, poi come ‘cani sciolti’ di una sinistra in perenne crisi. Ha ragione il figlio e amico Enrico Testa a definire Gian Pietro più anarchico che comunista. Nel senso che aborriva ogni forma di potere quando diventava arroganza, intolleranza, prepotenza, magari anche in nome di ideali nobili...”. 

Una parentesi straordinaria è rappresentata dal suo soggiorno napoletano e la fondazione di un giornale. Così scrive l’amico Sergio Gessi nel suo articolo apparso su Periscopio dell’8 gennaio 2023: “Nel percorso giornalistico, che è fil rouge della sua vita (specificare ‘professionale’ sarebbe riduttivo, perché cronista Gian Pietro lo è nel sangue), dopo l’esperienza a il Giorno, maturata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è poi passato a l’Unità e in seguito a Paese Seraper poi farsi promotore, a metà degli anni Ottanta, del solido e coraggioso settimanale Avvenimenti. A Napoli ha fondato e diretto Senzaprezzo, uno dei primissimi quotidiani a diffusione gratuita vincendo, grazie allo stile e all’accuratezza del lavoro suo e della redazione, lo scetticismo di chi riteneva che un giornale gratuito non potesse fare informazione seria, puntuale e senza condizionamenti.”

E a Napoli, meta delle nostre annuali vacanze a Lipari, con Elettra e Gianpi passammo giorni straordinari tra scoperte di trattorie speciali, negozi di lusso o le bancarelle del mercato, e le solenni visite nei musei. O ridevamo ai miei racconti di quando fummo sloggiati dall’Hotel Paradiso a Posillipo da Maradona, che ne fece il suo quartier generale, sapendo benissimo la mia repulsione per il calcio e il mio vanto di non aver mai visto una partita dal vivo.

L’ironia di Gianpi si esercitava proprio nella possibilità di lanciare il suo giornale che avrebbe dovuto circolare gratuitamente ma con un severo sguardo critico sul contenuto e anche mettendo in gioco un’altra tra le sue propensioni: quella di épater le bougeois, poiché è indubbio che tra le sue vene stilistico-narrativa c’è sicuramente quella di provocare stupore.

Il momento sicuramente dove più condividemmo le nostre ‘specialità’ culturali è stato raggiunto con il suo testo L’ultima notte di Savonarola (Ferrara, liberty house, 1990), con una mia prefazione. Il libretto rimane tra i ricordi più cari che mi rimangono di Gianpi, a cominciare dalla dedica: Ai miei amici Vittoria e Gianni. A Gianni prefatore d’eccellenza con tanta, tanta riconoscenza. Gian Pietro. Dicembre 1990.

E per concludere mi si perdoni l’autocitazione, ma è tutta a favore di un ricordo di Gianpi:Nel dramma delle parole-poesia si consuma il dramma di un Savonarola che, a tratti riveste i colori magici dell’infanzia dell’autore o gli scatti convulsi di una ideologia che è, è stata, passione e che rompe il velo sottile della favola poetica per assicurare all’autore, al lettore, al pubblico la disperazione della storia.

Arrivederci Giampi, ciao Elettra. Ci ritroveremo.

Cover: Gian Pietro Testa con Elettra Testi nel 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

Vite di carta /
Napoli caput mundi

 

Leggi Mille giorni che non vieni di Andrej Longo e al centro del mondo c’è Napoli con il suo paradigma di vita che sembra coprire pressoché tutta la casistica delle esistenze. Anche se vivi chissà quanto lontano da lì.

A raccontare la propria storia è Antonio Caruso, un giovane che si trova in galera a scontare una pena di tredici anni per omicidio, una pena che ha interrotto la vita in famiglia con la giovane moglie Maria Luce e la figlia Rachelina appena venuta al mondo e che ora ha sei anni. Ha interrotto anche il corso per la patente per guidare i camion e la possibilità di lavoro che avrebbe potuto seguirne.

Qui in cella le giornate passano tutte uguali, c’è molto tempo per ripensare al passato. E c’è l’amico Caffeina che riporta il buon umore con le sue battute: “Basta ‘sti penzieri! T’abbrucian’ ‘a cervella i penzieri! Nun penzà!”.

Là fuori Maria Luce sbarca il lunario lavando pavimenti,  alle prime visite in carcere Antonio ha sentito i calli nelle sue mani e intanto ha visto Rachelina; ora non più, perché le visite si sono interrotte e Maria Lù non vuole più saperne di lui.

Antonio comincia il suo racconto nel momento in cui gli viene comunicato che può uscire dal carcere; ne è felice ma anche sconcertato e non conosce il motivo per cui può tornare libero. Fuori gli amici non ci sono più, quelli veri come Caffeina e gli altri sono rimasti dentro. Certo gli si offre una seconda possibilità. Antonio rimette in moto le giornate potendo andare a vedere il mare e cercando soprattutto di ristabilire i contatti con Maria Lù e con la bambina.

In breve scopre che a scagionarlo dell’omicidio commesso è stato il complice, il grande amico Polpetta che, dovendosene andare per una grave malattia, gli ha lasciato in eredità la possibilità di tornare libero. È uno scambio di favori: insieme anni prima hanno ucciso per vendicare l’uccisione del loro amico di sempre, Tyson, ma a essere riconosciuto da un testimone e ad andare in galera è stato il solo Anto’.

A questo punto occorre che io riporti le sue parole mentre parla all’amico che non c’è più e gli spiega come mai non ha fatto il suo nome agli inquirenti. Le riporto perché in una storia come questa, in cui il protagonista è un pregiudicato, è lo stile con cui si esprime a catturare chi legge, sono le parole schiette e ingenue come queste:

“La tentazione l’ho tenuta. Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare”.

Nella sua narrativa Andrej Longo ci ha abituato al dialetto napoletano. Ho riletto i racconti di Più o meno alle tre, uscito nel 2002, e ho ritrovato la stessa cantilena nella lingua, il ritmo delle parole sincopate che pulsa venendo su dalle profondità di chi è partenopeo.

In questo ultimo romanzo, sono passati vent’anni, mi pare che il dialetto sia più marcato, più esclusivo. D’altra parte non può che essere così, dovendo coprire l’intero orizzonte espressivo del protagonista. Come se il narratore nei Promessi Sposi fosse Renzo, con la semplicità e la forza della sua capacità linguistica di “povero montanaro”.

Mi pare un’operazione mirabile. E ancor più mi piace che la vicenda di Antonio con i suoi contenuti diventi mano a mano la storia di tutti noi, almeno di molti.

Maria Lù si riavvicina cautamente a lui. Mentre Rachelina, che lo ama incondizionatamente, gli testimonia a ogni occasione la gioia che prova nell’averlo vicino. Le parole del titolo sono le sue quando lo rivede, per lei bambina l’iperbole di aver contato fino a mille i giorni senza di lui esprime al meglio il suo amore.

Per cercare un lavoro Antonio incappa in un giro illecito: mentre guida un camion carico di pomodori, scopre che in realtà nel fondo sono nascosti rifiuti tossici, armi e anche dei prigionieri. Sono dodici neri destinati a un destino di prostituzione e di morte.

Sono lì, davanti a lui, che li ha fatti uscire da quel nascondiglio soffocante, uomini, donne, bambini. Sono gli ultimi, i più fragili in assoluto su questa terra. In un atto di generosità, dice Andrej Longo in una intervista, Antonio li libera e li conduce da Padre Vincenzo nella sua parrocchia a Napoli, sempre aperta per chi ha bisogno di aiuto.

La parola giusta non è generosità, è quella che usa Antonio, “giustizia”. E qui mi torna di nuovo sulla punta della penna il Renzo manzoniano, che a Milano, in un mondo più grande di lui, ha come piccola bussola la sua idea di giustizia. Si mette nei guai, come ben sappiamo. E anche Antonio finisce per essere accusato di favorire l’immigrazione clandestina e ritorna in carcere.

Uscirà di nuovo? Uscirà. Offrendosi come esca per catturare la banda che gestisce il traffico criminale di uomini e di cose, col rischio della vita. Il finale della storia concede un po’ troppo allo stereotipo dei film d’azione, tutti spettacolarità, tuttavia si salva una volta di più per le parole di Antonio. Quando durante un secondo viaggio in camion prepara la cattura della banda, ci sono altri neri da salvare e lui si ferma a un autogrill e li fa uscire dalla pancia del camion.

Uno di loro, Mustafà, è già stato in Italia e può comprendere quello che Antonio gli raccomanda: “Senti a me: tu aspetta qua. Non ti muovere. Io prendo l’acqua al bar. Capito?” E quindi: “Prendo due pacchi di bottigliette da mezzo litro. Torno dai neri. Distribuisco l’acqua. Si attaccano alla bottiglia come se non bevono da dieci anni. Soprattutto i bambini tengono sete”.

È la giustizia naturale. È fratellanza, come ci terrà a precisate Antonio e Mustafà di rimando “Fratello, sì. Io sogno frato a te, e tu sei frato a me”.

Può chiamarsi ‘romanzo di formazione‘? Lo è per Antonio, che mostra di essere maturato in questo suo coraggioso atto di aiuto ai più deboli. Si è accostato alla sua famiglia con senso di responsabilità, facendo breccia di nuovo nel cuore di Maria Lù e godendo della compagnia di Rachelina.

Indipendentemente dal finale, che non va svelato, la sua attenzione a coloro che hanno bisogno ci investe tutti. Fa del suo un nostro romanzo di formazione: in questo tempo così pieno di piaghe a ogni latitudine, diventiamo consapevoli di essere insieme a lui i penultimi della terra.

Eravamo la classe media e ora viriamo verso la povertà, avevamo la pace e ora la guerra ci insegue, ci incalzano i tentacoli ricresciuti della pandemia. Lontani o vicini che siamo, da Napoli la parabola della storia di Antonio ci arriva forte e chiara e tenta di scompigliare le idee che avevamo prima. Ci offre una chiave per accorgerci delle infinite somiglianze tra noi e gli altri su questa terra.

Nota bibliografica:

  • Andrej Longo, Più o meno alle tre, Meridiano zero, 2002
  • Andrej Longo, Mille giorni che non vieni, Sellerio, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

 

Capitalismo e liberismo non sono sinonimi: la Cina ad esempio…

Quello che è capitato all’imprenditore e maggior miliardario cinese Jack Ma è significativo della differenza che forse correrà tra il capitalismo americano e quello cinese nei prossimi anni. E l’Europa (se ci fosse) avrebbe molto da imparare su come costruire una società migliore di quella dei due poli/leader mondiali.

Jack Ma, un insegnante di inglese, ha inventato nel 2011 Alibaba, un e-commerce molto più grande di Amazon; poi il pagamento elettronico con Alipay (usata da oltre un miliardo di cinesi). Ha creato una sua banca ed è insieme un imprenditore e un banchiere-finanziario, il più ricco cinese (50 miliardi di patrimonio nel 2020 per Forbes). Il presidente cinese Xi Jinping però non vede più di buon occhio questi miliardari privati che fanno quello che vogliono. A mio avviso, lo Stato cinese ha deciso di “condizionare” i suoi colossi tecnologici e finanziari (Alibaba, Tencent, ByteDance e le altri grandi imprese) regolamentandone l’attività in settori che hanno raggiunto un’influenza senza pari sulla vita quotidiana dei cinesi. La leadership comunista ha così deciso due anni fa, osservando formalmente le leggi cinesi, di avviare una “indagine” su ANT Group (che controlla Alibaba) sfociata in una multa da 2,8 miliardi di dollari, nello spezzettamento della società monopolista di e-commerce, nella vendita del quotidiano South China Morning Post, nell’impedire la quotazione alla borsa di Hong Kong (che avrebbe portato all’ingresso di azionisti stranieri). L’ultimo atto è stato ridimensionare Jack Ma (sceso dal 53% al 6,2% dei diritti di voto), per cui ora egli comanda un consiglio di 10 persone, tra cui lui (il fondatore), un rappresentante del personale, uno del management, e altri 7 “azionisti”, dietro cui si nasconde sicuramente lo Stato Cinese.

