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Le Storie di Costanza
Febbraio 2062 – Gianblu e i Miao-x

Gianblu e i Miao-x

In Aprile compio novant’anni e i miei nipoti e pronipoti vogliono farmi una festa di compleanno che non desidero particolarmente, ma loro la organizzeranno comunque e per non deluderli, dirò che mi è molto piaciuta, sarà comunque così. In novant’anni ne ho viste di vicende, tragedie, scoperte e sorprese. Tutte passate, tutte archiviate come storie più o meno recenti.

Ogni tanto Axilla e Gianblu, i più grandi dei miei pronipoti, figli di Valeria, vogliono che gli racconti qualche avvenimento passato a cui ho assistito direttamente, in quanto già viva. Non ho che l’imbarazzo della scelta.

Provo a ricordarne alcuni e i primi due che affiorano alla mia coscienza si collocano il 13 maggio 1981, quando Papa Giovanni Paolo II fu vittima di un attentato per mano di Mehmet Ali Agca e il 9 novembre 1989 quando cadde il muro di Berlino.

E poi … nel 1992 in due attentati furono uccisi a Palermo i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; nel 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamò il decennio 2000-2009 “Decennio Internazionale per la Cultura della Pace e della Non-Violenza“; il 14 Febbraio del 2005 nacque YouTube; dal 10 al 26 Febbraio del 2006 si tennero a Torino i XX Giochi olimpici invernali; il 25 giugno del 2009 morì a 50 anni la star della musica pop Michael Jackson; l’8 novembre del 2016 Donald Trump venne nominato Presidente eletto degli Stati Uniti d’America; il 15 aprile del 2019 a Parigi un grave incendio provocò il crollo della volta e della guglia della Cattedrale di Notre-Dame; il 24 febbraio del 2022 l’esercito Russo invase l’Ucraina.

Il 3 Gennaio del 2030 nacque Abito Canno il futuro presidente del COXBAC; il 6 Maggio del 2035 si sciolse definitivamente uno dei più grossi ghiacciai italiani, il primo settembre del 2041 fu assemblato il primo Robot-111, il 10 Ottobre 2053 una famiglia americana si trasferì a vivere sulla Luna. Il 10 luglio 2060 è nato Gyanny, il secondo bambino di mio nipote Enrico.

Questi sono solo una piccolissima parte dei tanti avvenimenti che, con poco sforzo, riesco a ricordare. Alcuni positivi, altri negativi, alcuni che riguardano tutto il mondo e altri che riguardano la mia famiglia, come la nascita del bambino.

È sorprendente come nel fare un elenco veloce di avvenimenti importanti, nel cervello e nel cuore di una persona acquisiscano rilevanza avvenimenti tanto diversi in termini di effetti, ricadute, impatto sulle persone piuttosto che sull’ambiente, innovazione e drammaticità. Sono comunque tutti eventi che hanno suscitato in me una forte attivazione emotiva, quelli che mi hanno fatto battere il cuore più forte e che mi hanno strappato qualche sorriso o lacrima.

L’attivazione emotiva solidifica i ricordi e li cristallizza nella terra della memoria, togliendo loro la possibilità di svanire, di diventare polvere leggera che un soffio d’aria porta lontano. Non si muovono più, se ne stanno là fermi e sempre pronti a rivendicare la loro presenza. Basta un po’ di tempo libero, un po’ di pioggia, un po’ di vento oppure il verificarsi di qualche evento che assomiglia a quelli già vissuti e loro riprendono vigore, diventano colorati, giovani e aggressivi.

I ricordi. La differenza tra una persona vecchia e una giovane sta tutta lì: una persona vecchia ha tanti ricordi e una giovane ne ha pochi. Convivere con i ricordi non è sempre facile, ma ci si può riuscire, mantenendo la capacità di stupirsi e di imparare. Finché riusciremo a imparare dai ricordi, riusciremo a vivere migliorando.

“Pit” dice Pit-x, il mio canarino meccatronico,  “Pit Pit”  gli rispondo io e lui si mette a saltellare su e giù dai supporti della gabbia.

Gianblu mi ha detto che potrei acquistare un gatto miao-x. I miao-x sono gatti meccatronici che hanno delle prestazioni davvero sorprendenti. Sono caldi, fanno le fusa, si strusciano contro le gambe, si accucciano vicino, fanno compagnia e sanno anche miagolare in maniera intonata, senza fare versi strazianti da vampiri, come fanno a volte i veri gatti di via Santoni. Ma io un gatto meccatronico non lo voglio. Le mie gatte Nera e Ombra mi piacciono molto e non le cambierei con gatti-x per nessuna ragione.

Ricordo che quando mi hanno operato di ernia al disco nel 2030, Nera è stata la mia migliore amica e confidente. Se ne stava tutto il giorno sul bordo del divano a farmi compagnia e mi seguiva quando mi muovevo, per verificare che non ci fossero inciampi nei quattro metri che separano il divano verde sul quale stanziavo e il bagno di servizio del pianterreno della casa.

Se uscivo sotto il portico a fare due passi, usciva anche lei a sgranchirsi le zampe e, se guardavo la TV, la guardava anche lei con molta attenzione. Se vedeva scene di guerra, si metteva a miagolare forte e io dovevo cambiare canale. Perfino i gatti soffrono nel vedere tali scene, sanno che contengono violenza, orrore e molto dolore umano.

Mi chiedo sempre se anche noi percepiamo la drammaticità di certe immagini quanto loro, o se dei piccoli animali sanno batterci in consapevolezza. Se così fosse, sarebbe davvero una vicenda sulla quale riflettere. Perché non ci indigniamo quanto i gatti di fronte a immagini di guerre inaccettabili? Per indurimento emotivo, irrigidimento cognitivo, assuefazione, autodifesa, indifferenza, senso della giustizia artefatto e vizioso. Esattamente non so, forse dipende dalle persone. Per alcune è solo una di queste motivazioni e per altre è un mix micidiale, un cocktail malefico, che ti fa vedere tutto da lontano, come se la guerra si svolgesse su un altro pianeta, in un’altra era, nel mondo di mezzo.

Il mondo di mezzo è quello dei robot, un mondo che procede a fianco di quello umano e lo supporta dal punto di vista operativo ed emotivo. Sempre nel periodo dell’ernia al disco, Nera aveva preso l’abitudine di giocare con le mie ciabatte, in modo particolare quelle azzurre. Erano delle ciabatte di gomma leggera, come quelle che si usano negli ospedali, silenziose, anallergiche, indeformabili. Quelle ciabatte le piacevano molto. Ci si strusciava, le abbracciava e si rotolava in terra avvinghiata a quel lattice celeste.

Non ho mai capito perché le piacessero particolarmente, ma era evidente a tutti che era così. In quel periodo di ciabatte ne avevo anche un paio gialle con la suola di sughero. Quelle non le piacevano molto, al massimo rivolgeva a loro qualche miagolio e, quando era particolarmente felice, qualche fusa.

Ricordo che un giorno venne a trovarmi Guido con Reblanco, il suo Akita. Guido era un mio amico, un tipo un po’ strano, come quasi tutte le persone che prediligo, ma molto rispettoso degli animali. Reblanco era un cane molto educato, ma un gatto è un gatto.

Quando Guido è entrato nella mia cucina col cane, Nera ha irsuto il suo pelo ed è balzata in un secondo sopra uno dei pensili della cucina, un salto di due metri partendo da terra e da ferma. Sorprendente, da vero felino. Guido ha esclamato: “Oibò che balzo” e a me è venuto da ridere più per il commento di Guido che per il balzo del gatto.

Mentre la scena si svolgeva davanti ai nostri occhi, Reblanco ha cominciato ad abbaiare furiosamente. Io facevo ancora fatica a muovermi e così Guido ha dovuto prendere Reblaco e trascinarlo a forza in cortile, per poi rientrare nella mia cucina e chiudere a chiave la porta che dà sul cortile.

Quando Nera ha visto che Reblanco era stato chiuso fuori casa, si è adagiata sul pensile con aria soddisfatta e si è messa da lassù a controllare tutti i movimenti che si verificavano all’interno della cucina, senza perdere di vista nemmeno il ronzio di una mosca. Una “vedetta lombarda” era posizionata sulla parte più alta della mia cucina.

“Uè la tua gatta ti assomiglia, ha dei cambi di umore improvvisi” ha detto Guido,
“Si” gli ho risposto, “adesso è molto arrabbiata perché un grosso cane bianco ha invaso il suo territorio e vuole controllare il suo regno per evitare che le ricapiti l’inconveniente”.
“Lo dico io che ti assomiglia” ha ripetuto Guido.

Già a volte gli animali ci assomigliano. Stando sempre con noi acquisiscono parte delle nostre abitudini, bizzarrie e predilezioni. È anche per questo che ci piacciono tanto, sono un po’ come li abbiamo voluti perché sono stati allevati e educati da noi.

Quando Gianblu mi ha proposto di comprare un miao-x, gli ho raccontato questa storia di molti anni fa. Pensavo servisse a spiegargli la differenza tra i miao-x e i gatti veri fatti di carne, ossa e un cuore che batte. Invece è successo l’esatto contrario “Se tu li educhi per bene imparano le tue abitudini anche i miao-x, anzi, li puoi programmare come vuoi e siccome li hai programmati tu, fanno esattamente ciò vuoi. Un vero spettacolo.” Mi ha detto. Questa affermazione mi ha reso pensierosa, come molte altre convinzioni di Gianblu.

Quando torna da scuola, passa spesso da via Santoni a salutarmi e mi racconta che tra gli hamburger prodotti in laboratorio e quelli fatti con la carne di mucca non c’è nessuna differenza, che i robot-121 della scuola sono più gentili dei bidelli, che i taxi volanti costano meno delle automobili, che la mamma di un suo compagno di scuola ha avuto due bambine gemelle e le ha chiamate Anima Green e Lacrima Silver e che lui trova quei nomi originali. Insomma, una vicenda più disdicevole dell’altra.

E così ascoltandolo mi trovo a riflettere su come dal 2030 ad oggi sono cambiate molte cose e di quali sforzi faccio sempre per capire le preferenze e le idee di mio nipote. Ma alla fine Gianblu è un mio discendente e non è necessario che io capisca e condivida le sue idee. Basta che mi sorrida con i suoi occhi scuri e mi dica ogni tanto: “Zia sei una vecchietta davvero simpatica!”

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

Pio D’Emilia, l’inviato Sky che raccontava con umanità l’odissea dei migranti

Pio D’Emilia, l’inviato Sky che raccontava con umanità l’odissea dei migranti

Oggi è morto Pio D’Emilia, e noi come tanti abbiamo pe97nsato subito una cosa: che Pio se n’era andato troppo presto. Troppo in fretta. Pio ( era nato a Roma 68 anni fa) è  stato un giornalista, un inviato, un uomo fuori dal comune. Chiamo comune quello che ci passa oggi il convento mediatico, desolante, superficiale, molte volte morboso. Pio D’Emilia è stato l’ultimo dei grandi cronisti: intelligenza, intuizione, coraggio, pudore, rispetto, empatia, Empatia con i poveri cristi che ha incontrato in tutto il mondo, dal Mediterraneo al Giappone. Così, i suoi servizi li riconoscevi subito: sempre centrati, onesti, vorrei dire ‘delicati’.
Per ricordarlo ripubblichiamo una bella intervista dell’amico Sergio Gessi, allora direttore di questo quotidiano, realizzata nel settembre del 2015.
Francesco Monini

E’ diventato per tutti un volto noto e familiare. Pio D’Emilia ha scardinato la maniera tradizionale, un po’ impettita e distaccata, di fare informazione televisiva. Inviato da Sky alla frontiera fra la miseria e la speranza per raccontare l’esodo dei migranti, è riuscito a trasformare la loro vicenda da un fatto a una storia. Nei suoi servizi traspaiono le emozioni. Il suo modo di narrare questa epopea è fuori dagli schemi e richiama la sensibilità di grandi reporter quali Ryszard Kapuscinski o Tiziano Terzani.

Si ritrova nella loro concezione di giornalismo?
Assolutamente sì – replica convinto D’Emilia, che ha accettato di raccontarsi a Ferraraitalia -. Non ho conosciuto il primo, mentre ho avuto il piacere – e talvolta lo ‘spiacere’ – di incrociarmi spesso con Tiziano. Ma ce ne sono tanti altri, che ammiro e rispetto, sia italiani che stranieri. Purtroppo sempre di meno: scarsa preparazione umana e professionale, pigrizia fisica e mentale, censura e soprattutto autocensura stanno uccidendo un certo tipo di giornalismo…

Di Kapuscinski condivide l’idea che il giornalista non possa essere neutrale ma debba schierarsi e dare voce a chi voce non ha?
L’obiettività nel senso di neutralità non esiste, né nelle parole, né tantomeno nelle emozioni. Pensiamo solo all’Afghanistan, a quando gli attuali terroristi e ‘tagliagole’ erano chiamati, dalle grandi agenzie, “combattenti per la libertà”, eccetera eccetera. Certo, bisogna sempre cercare di essere il più possibile precisi nel fornire dati e descrivere situazioni, ma poi l’analisi e anche il giudizio – perché no – deve esserci e deve essere sincero. Poi da che parte stare dipende: io preferisco, da sempre, stare dalla parte del ‘torto’…

Prima di decidere se rendere pubblica un’informazione valuta sempre l’effetto che la notizia sortirà? E, nel caso, questo condiziona la sua scelta?
In genere no. Solo in alcuni casi di cronaca nera, in cui per esempio sono coinvolte famiglie, bambini… Ma per fortuna non mi capita spesso di dovermene occupare.