Gli Stati Uniti hanno permesso alla Cina di entrare nel WTO nel 2001 sotto la pressione delle multinazionali americane, che volevano far assemblare nelle affidabili fabbriche cinesi i loro prodotti, realizzando profitti molto maggiori attraverso l’utilizzo del lavoro cinese, meno costoso rispetto a quello americano. La Cina garantiva in cambio di diventare una “economia di mercato”, dando alle imprese occidentali gli stessi diritti che avevano in tutto il mondo (nel mercato “libero”) come, per esempio, quello di poter acquistare il controllo anche di aziende cinesi. Cosa che non è mai avvenuta. Nessuno in Occidente, però, in questi 22 anni ha mai protestato…forse per non compromettere gli affari delle imprese Usa e occidentali.

In questi ultimi 20 anni si sono così avvantaggiati molti milionari americani, è decollata la finanza, gli Stati si sono indebitati moltissimo (il debito pubblico e privato globale ha superato i 300mila miliardi di dollari, pari al 360% del pil mondiale, era il 100% nel 1970), ma anche i cinesi sono diventati milionari, tra tutti Jack Ma. La Cina ora pare voglia cambiare: dopo 20 anni di liberismo cinese, mette sotto controllo sia la finanza privata che le grandi aziende (non solo tech) onde evitare di perderle (tramite quotazione alle borse di Hong Kong o altrove), e per indicare come Stato quali sono i settori da sviluppare – un esempio: i semiconduttori, di cui Taiwan, sulla quale ha mire militari, è il primo produttore mondiale – nonché usare parte della ricchezza accumulata per redistribuirla alle zone povere. Lo Stato cinese vuole dire la sua in relazione a quale sviluppo considerare strategico per il proprio futuro.

Il “paradosso” è che sia uno Stato dispotico a preoccuparsi anche dei divari sociali e volere che sia il potere pubblico a decidere quali siano gli orientamenti a lungo termine della società, e non le imprese o la finanza privata. E’ un tema che dovrebbe riguardare piuttosto “le nostre democrazie, sempre più disinteressate alla scuola e all’indipendenza della stampa (che evita di fare buone domande…)”, dice nel suo libro “En finir avec le règne de l’illusion financièreJacques de Larosière (per 20 anni direttore del Tesoro francese, direttore del FMI e governatore della Banca di Francia). De Laroisière è’ molto preoccupato che “la socializzazione del rischio di un debito enorme” possa riversarsi sulle economie occidentali desertificando redditi e lavoro, atteso che l’Europa è fatta “di Governi che vivono nella paura di mercati finanziari ormai dominanti”.

Per l’Occidente liberista le azioni cinesi sono dispotiche e costituiscono violazioni del “libero mercato”, ma non è detto che la maggioranza dei cittadini (cinesi, ma forse anche americani ed europei) sarebbe contraria a vedere ridimensionato il ruolo dei grandi miliardari privati e della finanza, per conferire un ruolo maggiore allo Stato nell’economia, riportare la finanza a fare il suo mestiere al servizio di imprese e famiglie e usare parte dell’immensa ricchezza privata per operazioni di vera redistribuzione.

E’ su queste questioni dirimenti per le persone in carne ed ossa che si confronteranno Cina e Stati Uniti nel prossimo decennio. Potrebbe proprio succedere che la “competizione” aiuti a riportare il capitalismo a “quote più normali”, come successe nei primi 30 anni del secondo dopoguerra nella competizione tra Usa e Urss.

Il problema è che l’Europa non esiste. Siamo diventati alleati completamente proni agli Stati Uniti. In Europa una iniziativa pubblica del genere potrebbe anche progredire, più che per spinta dei partiti, ad opera delle associazioni dei consumatori e dei sindacati, che potrebbero comunque avviare una discussione pubblica. L’esatto contrario di quanto avvenuto col PNRR, dove tutto è stato deciso dall’alto, senza alcuna consultazione pubblica, dei Comuni, tantomeno delle associazioni o dei sindacati. Ci ritroveremo con opere spesso costosissime, a volte inutili e, nella migliore delle ipotesi, con un respiro corto. Come nel caso delle mille “case della salute”, dove l’impossibilità di assumere ci darà bellissime strutture piene di attrezzature ma senza personale.

Occorre prendere atto del fatto che redistribuire la ricchezza o individuare quali siano i reali bisogni da soddisfare per l’umanità non è un tema che interessa al capitalismo liberista. Solo un’azione collettiva promossa dalla partecipazione dei cittadini tramite le loro associazioni può orientare l’agenda economica e sociale in questa direzione, non certo il “libero mercato”. La crisi del capitalismo in Usa ed Europa, al di là dell’immagine semplificata (anche se in parte fedele alla realtà) per cui noi siamo “liberi” e “loro”  sotto il giogo di una dittatura, dimostra una cosa:  se accanto ai diritti civili di stampo occidentale non si affermano anche i diritti sociali sostanziali, non ci potrà essere autentico progresso. Non sarà semplicemente gridando al mancato rispetto dei diritti civili nell’emisfero orientale, che si potrà invertire la tendenza all’ampliarsi del (già enorme) divario sociale che caratterizza gli ultimi 20 anni di molte società occidentali avanzate.

Inesauribile Proust!

Inesauribile Proust! Mito, devozione che sfiora il feticismo, ammirazione e ricerca, ricerca incessante, come se la parola chiave del titolo dell’opera proustiana fosse proprio recherche più che il temps perdu. Come un oggetto introvabile che si sa esistere da qualche parte, il tempo di Proust non esiste senza il suo inseguimento nella scrittura dell’autore e anche in quella del lettore.

Molte le pubblicazioni che nel 2022 hanno celebrato il centenario della morte di Proust, che segue di un anno le commemorazioni dei 150 dalla sua nascita. Ma tra queste merita una segnalazione particolarissima il volume progettato e curato da Anna Dolfi, Il ‘tono’ Proust. Dagli avantesti alla ricezione (Firenze University Press, 2022). Già di per sé il titolo suscita la curiosità.

Fa pensare subito, anche a chi ha letto soltanto qualche pagina del grande romanzo, a una singola voce narrante che ricompone ricordi disparati, alle lunghe frasi che avanzano imperturbabili con una sintassi simile a una respirazione continuamente interrotta, alle incise, alle precisazioni che si accumulano e irretiscono il lettore in meandri di parole…

Il titolo è accompagnato dal volto di Proust che occupa tutta la copertina e spicca tra contrasti di colore e non-colore. Solo alla fine della sua bella premessa – La sfida della durata. Per un anniversario –, a riprova di come tutto sia stato studiato e pensato con attenzione, Anna Dolfi racconta com’è nata l’idea di un giallo dominante, sul quale si stagliano in nero e grigio i lineamenti dello scrittore, occhi e baffi inconfondibili.

Il giallo è quello che, in una Vista di Delft di Vermeer indica «un pan de mur» (ad essere precisi un pezzetto di tetto più che di muro), che aveva affascinato il personaggio di Bergotte colto poco prima di morire mentre lo contempla mormorando: «Petit pan de mur jaune avec un auvent, petit pan de mur jaune».

Il color giallo insomma invade nella Recherche la scena della morte e iscrive, in sottotraccia alla fine di Bergotte, la presagita fine dell’autore infermo e malato, che aveva consegnato l’intera sua vita al lavoro del linguaggio. Il ‘tono’ Proust è anche questo incessante rinvio di allusioni, cenni, particolari, richiami che affiorano alla memoria in un travaglio ininterrotto di parole.

Il ‘tono’ Proust., a cura si Anna Dolfi, Firenze, University Press

Sette sono le sezioni che, collocate ognuna sotto un tema dominante, suddividono il volume facendo emergere alcune linee semantiche trasversali che continuano a intrecciarsi. Impossibile in uno spazio limitato dare ragione di tutte e della ricchezza e suggestione dei singoli saggi.

Basti dire che una di queste, relativa agli avantesti (ovvero a tutto quanto precede la stesura definiva), solleva l’ardua questione della traduzione dei brouillons (degli scartafacci) e della doppia fragilità del testo, per le molteplici varianti che lo «pluralizzano» e per le molteplici traduzioni e interpretazioni che a loro volta lo frantumano.

Ma la riflessione sulla frantumazione del testo ha anche una funzione più generale e accompagna implicitamente la lettura degli altri contributi (oltre una ventina), rivelando ogni volta aspetti imprevisti.

Getta una nuova luce sul cerchio intertestuale dell’opera proustiana, sia che si tratti della genesi del personaggio di Charlus splendidamente presentata da Mariolina Bertini; della novella di Baldassare Silvande, in cui Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia evidenziano gli indizi precoci della memoria involontaria; del Proust ‘morcelédell’editoria di cui parla Alberto Cadioli; del Proust tra Flaubert e Céline di Patrizia Valduga; o dei molti saggi sulle traduzioni.

In una prosa vivace e ampiamente documentata, esaminando le traduzioni inglesi, Laura Barile propone ad esempio una storia della ricezione dell’opera proustiana nel Regno Unito, che è anche una storia della critica e della ricezione di Proust all’estero. A sua volta questo sguardo retrospettivo rimanda ad alcuni momenti fondamentali della critica proustiana in Italia, o a felicissimi dialoghi (il caso di quello tra Contini e Fallois).

E non dimentichiamo, in un registro diverso, la radio-recita del 1952 ideata dal grande studioso Giacomo Debenedetti che, rivolgendosi a un largo pubblico, faceva in quella forma insolita conoscere l’opera di Proust ‘democratizzando’ la riflessione critica sulla letteratura. Il saggio che la esamina s’inserisce tout naturellement nella vasta ricezione che accompagna ormai La recherche.

Autografo proustiano (foto di Anna Dolfi)

 Se le trasposizioni filmiche di un romanzo da tempo fanno parte delle nostre abitudini culturali (a questo proposito merita ricordare il film del 1984 di Volker Schlöndorff, Eine Liebe von Swann, con Ornella Muti e Alain Delon, dall’atmosfera torbida che avvolge i personaggi), recentemente sono uscite in più volumi le bandes dessinées, i fumetti, che propongono una nuova visione di un’opera che si è sempre caratterizzata e distinta per la qualità della sua scrittura linguistica.

Opportunamente la curatrice del nostro volume incomincia la sua avvincente presentazione da questo fenomeno sollecitando la nostra attenzione e curiosità. Non invano.

Visto che si parla di immagini, si aggiunga anche che molte attraenti illustrazioni arricchiscono il volume, e non come semplici curiosità in qualche modo subordinate alla parola, bensì piuttosto come un altro modo di leggere Proust, tratteggiando linee semantiche autonome. Come dire che le immagini collocate qua e là sono parte integrante della composizione e dello spessore significante del libro.

Che dire d’altro? A me piacciono molto i volumi collettivi che raggruppano intorno ad un argomento ricerche di personalità diverse: ci regalano tante voci, tanti punti di vista abilmente guidati da uno sguardo organizzatore. Riescono ad abbinare la varietà e la coerenza del tutto con l’autonomia dei singoli saggi e, almeno in un caso come questo, riuscendo perfino a oltrepassare la cerchia degli studiosi specialisti, sono in grado di coinvolgere curiosi e appassionati di letteratura. Insomma questo TonoProust è un libro da non perdere: assolutamente da leggere e da avere in biblioteca.

Il Volume:
Anna Dolfi (a cura di), Il ‘tono’ Proust: Dagli avantesti alla ricezione, pp.505, Firenze, University Press, 2022, € 22,90, edizione in pdf € 13,00. 