I suoi servizi su Sky evidenziano una grande preparazione e insieme una forte empatia nei confronti dei migranti di cui riporta vicende, storia personali, speranze, delusioni, drammi. Qualcuno in redazione o nell’ambiente professionale ha espresso critiche per questo sue essere partecipe?
Beh, la ‘preparazione’ dovrebbe essere uno dei doveri dei giornalista, tenuto a documentarsi prima di affrontare un argomento o vicenda e poi, se si occupa di un particolare settore (nel mio caso, l’Asia orientale) aggiornarsi continuamente. Io dei migranti sapevo poco o nulla, ma appena sono partito ho cercato di documentarmi attraverso letture e contatti personali. Nello stesso tempo cerco di restare aggiornato sulla ‘mia’ materia: in questi giorni ad esempio sono successe delle cose in Cina e Giappone di cui ovviamente non mi sono potuto occupare (anche se me l’avevano chiesto!) ma mi sono sempre tenuto aggiornato. Ma non è un peso, è una cosa che fai volentieri, di cui senti il bisogno, e di cui ahimè si sente sempre più la mancanza. Lo vedo in molti colleghi, che prendono questa professione come qualsiasi altra: dalle ore alle ore… E quando sono ‘fuori turno’ o in vacanza, staccano la spina. Io non riesco mai, a staccarla.
Quanto all’empatia e alle eventuali critiche: su Facebook e sul sito di Sky ricevo quotidianamente centinaia di commenti. Diciamo che per l’80% sono positivi, 10% negativi e 10% veri e propri insulti. Mi sta più che bene. Per quanto riguarda i pareri all’interno di Sky – una redazione dove si tende a dare una immagine di neutralità – debbo dire che la stragrande maggioranza dei colleghi mi sta esprimendo, almeno a parole, grande sostegno e solidarietà. Direttora compresa. La quale pare che un giorno, durante la riunione di redazione, mi abbia additato a esempio di “Inviato” e di come si possa prendere posizione. Ma per farlo, pare abbia detto, occorre avere una certa età e sopratutto credibilità. E Pio le ha entrambe… (ride di gusto)

Qualcosa che ha letto o sentito sui media, in relazione ai fatti di cui è testimone, l’ha particolarmente infastidita?
In questi giorni non ho davvero avuto tempo di leggere la ‘concorrenza’. Confesso di non aver molta stima per la stampa italiana, tranne rare eccezioni. C’è molto pressappochismo, superficialità, per non parlare di plagio e molta fantasia. Mi dispiace dirlo perché conosco molti colleghi in gamba che ci lavorano, ma Repubblica è il simbolo di questa dilagante cialtroneria

Quali risposte auspicherebbe dalla politica e dalle istituzioni?
La creazione immediata di una task force. Uomini e risorse da inviare sul luogo per creare un corridoio umanitario efficace e logisticamente sostenibile. L’Europa dovrebbe europeizzare la vicenda, toglierla dalle mani dei singoli Paesi e approvare immediatamente il famoso “asilo politico europeo”. Chi ci sta ci sta, gli altri fuori, a cominciare dai neo-unni ungheresi.

Riesce a tracciare un sommario affresco dell’umanità che si muove intorno a lei in queste settimane?
La cosa più importante è uscire dal concetto di “rifugiato”, “profugo” etc etc e puntare su quello di “migrante”. Non so se si è notato, ma io cerco sempre di usare questa parola. Migrare è un sacrosanto diritto umano: un diritto esercitato nei secoli da vari popoli, compreso il nostro. Il resto sono chiacchiere, strumentalizzazioni, banalizzazioni. Tra la gente che ho visto e frequentato in queste settimane c’è un unico elemento in comune: quello di voler/dover andarsene dalla propria terra/casa/paese e andarsene in un altro. Le motivazioni sono varie, ma l’obiettivo è comune. E va compreso e rispettato. Chi si esce con frasi come “ci possono essere potenziali terroristi” o è idiota o è in malafede. Spesso, entrambe le cose. Uno non abbandona la propria casa, la propria ‘terra’, le proprie radici senza un valido motivo. Chiediamolo ai nostri nonni.

Infine una nota personale: vivere in Giappone, ormai da molti anni, è una scelta di vita o professionale? E come mai proprio lei, dal Lontano Oriente, è stato chiamato a seguire questa epopea dei migranti nel cuore antico dell’Europa?
Personale inizialmente, poi anche professionale. Ci sono andato nel lontano 1979, appena laureato in legge, con una borsa di studio per un master di procedura penale internazionale. All’epoca ero avvocato, avevo conosciuto una donna giapponese (che poi scoprii essere una terrorista…) e volevo entrare in uno studio penale internazionale. Ma sul posto ho cambiato idea e professione. Ho cominciato a scrivere degli articoli per l’Espresso e… da cosa è nata cosa. Troppo lungo per raccontarlo qui, ma se vuoi e se ci sarà occasione di una mia visita lo farò volentieri (raccogliamo al volo l’opportunità e gli rivolgiamo l’invito a Ferrara per un incontro pubblico). Ho avuto la fortuna di vivere una vita molto interessante. E sopratutto di fare – più o meno ben pagato (in passato non sempre) – un lavoro che avrei fatto gratis. Lo dico sempre ai miei figli: vi auguro di poter fare altrettanto, ma la vedo molto difficile.
Quanto al perché abbiano mandato proprio me, beh è stato per caso. Anche se un po’ me la sono cercata. Io ero in vacanza a Misurina, dove ho il mio buon ritiro montano, e vedendo in tv gli improvvisi sviluppi della vicenda e non vedendo un nostro inviato, ho spedito un messaggio alla direzione dicendo che forse era il caso di mandare qualcuno. Erano tutti in vacanza, anche loro e chi era al ‘timone’, in quei giorni forse aveva sottovalutato la cosa. Il giorno dopo mi chiama il capo degli esteri, ringraziandomi per la segnalazione e dicendomi: “Perché non te ne occupi tu? Sei il nostro inviato delle catastrofi”, riferendosi al fatto che in passato mi sono occupato di guerre, tsunami, emergenze nucleari, tifoni vari e rivolte. A me le sfide piacciono e ho accettato, anche se francamente pensavo fosse una trasferta di qualche giorno. Ora è quasi un mese che sto in giro. E confesso di essere anche un po’ provato, fisicamente. Ma poi penso ai migranti, e mi vergogno di sentirmi stanco.

Livio Pepino: Se cento giorni vi sembran pochi…

Se cento giorni vi sembran pochi…

di Livio Pepino
(pubblicato da Volerelaluna,it)

Alfredo Cospito ha superato i cento giorni di sciopero della fame contro la propria sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ordinamento penitenziario e, più in generale, contro tale regime e contro l’ergastolo ostativo.
Le conseguenze di un digiuno così prolungato variano, com’è ovvio, da persona a persona e, fortunatamente (nonché quasi incredibilmente), non sono state per lui, fino ad oggi, irreparabili.
Non per questo le sue condizioni sono tranquillizzanti. Al contrario, Cospito ha ormai perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi (tanto che, nei giorni scorsi, è caduto sotto la doccia, provocandosi fratture al naso), deve – secondo i medici – astenersi dal camminare (attività comportante uno sforzo troppo intenso) e si muove su una sedia a rotelle. Soprattutto, non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà.

Di ciò v’è finalmente una consapevolezza diffusa in settori culturali e politici eterogenei (è significativa, per esempio, l’approvazione unanime da parte del Consiglio comunale di Torino di una mozione che chiede la revoca, nei suoi confronti, del 41 bis) ma le istituzioni responsabili continuano ad essere del tutto assenti. Per questo è necessario riprendere le fila di un discorso, pur ripetutamente affrontato su volerelaluna.it; si veda in particolare:
https://volerelaluna . it/in – primo – piano/2022/11/25/morire – di – 41 – bis/
https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/01/07/alfredo-cospito-non-deve-morire/).

Primo. La scelta di Cospito ha un’evidente valenza politica generale e, in questa prospettiva, ha raggiunto un primo risultato: le questioni del regime penitenziario ex art. 41 bis e dell’ergastolo ostativo sono tornate all’attenzione della politica, dopo essere state relegate ai margini del dibattito nonostante la loro centralità (dimostrata, tra l’altro, dai numeri, posto che, secondo le ultime rilevazioni, i detenuti sottoposti al 41 bis sono ben 749 e i condannati all’ergastolo ostativo addirittura 1280).

Certo le strumentalizzazioni e le confusioni continuano.
Ma alcune cose sono emerse con chiarezza. La legittimità del regime di cui all’art. 41 bis, con sospensione del trattamento penitenziario e applicazione di regole e divieti particolarmente penetranti, è strettamente legata al fatto che si tratti di una misura eccezionale e temporanea e che le prescrizioni e limitazioni imposte siano strettamente funzionali a impedire i contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza.

Oggi, peraltro, non è così: il numero dei detenuti in 41 bis (molti dei quali di modesta caratura criminale), la durata (spesso senza fine) della sottoposizione a tale regime e la mancanza di correlazione tra alcune delle limitazioni imposte e l’obiettivo di impedire rapporti con l’esterno dimostrano che in sede di applicazione della misura si è creato un circuito detentivo ad hoc. Un “carcere duro” (secondo un’espressione entrata nel linguaggio comune) caratterizzato da un surplus di afflittività per ragioni di vendetta sociale o per indurre chi vi è sottoposto a collaborare con gli inquirenti.

Considerazioni analoghe valgono per l’ergastolo ostativo, segnato dall’assoluta impossibilità, per il condannato, di accedere a qualsivoglia beneficio per l’intera durata della pena (cioè fino alla morte). Anche in questo caso l’automatismo della previsione e l’esclusione di ogni possibilità di valutazione della diversità delle situazioni da parte del giudice mostrano la costruzione di un circuito detentivo ad hoc sganciato dal sistema costituzionale il cui articolo 27 prevede che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Il gesto di Cospito ha posizionato il tema in questi termini e, da oggi in poi, la politica e le istituzioni non possono non tenerne conto.

Secondo. La questione generale non può, peraltro, mettere in secondo piano la vicenda specifica, al di là delle stesse richieste di Cospito. C’è un uomo che sta morendo in carcere. Quell’uomo, indipendentemente dai reati per i quali è stato condannato, è affidato non solo alla custodia ma anche alla cura dello Stato.
Per questo le istituzioni non possono disinteressarsene, come se la questione non le riguardasse.
Mettere mano a una revisione del sistema risultante dal regime ex art. 41 bis e dall’ergastolo ostativo richiede tempi non brevi, e Cospito non può aspettare. Ogni giorno che passa aumenta, per lui, il rischio di morte. Occorre disinnescare quel pericolo con provvedimenti adeguati: per salvare una vita e perché lo richiede la coerenza con la Costituzione (che pone al centro del progetto di convivenza la persona umana e la sua dignità).

A fronte di entrambe le questioni indicate lo Stato non è un’entità astratta e inafferrabile ma si materializza in una figura precisa, con un nome e un cognome: il ministro della giustizia Carlo Nordio. È il guardasigilli, infatti, il primo titolare delle scelte politiche in tema di giustizia e l’autorità a cui compete applicare (e revocare) il regime di cui all’articolo 41 bis. Ma il ministro, solitamente salottiero e loquace, tace. Non solo, i segnali provenienti dal ministero di via Arenula sono di segno contrario e rivelano una fuga dalla doverosa assunzione di responsabilità.

Da un lato, anche tramite le parole del sottosegretario Sisto, si avalla la tesi che l’eventuale revoca del regime del 41 bis compete alla magistratura e che, dunque, il ministro “ha le mani legate”; dall’altro, tramite formali diffide degli uffici dell’amministrazione penitenziaria, si tenta di impedire al medico che sta monitorando le condizioni di salute di Cospito di rilasciare informazioni sul punto a una testata giornalistica.

Si tratta in entrambi i casi di posizioni prive di fondamento ed estremamente pericolose.
È vero, infatti, che il potere ministeriale di revoca del regime del 41 bis non è più espressamente previsto dopo le modifiche introdotte con la legge n. 94 del 2009, ma ciò non lo ha in alcun modo intaccato, essendo «evidente che, ove muti il quadro a carico del destinatario (ad esempio per una scelta di collaborazione con la giustizia o perché muti il suo status processuale), debba intervenire revoca, senza attendere la scadenza naturale del decreto ministeriale, rientrando la facoltà di revoca nella disciplina generale degli atti amministrativi» (così, per tutti, F. Della Casa e G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 2015).

Del resto, se così non fosse, si perverrebbe all’assurdo che il detenuto in regime di art. 41 bis il quale recida i collegamenti con l’organizzazione di appartenenza (per esempio collaborando con gli inquirenti e facendone arrestare tutti i componenti) dovrebbe continuare a restare, magari per anni, in tale situazione.
C’è certamente un potere concorrente di revoca in capo alla magistratura in sede di controllo sulla legittimità del decreto applicativo ma si tratta di una possibilità che interviene in seconda battuta (e che, nel caso specifico, sarebbe comunque tardiva, essendo l’udienza di riesame della Cassazione, pur anticipata, fissata il 7 marzo, e dunque fra un mese e mezzo…).

Per altro verso, il tentativo di silenziare l’informazione, tenendo nascosto all’opinione pubblica l’evolversi della situazione, è tipico degli Stati autoritari, oltre che gravemente discriminatorio nei confronti di una testata ritenuta vicina alle posizioni politiche di Cospito.
La conseguenza è evidente: l’apertura di un ampio confronto politico sulla realtà e le prospettive del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e la decisione sulla revoca del regime cui è sottoposto Alfredo Cospito (anche solo interlocutoria in attesa degli sviluppi giudiziari) sono nelle mani del ministro. A cui compete dimostrare se il suo (proclamato) garantismo è reale o double face, cioè diversamente coniugato per i galantuomini e per i briganti.

Livio Pepino,
Già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, “Forti con i deboli” (Rizzoli, 2012), “Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa” (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), “Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli” (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e “Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo” (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

In copertina: Cellule du quartier d’isolement de la prison Jacques-Cartier de Rennes (France), à travers le judas, (foto adicali Italiani, su licenza Creative Commons) 

Mussolini e il “Nero di Londra”: dalle ricerche d’archivio una storia che non conosciamo

Mussolini e il “Nero di Londra”: dalle ricerche d’archivio una storia che non conosciamo. L’ultimo libro di Giovanni Fasanella e Mario Josè Cereghino

I tanti avvenimenti, episodi ci sono stati rappresentati, mostrandoci scenari, giustificazioni, imprese sotto luci molto spesso falsate, parziali. Dietro ogni luce sono spuntate tante ombre. Ma, come amava spesso dire un amico, con queste cose non si mangia.
Sì, però…procediamo.
Giovanni Fasanella è un giornalista (ha scritto a lungo per l’Unità e Panorama) e ricercatore investigativo che ha pubblicato molti libri sul cosiddetto ‘indicibile’, cioè su quello che spesso non viene detto e, forse, nemmeno sfiorato nei libri scolastici ma soprattutto nella vulgata ufficiale.
Una ennesima conferma la si è potuta avere con la presentazione della sua ultima fatica, scritta assieme a Mario Josè Cereghino, saggista ed esperto di archivi anglosassoni. Stiamo parlando del volume “Nero di Londra“, Ed. Chiare Lettere, 2022, in due mesi già alla terza ristampa e  presentato a Ferrara alla libreria Libraccio nei giorni scorsi, davanti ad un folto pubblico attento e curioso di sapere.
L’incontro è stato organizzato da Riccardo Forni, giornalista e coordinatore locale di Rete Civica, una formazione politica presente in alcune province dell’Emilia Romagna tra cui Ferrara dove si occupa di temi ambientali e storici.

Ma veniamo a “Nero di Londra”. Non un libro di storia delle origini del fascismo  o su Mussolini- su cui si sono cimentati tantissimi studiosi come ad esempio Renzo De Felice o Emilio Gentile, né una controstoria. Fasanella e Cereghino si occupano delle relazioni tra Mussolini e i servizi d’intelligence britannici.
Nella premessa, gli autori scrivono che “il campo della nostra ricerca è molto più ristretto e riguarda il dietro le quinte di alcuni eventi accaduti tra Caporetto e la Marcia su Roma”. La trama descrittiva si dipana attraverso l’analisi di tanti documenti rinvenuti negli archivi inglesi.
In Inghilterra c’è una ‘strana’ consuetudine, proseguono gli autori, cioè “la possibilità di accedere anno dopo anno a nuove, straordinarie collezioni documentarie, archivi pubblici e privati desecretati da enti governativi e statali che consentono di rileggere il Novecento con cognizione di causa. Duole ammettere che è un privilegio di cui gli studiosi non godono ancora in Italia.”

Nel 2001, le carte dell’archivio personale (150 faldoni) di Sir Samuel Hoare, conservate nella biblioteca dell’Università di Cambridge, vengono declassificate e possono essere così consultate.

 

Sir Samuel Hoare (Encyclopedia Britannica)

Chi era Samuel Hoare? La biografia lo descrive come un protagonista di primissimo piano. Le sue simpatie politiche sono per le correnti più conservatrici e reazionarie della politica britannica. La sua è una famiglia di banchieri e all’inizio del ‘900 inizia la sua inarrestabile scalata politica che (sintetizziamo ma ne raccomandiamo la lettura del capitolo, dal titolo che non lascia adito a dubbi (Soldi inglesi al Fascio e a Mussolini: “Pompare questa gente”) lo porta da istruttore ad agente operativo del servizio segreto inglese, poi diventa Primo Lord  Ammiraglio.
In seguito, Ministro dell’Interno poi Ministro degli Esteri, Ambasciatore in Spagna e conserva per oltre trent’anni il suo seggio a Westminster.

Per restare nel ‘recinto’ di analisi di ‘Nero di Londra’, il racconto di questa intricata spy story descrive il sostegno economico a “The count” (Mussolini) fin dalla nascita del quotidiano “Il Popolo d’Italia” (1914) poi ai Fasci italiani di combattimento (fondati nel 1919) e i sostanziosi finanziamenti economici e logistici alla Marcia su Roma.
Tutti fondi che arrivano a Mussolini e soci attraverso finanziamenti ai giornali in modo che non emergesse per nessun motivo il coinvolgimento diretto degli inglesi.

Benito Mussolini (da www.studenti.it)

Già ne “Il golpe inglese” (Ed. Chiare Lettere, 2011), Fasanella e Cereghino scrivevano che “nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia, in funzione anti Germania ed Austria per evitare che il Governo italiano uscisse dalla guerra in corso e, come aveva fatto la Russia, firmasse un accordo separato con gli austrotedeschi, mettendo in grossa difficoltà l’Inghilterra che sarebbe rimasta da sola. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito Socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da Sir Hoare” (l’informazione viene riportata nella nota 28, a pag. 29 dello storico britannico Christopher Andrew nel suo libro The Defence of The Realm: The Authorized Official History of MI5, Alfred A. Knopf, New York, 2009).

Nella terza parte di “Nero di Londra” si approfondiscono gli aspetti successivi al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. Si ricorda, in estrema sintesi, che Matteotti era venuto in possesso, grazie ad alcuni deputati laburisti inglesi, dei documenti che provavano la corruzione della famiglia Mussolini (a partire dai fratelli Arnaldo e Benito) ed altri gerarchi del Partito Nazionale Fascista.
Corruzione per opera della compagnia petrolifera americana Sinclair Oil.  Il parlamentare socialista aveva in animo di denunciare il sistema di corruzione che comprendeva anche la casa reale italiana. Sarebbe stata una vera bomba politica che probabilmente avrebbe cambiato il corso della storia in Italia, indebolendo verticalmente il potere d’influenza degli inglesi in Italia e nello scacchiere del Mediterraneo. Ma gli fu tappata la bocca e rubata la borsa che portava con se al momento del rapimento. “La borsa di Matteotti” è il titolo eloquente della sezione, e gli autori concludono con un’affermazione che non è una semplice ipotesi.“Al giorno d’oggi, è comunque innegabile che quelle carte siano ancora custodite negli archivi segreti della Naval Intelligence Division (Londra) e in quelli del Federal Bureau of Investigation e del dipartimento di Stato, a Washington.”

Il libro recensito:
Mario Josè Cereghino, Giovanni Fasanella – Nero di Londra, Ed. Chiare Lettere, 2022

Si consiglia la lettura:
Mario Josè Cereghino, Giovanni Fasanella – Il golpe inglese, Ed. Chiare Lettere, 2011
Mario Josè Cereghino, Giovanni Fasanella – Colonia Italia, Ed. Chiare Lettere, 2015

Cover: “Dio stramaledica gli inglesi”, una sorta di “spot” della propaganda fascista molto in voga nel periodo della Repubblica Sociale Italiana

Consiglio esecutivo del KNK:
appello urgente di aiuto per le vittime del terremoto nel Kurdistan settentrionale e occidentale, in Turchia e in Siria

Appello urgente di aiuto per le vittime del terremoto nel Kurdistan settentrionale e occidentale, in Turchia e in Siria

Nelle prime ore di questa mattina, un forte terremoto ha colpito il nord del Kurdistan (Turchia) e il Rojava/Siria settentrionale e orientale, provocando una catastrofe umanitaria.  Il terremoto, di magnitudo 7,8, ha avuto l’epicentro vicino a Mereş (tr. Kahramanmaraş) e Dîlok (tr. Gaziantep), non lontano dal confine con la Siria, e ha causato migliaia di morti, distrutto migliaia di edifici e reso innumerevoli persone senza casa.  Con migliaia di persone ancora intrappolate sotto le macerie, si prevede che il numero delle vittime purtroppo aumenterà di molte volte.

Gli effetti di questo devastante terremoto sono aggravati dalla corruzione pervasiva che è stata istituzionalizzata durante i due decenni di governo di Recep Tayyip Erdogan e del suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP).  Le nomine ai ministeri, tra cui il Ministero dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione, e ad altri enti governativi sono determinate dal nepotismo e dalla fedeltà a Erdogan e all’AKP piuttosto che dal merito, e i progetti di costruzione, a lungo propagandati dallo Stato turco come simbolo del suo successo, sono assegnati a società con stretti rapporti con l’AKP.

È noto che la Turchia e il Kurdistan si trovano in una posizione precaria, vicino a importanti linee di faglia geologiche, che mettono la regione a rischio di forti terremoti.  Un terremoto mortale di magnitudo simile ha colpito il Kurdistan meridionale e orientale (Iraq e Iran) nel novembre 2017 e aree della Turchia nell’agosto 1999.  Tuttavia, non sono state adottate misure sufficienti per affrontare questo rischio consolidato, nonostante la presenza di aree urbane a crescente densità di popolazione e di due delle principali dighe della Turchia, situate a Riha (tr. Şanlıurfa) e Elazîz (tr. Elazığ), in tutto il Kurdistan settentrionale.

Le aree del Kurdistan settentrionale e della Turchia sono state devastate, con molti edifici crollati ad Amed (tr. Diyarbakir), a 300 km dall’epicentro, e il terremoto ha colpito anche le aree prevalentemente arabe di Hatay in Turchia.

A sud della Turchia, il Rojava/Siria settentrionale e orientale, una regione già colpita dalle continue campagne di aggressione e occupazione dello Stato turco, ha subito gravi perdite.  Con centinaia di migliaia di sfollati in Siria a causa dell’aggressione militare turca, questo terribile terremoto nel cuore dell’inverno aggraverà la crisi umanitaria che colpisce i popoli della regione, tra cui curdi, arabi, cristiani e altri.

Il Congresso Nazionale del Kurdistan condivide il dolore di tutti coloro che hanno subito una perdita a causa di questa tragedia e invia le proprie condoglianze, augurando a tutti i feriti una pronta guarigione.

Sappiamo per esperienza che il regime di Erdogan affronterà questa catastrofe naturale in modo cinico e con forti pregiudizi anti-curdi, e chiediamo a tutti coloro che possono di ascoltare l’appello della Mezzaluna Rossa curda (Heyva Sor a Kurdistanê), che opera sul campo in Kurdistan, e di aiutare il più possibile per soccorrere le persone colpite da questa tragedia ed evitare che anch’esse cadano vittime dei calcoli politici del regime di Erdogan. 

Consiglio esecutivo del KNK, 06.02.2032

Indirizzi e conti bancari della Luna Rossa curda (Heyva Sor a Kurdistanê)

Italia – Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia ETS (Heyva Sor a Kurdistanê)
 Via Forte dei Cavalleggeri,53 Livorno
 Banca Etica IBAN: IT53 R050 1802 8000 0001 6990 236 BIC/ SWIFT: ETICIT22XXX www.mezzalunarossakurdistan.org



Germany – Heyva Sor a Kurdistanê e. V. https://www.heyvasor.com/  Bank: Kreissparkasse Köln
Bank account Nr.: 40 10 481
BLZ: 370 502 99
IBAN: DE49 3705 0299 0004 0104 81
BIC/SWIFT: COKSDE33XXX www.paypal.me/heyvasorakurdistane

France – Association Humanitaire Soleil Rouge – Roja Sor
 Tel: +33 (0) 180 89 42 67 
E-mail: contact@rojasorfrance.com
 CIC TROYES HOTEL DE VILLE 
IBAN: FR7630087335000002074770150 
BIC/ SWIFT:  CMCIFRPP
 www.rojasorfrance.com

Switzerland – Kurdistan Roter Halbmond Schweiz (Croissant Rouge du Kurdistan Suisse)
 Rue des Savoises 15, 1205 Genève 
Banque Cantonale Vaudoise (Kantonalbank)
Konto N°: 10-725-4
IBAN: CH62 0076 7000 L543 3416 5
BIC/SWIFT: BCVLCH2LXXX 
www.heyvasor.ch

Netherland – Stichting Koerdische Rode Halve Maan (Heyva Sor a Kurdistanê)
 Fokkerstraat 539 Links, 3125 BD Schiedam
 Email: info@stichtingkrhm.nl
 www.stichtingkrhm.nl

Sweden – Insamlingsstiftelsen Kurdiska Röda Solen
 (Roja Sor a Kurdistanê)
 Ankdammsgaten 33, 171 67 Solna
Tel.: +46 (08)-27 36 85
Email: info@rodasolen.se
 Org nr. 802481-5782
 SWISH:123 40 138 68
 BANK GIRO: 5589-7672 
IBAN: SE04 5000 0000 0537 4106 6753
BIC: ESSESESS www.rodasolen.se

Austria – Roja Sor a Kurdistanê 
Brünner Straße 130-134/3/8, 1210 Wien
Tel: 00 43 (0) 676 9126884 
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BIC : BAWAATWW 
Konto No: 030 103 14 274
BLZ : 14 000
 rojasor-osterreich.org

United Kingdom – Kurdish Red Moon (Heyva Sor a Kurdistanê)
 Fairfax Hall 11 Portland Gardens London N4 IHU
 E-mail: heyvasorakurdistane2012@gmail.com
 Registered Charity No: 10 93 741 
Company No: 42 85 714
The Co-operative Bank
Bank Sort code: 089299 
Bank Account No: 65863091 
IBAN: GB55 CPBK 0892 9965 8630 91
BIC: CPBK GB22 www.heyvasoruk.org/



Norway  – Kurdiske Røde Halvmåne Norge (Heyva Sor a Kurdistanê)
 Hausmanns gate 6 0186 Oslo / Norge
Tel: 0047 98 46 33 28
Organisasjons nummer: 009124. 84734
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DNB BANK ASA OSLO
Account/Hesap/Konto No: 1503 40 52953
IBAN: NO 15 1503 4052 953
BIC/ SWIFT: DNBANOKKXXX

Belgium – ASBL Croissant Rouge du Kurdistan-Koerdische Rode Halve Maan VZW (Heyva Sor a Kurdistanê)Gospertstr. 78
4700 Eupen
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Cover: Un soccorritore con un bimbo in braccio nella cittadina siriana di Azaz controllata dai ribelli (Reuters, fotogramma da video – Riproduzione riservata).

Parole e figure /
I magnifici Kappa

I magnifici Kappa

Se amate il Giappone, i suoi delicati paesaggi e le sue figure mitologiche, allora questo albo illustrato fa proprio per voi. Se poi siete alla ricerca di proposte originali di giovani case editrici innovative, siete nel posto giusto, state leggendo le righe che vi possono far trovare un piacevole momento di relax.

Tre parole, per cominciare: Kira Kira, Giappone, Kappa.

Kira Kira: una casa editrice, nata a Bologna nel 2018 (il blog originario, in realtà, da cui tutto era iniziato, aveva visto la luce nel 2016), che si propone di portare sul mercato editoriale una selezione di albi illustrati di autori e illustratori giapponesi ancora poco conosciuti in Italia. Nasce dalla passione per le storie che raccontano con sensibilità il mondo dell’infanzia, storie che parlano direttamente ai bambini, capaci di creare momenti di condivisione fra genitori e figli.

Albi illustrati con particolare attenzione alla quotidianità fatta di piccoli gesti e di sentimenti forti, in un’età in cui tutto si vive per la prima volta.

Giappone: Il progetto prevede sia la traduzione di opere di autori giapponesi già pubblicati in Giappone o in altri paesi, sia progetti originali di illustratori giapponesi a cui verranno accompagnate le voci di autori italiani. Viaggio nel paese del Sol Levante.

Kappa: una creatura leggendaria chiamata anche kawatarō (“ragazzo-di-fiume”) o kawako (“figlio-del-fiume”), uno spirito del folclore e della mitologia giapponese che abita in laghi, fiumi e stagni. La maggior parte delle descrizioni dipinge i kappa come umanoidi delle dimensioni di bambini, sebbene i loro corpi siano più simili a quelli delle scimmie o delle rane piuttosto che a quelli degli esseri umani. Alcune descrizioni dicono che le loro facce assomiglino a quelle di gorilla, mentre secondo altre hanno un viso con un becco simile a quello delle tartarughe.

Da queste parole, arriviamo, allora, al libro di oggi: Saori Murakami scrive e illustra Il Kappa della Pioggia, per Kira Kira (2022).

Cura per i piccoli e delicati gesti e illustrazioni colorate piene di dettagli minuti e deliziosi come gli animaletti con bisacce, zaini, borsette, borracce e cestini che restituiscono perfettamente l’immaginario giapponese per cui le creature del mondo naturale si intrecciano e si fondono con quello umano, con grande naturalezza.