In copertina: Jacques-Emile Blanche, Portrait de Marcel Proust, 1892 (immagine su licenza di Société des amis de Marcel Proust)

Parole e figure / Mind the gap

Non è la ben nota frase della metropolitana di Londra che, dal 1969, avverte i passeggeri dello spazio fra la banchina e le porte del treno. Né quella usata alle stazioni di Toronto, Singapore o New York. È comunque una linea di attenzione da non oltrepassare.

Mind the gap. Che la storia abbia inizio (Kite Edizioni) è il titolo di un’originale raccolta di otto storie illustrate da Monica Barengo, scritte da otto autrici differenti: Chiara Argelli, Giulia Belloni Peressutti, Amanda Cley, Valentina Mai, Martina Manfrin, Paola Presciuttini, Paola Tasca, Germana Urbani. Voci squisitamente femminili.

Protagonista è la narrativa, si tratta di incipit che possono portare ogni lettore dove meglio crede. Ciascuno si proietti verso il suo percorso immaginario, parta e vada dunque dove vuole! Spazio alla fantasia, al coraggio di rincorrere il futuro che si vuole disegnare.

Abbiamo davanti una linea, un punto prima di attesa e di partenza poi, pur con un ammonimento a fare attenzione, sempre. Con tante immagini che si trasformano in parole e che danno vita a qualcosa di nuovo, a un finale aperto e immaginato.

I puntini di sospensione a chiusura di ogni incipit ci invitano a continuare la narrazione e q trovare noi il nostro finale. Un po’ come il la dato da un bravo Maestro. Tonalità e via. La partenza è la vera meta. Il primo passo del cammino.

Siamo dunque messi di fronte a racconti-assaggi pensati per i “più grandi” che parlano di incontri, partenze e addii, di amori puri e lontani nel tempo su cui fantasticare, di libri e nascondigli, di pensieri dei piccoli e di “malattie” dei grandi, di gabbie familiari e lente rinascite, di fughe e attese, di viaggi verso luoghi vicini e lontani. Di speranze, sogni, bisogno di avere radici. Sono racconti che danno la spinta a pensieri e riflessioni profonde, testi in continuo e quasi perpetuo movimento che nascono da illustrazioni raffinate, poetiche e romantiche, dal tratto sottile e delicato che, con i loro colori tenui, racchiudono quell’atmosfera delle melanconie autunnali.

Ci sono allora Moondellaluna dal viso tondo e luminoso (Chiara Argelli), i puri di cuore, Giulia Belloni), chi ruba i libri si nasconde e legge (Terra d’Ocra, Amanda Cley), gli adulti che non sono felici (Valentina Mai), Luisa che non sa fare niente (Inadatta alla vita, Martina Manfrin), il tempo che gocciola come un rubinetto rotto (Noi e l’attimo, Paola Presciuttini), Anna che, il 21 settembre 1933, scappa con una valigia sola (Prima che sia troppo tardi, Paola Tasca) o le isole che vanno e vengono (A precipizio, Germana Urbani).

Storie che non finiscono e che, molto probabilmente, non finiranno mai. Perché il progetto è speciale: recuperare quello che il racconto e la fiaba dovrebbero essere, una piccola porta aperta verso un altro mondo che, una volta aperta, dobbiamo percorrere noi.

Perché il segreto è cominciare e la fantasia e la voglia di andare lontani non hanno limiti.

Monica Barengo è nata a Torino nel 1990, ma è cresciuta in campagna dove da bambina trascorreva le sue giornate seduta sul davanzale della cameretta a leggere favole o coricata per terra con la pancia sul palchetto caldo a disegnare. Il disegno è sempre stato con lei, un gioco da bambina, uno sfogo da adolescente (ha frequentato il liceo artistico e lo IED di Torino) e oggi un lavoro da adulta. Attualmente lavora come illustratrice per albi illustrati, principalmente in Italia, Francia e Taiwan. Nel 2012 è selezionata alla mostra degli illustratori della fiera di Bologna e, nel 2013, vince il premio previsioni future indetto dall’associazione illustratori italiani. Nel 2022, le viene conferito il premio “New York Times/New York Public library Award 2022” per il miglior libro illustrato per bambini scritto in collaborazione con l’autore Davide Calì, Lo scrittore.

AA.VV, Mind the Gap / Che la storia abbia inizio, illustrazioni di Monica Barengo / Kite Edizioni, 2022 

Immagini, cortesia Monica Barengo / Kite Edizioni

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

Gpt, uno spettacolo per i miei occhi:
giornalista, maestro, artista, scrittore

Era il 2014 quando ho fatto questo servizio fotografico a Gian Pietro Testa, giornalista, scrittore, pittore, maestro e amico.  Gli chiesi una sua fotografia perché mi serviva per illustrare la foto-notizia della rubrica “Immaginario” sul quotidiano online Ferraraitalia fondato da Sergio Gessi, con cui condivido il ruolo di ex allievi della scuola di giornalismo IFG da lui fondata a Bologna all’inizio degli anni Novanta.  La rubrica basata sul connubio di testi e immagini, all’epoca, era quotidiana e per quel giorno l’avrei usata in occasione della presentazione di un suo libro, “Interviste infedeli”, per la giornata del 23 dicembre 2014. Mi disse che non aveva praticamente fotografie di se stesso, se non qualche scatto fatto quasi per caso, fototessere o poco altro.

Gian Pietro Testa (foto GioM)

“Se vieni – mi invitò – poi me ne dai qualcuna da usare nella pubblicazione del mio prossimo libro”. Una bellissima proposta, che mi inorgoglì e mi diede un sentimento intenso di gioia. Con entusiasmo ci dedicammo a fare questi ritratti nella sua casa, in via Carlo Mayr, tra gli arredi d’epoca, le foto di famiglia incorniciate e poi – mi parve d’obbligo – dietro alla scrivania del suo studio. Era uno dei miei periodi di massimo entusiasmo per la fotografia e con molto orgoglio usavo la mia Olympus mirrorless immaginandomi di essere una futura Vivian Maier.

Gian Pietro Testa nella sua casa (foto GioM)

Di quella serie di foto ne usai una. A Gian Pietro diedi tutte le copie degli scatti stampati su carta, perché diceva che di immagini dentro al computer (e men che meno dentro a un cellulare) non ne voleva sapere, le voleva tangibili e materiali, da tenere in mano e sfogliare.

Gian Pietro Testa alla scrivania (foto GioM)

Aveva ragione. La ricerca del set fotografico virtuale è stata più impervia di quel che avrei creduto, gli anni passano e anche gli archivi online possono occultarsi senza che ce ne rendiamo conto e senza che ci si possa più fare alcunché.

Negli anni successivi capitava che con Gpt ci incontrassimo. Prendevamo appuntamento per chiacchierare sedendoci a bere qualcosa in un bar del centro. Mi diceva: vorrei che scrivessimo insieme un libro, cerco ispirazione o altre cose lusinghiere che mi facevano sorridere e mi mettevano quasi in soggezione. Ogni volta era immensa la voglia di tirare fuori la macchina fotografica o, più tardi – quando quella l’ho un po’ tralasciata – anche solo la fotocamera del cellulare.

Gian Pietro Testa con Elettra Testi nel 2017 (foto Giorgia Mazzotti)
Premio Stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

“Perché mi fotografi sempre?”, mi chiedeva un po’ stupito. Perché con lui c’era sempre una bella visione davanti a me. A volte metteva berretti variopinti spettacolari e poi c’erano le sue espressioni, le sue pose, i suoi gesti. La sua presenza era per me uno spettacolo di cui non perdere nemmeno un istante. Mi trattenevo un po’ per non essere eccessivamente invadente e per ascoltare meglio le sue parole.

Gian Pietro Testa nello studio (foto GioM)

Il Covid ha rallentato tutto. Io ho usato sempre meno la macchina fotografica per riprendere invece in mano pennelli e colori. Avrei voluto coinvolgere Gian Pietro Testa in un progetto di opera d’arte composta di tavole di piccolo formato fatte a più mani, a tema naturalistico, da esporre non so poi dove.

“Crocus” di Gpt e tavolette di natura-scrittura

In casa ho una sua grande e bellissima tela, un “Crocus” giallo scintillante su fondo porpora, che immaginavo come compagno ideale delle mie tavole in tema di foglie e fogli, scrittura e natura, da condividere con altri amici amanti di penna e pennello.

Gian Pietro Testa e il ritratto con Enrico (foto GioM)

Via via, però, i nostri incontri sono stati sospesi e si sono ridotti a un’ipotesi; mi diceva spesso che voleva che ci incontrassimo ma che, in quel momento, non era abbastanza in forma. Mi disse: magari vieni a fotografare i miei quadri in soffitta. Ma era quasi sempre troppo freddo o troppo caldo, come capita in effetti quasi sempre a Ferrara. Aspettava di essere più in forma. Ora mi restano solo queste forme riflesse sullo schermo del computer. Ciao Gpt, grazie, scusa, ti abbraccio tanto.

L’insostenibile stangata

di Patrizia Pallara (tratto da Collettiva)

I rincari di bollette, beni e servizi e la crescita dell’inflazione superano i 3.400 euro all’anno a famiglia. Fracassi, Cgil: “Aumentare i salari per evitare spirale depressiva”, Il 2023 è appena cominciato ed è subito stangata. Per le famiglie italiane, alle prese con gli aumenti delle bollette e dei carburanti, il nuovo anno inizia con un salasso.

Secondo i calcoli di Federconsumatori, i rincari stimati superano soglia 2.384 euro in 12 mesi: agli aumenti già annunciati si aggiungerà una crescita generalizzata dei prezzi di alimentari, servizi e altri beni, trainati dai costi degli energetici. Se il tasso dell’inflazione si confermerà al livello attuale, quindi, più 11,6 per cento su base annua l’indice generale, più 8,1 per cento in media i prezzi al consumo, le ricadute arriveranno addirittura a quota 3.456 euro.

“Le stime Istat confermano un anno record per l’inflazione, in corrispondenza di un forte rischio di recessione alle porte – afferma la vicesegretaria generale della Cgil Gianna Fracassi -. Il rialzo dei tassi non sembra funzionare a contenere i prezzi, soprattutto visto che l’inflazione sorge dall’offerta e in particolare dalle materie prime energetiche”.

Le famigerate accise

Partiamo dalla prima brutta sorpresa, il rialzo dei carburanti, scattato il 1° gennaio perché il 31 dicembre è scaduta la proroga del taglio delle accise (le imposte su fabbricazione e vendita): la misura originaria era stata introdotta a marzo scorso dal governo Draghi (la riduzione valeva 30 centesimi al litro), da novembre lo sconto era stato ridotto. Ora, con il nuovo anno, le famigerate accise si pagano per intero: il rifornimento alla pompa costa 18,3 centesimi in più al litro per benzina e gasolio e 4,3 per il Gpl per autotrazione.

A tutto gas

Ma i balzelli non si fermano qui. Il 3 gennaio l’Arera, Autorità per l’energia, reti e ambiente, ha aggiornato con il nuovo metodo su base mensile le tariffe del gas per i clienti del mercato tutelato. Purtroppo non ci sono buone notizie: la bolletta cresce del 23,3 per cento rispetto al mese precedente, in controtendenza con il mercato dell’energia. La spesa della famiglia tipo nell’anno scorrevole (dal 1° gennaio 2022 al 30 dicembre 2022) è di circa 1.866 euro, pari a più 64,8 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti.

Aumenta ma non ribassa

Un andamento che dimostra come le tariffe tardino a beneficiare della riduzione sul prezzo all’ingrosso. In questi giorni infatti il gas all’apertura dei mercati si attesta sui 77,5 euro al Mwh, ovvero il 23 per cento in meno rispetto alla media del mese precedente e il 31 per cento rispetto a due mesi fa.

Si tratta di un fenomeno che interessa anche i consumatori che sono nel mercato libero, sul quale sarebbe necessario un monitoraggio per contrastare la speculazione: molte aziende, infatti, pur acquistando gas ed energia a prezzi più favorevoli, continuano a rivenderli agli utenti a prezzi esorbitanti.