Una giornata nuvolosa e buia, piove fin dal mattino e Nao deve restare in casa perché la mamma va al lavoro, quando una strana creatura verde bussa alla sua porta. Elefantino di stoffa in mano, lei apre.

È Kappa, lo spirito del fiume che è venuto a tenerle compagnia perché la mamma deve uscire a fare spese. Una creatura anfibia, dai piedi palmati, un buffo personaggio che, come tutti i kappa, ha una sorta di depressione piena d’acqua in cima alla testa, una cavità circondata da ispidi e corti capelli e da cui trae la sua forza (oltre che necessaria per tenerli in vita quando sono sulla terraferma). L’acqua è qui la possibilità di un contatto tra gli spiriti e il mondo umano. La pioggia diventa un’occasione.

Kappa, che va matto per i cetrioli come tutti i kappa, prepara a Nao la merenda e la invita a un picnic… sotto la pioggia! Questo simpatico amico prepara il tipico spuntino giapponese: gli onigiri. Sono polpette di riso bianco con una striscia di alga nori su un lato per poterla afferrare comodamente. Le alghe usate da Kappa sono del tipo yakinori, a contatto con il riso caldo sprigionano un invitante profumino.

Per entrare nella foresta, i protagonisti – Nao indossa il suo impermeabile e gli stivaletti di gomma rossi – imboccano viale Kappa e poi si fermano la bancarella “aperta solo quando piove”, dove sono in vendita, oltre a cetrioli e pomodori, anche sassolini e piccoli pacchetti contenenti tsukemono, le tradizionali verdure in salamoia giapponesi (sottaceti). Proprio lì accanto si trova in negozio di ombrelli di foglia dei kappa. Ecco sfilare un laghetto, alberi e tanti bambini. C’è anche la sua amica, Nao è felice. E poi la barca che arriva a portarli tutti in un luogo sicuro, un incredibile albero gigante che ospita un divertentissimo parco giochi.

Pausa per un piccolo picnic all’aperto a base di onigiri avvolti nelle foglie di bambù, risate, tanto divertimento e spensieratezza. Una gita magica nel bosco fitto e verdissimo, dove si usa una foglia per ombrello, dove si gioca all’aperto anche se piove e dove i baby-sitter sono davvero speciali! Aspettando tutti insieme che spiova, guardando il cielo.

Saori Murakami

Nata nel 1980 in Hokkaido, si è laureata al Sapporo Otani Junior College. Nel 2008 e nel 2013 è stata selezionata per il 16° Premio Taro Okamoto per l’Arte Contemporanea. Il Kappa della pioggiaAme Kappa nell’edizione giapponese di Kaisei-sha, è il suo primo albo illustrato.

Pagina Facebook Kira Kira editore

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

L’Amministrazione di Ferrara ha scelto la politica dell’evento mordi e fuggi. Invece occorre ascoltare i cittadini e un progetto per la città. Partendo dalla normalità.

L’Amministrazione di Ferrara ha scelto la politica dell’evento mordi e fuggi.
Invece occorre ascoltare i cittadini e un progetto per la città.
Partendo dalla normalità.

(intervento apparso con altro titolo su estense.com di lunedì 6 febbraio 2023)

Eccellenza e normalità, qual è la regola? Questa domanda credo valga sia per la vita quotidiana, che per i nostri rapporti sociali, e vale anche per gli spazi dove viviamo, per come sono organizzati, gestiti e fruiti.

Se si inculca l’idea che la misura è l’eccellenza, chi non lo è rischia o la depressione o l’apatia (e quindi l’indifferenza verso tutto ciò che non identifico con la mia tribù). Al contrario, la consapevolezza che non tutti possiamo essere eccellenti ci dovrebbe portare a dire che dobbiamo comunque garantire a tutti un alto livello di normalità (nei servizi sociali, sanitari e urbani, nell’istruzione, nell’offerta culturale).

Questa diviene condizione base per fare emergere quelle “eccellenze” che ci inorgogliscono come comunità. Dunque, ben vengano le eccellenze e i talenti ma eticamente una comunità (attraverso i suoi organi di governo e il senso civico dei suoi cittadini) deve innanzitutto garantire a tutti una normalità di qualità. Questo vale per i percorsi educativi (la scuola) ma vale anche per le città.

L’impressione è che l’esondazione del pensiero neoliberista, non solo nell’economia ma ormai anche nelle regole che definiscono le nostre reti sociali, abbia ridimensionato la dimensione collettiva e inclusiva, insita nell’idea di comunità.

Continuano a raccontarci che per contrastare la povertà dobbiamo rendere più ricchi i ricchi, perché questo farà ricadere un po’ di ricchezza sui più poveri. Visto come stanno andando le cose (pensiamo solamente alla crisi della sanità pubblica, esplosa con la recente pandemia), e vista l’estensione sempre più estesa delle disuguaglianze, sembra una favola per chi vuole crederci. Ma questo determina la necessità di fornire delle narrazioni rassicuranti che spesso sfociano nel delirio identitario (l’Italia è il paese più bello del mondo, la cucina del mio luogo è migliore di quella di un altro, Ferrara è una “civilizzazione” in sé e non città che si è alimentata, e ha alimentato a sua volta, un processo di civilizzazione più ampio e sincretico). Si è eccezionali anche perché si producono “eventi” unici, che ci fanno emergere, che ci portano ad affermare che certe cose si fanno solo da noi, al contrario la normalità ci rende tutti uguali e dunque banali.

La qualità (e anche l’eccezionalità) di una città nasce da una serie di eventi unici o è rintracciabile anche nella gestione del “quotidiano”?
La domanda nasce dall’impressione che quando lo sforzo di una amministrazione pubblica è tutto teso a far passare l’evento per quotidianità, dando sfoggio a retoriche comunicative che spesso si fondano su ignoranza (nel senso di non conoscere approfonditamente ciò di cui si parla) o su malafede (che è peggio), si perde la misura della qualità del quotidiano,

E dunque ci appare normale (il giusto prezzo da pagare per essere una eccezionale città di eventi) il fatto che ormai anche le zone ZTL siano invase da auto stabilmente parcheggiate, che le isole ecologiche siano ormai delle discariche a cielo aperto con rifiuti di ogni tipo gettati per terra (ne ho una proprio davanti a casa); che la città sia costantemente attraversata da automobili senza che nessuna seria politica di mobilità sostenibile sia all’ordine del giorno (dichiarare in un Pug o Pums che la mobilità della città sarà sostenibile non costa nulla, ma avviare politiche serie e pianificate costa impegno e serve competenza); non avere il senso della natura e qualità degli spazi della propria città e quindi permettere tutto dappertutto.

Ad esempio, concerti rock dal forte impatto ambientale in zone delicate e ricche di biodiversità (il parco urbano) o festival di musica leggera con anziani cantautori, conduttori televisivi o dj rap che occupano per un mese le due piazze monumentali della città, impedendo la visione o la contemplazione (atteggiamento tipico del turista culturale).

Significa anche non dare troppo ascolto che i dati ci dicono che in fondo il turismo cittadino (nonostante gli eventi) non se la passa poi così bene, e l’aria che respiriamo è una delle peggiori della regione (nonostante tutti gli alberi ci dicono verranno piantati, anche sopra i supermercati).

Forse il miglioramento del turismo e dell’aria richiedono non azioni eccezionali ma strategie meno annunciate ma più regolari che incidono anche sui comportamenti individuali, consapevoli che anche noi cittadini dovremo interrogarci sul futuro che vogliamo e su quello che ci aspetta.

Un’amministrazione consapevole dovrebbe, senza retorica, aiutare i propri cittadini ad assumere comportamenti consapevoli della posta in gioco in termini di crisi ambientale, di diritto alla città, di inclusività. Lo dicono anche gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu.

L’estate sta arrivando e certamente “godremo” ancora della vista prospettica di un enorme palco e altri annessi che nasconderanno mezza piazza. L’estate scorsa ho assistito a un dialogo interessante in un’osteria del centro tra due gruppi di turisti francesi e olandesi che dicevano, si bella la città, ma molte chiese sono chiuse, le piazze non si vedono a causa dei palchi, domattina ci spostiamo a Bologna.

La politica dell’evento è la politica del mordi e fuggi, e conseguentemente la città e la sua struttura commerciale si organizzano per l’evento, lasciando tutto il resto dell’anno numerose serrande chiuse lungo le strade del centro.

Il posizionamento strategico di una piccola città dentro una rete urbana così densa e ricca di storia come quella italiana non è facile e non la si può ridurre alla ricerca dell’evento. Necessita di capacità di visione e soprattutto di interazione con le città che ci stanno attorno. In un paese che enfatizza sempre il turismo come panacea per i suoi problemi (che sono ahimè più seri e complessi), appare incomprensibile che, ad esempio, non ci sia una linea ferroviaria diretta che unisca tre storiche città d’arte come Mantova, Ferrara e Ravenna, con orari regolari. Una buona politica di marketing concertata tra le tre città e le due regioni (e volendo anche lo Stato, anche se non è più di moda) la renderebbe un percorso turistico-culturale straordinario.

O ancora come non ci sia un “Treno del Delta” diretto, che da Bologna (dove vi è un’aeroporto) arrivi a Codigoro/Pomposa e Comacchio. In entrambi i casi citati si rafforzerebbe il servizio pubblico per gli abitanti del territorio e si creerebbero delle linee turistiche molto attrattive con quello che ne consegue. Ma per fare questo bisogna ragionare in termini di pianificazione e condivisione e quindi “ben progettare” la normalità e poi su questo innestare le “eccellenze”: fiore all’occhiello di un sistema di qualità.

Ma un paese dove fondi pubblici, come quelli del PNRR, vengono investiti per recuperare “borghi eccellenti” e isolati (uno per regione) disinteressandosi, di fatto, delle “aree interne” o dove vengono investiti denari per l’alta velocità senza porsi il problema delle reti ferroviarie minori (le due cose dovrebbero essere sinergiche), o ancora vengono utilizzate per costruire inutili palazzetti dello sport (l’evento) senza porre attenzione alla riqualificazione delle strutture sportive che già ci sono (la normalità), non da molte speranze.

Del resto a Ferrara basta guardarsi attorno per vedere che altri spazi per ospitare gli eventi esistono. Se il concerto di Springsteen lo si poteva fare all’aeroporto, il Ferrara Summer Festival, dovendo per forza farlo in centro, potrebbe svolgersi in piazza Travaglio, liberando la piazza Trento Trieste e i cittadini dall’oppressione dei tubi innocenti. Che ne pensano le associazioni di categoria e le associazioni della città che organizzano eventi “pubblici”?

Le città, lo sappiamo, sono fatte di spazi e di regole, che ne stabiliscono la fruizione nel rispetto del diritto di tutti di usufruirne, ma vi sono anche le trasgressioni a tali regole. In generale le città italiane (e Ferrara non è un’eccezione) costituiscono un compendio di trasgressione spaziale e normativa. Chi le abita non si pone spesso il problema delle regole, chi le amministra è interessato solamente a stabilirle, nel rispetto delle leggi e delle ordinanze, ma poi sorvola sull’effettivo rispetto. Una amministrazione che governa ascolta, discute, argomenta e poi decide; una amministrazione che comanda decide, se ne è capace, forte del consenso di chi si identifica nella cultura del “fare”, a prescindere da tutto il resto.

Ultima considerazione. L’Assessore alla Cultura Gulinelli ha cercato di demolire le condivisibili ragioni della petizione del Comitato Save the Park, dicendo che i ferraresi che hanno firmato la petizione sono lo 0,4% del totale e quindi questa non aveva valore.
L’Assessore forse dovrebbe ricordare che una persona a lui molto vicina, Vittorio Sgarbi, fece bloccare il progetto regolarmente approvato con procedura concorsuale, per la riorganizzazione del Palazzo dei Diamanti, con una petizione firmata quasi esclusivamente da non ferraresi. Certo erano persone “eccellenti”, del mondo dell’arte e della cultura, mentre i firmatari di Save the Park sono probabilmente persone “normali”.

La storia di Carlo Urbani e di 50 anni di Medici Senza Frontiere: soccorrere, salvare, denunciare le responsabilità

La storia di Carlo Urbani e di 50 anni di Medici Senza Frontiere:
soccorrere, salvare, denunciare le responsabilità

Da; pagina Facebook della Associazione Marco Mascagna (Napoli)

Piccola storia di Medici Senza Frontiere, di Carlo Urbani, di un Nobel e di salvataggi in mare… E’ il 28 febbraio 2003 quando Carlo Urbani, un infettivologo di Medici Senza Frontiere collaboratore dell’OMS, viene chiamato dall’ospedale di Hanoi per una consulenza riguardo a un malato con gravi sintomi respiratori che ha contagiato alcuni sanitari dell’ospedale. Urbani subito comprende di trovarsi di fronte a una nuova malattia, la stessa segnalata anche in Cina e Hong Kong ma come casi di “normale” influenza.

Carlo Urbani, giusto tra le nazioni

Urbani immediatamente allerta l’OMS, descrivendo la nuova malattia (sindrome respiratoria acuta severa – SARS) e invitando ad adottare urgenti drastiche misure di profilassi. Contemporaneamente, non senza fatica, riesce a convincere la direzione ospedaliera a isolare il reparto, ad adottare rigidi protocolli di profilassi e a vietare a tutto il personale sanitario venuto a contatto con i malati di uscire dall’ospedale. Contatta il Governo vietnamita perché disponga subito misure drastiche di quarantena e sorveglianza.

I giorni successivi è in continuo contatto con le autorità sanitarie. Il Governo vietnamita vara drastiche misure di profilassi (impiegando anche le forze armate per convincere parte della popolazione recalcitrante). L’11 marzo Urbani si ammala anche lui. Il 12 l’OMS lancia l’allarme mondiale. Il 29 marzo Carlo Urbani muore. Il 28 aprile l’OMS dichiara debellata l’epidemia in Vietnam non essendoci stati casi da circa 1 mese. Come ha dichiarato Kofi Annan “L’azione decisiva e tempestiva di Carlo Urbani probabilmente ha salvato milioni di vite in tutto il mondo” [1].

Nel marzo 2014 scoppia un’epidemia di Ebola in Guinea, una malattia che ha una letalità superiore al 50% e che presto si diffonde anche alla Liberia, Sierra Leone, Mali, Costa d’Avorio. I sanitari di Medici Senza Frontiere sono tra i primi a intervenire e l’organizzazione invia 325 operatori di vari Paesi che addestreranno 4.000 persone del luogo a curare e prevenire la malattia. L’epidemia è debellata in 2 anni.

Queste sono due storie, purtroppo conosciute da pochi, che evidenziano l’enorme, decisivo ruolo di Medici Senza Frontiere per la salvaguardia della salute dell’intera popolazione mondiale e in particolare della parte più povera e svantaggiata.

raccontare e denunciare

Medici Senza Frontiere è stata fondata nel 1971 da un gruppo di sanitari collaboranti con la Croce Rossa, che non accettavano la regola di questa organizzazione di totale riservatezza su tutto ciò che venivano a sapere, vedevano, ascoltavano durante la loro azione. Di ritorno dal Biafra, scioccati dal genocidio e dalle violenze perpetrate durante il conflitto e dal silenzio dei Paesi ricchi, scelsero di fondare un’organizzazione medica d’urgenza che fosse libera di raccontare e denunciare e di salvare vite anche senza l’appoggio delle “autorità locali”.

Dalle prime missioni nel Nicaragua sconvolto dal terremoto (1972), nell’Honduras devastato dall’uragano Fifi (1974) e nel Sud Est Asiatico ad assistere i cambogiani in fuga dai Khmer Rossi, Medici senza Frontiere ha fatto molta strada. Oggi ha progetti di assistenza in oltre 80 Paesi con circa 65.000 operatori umanitari impegnati, la gran parte dei quali degli stessi Paesi dove opera, perché la formazione di personale sanitario autoctono è una delle strategie portanti di MSF.

Operatori di MSF sono presenti in zone di guerra (in Yemen, Ucraina, Siria, Etiopia, Sudan ecc.) e lì dove imperversa il terrorismo (Mali, Burkina Fasu, Niger, Nigeria, Ciad, Repubblica Centroafricana, Libia, Etiopia ecc.), esponendosi così a gravi rischi. Il 3 ottobre 2015, per esempio, aerei USA bombardano l’ospedale di Medici Senza Frontiere di Kunduz, in Afganistan, causando la morte di 14 sanitari dell’organizzazione umanitaria. In Yemen vari ospedali sono stati bombardati causando un morto e una ventina di feriti, di cui alcuni gravi, tra il personale di MSF. Nella Repubblica Centroafricana un ospedale è stato attaccato da terroristi che hanno ucciso 3 membri di MSF. Altri 3 sono morti in Congo, 2 in Siria, uno in Etiopia [2].

Sono presenti in Paesi poveri e anche in quelli ricchi se sussistono situazioni d’emergenza. In Italia hanno prestato la loro opera a Lodi, Codogno, Casalpusterlengo e Sant’Angelo Lodigiano durante la fase più acuta dell’epidemia di covid e in Basilicata per assistere i braccianti stranieri.

Dovunque MSF presta la propria opera con assoluta gratuità. Per statuto non può ricevere finanziamenti da Governi. Il 95% dei fondi raccolti proviene da privati cittadini, il resto da associazioni, aziende, fondazioni. I bilanci sono pubblici e i fondi raccolti sono stati impiegati l’81% nei progetti, il 17% per raccolta fondi e pubblicizzazione e solo il 2% in spese di organizzazione.

Per la loro azione hanno ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 1999. Alla cerimonia di consegna intervennero il presidente (James Orbinski) e il vicepresidente (Carlo Urbani), che non si fecero scappare l’occasione per denunciare i massacri compiuti dalla Russia in Cecenia e richiamare i Governi alle loro responsabilità: “I Governi devono assumersi le loro responsabilità, devono aiutare i senza tetto, coloro che non hanno nulla, coloro che sono dimenticati; le loro condizioni devono cambiare” [3].

Salvare chi è in pericolo

Medici Senza Frontiere è anche la prima organizzazione umanitaria che si è impegnata a salvare vite umane nel Mediterraneo. Ha iniziato nel 2014, anno nel quale la UE ha chiuso l’operazione Mare Nostrum per il salvataggio dei migranti in balia delle onde e nel quale sono usciti i primi dati ufficiali sulle migliaia di migranti morti in questo mare.
Da 9 anni Medici senza frontiere fa quello che dovrebbero fare Italia e Malta. L’art. 98 della Convenzione ONU Sui Diritti in Mare e la Convenzione per la Sicurezza della Vita in Mare, che questi due Paesi hanno sottoscritto, li impegna a promuovere “la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima” e a spingersi anche fuori della loro zona SAR e perfino in acque territoriali di altri Stati se vi sono persone in “effettivo pericolo”.

Dal 2014 ministri, politici, giornalisti e opinion leader, invece di ringraziare Medici Senza Frontiere e le altre organizzazioni umanitarie che suppliscono alla latitanza del nostro Governo, hanno intrapreso una pervasiva, costante e indegna campagna di denigrazione di queste organizzazioni diffondendo informazioni false e mistificanti (per esempio sul comportamento che le navi devono avere secondo le convenzioni internazionali) e vere e proprie calunnie: sono complici dei trafficanti, “taxi del mare”, al soldo chi sa di quali potenze o loschi figuri, hanno capitali nei paradisi fiscali, vogliono destabilizzare l’Italia ecc. Da 9 anni sono emanati decreti, circolari, direttive per rendere il loro lavoro sempre più difficile, pericoloso, poco efficace, oneroso.

 

Il Governo Meloni-Salvini-Berlusconi ha varato da pochissimo [dicembre 2022, ndr] un decreto che impone che se una nave ha salvato dei profughi deve immediatamente fare rotta verso il porto assegnato e non può salvare altri profughi nelle vicinanze o presenti lungo il tragitto.
Ciò è contrario non solo alle norme internazionali ma anche al buon senso.

Come lo è assegnare alle navi che hanno salvato dei naufraghi al largo della Libia non il porto di Lampedusa, di Trapani o di Catania, ma quello di Ancona e di La Spezia, costringendo i salvati (tra cui ragazzi e bambini) ad aspettare 5 giorni (e di mare in tempesta) prima di ricevere adeguata assistenza [4].

Nel decreto è prevista una multa di 50.000 euro e il sequestro della nave se non si ottempera a tali assurde norme, il cui fine è chiaro: fare in modo che questi disperati che fuggono da guerre, terrorismo e povertà non arrivino in Italia, fare in modo che non ci siano più gli occhi degli operatori di Medici Senza Frontiere e delle altre organizzazioni umanitarie a vedere barconi stracolmi di disperati, naufraghi che gridano aiuto, imbarcazioni colare a picco con il loro carico di donne, bambini, uomini.

Nel Mediterraneo MSF e le altre ONG non solo salvano persone, ma registrano anche quanti non sono riusciti a salvare. E’ grazie a loro che sappiamo che nel 2022 nel Mediterraneo Centrale 13.000 persone sono state salvate e almeno 1.400 sono morte. Se non ci fossero MSF e le altre ONG ne sarebbero morte più di 14.000 e nessuno lo saprebbe [5].

Una tale politica, quella del Governo italiano, così cinica e crudele, non può non far venire in mente la politica della Germania nazista e dell’Italia fascista, che in questi giorni ricordiamo. Non opporsi, oggi come allora, significa essere complici.

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Note:
1 ) Norkin L: Carlo Urbani: A 21st Century Hero and Martyr. Virology: Molecular Biology and Pathogenesis, febbraio 2014;
2 ) Purtroppo non tutte tali notizie sono state riportate dai giornali italiani, che spesso hanno dedicato ad esse solo poche righe. Esse sono riportate, invece, da vari giornali francesi;
3 ) Discorso di Carlo Urbani alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace;
4 ) Ci riferiamo alle navi Ocean Viking fatta sbarcare ad Ancona e alla Geo Barents di MSF fatta sbarcare una volta ad Ancona (dopo 5 giorni di navigazione con il mare in tempesta) e un’altra a La Spezia, nel corso del mese di gennaio 2023;
5 ) I dati sono forniti da MSF. Si vedano Bertotto M: Decreto sicurezza ONG: più lontani da zone di soccorso aumenteranno i morti in mare, 29 dicembre 2022 e MSF: Navi ONG: le risposte alle 11 domande più frequenti.

La politica brutta

La politica brutta

In questi giorni, gli spazi pubblicitari delle tante fermate degli autobus a Ferrara sono invasi da manifesti con la figura del senatore Alberto Balboni.

Sono stati affissi subito dopo la sua uscita al Senato in cui ha accusato il PD di “aver aperto una breccia alla mafia”; subito dopo che si è recato in carcere a Ferrara per ascoltare le rivendicazioni degli agenti di polizia penitenziaria.

Il testo è un concentrato di demagogia: “Salvaguardando l’ergastolo ostativo abbiamo reso onore al sentimento di giustizia. Non vi può essere libertà e democrazia senza la protezione dei più deboli“.

Non entro nel merito della discussione sull’ergastolo, su cui scriverò prossimamente su Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara. Penso, nel mio piccolo, che lasciare una persona in carcere per tutta la vita, senza la possibilità di ottenere benefici , sia in contrasto con la funzione rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione. Non è un caso che il nostro Paese sia stato più volte sanzionato dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo proprio in merito all’ergastolo ostativo.

Il senatore Balboni è ovviamente libero di far politica come crede, ma mi stupisce molto che in un manifesto in cui campeggia ancora la fiamma dei fascisti del Movimento Sociale Italiano ci siano parole come “giustizia, libertà, democrazia, protezione, deboli”.

Mi sorprende perché quelle parole non mi sembra appartengano al vocabolario della destra.

Mi sconcerta intuire questa presa in giro dei cittadini.

Mi infastidisce questa diffusione massiccia di ipocrisia.

Mi disturba avvertire in quel messaggio qualcosa di viscido.

Sono parole con il  ‘naso lungo’ che suonano male perché non in armonia con chi ‘le ha suonate’.

Io ho paura di questa politica brutta, nera e “schifosa che fa male alla pelle” [1].

Credo ci sia bisogno di riappropriarsi delle parole, non solo per ricondurle ai nessi storici a cui fanno riferimento, ma anche e soprattutto per recuperare il senso buono del far politica.

[1] da “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber

In copertina: Foto da “BOLLETTINO PATTRIOTTICO” del 20 ottobre 2022, titolo dell’articolo: “Ergastolo Ostativo. Balboni (FdI): governo Meloni conferma impegno per rispetto legge e certezza pena”.  Tratto dalla testata online “La voce del Patriota”

Superbonus o supercazzola?

Superbonus o supercazzola?

Ormai è scontato. Quando incontro o sento un amico, da diversi mesi a questa parte, la prima domanda d’obbligo è: allora come va con l’idraulico?

Questo artigiano, così importante per la manutenzione  di una casa, è infatti diventato la mia nemesi. L’ultimo di una lista di artigiani, che comincia dai cosiddetti muratori e arriva agli elettricisti, passando per piastrellisti, falegnami, imbianchini. Da oltre un anno sono impegnato, mio malgrado, in una ristrutturazione dell’abitazione e del condominio in cui questa si trova, che mi ha costretto fuori casa e soprattutto ha assorbito molte delle mie energie, in una serie interminabile di discussioni, sopralluoghi, preventivi, controversie e anche, purtroppo, alterchi più o meno coloriti.

Sono convinto che molti, spero per ragioni più circoscritte delle mie, si riconosceranno in questo gustoso quadretto. In poco meno di dieci anni, ovvero dalla ristrutturazione della casa dei miei genitori, il paesaggio umano ed economico connesso all’edilizia e alle ristrutturazioni in genere, si è completamente stravolto. In particolare, dopo l’avvio del cosiddetto superbonus 110%, avere a che fare con un artigiano è una vera prova di iniziazione, un tour de force defatigante e spesso frustrante.

Questo superincentivo ha disarticolato in un paio di anni qualsiasi equilibrio tra domanda ed offerta di maestranze. Non tutte. Gli elettricisti reggono bene. Già con gli idraulici il discorso diventa assai delicato. Ma è sugli edili, nelle varie declinazioni possibili: dai semplici manovali ai piastrellisti, che le cose si fanno più complicate.
Nel cantiere che ha già rimesso a nuovo il condominio immediatamente vicino al mio, c’era una babele di lingue, ma quello che più mi ha colpito era il mosaico dei mestieri di “provenienza” di tanti lavoratori. C’erano ex-pizzaioli, ex-commessi, ex-camerieri, persino ex-cuochi. Ma di “veri” muratori ben pochi.  Dopo i lockdown e la conseguente ecatombe occupazionale, soprattutto nel settore turistico, l’enorme domanda scatenata da questa misura di efficientamento energetico del nostro patrimonio edilizio ha sortito questo effetto perverso.

Peccato, perché l’idea era buona, tanto che anche l’Europa si sta orientando verso una grande operazione di efficientamento degli edifici, vero collo di bottiglia, insieme alla mobilità, per arrivare alla cosiddetta naturalità delle emissioni di anidride carbonica nel 2050. Purtroppo, come la storia ci insegna, di buoni propositi è lastricato l’inferno. Prima di lanciare l’iniziativa però, almeno in Europa si sta discutendo animatamente e sono diverse le osservazioni che vengono sollevate, anche, ma non solo, dal nostro paese, già scottato su questo argomento.

In Italia invece si è partiti senza alcuna cautela: rilanciare l’edilizia per rilanciare l’economia, si diceva. Stando agli ultimi dati disponibili, quelli del 2020, il comparto dell’edilizia e delle costruzioni ed il suo indotto, rappresentano in Italia oltre il 6% dell’occupazione e il 4,5% del PIL. Nel decennio che va dal 2008 al 2017, il settore ha però attraversato una fortissima crisi, perdendo oltre 400mila addetti, quasi la metà al Nord. La piccola ripresa trainata dagli investimenti in ristrutturazioni supportate dagli incentivi fiscali, le famose detrazioni al 50% e stata vanificata dalla pandemia, che ha ulteriormente terremotato il settore con un – 13,6%. L’avvertenza allora era, “maneggiare con cura”.

Infatti in questi ultimi due anni, il PIL è cresciuto, più che in ogni altro paese europeo, ma gli effetti perversi non si sono fatti attendere ed altri, purtroppo più devastanti, sono dietro l’angolo.

Il cantiere che interessa il mio condominio è fermo da mesi. Il blocco della cessione dei crediti sta mettendo all’angolo tante piccole imprese. Piccole appunto. Tanto piccole da non riuscire a far fronte, da sole, alla liquidità necessaria a reggere un’iniziativa così impegnativa sul fronte dei costi e delle maestranze. Il mio caso purtroppo non è isolato, visto l’allarme lanciato dalle organizzazioni di settore. Perché, a fianco della carenza di mano d’opera specializzata, si è innescata anche l’ovvia rincorsa dei prezzi di serramenti, caldaie, laterizi vari.