La bolletta elettrica

Poi c’è l’energia elettrica. “Con il calo delle quotazioni all’ingrosso dei prodotti energetici e l’attuazione degli interventi del governo contenuti nella legge di Bilancio – informa l’Arera – per il primo trimestre del 2023 il prezzo di riferimento dell’energia elettrica per la famiglia tipo in tutela si riduce del 19,5 per cento”.

La bolletta rimane comunque elevata. In termini di effetti finali, ammette la stessa Autorità, “la spesa per la famiglia tipo nell’anno scorrevole (1° aprile 2022 – 31 marzo 2023) sarà di circa 1.374 euro, più 67 per cento rispetto all’anno precedente”.

Rincari generalizzati

Secondo Federconsumatori il rialzo del costo di luce e gas durerà a fasi alterne per tutto l’anno e sarà aggravato, da aprile, dalla cessazione prevista dal governo delle misure di sospensione degli oneri di sistema (che oggi non paghiamo in bolletta), determinando ricadute insostenibili sui bilanci delle famiglie. Alimentari più 9,2 per cento, assicurazione più 4,6, tariffe acqua più 6,2, ristorazione più 5,9, solo per citare alcune voci.

Quelle sue 85 poesie per ogni vittima della strage della stazione di Bologna

“Sei il solito cacadubbi”. Così mi sgridò Gian Pietro Testa, dopo  che gli raccontai  delle mie ambasce per aver sostenuto l’esame da giornalista professionista, che superai abbastanza bene. Aveva tenuto una lezione al corso di preparazione presso l’Ordine interregionale dei giornalisti a Bologna, e io ero un suo allievo, ero tra coloro che dovevano sostenere l’esame. Quando ci incontrammo, dopo la mia prova positiva, se ne uscì con quella frase. Per dirmi: questo  mestiere lo sai fare.

Un modo tutto suo – ironico, distaccato, ma preciso e saggio – per giudicare le cose umane. Sapeva essere anche duro, quando occorreva: mi ricordo una sua tirata all’assemblea dei giornalisti del l’Unità Emilia-Romagna, dove entrambi lavoravamo, in cui attaccò il modo di dirigere il giornale, che era già dentro una delle sue crisi, e criticò soprattutto la mancanza di prospettive che cominciava a pesare sull’organo del PCI.

Era fortemente deluso, e quella volta lo dimostrò. Lui che veniva dal Giorno diretto dal partigiano Italo Pietra, quotidiano principe nell’Italia degli anni ’60 e ’70; lui che per primo entrò nella sede della Banca dell’Agricoltura a Milano dopo la strage del 12 dicembre 1969, non poteva sopportare, credo, che il giornale fondato da Antonio Gramsci avesse imboccato la strada del declino.

Testa – o gpt, come spesso si firmava – ha fatto tante altre cose che altri diranno. Io lo voglio ricordare qui come autore di quella “Antologia per una strage” sul tragico attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: una poesia per ognuna delle 85 vittime.

Ha scritto diversi libri, nei quali ha mostrato le molte sue capacità, una vis polemica  per scuotere le coscienze, e tutta la sua arte: perché Gian Pietro non è stato soltanto giornalista e scrittore, docente e poeta, è stato un artista.

E, lo confesso, gli piacevano le mie poesie: insieme andammo da un poeta noto, Paolo Ruffilli, perché le valutasse. Ancora una volta  dimostrò la sua fiducia in me e in quel che facevo, e per questo gli sono sempre stato grato.

Anche se in questi anni l’ho visto e sentito poche volte, la sua presenza vicino a me l’ho spesso avvertita. Le vere amicizie vivono oltre le distanze, nonostante le assenze. A suo figlio Enrico, ai suoi famigliari, le mie sincere condoglianze.

Gian Pietro Testa, Antologia per una strage, Argelato (BO), Minerva Edizioni, 10,00 Euro

 

Gian Pietro Testa, il giornalista dalla schiena dritta

In ricordo di Gian Pietro Testa, straordinario amico e maestro di giornalismo,
pubblico qui la prefazione a quel che purtroppo resterà il suo ultimo libro, L odio. Ai compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà, Ferrara, edizioni La Carmelina, maggio 2022.
Mi chiese di scriverla ed è stato per me oltre che un onore anche l’opportunità di tratteggiare – soprattutto a beneficio dei più giovani – la sua poliedrica figura di giornalista e scrittore, a coronamento di un’amicizia (la nostra) lunga 45 anni. È stato per me un grande privilegio essergli amico.
Resterai sempre nei nostri cuori caro carissimo Gpt.
Per Gian Pietro il giornalismo era uno strumento finalizzato alla ricerca della verità, accompagnato dal dovere di combattere l’ingiustizia. Per questo si è sempre trovato a praticare strade in salita e molto spesso nella condizione di dover sminare il terreno per fare chiarezza fra i fatti e gli ostacoli frapposti dai potenti al fine di occultare le soperchierie e alimentare i propri interessi. Nella sua lunga e brillante carriera non ha mai derogato da questa regola ferrea.
Sempre caparbiamente dalla parte del torto: sempre attento ai deboli e agli sfruttati, sempre pronto a denunciare gli abusi, le soperchierie, i vezzi e i vizi dei potenti. Gian Pietro Testa ha fatto della sua professione uno strumento di giustizia, dando voce a chi voce non ha, stando sempre al riparo dalle lusinghe e dalle tentazioni del Potere, senza farsi irretire mai dagli uomini che il potere esercitano a proprio vantaggio e non a tutela dei diritti che a ciascuno vanno garantiti.
L’ho conosciuto quand’ero ragazzino e lui già un affermato cronista del Giorno, il più interessante e innovativo quotidiano degli anni Settanta.
Non l’ho più perso di vista e posso perciò testimoniare la sua coerenza, che gli è valsa molte meritate lodi e riconoscimenti, ma che pure gli è costata, per converso, ostracismo, esclusioni e prese di distanza che negli anni hanno prodotto in lui un giustificato sedimento di amarezza.
Per dirla con una celebre battuta del film Fortapasc (che descrive la vicenda di Giancarlo Siani, il “cronista-ragazzino” ammazzato dalla Camorra), Gpt – come lo appellano gli amici – è stato certamente un ‘giornalista-giornalista’, uno – cioè – che fa le domande e non si inchina, che non fa sconti a nessuno. Neppure a quelli ‘della propria parte’, i protagonisti della vita pubblica e gli eventuali esponenti di correnti di pensiero a lui affini. Il suo metro di misura è uno solo e vale per tutti. Le ragioni per cui, nel tempo, Gian Pietro Testa è stato spesso marginalizzato hanno questo presupposto: è – ed è stato sempre – un professionista per nulla comodo, non addomesticabile, uno con la schiena dritta.
Tante le pubblicazioni che hanno accompagnato e arricchito il quotidiano svolgimento del suo lavoro di cronista: il libro-inchiesta su  La strage di Peteano, pubblicato per Einaudi (e trasposto pure in versione cinematografica), ha determinato la riapertura delle indagini e la riconsiderazione dei fatti e dei colpevoli.
Vanno poi menzionati, in riferimento agli anni Settanta, gli scritti sulla strage di Piazza Fontana (fu lui il primo giornalista ad entrare nella banca dopo l’esplosione) e quelli relativi all’infame attentato alla stazione di Bologna. E vanno ricordate le vicende del terrorismo e le infiltrazioni dei servizi segreti sui due contrapposti fronti del brigatismo nero e rosso che hanno caratterizzato il suo lavoro di indagine e ricostruzione dei fatti e la denuncia di infiltrazioni e responsabilità occulte.
In parallelo ha sfornato saggi, romanzi, poesie, tutti percorsi da eleganza espressiva, solida struttura, e un garbo stilistico spesso arricchito da gustose e ironiche note. E tutti, al fondo, nutriti da quella passione civile che sempre lo ha sorretto.
Nel percorso giornalistico, che è fil rouge della sua vita (specificare ‘professionale’ sarebbe riduttivo, perché cronista Gian Pietro lo è nel sangue), dopo l’esperienza a il Giorno, maturata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è poi passato a l’Unità e in seguito a Paese Sera, per poi farsi promotore, a metà degli anni Ottanta, del solido e coraggioso settimanale Avvenimenti.
A Napoli ha fondato e diretto Senzaprezzo, uno dei primissimi quotidiani a diffusione gratuita  vincendo, grazie allo stile e all’accuratezza del lavoro suo e della redazione, lo scetticismo di chi riteneva che un giornale gratuito non potesse fare informazione seria, puntuale e senza condizionamenti.
Ma è stato pure direttore dell’emittente bolognese Ntv, nonché fondatore e docente della scuola di giornalismo di Bologna e poi capo ufficio stampa del Comune di Ferrara.
“Antologia di una strage” è invece la raccolta poetica riferita all’eccidio causato dalla bomba collocata alla stazione di Bologna, che rievoca in forma lirica la vita delle 84 vittime, a ciascuna delle quali è dedicata una poesia. E quelle poesie sono ora raccolte tra le fronde degli alberi del Parco delle Rimembranze di San Lazzaro di Savena, un comune contiguo a Bologna.
Il tratto umano e professionale di Gian Pietro Testa marca, come risulta evidente, una profonda coerente pervicace volontà di far di sè stesso strumento di conoscenza, capace di propiziare la consapevolezza dei fatti e imporre ai potenti quella trasparenza che a molti di loro risulta spesso indigesta. E la sua penna mostra a tutti proprio ciò che tanti faticano a vedere: il re nudo, nella sua cruda verità, senza alibi e senza inganni.
In copertina:  Gian Pietro Testa ai tempi della direzione del quotidiano napoletano ‘Senzaprezzo’

Diario in pubblico /
Alè. Alè

 

Passata è la tempesta. Odo augelli far festa? So che a pensare male spesso ci si prende e allora… Possibile che dopo l’incendio del Castello all’improvviso venga tolta la luce per ben quattro volte di seguito? E il giorno di Capodanno. C’entra l’Enel? C’entra qualcosa che a noi poveri mortali ovvero cittadini sfugge?

So solo che, saltando la luce ripetutamente, vanno in tilt il telefono fisso e i due cordless e la tv. E, orrore degli orrori, il boiler dell’acqua calda. E per fortuna ho amici gentili che mi hanno aiutato e che mi hanno permesso, dopo corse affannose sui rari taxi che stazionavano in piazza, a gestire in modo positivo il tutto.

Ma se fosse stata una ‘normale défaillance’ del servizio pubblico, avvertire costava tanto?

Non a caso ‘Frara’ sta diventando la città dei misteri e talvolta dell’horror.

Le assurdità non finiscono qui. Leggo con stupore che i due protagonisti ormai vecchi di un brutto film Giulietta e Romeo del sopravvalutato regista Franco Zeffirelli si sono rivolti agli avvocati per ottenere un risarcimento milionario dalla casa di produzione del film essendo all’epoca minorenni.

Ah! Ah! Ah! Figuriamoci quale trauma avrebbe provocato la vista sfuggente di un sedere o di una tetta anche se allora l’ipocrisia era una delle forme – peggio di oggi – dell’espressione artistica. Zeffirelli non ha mai raggiunto la grandezza poetica espressa nei nudi di Pasolini o Visconti che esprimevano arte. Nel primo era questione di business come del resto era la richiesta fatta ai due minorenni.

Come scrive il saggio Michele Serra su La Repubblica del 5 gennaio 2023 : «La nudità non è una malattia, non è un affronto: come è possibile che due anziani signori, si suppone di buona cultura, siano ancora offesi perché per esigenze cinematografiche, nonché per contratto, hanno dovuto levarsi gli slip negli anni in cui Mary Quant tagliava le gonne e l’intero Occidente cominciava a svestirsi?»

E oggi quando scrivo si celebra il giorno della Befana da sempre sognata con la calza appesa portatrice di doni e di carboni. Altro che Halloween e ‘dolcetto o scherzetto’! Era una figura mitologica alla stessa stregua delle figure del mito. Ora spazzatura consumistica con la sua scopa, il nasone e il camino, che difficilmente si trova nelle case.

Conduco letture lente e non esaltanti tuttavia oggi il nipote porta allo zio, un tempo dantista, il primo volume della Divina commedia (Hachette editore) spiegata e illustrata per i bambini. Delizioso. Continuerò a comprarlo nelle altre edizioni.

Resta da recarsi a tavola. E allora via ai ‘caplit’ in brodo, al lesso e ai dolci. Buon appetito! Anche alla Befana.

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Addio carissimo gpt

E’ morto Gian Pietro Testa (per tanti amici e colleghi, semplicemente gpt), un amico carissimo, una persona straordinaria, un compagno non addomesticabile. Giornalista di vaglia, cronista e inviato al Giorno e a L’Unità, autore di tanti volumi. E’ stato il maestro di tutti i giornalisti ferraresi, sempre disponibile a consigliare i colleghi implumi e a collaborare alle piccole iniziative giornalistiche locali: Luci della città, Supplemento di indagine e tante altre testate indipendenti.
Per ferraraitalia / periscopio è stato qualcosa di più: un assiduo collaboratore, ma prima di tutto un padre affettuoso, una guida, un attento consigliere.
Lo ricorderemo sul giornale con le testimonianze di chi gli era più vicino.

Addio Gpt 😍, te ne sei andato pochi mesi dopo la tua amata Elettra, proprio come Federico e Giulietta degli spiriti non potevate vivere lontani.

 

Cover: Foto realizzata da Giorgia Mazzotti nello studio di Gian Pietro Testa a Ferrara

Per certi versi/
La ballata dei dinosauri erbivori

La ballata dei dinosauri erbivori

I dinosauri d’erba
Dalle ossa fragili
La mitezza più grande delle nuvole
Sulla spina dorsale del cielo
le querce a china del tramonto
La vera dissoluzione della luce
Era da tempo
Che non si estinguevano
Certi sentimenti
Accade in questi audaci strappi
Alla memoria dei grandi libri
I libri veramente scritti per sempre
Hanno una sete enorme di essere letti
Di nutrire le ossa fragili
Dei dinosauri d’erba
I sentimenti inespressi
Cadono nel garbage time
Di partire di basket finite
Prima della sirena
Non vorrei mai essere
Implicato nella corazza
Di questa vita anaffettiva
Liquida osteoporosi
Per catene ossee di parole
Straniate da ernie semantiche
I dinosauri erbivori
Hanno le ossa fragili
Mancano le cure
Per questi pachidermi
Della rarità
Dei sentimenti congelati
Insieme ai mammuth
Stanno facendo la storia dei batteri
Introvabili
I dinosauri erbivori
Sono fuori dal cielo
Non hanno più residenze terrene
Stanno nascosti
Tra le pieghe
Di una signora tribolazione

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Non ho più filo

Il Sarto di Gloucester

«Mia cara Freda,
siccome vai matta per le fiabe e sei stata ammalata, ho scritto una storia tutta per te, nuova nuova, che nessuno ha ancora letto. E la cosa più buffa è che l’ho sentita raccontare nel Gloucestershire, e che è assolutamente vera, almeno per quel che riguarda il sarto, il panciotto e il “Non ho più filo!”».

Questa la dedica a Il sarto di Gloucester che era pure, tra le altre, la storia preferita da Helen Beatrix Potter (Londra, 1866 – Near Sawrey, 1943): scrittrice, illustratrice, naturalista britannica e famosa in Inghilterra per la sua attenzione all’ambiente non meno che per i suoi libri illustrati per bambini e i suoi acquarelli.

Come indicato nella dedica la vicenda si basa su una storia realmente accaduta a un sarto che, lasciato il lavoro incompiuto, lo trovò finito il giorno successivo, completato dai suoi aiutanti nella sartoria. Mancava solo da completare un’asola perché … non c’era più filo.

Nella fiaba, ambientata la settimana prima di Natale, «al tempo delle spade, delle parrucche e delle mantelline a balze dai bordi ricamati, quando i gentiluomini portavano gale ai polsi e panciotti di seta e taffettà gallonati d’oro», un vecchio sarto molto povero e malaticcio, che aveva come amico un gatto sempre affamato di nome Simpkin doveva confezionare una giacca e un panciotto per il sindaco di Gloucester intenzionato a sposarsi proprio a Natale.

Gli rimanevano solo tre giorni e se riusciva in tempo nell’impresa la sua sorte e quella del suo Simpkin sarebbero cambiate in meglio. Scesa l’oscurità e con essa la luce che entrava dalla finestra si affrettò a chiudere la bottega, lasciando sul tavolo i pezzi di stoffa, di seta e di raso già tutti tagliati, modellati e pronti solo da cucire, insieme alle 21 asole da finire del panciotto con la fodera in taffettà giallo. Mancava solo una matassina di filo color ciliegia per finire il tutto.

Tornando a casa si sentì salire la febbre; ma prima di mettersi a letto diede al suo gatto gli ultimi quattro soldi che gli restavano per comprare un soldo di pane, uno di latte, uno di salsicce senza dimenticare con l’ultimo di comprare il filo color ciliegia.

Nel mettersi poi a letto udì degli strani rumori provenire dalle tazzine capovolte sulla credenza e sulla tavola – Tip tap, tip tap, tip tap tip!si accorse così dei topolini imprigionati dal suo gatto per il pranzo di Natale; decise così di liberarli nonostante pensasse che avrebbe fatto un torto al suo amico.

Non sapeva ancora che quei simpatici topini, che nelle favole ascoltano e parlano come gli uomini, per gratitudine dei ritagli di stoffa «buoni solo per topi» che aveva lasciato in bottega e per l’insperata libertà sarebbero diventati i suoi aiutanti nella sartoria. E avrebbero finito per lui il lavoro.

Non ho più filo, non ho più speranza

«Giacque ammalato per tutto il giorno, e il giorno seguente, e l’altro ancora. Delirava e le sue parole ripetevano: “non ho più filo”. Che ne sarebbe stato della giacca color ciliegia? Nel negozio del sarto in Westgate Street i pezzi di seta ricamata e di satin giacevano sulla tavola – ventun asole! – e chi li avrebbe cuciti, se la finestra era sbarrata e la porta ben chiusa a chiave?

Ma questo non era un impedimento per i topolini bruni: correvano dentro e fuori da tutte le case di Gloucester senza bisogno di chiavi!… Rimase a letto ammalato per tre giorni e tre notti, ed ecco era la vigilia di Natale, e notte fonda. La luna era alta sopra i tetti e i camini e sbirciava oltre l’arco in College Court».

Quando Simpkin rientrò capì subito che qualcosa non andava. Le tazzine erano mute e quando il sarto domandò dove fosse il suo filo, lui tra sé e sé disse: “e dov’è il mio topo?”, così nascose il filo in una teiera e uscì in cerca del suo pranzo natalizio.

Tutto era buio fitto, ma «dal negozio del sarto in Westgate veniva un fascio di luce, e quando Simpkin si arrampicò fino alla finestra per guardar dentro, vide una quantità di candele accese. Era tutto un tagliar di forbici e un fruscio di fili.

Le voci dei topi cantavano forte, allegramente: “Tre topolini sedevano al fuso,/ Ma sotto la porta spuntò un brutto muso:/ Che state facendo, miei bravi signori?/ Cuciamo giacchette di dentro e di fuori. Posso aiutarvi a tagliar quei bei drappi?/ Oh, no, Signor Gatto, se entri ci pappi!» «Miao, miao!» faceva Simpkin. «Diddi rididdi?» lo motteggiavano i topi».

Non riuscì ad entrare, ma dalla finestra appena sollevata sentì, nel ticchettare dei ditali, i topi ripetere un ritornello: «Non ho più filo! Non ho più filo!». Si allontanò allora dalla bottega meditando sulla generosità di quei topi che stavano aiutando il suo amico, povero e affamato come lui, e per giunta ammalato.

Rientrato nella povera stanza trovò il vecchio sarto sfebbrato che dormiva; allora andò a prendere il prezioso dono nascosto nella teiera, guardò alla luce della luna quei fili di seta color ciliegia e pensò che lui, per il suo amico, non poteva proprio essere da meno di quei topi generosi e gioiosamente laboriosi. Così al mattino, appena sveglio, la prima cosa che vide il sarto fu proprio la matassa del filo mancante, accanto al letto.

Fili intrecciati: epifania della gioia

« – Povero me, mi sento uno straccio! – esclamò il sarto di Gloucester.  – Però ho il mio filo -. Il sole splendeva sulla neve quando il sarto si levò e si vestì, e poi uscì in strada con Simpkin che gli correva davanti. – Ahimè -, esclamò il sarto, – ho il mio filo, ma non ho più la forza né il tempo per fare una sola asola; perché ormai è la mattina di Natale e il Sindaco di Gloucester si sposerà a mezzogiorno e dov’è la sua giacca color ciliegia? –.

Aprì la porta del suo negozio e Simpkin s’infilò dentro di corsa, come fanno i gatti quando hanno in mente qualcosa. Ma non c’era un solo topo bruno! I ripiani erano tutti perfettamente in ordine, senza più avanzi di filo e scampoli di seta, neppure sul pavimento.

Ma sulla tavola, – che gioia! – esclamò il sarto, lì dove aveva lasciato dei semplici ritagli di seta, giacevano la più splendida giacca e il più meraviglioso panciotto di satin ricamato che mai fossero stati indossati da un Sindaco di Gloucester.

Sul davanti della giacca c’erano rose e viole e il panciotto aveva ricami di papaveri e fiordalisi. Tutto era rifinito, tranne una sola asola color ciliegia, e dove quest’asola mancava era appuntato un pezzetto di carta con queste parole, tracciate in una scrittura minutissima e sottilissima: “non ho più filo”, qui cominciò la fortuna del Sarto di Gloucester: ritornò in buona salute e divenne ricco».

Epifania: vincolo di fraternità

Tre fili, intrecciati
Tre colori abbracciati
Tre magi incamminati

Tre fili intrecciati,
una coda di cometa

Tre colori abbracciati,
un sentiero per la vita

Tre magi incamminati,
una mèta per il tempo

Una cometa come guida
un viaggio nell’amore
un tesoro da cercare

Il filo giallo è l’oro,
una promessa di pace
che ci viene dal passato

Il filo amaranto è la mirra,
la fatica del vivere e del morire
ed è l’ora presente

Il verde è l’incenso
un profumo che sale,
verso il futuro del Vivente.

Tre fili un solo dono
Tre colori una sola vita
Tre Magi una sola via

Una luce illumina
Una parola consola
Un nome che dà gioia

Il figlio di Maria nato a Betlemme
Il figlio di Dio morto sulla croce
Il figlio amato fratello universale

Nessuno può salvarsi da solo

“Non ci si salva da soli”. Queste le parole che continua ancora oggi a ripetere papa Francesco, a partire da quella sera piovosa quando pregò sul mondo per affidarci a Dio, nella solitudine di una surreale piazza san Pietro deserta, silenziosa, senza un filo di speranza se non quella proveniente dal crocifisso lì accanto di San Marcello, che i romani portarono in processione nel 1552 contro la Grande peste.

“Una speranza contro ogni speranza” (Rm 4, 16) invocata da un papa ricurvo, solo, che salendo i gradini della piazza pregava dicendo: «“Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (come in Mc 4,38: i discepoli e la tempesta sul lago). Era il 27 marzo 2020, venerdì santo: l’inizio di una tempesta, e preludio delle ulteriori tempeste che seguirono, la guerra in Ucraina e le molte altre sparse nel mondo, e che indussero il papa a ripetere quelle stesse parole.