Lo sapeva anche mia nonna, buon’anima, se la domanda cresce a dismisura ed in tempi ristretti, i prezzi crescono con la stessa rapidità. Gridare alla speculazione serve a poco. La guerra non ha aiutato, ma la dinamica era segnata già  dalle condizioni di partenza. Sarebbe stato più utile ricordarsi che in economia “non si fanno pasti gratis”. Incentivare un’operazione con una quota superiore al suo “effettivo” costo – 110% – significa scaricare comunque da qualche altra parte il sovrappiù. Se ne stanno rendendo conto i tanti che, grazie a questa bella pensata, ora si ritrovano in un mare di guai.

Ad esempio, l’impresa che si era offerta per avviare il superbonus nel mio condominio, ha già rinunciato ad alcuni dei cosiddetti interventi trainanti: serramenti, porte blindate, fotovoltaico condominiale. Tutte lavorazioni che richiedono l’anticipo dei costi, perché le ditte che producono serramenti non vogliono certo rimanere con il cerino in mano e dunque esigono il pagamento anticipato dei loro servizi. Pagamento che in assenza di liquidità – per il famoso blocco della cessione del credito – l’impresa non può fare.
Ci é stato annunciato dunque che si ripiegherà sugli unici interventi indispensabili ad acquisire il credito previsto dall’appalto, ovvero la realizzazione del cappotto e la sostituzione delle caldaie. Queste operazioni garantiscono infatti il superamento da parte dell’edificio condominiale di due classi energetiche, che era ed è all’origine del varo del superbonus.

Lo Stato infatti riconosce il credito maturato solo se l’intervento di efficientamento energetico è  stato portato a termine. Se questo non avverrà, ovvero se l’impresa fallisce o non riesce ad arrivare a questo traguardo minimo, il condominio e le famiglie che lo abitano si dovranno accollare i costi vivi dell’operazione. Con il non trascurabile problema, in termini occupazionali, del nuovo tracollo del settore delle costruzioni, visto che questa situazione coinvolge centinaia di cantieri, ovvero altrettante imprese con migliaia di addetti. Sbloccare il meccanismo della cessione del credito risulta però assai complicato.

Eurostat infatti ha appena sentenziato che non porre limitazioni a questo meccanismo di compensazione erariale, genera nuovo debito pubblico, proprio quello che il nostro Paese non può permettersi. Così ancora una volta, nel Belpaese, si capovolge l’assunto evangelico che vorrebbe che gli ultimi diventino i primi. L’accesso al Superbonus, come le catene di Sant’Antonio di veneranda memoria, ha colpito ancora. I primi ad accedere a questa agevolazione fiscale saranno anche gli unici probabilmente a beneficiarne. Con un bilancio complessivo – economico e ambientale – che bisognerà però verificare solo alla fine della partita.  Le cifre che leggiamo infatti nello studio di Nomisma e Ance dell’agosto 2022  (https://www.nomisma.it/primo-bilancio-sociale-e-ambientale-del-superbonus-110/)

sono in gran parte basate su stime e non sull’effettivo bilancio dei cantieri avviati e quindi sulla realtà degli interventi. Che tra l’altro anche Bankitalia giudica troppo onerosi per le casse pubbliche, pur a fronte degli indubbi risvolti ambientali e di contenimento della bolletta energetica. In divenire abbiamo la fotografia annuale tracciata dall’Enea, aggiornata al 2021:   https://www.efficienzaenergetica.enea.it/images/detrazioni/Avvisi/Report_dati_mensili_31_12_2022.pdf

Il finale di questa ‘favola’ italiana deve ancora essere scritto, ma la sua morale mi sembra tutt’altro che edificante. Consoliamoci con una vecchia canzone di Guccini, “Radici”, dai paesaggi trascendenti ed evocativi, tutt’altra pasta insomma rispetto al superbonus che sembra diventato una supercazzola.

RADICI

La casa sul confine della sera

oscura e silenziosa se ne sta,

respiri un’ aria limpida e leggera

e senti voci forse di altra età,

e senti voci forse di altra età…

 

La casa sul confine dei ricordi,

la stessa sempre, come tu la sai

e tu ricerchi là le tue radici

se vuoi capire l’anima che hai,

se vuoi capire l’anima che hai…

 

Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te,

come il fiume che ti passa attorno,

tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei,

lentamente, giorno dopo giorno

ed io, l’ultimo, ti chiedo se conosci in me

qualche segno, qualche traccia di ogni vita

o se solamente io ricerco in te

risposta ad ogni cosa non capita,

risposta ad ogni cosa non capita…

Ma è inutile cercare le parole,

la pietra antica non emette suono

o parla come il mondo e come il sole,

parole troppo grandi per un uomo,

parole troppo grandi per un uomo…

E te li senti dentro quei legami,

i riti antichi e i miti del passato

e te li senti dentro come mani,

ma non comprendi più il significato,

ma non comprendi più il significato…

Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi,

tutto è morto e nessuno ha mai saputo

o solamente non ha senso chiedersi,

io più mi chiedo e meno ho conosciuto.

Ed io, l’ultimo, ti chiedo se così sarà

per un altro dopo che vorrà capire

e se l’altro dopo qui troverà

il solito silenzio senza fine,

il solito silenzio senza fine…

La casa è come un punto di memoria,

le tue radici danno la saggezza

e proprio questa è forse la risposta

e provi un grande senso di dolcezza,

e provi un grande senso di dolcezza…

Francesco Guccini

11 FEBBRAIO: CARNEVALE GLOBALE PER ASSANGE
Aggiornamento al 5 febbraio 2023

11 FEBBRAIO: CARNEVALE GLOBALE PER ASSANGE
Aggiornamento delle iniziative in Italia e nel mondo al 5 febbraio 2023

Sosteniamo l’iniziativa Night Carnival for Assange lanciata da Don’t Extradite Assange Campaign a Londra sabato 11 febbraio, organizzando azioni simili in tutto il mondo.

Vogliamo tornare al significato antico del Carnevale, quando si sbeffeggiavano i potenti e i loro soprusi con maschere, canti, balli, musica, carri allegorici e cartelli satirici. Tutto questo si può applicare benissimo alla persecuzione attuale di Assange, per esempio indossando maschere che riproducono il suo volto.

Come sempre ci affidiamo alla vostra creatività: qualsiasi tipo di iniziativa è benvenuto, dai flash mob, ai dibattiti, alla proiezione di film sul tema, ma oltre al tono “carnevalesco” vi trasmettiamo anche una richiesta di John Rees: far sentire la pressione internazionale al governo britannico e a quello americano sottoscrivendo la petizione che chiede di fermare la sua estradizione negli Stati Uniti e la lettera al Presidente Biden perché lasci cadere le accuse contro Julian Assange. In questo modo migliaia di firme potranno aggiungersi a quelle già raccolte.

L’11 febbraio le iniziative potrebbero tenersi, dove possibile, nei pressi delle ambasciate e dei consolati del Regno Unito e degli Stati Uniti, con la simbolica consegna delle due lettere, l’invito a firmarle durante l’evento e l’annuncio delle firme totali raccolte fino a quel momento. Nelle altre città saprete senz’altro trovare un luogo centrale e significativo dove far sentire la vicinanza e la solidarietà a Julian e la pressante richiesta di liberarlo.

Vorremmo ripetere l’esperienza della maratona del 15 ottobre organizzando collegamenti in diretta con i diversi eventi e per questo abbiamo bisogno di conoscere entro il 31 gennaio i luoghi e gli orari delle diverse iniziative. Segnalateli scrivendo alla mail 24hAssange@proton.me.

Aggiornamento al 5 febbraio 2023

Si stanno definendo i dettagli della nuova iniziativa mondiale per la libertà di Julian Assange: in appoggio alla manifestazione di Londra organizzata da Dont Extradite Assange  per l’11 febbraio si sono mobilitati da Buenos Aires fino all’Australia tutti i gruppi, comitati, formazioni politiche e sociali che chiedono la liberazione del giornalista australiano imprigionato in Gran Bretagna in attesa di una estradizione che sarebbe uguale a una condanna a morte.
A tutti coloro che partecipano ricordiamo di controllare sulla mappa se la vostra iniziativa è segnalata in modo esatto
https://www.24hassange.org/it/iniziative/ . Ci sono  27 iniziative attualmente segnate lì, in aumento. Se ci sono correzioni da fare o aggiunte scriveteci a questa mail 24hAssange@proton.me
Ricordiamo dalle 11 a mezzanotte GMT dell’11 Febbraio  ci sarà di nuovo una diretta trasmessa sul canale YouTube di Pressenza Italia e su quello di Terra Nuova Edizioni.
Per chi volesse partecipare attivamente alle iniziative per la libertà di Assange qui sotto trascriviamo i contatti di tutti i gruppi, comitati e associazioni che ci hanno mandato i loro recapiti e il permesso a divulgarli

Gruppi pro assange in Italia

Rivalta di Torino & Valle Susa, Italia
paolo.prieri@mayombe.eu – www.PresidioEuropa.net

Free Assange Reggio Emila
reggioemxassange@gmail.com

FREE ASSANGE Italia
media@freeassangeitalia.it

Comitato per la liberazione di Julian Assange
comitatoassange@libero.it

Sardegna Pulita
cremoneangelo@gmail.com

Free Assange Napoli
https://www.facebook.com/profile.php?id=100088248402143

Faenza
Linda Maggiori 3333520627 lindamaggiori@hotmail.com
Pagina fb https://www.facebook.com/profile.php?id=100088475731588

Forlì
Lilia Perugini:liliaperugini@gmail.com  Tel.+393472513426

Como
Lorena Corrias 328-4913460 lorena.cori@alice.it

 

 

RIFLESSIONI PER JULIAN ASSANGE NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI, 10 DICEMBRE 2022

https://www.24hassange.org/it/iniziative/

Per certi versi /
La ballata del tempo

La ballata del tempo
Volano i giorni
Passano alianti
Grattano l’aria
Con unghie nere
Come lancette
Di orologi
È tutto tempo
Che corre
che gira
Che scorre
Tornano i visi
Sul gradino
Della memoria
Sono bianchi
Infarinati
Dagli anni
Il cimitero delle nuvole
È più misterioso
Del cimitero
Degli elefanti
Il futuro è denso
di sospirate ipotesi
L’attimo non lascia
la sedia
Scappa
Il passato mi trafigge
Di nostalgia
No
Non farò mai pace
Con questa mania

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

ADDIO ALLE ARMI.
Nel mondo con uno sguardo femminile amorevole e irriducibile

ADDIO ALLE ARMI.
Nel mondo con uno sguardo femminile amorevole e irriducibile

Per un otto marzo memorabile facciamo parlare la lingua-ragione, la lingua madre, fonte della vita, contro le non-ragioni di tutte le guerre.
Da anni scriviamo e ripetiamo che gli uomini “non sanno confliggere e fanno la guerra”. Assistiamo in Ucraina a una guerra sanguinosa e temeraria. A farla non è più il patriarcato come l’hanno conosciuto le nostre madri e le nostre nonne.

Il mondo è cambiato, grazie alle donne, ma non abbastanza: oggi il patriarcato non c’è più, ma gli è subentrata la fratria, fatta di confraternite maschili che possono includere anche sorelle. La fratria fa la guerra e non ascolta la lingua-ragione, e popoli che parlano la stessa lingua si scannano col contributo delle armi di tutti i governi aderenti alla Nato. Diciamo basta all’invio di armi di qualsiasi tipo. Basta alla guerra per procura. Basta alla devastazione dell’Ucraina. Basta col nichilismo distruttivo che prende a bersaglio i corpi delle donne e dei loro figli in tutto il mondo. Basta coi vecchi potenti che mandano al macello giovani vite, in nome dell’identità, della “democrazia” e della sicurezza dei confini.

Noi non staremo nel coro degli uomini incolti e delle donne che li seguono e li imitano. È tempo di dire addio alle armi, a tutte le armi e a tutte le guerre. In tempo di autentica pace si confligge con le armi della parola e l’intelligenza d’amore. È tempo di gridare il nostro desiderio di vita e libertà.

Libertà dalla guerra, sì, ma non solo: anche in luoghi apparentemente in pace, la fratria nella sua ricerca di nuovi orizzonti di profitto e nel suo disprezzo per la fonte della vita vuole cancellare tutte le differenze e rendere il mondo un deserto asessuato di surrogati e robot che sostituiscano la ricchezza delle relazioni di corpi sessuati.
Noi che amiamo la vita diciamo no alla mercificazione dei corpi con le più sofisticate tecnologie. Poniamo fine alla pulsione mortifera dell’ultraliberismo.

Ci piace ricordare le parole che Rosa Luxemburg scrisse in una lettera dal carcere nel 1918:”
“C’è ancora molto da vivere e tanto di grande da affrontare. Stiamo assistendo all’affondare del vecchio mondo, ogni giorno ne scompare un pezzo. È un crollo gigantesco, e molti non se ne accorgono, pensano di essere ancora sulla terraferma.”  

Facciamo in modo che dal crollo del vecchio mondo, retto dai paradigmi della forza, del dominio, della violenza, nasca una nuova convivenza che abbia a fondamento l’attenzione, la cura, l’amore del vivente.

Diamo vita in questo 8 marzo 2023 a iniziative che vadano in questa direzione.

A Milano ne discutiamo sabato 11 Marzo alle 11 in un’assemblea pubblica di donne alla Casa Rossa, v. Monte Lungo 2 (MM1 Turro)

 Prime firmatarie: 

Laura MInguzzi
Silvia Baratella
Cristina Gramolini
Stella Zaltieri Pirola
Lucia Giansiracusa
Daniela Dioguardi
Roberta Trucco
Daniela Danna
Paola Mammani
Flavia Franceschini
Marilena Zirotti
Danila Giardina
Rosi Castellese
Mariella Pasinati
Anna La Mattina
Agata Schiera
Fausta Ferruzza
Virginia Dessy
Daniela Musumeci
Anna De Filippi
Stefania Macaluso
Mimma Glorioso
Eliana Romano
Bice Grillo
Ida La Porta
Francesca Traina
Anna Marrone
Mimma Grillo
Luciana Tavernini
Pina Mandolfo
Nunziatina Spatafora
Maria Castiglioni
Giovanna Minardi
Rita Calabrese
Concetta Pizzurro
Giovanna Camertoni
Roberta Vannucci
Adele Longo
Katia Ricci
Anna Potito
Rosy Daniello
Isa Solimando
Franca Fortunato
Nadia Schavecher

Per contatti:
addioallearmi2023@gmail.com

Due proposte di legge per uscire dal neoliberismo e dar fiato alla spesa dei Comuni e alla partecipazione dei cittadini.
Parte oggi la raccolta firme.

Due proposte di legge per uscire dal neoliberismo e dar fiato alla spesa sociale dei Comuni. Parte oggi parte oggi la raccolta firme.