Così in questo mese, mese della pace, di nuovo il messaggio di Francesco ha come tema: «Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace». Senza un cammino di fraternità, la tessitura dell’umanità rischia di restare senza filo: “non ho più filo”, non c’è più pace.

Così si legge nel messaggio: «Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori.

Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?

Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

Così la via che porta da una vita minacciata ad una vita benedetta passa attraverso un “noi” aperto alla fraternità.

«… Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte.

Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono le guerre, cf Mc 7,17-23).

Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà.

Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale.

Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Resistere non serve a niente

“Ciò a cui opponi resistenza persiste. Ciò che accetti può essere cambiato”.

Carl Gustav Jung

Ogni sito, ogni giornale, ogni social network riporta la notizia della scomparsa di Gianluca Vialli. Non c’è solo la nuda cronaca, ma anche, spesso, la citazione di alcune sue frasi sul “senso della vita” percepito dopo la malattia. Quasi sempre, chi le riporta tende a rappresentarle come una “lezione”, togliendo loro ogni senso, tranne quello retorico – dove la retorica appartiene a chi riporta la frase, non a chi l’ha pronunciata. Perchè quando si parla di “lezione” si sottolinea la distanza tra il malato e il sano: il malato dà lezioni di vita al sano, come se l’eroismo della “partita più difficile” trasformasse la persona malata in un maestro di vita, e i sani, tutti persi dietro alle loro fatuità, in discenti che devono abbeverarsi al verbo di chi ha finalmente capito – grazie al cancro – quali sono i valori che contano.

Credo che Vialli non avesse nessuna intenzione di assurgere a maestro di vita. Intuisco una verità più sottile nelle sue frasi. Quando affermava che con i figli, più che le parole, conta l’esempio, diceva una cosa semplice, ma non banale. Conosciamo tante persone – noi stessi, in primo luogo – che predicano valori e comportamenti che raramente praticano. Meglio parlare poco ed essere onesti, anche nelle proprie fragilità.

L’altra affermazione interessante (la più utile, per quanto mi riguarda) riguarda il suo atteggiamento nei confronti della malattia. Vialli diceva che non stava combattendo, perchè se avesse condotto una battaglia ne sarebbe uscito distrutto. Aveva un ospite indesiderato – chi non ce l’ha? anche se il suo era particolarmente stronzo – poteva solo augurarsi che un giorno si sarebbe stancato e lo avrebbe lasciato in pace.

Resistere, combattere: espressioni prese dal linguaggio bellico, così abusate nel gergo sportivo (Vialli è spesso stato descritto come un guerriero) e in quello politico-sociale, che nel mondo emotivo hanno tutt’altra valenza. Resistere non serve a niente, accettare può cambiare il gioco. Magari non l’esito finale della partita, ma lo svolgimento. Invece di un calvario, può diventare un viaggio emozionante.

Immaginario /
La montagna che ti cambia

Sono nata in un paese di mare. Si dice che chi ci è nato non ne può fare a meno. Credo sia vero, almeno per me. Ogni volta che torno a Gaeta, faccio lunghe sedute di sole e sabbia, e occhi che abbracciano l’orizzonte, anche in pieno inverno. La vacanze natalizie sono ormai finite, c’è chi le ha passate al mare, chi (molti di più forse) in montagna, chi semplicemente a casa con la famiglia. Io da qualche anno sto scoprendo la montagna, in primavera, estate, autunno e anche inverno.

La montagna è per me scoperta e immensità. L’immensità del mare tende ad andare oltre, ti porta al di là del confine, di tutti i confini, quelli mentali e quelli fisici. Sei lì che contempli l’orizzonte e ti vedi in un altro posto.
L’idea del viaggio legata al mare è quella più popolare.
L’immensità della montagna è ferma, come raccolta, e abbraccia il cielo con le sue vette che lo sfiorano e le nuvole che sembrano celare il cammino. Le nuvole, ti abbracciano quando ci passi in mezzo, bagnano i capelli e poi ti ritrovi d’un tratto il sole in faccia. Allora, non ti immagini oltre, sei semplicemente là, in quel momento. Aspetti che accada qualcosa. In quel movimento.
Non sei tu che vuoi andare, tu rimani fermo e tutto si muove attorno a te. Cambiano le nuvole, il sole, il freddo e il caldo, il terreno sotto i tuoi piedi, il cielo sopra.

Credo ci si prepari a un altro tipo di viaggio. Noi nati in paesi di mare siamo così abituati a cercare, remare, andare oltre, che la montagna ci fa all’inizio un po’ paura. Non siamo abituati ad essere trovati, scoperti, essere guardati mentre tutto attorno cambia e ci cambia.

Forse sarà troppo metaforica, ma è così che la vedo… la montagna.

Cover:  Duna di neve,  ©Ambra Simeone

Intervista Negin Bank: “lo slogan 𝐉𝐢𝐧 𝐉𝐢𝐲𝐚𝐧 𝐀𝐳𝐚𝐝𝐢 (Donna Vita Libertà) ha intrapreso un cammino rivoluzionario”

Intervista di

“Penso che questa rivoluzione diventerà parte della vita quotidiana delle persone in Iran. Ci saranno proteste ogni giorno, un po’ come in Palestina. Se l’occidente interrompe le sue relazioni diplomatiche con il regime, alla fine le forze repressive, vedranno la loro fine e le elité potranno fare le valigie e lasciare il paese- tanto, hanno tutti le loro seconde case in occidente.

Questa rivoluzione non sta semplicemente cercando di rovesciare il regime ma sembra voglia rivoluzionare tutti i modelli all’interno della struttura del potere e  lo distribuisce invece all’interno di tanti gruppi che funzionano come comitati-assemblee… e sta funzionando…e funzionerà anche dopo. Abbiamo già visto questo modello nel Rojava e non stupisce il fatto che il motto che oggi attraversa le strade “Donne Vita Libertà” sia nato proprio dalle donne curde”.

A parlare è una donna iraniana da tanti anni in Italia, Negin Bank:

“La rivoluzione iraniana non vincerà fin quando l’occidente riconosce la legittimità internazionale di questo regime e dialoga con questi stupratori. Noi [ attiviste/i Iraniana in Italia] sosteniamo che l’interruzione dei rapporti diplomatici mette il regime in isolamento così come il regime stesso ha messo l’intera popolazione iraniana in isolamento in questi 43 anni.

Abbiamo bisogno dell’aiuto della società civile italiana e occidentale che trasformi la nostra richiesta dell’interruzione dei rapporti diplomatici e commerciali con il regime iraniano, in una rivendicazione di massa.

Questi criminali acquisiscono legittimità grazie ai rapporti diplomatici con paesi come l’Italia.  Non si sentono soli.  Hanno come partner i paesi più potenti del mondo che gli tengono in vita e gli danno la forza per reprimere. Senza questo cordone ombelicale, le forze repressive del regime crollano sia economicamente che psicologicamente. Il giorno dopo faranno le valigie e si trasferiscono dove hanno già predisposto le loro seconde vite.

Ma l’Italia e l’UE non tagliano i rapporti con l’Iran. Non solo per una questione d’interessi di medio-breve termine, ma soprattutto perché ormai una rivoluzione non fa comodo a nessuno. Le rivoluzioni non devono esistere più. In particolare una che abbia come slogan Donna, Vita, Libertà e che sia riuscita ad entrare nel cuore di tutto il mondo in giro di pochi giorni. Più giorni passano, più mi convinco che non stiamo solo lottando contro il regime iraniano. Noi in realtà stiamo lottando contro tutti i poteri del mondo”.

A Roma il 3 gennaio le donne iraniane e le donne afghane hanno unito le loro forze sotto lo striscione: “Donna Vita Libertà”. La casa internazionale delle donne di Roma ha rilasciato il giorno successivo un comunicato congiunto delle donne di Afghanistan e dell’Iran.

Lo slogan 𝐉𝐢𝐧 𝐉𝐢𝐲𝐚𝐧 𝐀𝐳𝐚𝐝𝐢 è uno slogan delle nostre sorelle combattenti curde. Durante le proteste contro l’uccisione di Masha Amini in Iran, tre mesi fa, già dai primi giorni del suo utilizzo, lo slogan ha intrapreso un cammino rivoluzionario.
Ha attraversato tutte le città iraniane, e in poche settimane, è arrivato in molteplici paesi del mondo compreso l’Afghanistan, dove le nostre coraggiose sorelle, lo hanno gridato davanti all’ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Kabul. Le donne in Afghanistan stanno lottando a mani nude nelle strade delle città da oltre un anno contro i Talebani armati.

 La Rivoluzione “Donna Vita Libertà” ci è entrata rapidamente nei cuori, perché noi ci identifichiamo l’unə con l’altrə e perché il nostro dolore è comune.

[…] Ci teniamo a sottolineare che Donna Vita Libertà è una rivoluzione che non si limita al rovesciamento del regime iraniano e del regime Talebano, ma va oltre ai confini dei nostri paesi. È una rivoluzione che punta a sradicare tutte le forme di discriminazione compresa quella di genere, di classe, di etnia o razza ovunque nel mondo.

Per vincere l’unica scelta che abbiamo è quella di unirci e chiedere alle nostre sorelle italiane di condividere i privilegi ottenuti nel corso della loro storia con noi, in modo da poter far sentire le nostre rivendicazioni in tutta l’Italia.

Teniamoci per mano in questa lotta contro la discriminazione e gridiamo insieme ad alta voce: 𝐃𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐕𝐢𝐭𝐚 𝐋𝐢𝐛𝐞𝐫𝐭𝐚̀!”

Cover: Protesta delle donne iraniane “Donna, Vita, Libertà”, Roma 3 gennaio 2023 piazza Belli (Foto di Fiorella Carollo)

TERZO TEMPO
Quei freddi e piovosi mercoledì sera di Stoke-on-Trent

Quei freddi e piovosi mercoledì sera di Stoke-on-Trent

Durante il prepartita di Manchester City-Everton del 20 dicembre 2010, il giornalista di Sky Sports Richard Keys chiese all’ex attaccante scozzese Andy Gray un giudizio su un’ipotetica carriera di Messi in Premier League. La risposta di Gray fu talmente originale che ci mise ben poco a diventare quello che, dalle nostre parti, definiremmo un tormentone.

“It’s all well and good walking the ball into the net against your Getafes and your Almerías, but could he do it on a wet Wednesday night in Stoke?”

In quegli anni lo Stoke City di Tony Pulis esprimeva un gioco piuttosto ruvido, incentrato perlopiù sulla fisicità e sulle qualità aeree dei suoi giocatori, al punto che Alex Ferguson definì i Potters “la squadra dei Jolly Green Giants” in riferimento all’enorme mascotte di un’azienda alimentare americana [Qui]. Aggiungete a tale caratteristica le impervie condizioni atmosferiche del Britannia Stadium – pioggia e vento sono ospiti più o meno fissi in inverno – e capirete perché la trasferta di Stoke-on-Trent divenne tutt’altro che agevole per le squadre di Premier League. Stando a quanto dichiarato dall’ex portiere dei Potters Thomas Sorensen, l’Arsenal di Wenger soffriva particolarmente quelle avversità.

“They were so well known for their fantastic play under Wenger. But standing there on a Tuesday night, in the tunnel, just looking out: wind and rain sideways. We looked at them and we had already won. You could just look in their faces. They didn’t fancy it whatsoever.”

Sembrava quindi che la provocazione di Andy Gray, per quanto azzardata, potesse basarsi su qualcosa di concreto. Così, in seguito all’improvvisa popolarità di tale affermazione, il giornalista della BBC Jonathan Jurejko si è chiesto se giocare al Britannia Stadium di martedì o mercoledì fosse davvero così difficile per gli avversari dello Stoke City. Dati alla mano, la risposta è stata perlopiù negativa: il suo articolo [Qui] dimostra infatti che, a partire dalla stagione 2008/2009, ben otto squadre hanno fatto meglio dei Potters nei turni infrasettimanali disputati sul proprio campo.

Insomma, la domanda “but could he do it on a wet Wednesday night in Stoke?” è entrata a far parte del frasario del calcio d’oltremanica non tanto per la sua veridicità, quanto per l’ilarità con cui è stata accolta dall’eterogeneo pubblico della Premier League. Sì, perché in questi tredici anni la popolarità di quella provocazione è andata ben oltre i confini inglesi, come dimostra questa recente intervista a Thomas Müller.[Qui]

Storie in pellicola /
Una settimana con Marylin

Colin Clark (Eddie Redmayne), Sir Laurence Olivier (Kenneth Branagh) e la moglie Vivien Leigh (Julia Ormond). E poi Lei, Marylin (Michelle Williams), la Diva di sempre.

Siamo nell’estate del 1956, sul set de Il principe e la ballerina, in terra inglese, un film nel film: Marylin, una pellicola del 2011, diretta da Simon Curtis, ispirata dal libro di Clark, La mia settimana con Marilyn. Una vera rivalutazione della figura della Monroe come attrice, pur nella sua fragilità. Un biopic interessante che racconta le tensioni sul set fra Sir Laurence Olivier, regista tradizionalista e interprete maschile oltre che impareggiabile gigante del teatro e l’attrice, devota al metodo recitativo dell’insegnante Paula Strasberg e perennemente in ritardo per la sua dipendenza da alcol e droga.

Una finestra su un momento particolare della vita di Marylin, in una tenerissima amicizia (anzi di più, un vero innamoramento) fra lei e il ventitreenne Clark (assistente di terza categoria e neolaureato a Oxford), dalla cui memorie viene fuori uno sguardo al lato più reale della Diva.

 

Mostrando che la Monroe era come tutti si aspettavano – spaventata, insicura, frenetica e impossibile da gestire e spesso da comprendere -, Clark svelava anche una donna vulnerabile, fragile, luminosa, dolce e affettuosa ma anche tenace e desiderosa di essere amata, facendola ritornare a essere un essere umano prima che un simbolo irraggiungibile. Una favola malinconica.

Marylin si trovava anche in un momento molto critico della sua vita privata: appena sposata con Arthur Miller (Dougray Scott), orgogliosa di essere la compagna di un grande intellettuale, pensava che quello sarebbe stato l’uomo che l’avrebbe affiancata per sempre. Ma per lui non sarebbe stato possibile, quella donna “lo divorava” e se ne sarebbe tornato inaspettatamente in America. Quasi una fuga.

Marilyn Monroe e Arthur Miller in 1957 in Amagansett, New York (Photo by Sam Shaw/© Shaw Family Archives/Getty Images)

Colin, su quel set pieno di tensioni, sarebbe stato un appoggio, l’unica persona a non rappresentare una minaccia e capace di aprirle, grazie alle sue origini e alle sue conoscenze altolocate, le porte del Castello di Windsor o dell’Eton College durante una settimana di innocente e tenera intimità.

Per la parte della Monroe, Curtis ha preso in considerazione solo un’attrice: Michelle Williams, dopo averla ammirata in I segreti di Brokeback Mountain (2005) e in Blue Valentine (2010), due film che hanno portato l’attrice a sfiorare il premio Oscar.

Per questa interpretazione, alla Williams (candidata all’Oscar nel 2012) è andato il Golden Globe 2012 come miglior attrice protagonista.

Oggi Marylin avrebbe 96 anni. Invece è immortale. Il tempo passa ma lei resta.

Marylin, di Simon Curtis, con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Julia Ormond, Kenneth Branagh, Pip Torrens, GB-USA, 2011, 99 mn.

Durissima dichiarazione congiunta delle ONG di soccorso civile:
“Il nuovo Decreto legge Italiano contraddice il diritto marittimo internazionale, il diritto europeo, i diritti umani e causerà altre morti.”

La dichiarazione congiunta delle Organizzazioni di Soccorso Civili

Noi, organizzazioni civili impegnate in attività di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo centrale, esprimiamo la nostra più viva preoccupazione per l’ultimo tentativo di un governo europeo di ostacolare l’assistenza alle persone in difficoltà in mare.

Il nuovo decreto legge, firmato dal Presidente italiano il 2 gennaio 2023, ridurrà le capacità di soccorso in mare e renderà ancora più pericoloso il Mediterraneo centrale, una delle rotte migratorie più letali al mondo. Il decreto è apparentemente rivolto alle ONG di soccorso civile, ma il vero prezzo sarà pagato dalle persone che fuggono attraverso il Mediterraneo centrale e si trovano in situazioni di pericolo.

Dal 2014, le navi di soccorso civili stanno riempiendo il vuoto che gli Stati europei hanno deliberatamente lasciato con l’interruzione delle proprie operazioni SAR. Le ONG hanno svolto un ruolo essenziale nel colmare questa lacuna e nell’evitare la perdita di altre vite in mare, rispettando sistematicamente le leggi in vigore. Ciononostante, gli Stati membri dell’UE – Italia in testa – hanno tentato per anni di ostacolare le attività di ricerca e soccorso civili attraverso la diffamazione, iniziative amministrative e la criminalizzazione di ONG e attivisti.

Nonostante il già vasto quadro giuridico completo per le attività SAR, ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Convenzione SAR), il governo italiano ha introdotto un’altra serie di norme per le imbarcazioniporto picivili SAR, che ostacolano le operazioni di salvataggio e mettono ulteriormente a rischio le persone in pericolo in mare.

Tra le altre regole, il governo italiano richiede alle navi di soccorso civili di dirigersi immediatamente in Italia dopo ogni salvataggio. Questo provocherebbe ulteriori ritardi nelle operazioni di soccorso, considerato che le navi di solito effettuano più salvataggi nel corso di diversi giorni. L’ordine alle ONG di procedere immediatamente verso un porto, mentre altre persone sono in difficoltà in mare, contraddice l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in difficoltà, come sancito dall’UNCLS. Questo elemento del decreto è aggravato dalla recente politica del governo italiano di assegnare più frequentemente “porti lontani”, che distano fino a quattro giorni di navigazione dall’ultima posizione delle navi. Entrambe le disposizioni sono progettate per tenere le navi SAR fuori dall’area di soccorso per periodi prolungati e ridurre la loro capacità di assistere le persone in difficoltà.

Le ONG sono già messe a dura prova dall’assenza di operazioni SAR gestite direttamente dagli Stati e la diminuzione della presenza di navi di soccorso si tradurrà inevitabilmente in un numero ancora più alto di naufragi. Un’altra questione sollevata dal decreto è l’obbligo di raccogliere a bordo delle navi di soccorso i dati dei sopravvissuti, che esprimono la loro intenzione di chiedere protezione internazionale, e di condividere queste informazioni con le autorità. È dovere degli Stati avviare questo processo e una nave privata non è il luogo adatto per farlo. Come recentemente chiarito dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), le richieste di asilo dovrebbero essere trattate solo sulla terraferma, dopo lo sbarco in un luogo sicuro e solo una volta soddisfatte le necessità immediate[1].

Nel complesso, il decreto legge italiano contraddice il diritto marittimo internazionale, i diritti umani e il diritto europeo, e dovrebbe quindi suscitare una forte reazione da parte della Commissione Europea, del Parlamento Europeo, degli Stati membri e delle istituzioni europee.

Noi, organizzazioni civili impegnate nelle operazioni SAR nel Mediterraneo centrale, esortiamo il governo italiano a ritirare immediatamente il decreto legge appena emanato. Chiediamo inoltre a tutti i membri del Parlamento italiano di opporsi al decreto, impedendone così la conversione in legge.

Non abbiamo bisogno di un altro quadro politico che ostacoli le attività di salvataggio SAR, ma che gli Stati membri dell’UE garantiscano che gli attori civili SAR possano operare, rispettando finalmente le leggi internazionali e marittime esistenti.

Organizzazioni SAR firmatarie:

EMERGENCY

Iuventa Crew

Mare Liberum

Médecins Sans Frontières (MSF)

MEDITERRANEA Saving Humans

MISSION LIFELINE

Open Arms

r42-sailtraining

ResQ – People Saving People

RESQSHIP

Salvamento Marítimo Humanitario

SARAH-SEENOTRETTUNG

Sea Punks

Sea-Eye

Sea-Watch

SOS Humanity

United4Rescue

Watch the Med – Alarm Phone

Organizzazioni cofirmatarie:

Borderline-Europe, Menschenrechte ohne Grenzen e.V.

Human Rights at Sea

[1] UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), “Considerazioni legali sui ruoli e le responsabilità degli Stati in relazione al salvataggio in mare, al non respingimento e all’accesso all’asilo”, 1 dicembre 2022 (il documento è disponibile in inglese e in spagnolo )

Cover:  Salvataggio in mare SOS Humanity (Foto Foto di Max Cavallari)

Parole a capo /
Marcello Buttazzo: “A te” e altre poesie

“Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.”
(Ennio Flaiano)

A TE

A te
ho donato
le mie virtù di sogno
le ansie palpitanti
la carità di suono.
Timorosa
questa luna errante
nascosta dietro coltri che non so.
Trepidante il mio cuore rosso marezzato.
A te
ho donato
le mie incertezze
le stagioni inquiete
e questo sangue imprigionato.
Benigna
questa Natura
assetata di visioni
e d’ebbrezze.
Impaziente
questa vita
che non conosco.
Sulla mia terra
c’è ancora
il tuo nome.
Il cielo
nell’azzurro
infinitamente
l’ama.

(tratta dalla raccolta “E l’alba?”, Manni Editori, 2015)

 

Di notte,
quando l’anima rinsecchisce,
urlo, sbraito,
incalzo il ricordo.
La mia anima
è un paese straziato,
croci di pianto
trasporto
ogni notte.
Solo le mie mani
e la mia bocca
sui tuoi seni
placherebbero il dolore.
Solo l’eco
di sussurri marini
mi ridà
il tempo e lo spazio.
Potessi uscire all’aperto.
Potessi
toccare ora
l’angelo
capelli color castagna
e piantargli nel cuore
un’ipotenusa di sole.

(Versi tratti dalla raccolta “E ancora vieni dal mare”, Manni Editori, 2012)

 

Toglimi di dosso
quest’ansia sorda
perché io possa rivedere
la loquacità del cielo.
Aprimi lo spazio
delle venature dell’anima,
perché le scorribande d’amore
possano essere di porpora
come i papaveri di fine maggio.
Troppo tempo
mi sono affannato
silente
nei porti
della rimembranza.
Ma ora è tempo
del ciliegio,
è tempo
del tuo corpo d’incanto.
Troppo tempo
tramortito dal vento
non ho colto
il fiore.
Tu dammi
il colore della passione
e l’intreccio delle tue mani
strette alle mie,
ch’io possa contenere
tutta la leggerezza
del mondo.

(Versi tratti dalla raccolta “Fra le pieghe del rosso”, I Quaderni del Bardo Edizioni, 2022)

 

Terra rossa di sangue,
terra scorticata
dai venti di tramontane.
Terra
dei soli d’estate.
Questa è la tua terra,
madre fanciulla,
la terra
che vivesti, che amasti
e m’insegnasti
nei tuoi racconti quotidiani.
Questa è la tua terra,
madre,
che alligna ancora oggi
nelle pieghe delle tue mani,
nei solchi delle tue rughe.
Sempre rimembri
la storia
di chi ti fece amare
la fatica il sudore il decoro.
E le ginocchia sbucciate
fra i filari di tabacco.
Rimembri,
madre,
il contegno
di chi ti indicò
un cammino praticabile.
Madre,
la tua lieve parola
è pane che nutre,
giorno che nasce di continuo,
la mia patria
d’eterna appartenenza.

(Versi tratti dalla raccolta “Il cielo degli azzurri destini”, I Quaderni del Bardo, 2021)

Le poesie sono pubblicate su espressa autorizzazione dell’autore.