Oggi, 4 febbraio, parte un’iniziativa nazionale importante. Inizia infatti, in tutta Italia, la raccolta delle firme per presentare al Parlamento 2 proposte di legge di iniziativa popolare nazionale – promosse da Attac, Arci, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Fridays For Future e molti altri soggetti – relative alla riforma della finanza locale e alla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti.

Testo della Proposta di legge riforma della finanza pubblica locale

Testo della Proposta di legge socializzazione Cassa Depositi e Prestiti

Le 2 proposte di legge (leggi sopra) intendono, da una parte, ridare autonomia economica e finanziaria ai Comuni e, dall’altra, rendere Cassa Depositi e Prestiti una Banca pubblica con la vocazione di sostenere gli investimenti degli Enti locali, in particolare quelli relativi ai Beni Comuni.

Ancora più in specifico, la prima proposta intende costruire un ruolo centrale per i Comuni nel poter affermare diritti fondamentali dei cittadini, facendoli ridiventare soggetti attivi nel promuovere la gestione pubblica e  le politiche sociali (ed economiche), in particolare in campi quali il patrimonio pubblico e i servizi pubblici, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, da quelle riferite all’abitare alla conversione ecologica, dai trasporti pubblici alla cultura e altro ancora.
Lo fa garantendo sì l’equilibrio economico-finanziario degli Enti locali, ma svincolandolo dall’eredità del Patto di stabilità e dal meccanismo stringente del pareggio di bilancio, e affiancando ad esso l’obiettivo del pareggio del bilancio sociale, ecologico e di genere, guardando a questi strumenti come quelli in grado di soddisfare bisogni e diritti fondamentali dei cittadini.

La proposta di legge relativa alla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti ha la finalità di mettere a disposizione l’ingente patrimonio che essa raccoglie con il risparmio postale dei cittadini (circa 280 miliardi di €) per finanziare, a tassi agevolati, gli investimenti dei Comuni nei settori sopra elencati e consentire alle comunità locali di intervenire efficacemente sulle priorità che esse individuano.

Possono sembrare finalità di puro buon senso e, infatti, esse, anche se in termini diversi e in modo parziale, hanno agito fino a circa 30 anni fa, agli anni ‘90 del Novecento, prima che intervenisse l’ondata del neoliberismo anche nel nostro Paese. Che ha assunto tratti particolarmente feroci proprio nei confronti del sistema delle autonomie locali e del settore bancario.

Con il Patto di stabilità degli Enti locali, la cui prima versione risale al 1998, e poi con il blocco delle assunzioni a partire dagli anni successivi, cui si è associato il taglio progressivo dei trasferimenti di risorse dallo Stato centrale ai Comuni, si è proceduto ad un forte contenimento della spesa corrente dei Comuni, alla privatizzazione di servizi pubblici fondamentali, alla svendita del patrimonio pubblico e ad un pesante ridimensionamento dell’occupazione a tempo indeterminato (e  all’innalzamento della sua età media), il tutto guidato dall’imperativo sempre più cogente del rientro dal debito accumulato.

Basta pensare che, dal 2013 al 2021, secondo quanto rilevato dalla Corte dei Conti, il debito dei Comuni si è ridotto di circa il 17%, mentre quello delle Amministrazioni centrali è aumentato di circa il 25%. Gli investimenti fissi lordi dei Comuni dal 2001 al 2019 hanno avuto un decremento del 45%, gli occupati a tempo indeterminato, come ha evidenziato la Fondazione IFEL- ANCI, sono passati da 430mila nel 2007 a 320mila nel 2021, con una diminuzione del 25%!

Dal canto suo, Cassa depositi e Prestiti, dapprima aprendo la possibilità ai Comuni di rivolgersi al mercato del credito e, soprattutto, dal 2003, quando essa è stata privatizzata, trasformandola da Ente di diritto pubblico a SpA e facendo entrare nel capitale sociale le Fondazioni bancarie, ha progressivamente dismesso la propria funzione di Banca pubblica finanziatrice a tasso agevolato degli investimenti dei Comuni per trasformarsi in un “normale” istituto di credito, anzi ha messo a disposizione le proprie risorse per sostenere i processi di privatizzazione dei servizi pubblici e per sostenere gli investimenti nei settori che garantivano margini di profitto più elevati.

L’incrocio di questi processi – vincoli stringenti alla spesa e al debito degli Enti locali e venir meno del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti, due facce della stessa medaglia- ha fatto sì che i Comuni si sono ridotti ad un intervento pubblico minimo, che è sostanzialmente rappresentato da anagrafe e stato civile, Polizia municipale e il residuo di alcuni servizi sociali, dai nidi all’assistenza ad alcuni presidi culturali.

Gli anni della pandemia e gli interventi di “emergenza” che si sono approntati anche nei confronti dei Comuni, assieme ai provvedimenti che discendono dal Pnrr, hanno in parte alleviato questa situazione, riportando, almeno sulla carta, una possibilità di investimenti pubblici pari agli anni ‘ buoni’ dell’inizio del 2000 e garantendo una tenuta nella spesa corrente. Ma non si può sottacere che, in mancanza di una ripresa sostenuta dell’occupazione pubblica e un rilancio significativo della spesa corrente, tutto ciò non potrà che risolversi in un palliativo, incapace di invertire la tendenza in atto.

Per rendere più chiaro questo concetto, è sufficiente avere presente il paradosso per cui, per esempio, nel caso degli asili nido, ogni miliardo di investimento genera, per la loro gestione, maggiori fabbisogni di spesa corrente tra i 50 e i 250 milioni annui, risorse che ci sono per la prima voce, ma non per la seconda.

Per questo, senza un intervento di fondo, di carattere sistemico, i Comuni continueranno a svolgere un ruolo di pura amministrazione, con una sorta di “pilota automatico” che impedisce di intervenire sugli snodi del modello produttivo e sociale e che rischia di vanificare, quando anche ci fosse la volontà politica, la possibilità di mettere in campo scelte alternative a quelle che sono state prodotte negli ultimi decenni.

Il valore delle 2 proposte di legge di iniziativa popolare – oltre all’idea di costruire meccanismi di democrazia partecipativa nel definire le scelte sia dei Comuni sia della stessa Cassa Depositi e Prestiti- sta proprio in ciò, nel delineare un percorso di modifica radicale del ruolo e del sistema delle autonomie locali, in grado di affermare i diritti fondamentali delle comunità territoriali e di dotarli delle risorse che rendono possibile quest’obiettivo.

Per questo occorre che la raccolta delle firme arrivi ad un risultato ben superiore alle 50.000 sottoscrizioni che sono necessarie per presentare le proposte di legge in Parlamento.

La raccolta firma parte oggi e durerà per i 6 mesi successivi ed era previsto che la si potesse fare nel modo ‘classico’, cioè su moduli cartacei nei quali riportare i dati e certificare i requisiti dei firmatari, sia attraverso una piattaforma che consentisse le firme online, modalità prevista dal luglio scorso grazie ad una modifica legislativa che l’ha introdotta.
Peccato che il governo ha annunciato a metà del mese di novembre scorso che finalmente la piattaforma per le firme online era pronta, ma, da allora a tutt’oggi, essa risulta in una fase di test ( ma quanto saranno approfonditi, visto il tempo che si sta impiegando?) e quindi non è ancora agibile.
Non voglio avanzare pensieri maliziosi in proposito, che però vengono facilmente in mente; in ogni caso.

A Ferrara

Per l’intanto, in attesa che le criticità per le firme online si risolvano, le firme potranno essere apposte su moduli disponibili presso l’Ufficio elettorale del Comune a Ferrara, in via Fausto Beretta 19, dal lunedì al venerdì, ore 8-12 ; oppure al mercatino della Comunità Emmaus ( via Nazionale 95 – S. Nicolò) nelle giornate di martedì e giovedì dalle 8 alle 12 e sabato dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18.

Firmare e far conoscere quest’iniziativa serve non solo dal punto di vista generale, ma anche per sostenere le battaglie che sono aperte anche a Ferrara, che, al pari di tante altre città, non è risparmiata dal furore di privatizzazione degli spazi e dei servizi pubblici.
Basta pensare all’idea di utilizzare il Parco Urbano Bassani a ridosso delle Mura estensi, patrimonio UNESCO, per svolgere il concerto di Bruce Springsteen.
Oppure al progetto FERIS, che mette insieme ristrutturazione di un ex caserma con un nuovo ipermercato e parcheggio, sempre sotto le Mura, in una logica tutta orientata al servizio di interessi e profitti privati.

Per non parlare del fatto che Hera continua a svolgere in proroga la gestione del servizio dei rifiuti, nonostante la concessione sia scaduta alla fine del 2017 e ci siano tutte le condizioni per arrivare alla ripubblicizzazione del servizio stesso.

Insomma, ci sono veramente tante e buone ragioni per firmare e far firmare queste proposte di legge di iniziativa popolare, per portare avanti una lotta che non sarà né semplice, né breve, ma che, sul serio, indica una strada che può tornare a far contare e dar voce alle persone che abitano le città e i territori.

In copertina: La partecipazione attesa (immagine tratta dal periodico ArcipelagoMilano)

Immaginario /
la linea sottile

Se ne parla spesso, troppo forse. Stare bene da soli per imparare a star meglio con gli altri. La solitudine l’abbiamo conosciuta anche in un’altra forma durante la pandemia, nella malattia, nella morte. Da tempo la affrontiamo in questa nostra era super tecnologica di così tanta connessione e sempre meno coesione. La cantava la Pausini accennando alla distanza fisica, ma poi ci sono coppie che la vivono costantemente anche in compagnia. Sentirsi soli anche in compagnia, lontano dalla realtà e da quelli che ci circondano.

Dicono che sia giusto praticarla per ritrovare se stessi,  sopratutto dopo un trauma. Rimanere in silenzio e in ascolto, non perdersi tra una folla che ci fa sentire più soli. Sempre agognata da scrittori, pittori, musicisti di ogni generazione, ti rigenera diventando fonte di creatività. Impari a conoscerti da solo o al massimo con un gatto che ti fa le fusa sulle gambe. Lui, amico non invadente, solitario, indipendente. L’individualità. Tutto troppo lontano dagli anni ’50, quando si crescevano i figli assieme a quelli dei vicini di casa e gli adulti erano tutti zii. Allora si chiamava socialità.

Ma questa è un’altra storia. Eppure che tu la scelga o che lei scelga te, serve a capire se stessi, centrarsi, e questo nessuno lo nega. “La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà” diceva De Andrè. Per star bene, dicono, ce ne vuole una buona dose ogni giorno come la mela per il medico. Eppure c’è una linea sottile tra solitudine e chiusura. Quella che porta all’eccentricità e alla misantropia, ci sono persone che se la cuciono addosso come una seconda pelle. Perché si può capire se stessi anche sbattendo contro la pelle degli altri oppure abbracciandola.

Cover: foto di Ambra Simeone

Alfredo Cospito e la misera farsa della trattativa anarchici-mafia

Alfredo Cospito e la misera farsa della trattativa anarchici-mafia

Intervento di Luciano Muhlbauer, scritto per Milano in Movimento del 2 febbraio 2023.

Dalla trattativa Stato-mafia alla trattativa anarchici-mafia è un attimo, con la differenza che la prima era (era?) una tragica realtà, mentre la seconda è sostanzialmente una misera farsa politica.

Il punto vero è che a quasi nessuno importa di Cospito, di un ragionamento sul 41bis oppure su dettagli come la richiesta della Cassazione di una condanna per “strage politica” (art. 285 c.p.), cioè un reato invocato nemmeno in casi come la strage di Capaci o la strage di Bologna, quelle sì sanguinose e anche molto.

(Per la vicenda processuale di Alfredo Cospito ci sono tante fonti, ma qui ne indichiamo solo una: [Leonardo Bianchio su VICE]

Insomma, a quasi tutti importa altro. Al governo Meloni, che sul piano delle politiche economiche e sociali si muove in sostanziale continuità con Draghi e Monti, con la semplice aggiunta delle irritanti strizzatine d’occhio all’evasione fiscale, interessa fondamentalmente costruirsi dei nemici pubblici relativamente facili da colpire ed esibire, che siano i rave party, le navi delle Ong o gli anarchici.
Dall’altra parte c’è un’opposizione parlamentare debole, divisa e disorientata, con un Pd in cerca una certificazione di esistenza in vita e con un M5S aggrappato al suo giustizialismo, che si limita alla ricerca di un po’ di visibilità, approfittando della grottesca vicenda delle confidenze tra due camerati coinquilini che si passano informazioni riservate come se fossero ancora ai tempi di Atreju.

In fondo, basta spegnere per qualche ora la tv e usare invece il buon vecchio buon senso. Cioè, in regime di 41bis è impedito nella maniera più totale ogni contatto con l’esterno e l’unica comunicazione possibile è quella occasionale tra detenuti del 41bis del medesimo carcere, peraltro sempre monitorata, intercettata e registrata. Se un detenuto, qualsiasi sia il motivo della sua detenzione, fa uno sciopero della fame contro il 41bis pare piuttosto ovvio e scontato che altri detenuti, qualsiasi sia il motivo della loro detenzione, lo incoraggino, nella speranza che possa derivare qualche beneficio per loro. E, comunque, se poi non ne deriva nulla, sono mica loro a morire.

E questa sarebbe la trattativa anarchici-mafia? Senza contare il fatto che cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra sono sì organizzazioni verticistiche, mentre l’area anarco- insurrezionalista è caratterizzata da sempre da rapporti orizzontali e fluidi e da una forte impronta individualista.

È quasi imbarazzante dover argomentare queste cose, ma lo stato delle cose è quello che è. Per quanto ci riguarda, penso che l’unica cosa da fare sia mantenere un minimo di lucidità e contribuire, ognuno e ognuna come può, perché Alfredo Cospito possa uscire dal 41bis e perché si possa aprire un minimo di dibattito serio e dignitoso.

Luciano Muhlbauer
Collabora con le testate di informazione alternativa on line
MilanoX e Milano In Movimento, è stato tra i portavoce del Genoa Social Forum nel 2001 e uno dei segretari nazionali del sindacato di base SinCobas fino al 2005. Dal 2005 al 2010 è stato consigliere regionale in Lombardia. www.lucianomuhlbauer.it/blog/

Cover: carcere di massima sicurezza (foto da Milano in Movimento) 

Lo spettro del gender che agita le notti della destra italiana

Lo spettro del gender che agita le notti della destra italiana

di Miki Buso

Maddalena Morgante di Fratelli d’Italia alla Camera si scaglia contro Rosa Chemical, reo di portare l’ideologia gender (?) a Sanremo.