Marcello Buttazzo è nato a Lecce e vive a Lequile, nel cuore della Valle della Cupa salentina. Ha studiato Biologia con indirizzo popolazionistico all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato decine di opere, la maggior parte di poesia. Scrive periodicamente in prosa su Spagine (del Fondo Verri), nella rubrica Contemporanea, occupandosi di attualità. Tra le pubblicazioni in versi ricordiamo: “E l’alba?” (Manni Editori), “Origami di parole” (Pensa Editore), “Verranno rondini fanciulle” (I Quaderni del Bardo Edizioni). La sua ultima raccolta pubblicata, nel 2022, è “Fra le pieghe del rosso” (I Quaderni del Bardo Edizioni).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

SOS MEDITERRANEE: “Il nuovo decreto legge non dovrebbe esistere, ci criminalizza nuovamente”.

«Siamo profondamente preoccupati anche dal semplice fatto che questo nuovo decreto esista, perché non fa altro che aggiungere norme inutili e discriminatorie alle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale. Le navi civili che soccorrono vite umane in mare nel Mediterraneo sono ancora una volta oggetto di una campagna di criminalizzazione». Così Alessandro Porro, presidente di SOS MEDITERRANEE Italia all’indomani della promulgazione da parte del Presidente della Repubblica del nuovo decreto legge approvato dal governo in materia di ricerca e soccorso in mare.

È necessario sottolineare che tutte le azioni intraprese dalle navi civili impegnate nel salvataggio di vite umane in mare nel Mediterraneo centrale sono già regolate da un Corpus giuridico di norme internazionali, stabilito e stratificato da molti anni. Il decreto attualmente all’esame del Parlamento italiano non pone alcuna nuova norma a tutela di tali imbarcazioni, né offre alcun miglioramento del coordinamento delle attività di ricerca e soccorso, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), dalla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e dalla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR). Inoltre è per sua natura discriminatorio, in quanto prende di mira specificamente le navi civili che operano nel Mediterraneo centrale.

«La sola esistenza di questo decreto nazionale rischia di complicare e indebolire il quadro giuridico marittimo nel suo complesso. Inoltre, siamo molto preoccupati per il nuovo arsenale di strumenti finanziari e amministrativi repressivi, che potrebbero portare a sanzioni e detenzioni di navi civili che si porrebbero al di fuori dello stesso inquadramento giuridico previsto dal diritto internazionale», afferma ancora Porro.

Ci auguriamo che gli Stati membri dell’Unione Europea e gli Stati associati tornino immediatamente a rispettare il diritto del mare e smettano di criminalizzare le navi civili che lo applicano, e proprio sulla rotta di migrazione marittima più letale al mondo. Solo nel 2022, almeno 1.400 persone sono morte in questo tratto di mare: donne, bambini e uomini. L’80% dei decessi registrati nell’intero Mediterraneo.
Dal 2016, SOS MEDITERRANEE ha salvato oltre 37mila persone che si trovavano in imminente pericolo di morte in mare. 37mila persone che avrebbero potuto morire se il nostro equipaggio non avesse rispettato la Legge del Mare.

Ufficio Stampa SOS MEDITERRANEE 

In copertina: SOS Mediterranée, salvataggio in mare (Foto di Tara Lambourne)

UNA MOSTRA NAVIGANTE A BORDO DELLA OCEAN VIKING
“La vita possibile” di Gianluca Costantini

Una mostra navigante a bordo della nave Ocean Viking, per raccontare le storie dei naufraghi salvati durante le missioni di soccorso di SOS Mediterranée e di tutti quegli uomini, donne e bambini che lasciano il proprio paese in cerca di una vita migliore.

Il fumettista Gianluca Costantini presso la nave Ocean Wiking per allestire la mostra navigante (foto Giampiero Corelli)

Storie di vite appena nate strappate alle onde, storie di violenze e soprusi ma anche di sogni e speranze, storie di viaggi per terra e per mare in cerca di un approdo sicuro.
Le racconta l’artista attivista Gianluca Costantini, attraverso 20 tavole di “disegno civile, affisse sul ponte della nave che solo nel 2022 ha soccorso 2.505 persone in 45 diverse operazioni in Mediterraneo centrale.

La mostra, intitolata “La vita possibile”, prende spunto dalla storia del piccolo Abdou, un neonato che i soccorritori della Ocean Viking hanno trovato a bordo di un gommone durante l’ultima missione, la notte fra il 26 e il 27 dicembre.

“Mi sembrava quasi fosse solo un fagotto di vestiti”, ha detto Tanguy, soccorritore, al termine dell’operazione di salvataggio, condotta nel buio più totale. Quello che sulle prime sembrava solo un mucchio di stracci era un bimbo di appena due settimane. Era immobile e silenzioso e Tanguy si è chiesto:“Ma respira? Non capisco”.

“Sì respira, va tutto bene”, gli ha risposto Justine, ostetrica di bordo, prendendolo fra le braccia.
Abdou (Il nome del bambino è stato cambiato per proteggerne l’identità) ha appena 18 giorni di vita e una settimana l’ha passata in mare. Il suo salvataggio è il simbolo del diritto di ogni essere umano a una vita possibile.

Una delle tavole della mostra di Gianluca Costantini allestita sulla Ocean Wiking

La mostra è stata allestita a bordo della nave ambulanza Ocean Viking dai soccorritori di SOS mediterranée, su indicazione del fumettista.
Le stampe sono state appese sul ponte, nella clinica di bordo e nello “shelter”, lo spazio protetto dove trovano riparo donne e bambini soccorsi.  La mostra accompagnerà l’equipaggio della Ocean Viking durante la prossima missione in Mediterraneo centrale, diventando così una vera e propria mostra navigante.

L’ultima missione della Ocean Viking

La Ocean Viking è salpata da Marsiglia lo scorso 18 dicembre. Dopo i necessari rifornimenti di viveri, medicine e carburante, la nave si è diretta fra venerdì 23 e sabato 24 dicembre verso sud, facendo ingresso nella regione di ricerca e soccorso maltese nel primo pomeriggio di lunedì 26 dicembre.

Fra le 3 e le 4 di notte 27 dicembre l’equipaggio della Ocean Viking è stata impegnata in un’operazione di soccorso di 113 persone, tra cui 23 donne e 3 neonati, il più piccolo dei quali aveva solo due settimane. I naufraghi accolti a bordo hanno dichiarato di provenire dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria e dal Camerun.

Il 27 dicembre, attorno alle 7, un’e-mail dell’ITMRCC ha informato il ponte della nave che alla Ocean Viking era stato assegnato il porto di La Spezia per lo sbarco dei naufraghi a bordo. Quattro ore più tardi, attorno alle 11, l’ITMRCC ha inviato una seconda e-mail per informare di una nuova assegnazione di PoS, Ravenna (a circa 900MN di distanza da dove si trovava la Ocean Viking in quel momento).

Il 31 dicembre
verso mezzogiorno, dopo quattro giorni di navigazione, la Ocean Viking  fa ingresso nel porto di Ravenna. Subito dopo l’attracco, l’avvio delle  procedure di sbarco dei 113 naufraghi – per una volta senza ostacoli politici o burocratici e senza il polverone delle polemiche – che si concludono poco dopo le tre del pomeriggio.

Porto di Ravenna 31.12.,2022, lo sbarco dei migranti dalla Ocean Viking (Foto di Michael Bunel, SOS Mediterranée)

Per ragioni di sicurezza la mostra non sarà aperta al pubblico, ma sarà fruibile virtualmente attraverso i canali social dell’artista e di SOS Mediterranée Italia.

Gianluca Costantini
Gianluca Costantini é un artista attivista che da anni combatte le sue battaglie attraverso il disegno; è stato accusato di terrorismo dal governo turco e di antisemitismo dalla destra radicale americana. Collabora attivamente con le organizzazioni SOS MEDITERRANEE Italia, ActionAid, Amnesty, ARCI, CPJ, Committee to Protect Journalist e con i principali festival sui diritti umani, tra cui l’HRW Film Festival di Londra e NewYork, il FIFDH di Ginevra e il Festival dei diritti umani di Milano.
Dal 2016 al 2019 ha accompagnato con i disegni le attività di DiEM25 Democracy in Europe Movement 2025, il movimento fondato da Yanis Varoufakis e collabora con l’artista Ai Weiwei. Nel 2019 ha ricevuto il premio “Arte e diritti umani” di Amnesty International.
Ha pubblicato per moltissime testate italiane e internazionali tra le quai: Internazionale, Corriere della Sera, Domani, Oggi, La Lettura, CNN, Drawing the Times, LeMan, ABC Australia, Mekong Review, Courrier International, Le Monde Diplomatique, World War 3 Illustrated.  Tra le sue ultime pubblicazioni, Patrick Zaki, una storia egiziana (Feltrinelli, 2022), Libia (Mondadori, 2019).

Per maggiori informazioni: https://www.channeldraw.org/

Appena insediato, Lula revoca più di dieci decreti firmati da Bolsonaro

Pressenza – Redação São Paulo
News from the Pressenza bureau in Sao Paulo, Brazil
(pubblicato il 03.01.23)


Luiz Inácio Lula da Silva ha revocato più di dieci decreti firmati durante il governo di Bolsonaro, in uno dei suoi primi atti dopo il giuramento come nuovo presidente brasiliano.

Lula ha stabilito che il Controllore Generale dell’Unione (CGU) dovrà rivalutare entro 30 giorni la segretezza imposta per 100 anni su documenti e informazioni della Pubblica Amministrazione, decisione presa dal precedente esecutivo.

Ha inoltre ristabilito il Fondo Amazzonico, ha decretato la lotta alla deforestazione e ha abrogato un provvedimento sulle miniere illegali. Ha inoltre sospeso il rilascio di nuovi permessi di porto d’armi e l’autorizzazione di nuovi club di tiro.

Il presidente ha firmato diverse misure provvisorie, una delle quali garantisce il pagamento di 600 reales (110 dollari) alle famiglie iscritte all’attuale programma Auxilio Brasil, ora ribattezzato Bolsa Familia; un’altra misura estende le esenzioni fiscali sul carburante e una terza ristruttura il governo aumentando il numero dei ministeri.

Inoltre, Lula ha ordinato ai suoi ministri di presentare proposte per eliminare dal progetto di privatizzazione aziende pubbliche come la compagnia petrolifera Petrobras e il servizio postale Correios.

Il presidente ha nominato i 37 ministri del nuovo governo, che si sono insediati immediatamente, con lo slogan “Unione e ricostruzione”.

Lula ha guidato una cerimonia in cui i 37 membri del suo gabinetto hanno giurato collettivamente. Questo lunedì sono entrati in carica nel primo giorno effettivo del nuovo governo.

L’uomo forte dell’economia è Fernando Haddad, Ministro delle Finanze, mentre alla guida del Ministero degli Affari Esteri troviamo Mauro Vieira, un diplomatico di carriera che è già stato Ministro degli Esteri tra il 2014 e il 2016 nell’amministrazione della Presidente Dilma Rousseff.

Il gabinetto di Lula comprende undici donne e leader politici di nove partiti di un ampio spettro, che va dalla sinistra alla destra più moderata.

Tra le donne, una delle maggiori novità è costituita da Sonia Guajajara, rappresentante dei popoli indigeni, che ha assunto il Ministero dei Popoli Indigeni, che finora non esisteva e che Lula si era impegnato a creare durante la campagna elettorale.

Dopo aver insediato i suoi nuovi ministri, Lula ha posato con tutto il suo gabinetto per la prima foto ufficiale del suo terzo governo, essendo già stato al potere per due mandati consecutivi, tra il 2003 e il 2010.

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

Cover: Luiz Inácio Lula da Silva appena insediato presidente del Brasile per la terza volta  (Foto di Prensa Latina)