Claudio Cia, di Fratelli d’Italia, con i colleghi di partito Ambrosi, Rossato e Guglielmi dell’Associazione Fassa, chiede di modificare la legge provinciale trentina sulla scuola del 2006, per impedire (cito) “la realizzazione di progetti o attività basati sulla prospettiva di genere, che promuovano la fluidità di genere o dell’identità sessuale, oppure che insegnino a dissociare l’identità sessuale dal sesso biologico”.

Nel mentre qui a Ferrara alcuni Consiglieri Counali della maggioranza di destra chiedono che si discuta prima possibile quanto avvenuto al Liceo Ariosto, portando avanti una fantasiosa tesi secondo cui l’identità di genere e la sessualità siano argomenti strettamente privati di cui non fare esibizione pubblica.

Questi sono solo gli ultimi tre esempi di ciò che evidentemente agita le notti tormentate degli esponenti della classe politica che ci governa, portandoli a fare incubi inverecondi: lo spettro del gender (che poi me lo immagino ‘sto fantasmino arcobaleno che appare in sonno sussurrando loro canzoni di Lady Gaga o Immanuel Casto. Che carino!).

Abbiamo un ricco buffet di problemi nazionali e mondiali tra guerra, crisi economica, crisi ambientale, crisi energetica eppure sembra che il primo grande nemico di questo Paese sia la corruzione delle giovani menti perpetrata da individui che lo attraversano mascherati da unicorni rosa.

Come membro della comunità queer, come persona pansessuale e non binaria, sono sinceramente stanca di vedere i nostri corpi e quelli delle persone che amiamo continuamente messi in discussione e strumentalizzati nella perenne campagna elettorale delle destre, nel bislacco tentativo di distrarre il popolino dalla loro incapacità. Ci dicono che certe cose dovremmo farle a casa nostra, ma poi non perdono occasione per puntarci contro il dito nel dibattito pubblico. Ipocrisia nell’ipocrisia.

Ci accusano di parlare di cose intime e di violare la privacy dei minori, ma poi mostrano una morbosa fissazione per le inclinazioni sessuali nostre e dei suddetti minori, quando in realtà lo scopo degli attivisti è soprattutto parlare di amore, di relazioni, di come ci si sente ad affrontare un mondo che ci discrimina, di come aiutarci e sostenerci a vicenda in questo percorso. La sessualità è solo uno dei tanti aspetti che compone le nostre identità, come compone quelle di qualsiasi altra persona, eterocisnormata o queer che sia.

Una domanda mi frulla in testa ogni volta che affronto questi discorsi: perché?
Ho avuto la fortuna (perché sì: ciò che dovrebbe essere la normalità è ancora da considerarsi una fortuna) di crescere in un nucleo famigliare in cui il dibattito è sempre stato molto aperto, stimolante e stimolato.
Questo mi ha portato a non riuscire a comprende i meccanismi che veicolano la paura del diverso, l’odio per ciò che non si conosce. Sono sempre stata abituata a cercare risposte nella curiosità della conoscenza, non nell’oblio della paura. E allora spiegatemelo: perché? Cosa porta tutto questo odio, questa discriminazione, questa paura? Cosa toglie, oggettivamente, alla vostra vita quotidiana l’esistenza di persone queer, con identità di genere e sessualità non conformi?

Ciò che come rappresentante della comunità queer desidero e chiedo ad alta voce da anni non è di superare l’eterocisnormatività, di vivere tutti fuori dal binarismo di genere, di forzare il cambiamento in chi già sa benissimo quale sia il proprio orientamento. Il mio desiderio sarà sempre e solo quello di essere libero di essere, di esistere. E che accanto a me, oltre alle altre identità queer, ci siano persone eterosessuali fiere di esserlo, persone che si riconoscono nel proprio sesso biologico, persone che decidono di vivere relazioni monogame. Tutti insieme con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Amandoci.

Anche per questo ho accettato con grande gioia l’incarico di responsabile politiche per le persone trans* presso Arcigay Gli Occhiali d’Oro di Ferrara, per poter continuare a porre queste domande a chi si mostrerà contrario alla libertà di essere e amare senza discriminazioni.

 

Miki Buso
Responsabile politiche per le persone Trans*
Arcigay Ferrara Gli Occhiali d’Oro

Storie in pellicola /
“Effetto spettatore” nel corto Busline35A di Elena Felici

Dopo “Roberto” contro il bodyshaming, un altro corto denuncia un fenomeno sociale in preoccupante dilagare, l’“effetto spettatore”.

Detto anche bystander effect o bystander apathy, “apatia dello spettatore”, “effetto testimone” o “sindrome del cattivo samaritano”, si tratta di un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone che assistono alla stessa scena.

In altre parole, indifferenza, dettata spesso dalla paura delle reazioni degli altri. La probabilità dell’aiuto è inversamente correlata al numero degli spettatori: maggiore è il numero degli spettatori, minore è la probabilità che qualcuno di loro aiuterà.

Furono John Darley e Bibb Latané, nel 1968, a studiare il fenomeno, studiando l’omicidio di Kitty Genovese nel 1964 (foto sotto), una donna che fu accoltellata a morte nei pressi della sua casa nel quartiere di Kew Gardens a New York.

I ricercatori effettuarono una serie di esperimenti, fra questo uno in particolare. Il partecipante è da solo o in un gruppo di altri partecipanti o alleati. Viene inscenata una situazione di emergenza e i ricercatori misurano quanto tempo occorre perché i partecipanti intervengano, se intervengono. Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Le persone presumono, infatti, che vada tutto bene solo perché altre persone presenti non dimostrano di percepire alcunché di strano (quindi non vi è vera emergenza e il tempo di reazione varia anche in base alla norma sociale di ciò che è considerato etichetta ben educata in pubblico); vi è poi una diminuzione del senso di responsabilità avvertito da ciascun individuo quando sono presenti altri potenziali soccorritori. Anche l’ambiguità è un fattore che influenza se una persona assiste o no un’altra che ha bisogno. Nelle situazioni in cui lo spettatore non è sicuro se una persona richieda assistenza, il tempo di reazione è lento. Nelle situazioni a bassa ambiguità (una persona che grida aiuto) il tempo di reazione è più rapido che nelle situazioni ad alta ambiguità.

Nella cronaca recente, abbiamo visto tanti casi di Bystander Effect. Per tutti basti ricordare la tragedia dell’agosto 2017 di Niccolò Ciatti, un ragazzo toscano pestato a morte in una discoteca di Lloret de Mar, in Spagna. Coinvolto in una rissa, nel cuore della notte, per motivi ignoti. Dai racconti nessuno va in suo aiuto. Qualcosa paralizza tutti.

Il professore di psicologia Antonio Andrés Pueyo, interpellato all’epoca, ha fatto riferimento alla dissoluzione della responsabilità: ognuno delega all’altro l’intervento, creando di fatto immobilismo. Vi è anche apatia sociale, grave mancanza di empatia, frutto di paura, ma anche dei modelli educativi che stiamo perpetrando.
A parlare di questo crescente e inquietante fenomeno, un corto animato di 6 minuti della giovane regista italiana Elena Felici, realizzato in collaborazione con l’Animation Workshop del danese VIA University College di Viborg, dal titolo Busline35A.

Guarda il corto animato:

Testo in inglese, cliccando CC si trovano i sottotitoli in italiano

Al centro della storia una ragazzina timida che frequenta le scuole medie e ama la musica che torna a casa, su un bus serale/notturno, seduta in fondo, come spesso avviene. Chissà perché, ma molti giovani studenti amano sedersi in coda…

A una delle fermate un uomo dal fare losco sale e si siede vicino alla giovane donna, iniziando a infastidirla, a molestarla verbalmente e non solo. Ansia. Ansia che cresce.

Sullo stesso bus, a pochi sedili di distanza, sono presenti altre tre persone, i veri protagonisti silenziosi del film (non dell’azione).

Una signora anziana dal fazzoletto rosso legato sotto il collo e la giacca pesante, con le polpette un po’ troppo salate preparate per il figlio che nota come i sedili del bus non siamo i soliti, un vecchio signore che ha appena acquistato la bici elettrica per andare anche in montagna, con una riga di sangue sulla fronte che lo fa assomigliare a Clint Eastwood e, infine, una donna di mezza età che ha perso il lavoro qualche settimana prima, licenziata per un “comportamento poco professionale”. Sospira. Pensa a Giovanna d’Arco. Le donne della storia che hanno avuto coraggio non hanno fatto una bella fine. Essere eroi, pensa, non ripaga affatto.


Ognuno pensa a sé
, ai suoi problemi, alle sue piccole grane quotidiane, ognuno sente bene i commenti dell’uomo verso la ragazzina, ma tutti restano impassibili, come se non ci fossero né loro né quella scolaretta indifesa. Ciascuno è immerso nei suoi pensieri che risuonano ad alta voce, quasi a giustificare la loro inerzia e, dunque, alla fine, complicità.

Fino allo scampato pericolo, che avviene per puro caso. Solo perché il molestatore demorde. Non certo grazie all’intervento tempestivo di chicchessia.

Forte il contrasto fra quanto avviene in fondo al bus e le piccole e banali storie quotidiane dei complici silenti, spaventa molto questa vera paralisi collettiva.

La paura di trovarsi in situazione analoga.

E poi sorge la fatidica domanda, quella che ci facciamo tutti: se fosse toccato a noi, cosa avremmo fatto?

 

Pagina Facebook del corto

Cittadini che dicono No al FE.RIS.
tre flash mob: il primo è sabato 4 febbraio

Cittadini che dicono No al FE.RIS.

UN PROGETTO SBAGLIATO
CHE OFFENDE LA NOSTRA CITTÀ

Sabato 4 febbraio
dalle ore 10,30 alle 11,00

in via Scandiana 16

FLASH MOB

Partecipate, fate partecipare, passate parola.
Portate un cartello con il vostro perché NO al FE.RIS

Per una città libera dal traffico e dal cemento. Per una città democratica, non privatizzata, che guarda al suo futuro.

Per dire NO a Fe.Ris, il progetto che svende ai privati l’ex caserma Pozzuolo del Friuli, dove verranno aggiunti nuovi volumi di edificazione alti 18 metri, e che cementifica aree di pregio in prossimità delle Mura: in via Volano, per realizzare un parcheggio, in via Caldirolo per l’ennesimo ipermercato.

Perché è un progetto che viene spacciato per “riqualificazione urbana”, mentre invece si preoccupa soltanto degli interessi di pochi privati, togliendo verde alla città, peggiorando il traffico e ferendo il nostro patrimonio storico.

Perché l’area dell’ex Caserma Pozzuolo del Friuli è un bene pubblico e come tale deve essere utilizzato. Non può essere “regalata” ai privati un’area di straordinario valore artistico e urbano come questa, per realizzarvi uno studentato privato, residenze private e una “food court”.

Perché i cittadini devono essere coinvolti nella progettazione della città e nelle scelte che li riguardano.

forumferrarapartecipata@gmail.com
https://ferrarapartecipata.it/

Napoli concede la cittadinanza onoraria a Julian Assange

Napoli concede la cittadinanza onoraria a Julian Assange

Il 31 gennaio, a grande maggioranza, il Consiglio Comunale di Napoli ha deliberato la concessione della cittadinanza onoraria a Julian Assange, aderendo all’appello lanciato da Adolfo Pérez Esquivel.

Si tratta della prima grande città europea, capoluogo di regione, che concede la cittadinanza al giornalista australiano attualmente detenuto a Londra e in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti ed è anche un segnale che fa ben sperare dopo altri tentativi falliti di mozioni simili in vari capoluoghi italiani.

La notizia fa ben sperare anche per l’esito della prossima manifestazione mondiale a favore di Assange e in appoggio alla protesta di Londra “Global Carnival for Assange“,  di cui Pressenza è media partner, che si svolgerà l’11 febbraio nelle piazze di tutto il mondo.
Per aderire alla manifestazione Carnevale Globale per Assange [leggi su Periscopio]

Cover: Gli attivisti di Free Assange Napoli aspettano nel pubblico (Foto di Free Assange Napoli)

Parole a capo
Doris Bellomusto: “Astolfo sulla luna” e altri inediti

La luna è l’anima, è il nostro modo di vivere le emozioni, i desideri, i sogni. La terra è la realtà, il luogo in cui lottare con i rimpianti e le delusioni.
(Romano Battaglia)

Astolfo sulla Luna

Non mi basta mai
il cuore che divoro.
Inciampo nella fame.
Mastico sangue e pane
sapido, quanto basta
a sciogliere il ghiaccio
di ogni perduto sogno.
Astolfo sulla luna
mi accarezza le ginocchia,
lecca le ferite
da me dimenticate.
Guardo la terra da qui
e so di non esistere.

 

Le figlie della luna

Non muore al tramonto
nè nasce all’alba
il sole
presta la sua luce
al tempo

indifferente
al seme che germoglia
al frutto che matura
e alla paura
così è il mio sangue
linfa grezza fra cuore e ventre
germoglia sottopelle
un’altra identità
e ancora non conosco
la mia età.
Le figlie della luna
sono ibride creature
senza tempo

 

Nel pozzo

Di domenica
mescolo l’ozio all’inerzia;
traccio la strada alla lumaca;
conservo sotto sale i dubbi
raccolti a margine del giorno
da lunedì a sabato;
pascolo le mie ambizioni;
rimugino desideri,
esco da me, salto il fosso,
trovo rifugio nel pozzo.
Raminga e finta luna
so che nessuno mi troverà.

 

Miserere

Alle tre del pomeriggio
aleggia tremula
l’inquieta attesa
della foglia che non sa
cadere
e chiede al vento
Miserere.
La morte
quasi mai è puntuale
si aggrappa al tempo
lieve dei minuti
e bianco è il lutto
delle ore
se l’aria è ferma
e nevica silenzio.

 

Turandot

Astuta Turandot
inganno l’attesa
cantando.

Nessun dorma!

Può bastare un oblò
per guardare il cielo
attendere l’enigma
e il mistero.

Doris Bellomusto si è laureata in lettere classiche presso l’Università della Calabria, insegna materie letterarie presso il “Liceo G. Pascoli” di Barga, in provincia di Lucca, dove vive dal 2011. Non ha mai dimenticato né i suoi studi classici né le sue radici meridionali. Dalle sue inestinguibili nostalgie sono nate le raccolte di poesie “Come le rondini al cielo”, edizioni “Tracce”, pubblicata nel Marzo 2020; “Fra l’Olimpo e il Sud“, Poetica edizioni, Luglio 2021; “Nuda“, Ladolfi editore, Giugno 2022. Alcuni suoi scritti sono presenti in varie antologie poetiche.

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

“Le musiche… interrotte”
Danze e canti ebraici e rom in Piazza Municipale

“Le musiche… interrotte”

Si respirava proprio un’aria di libertà e di ripresa, la mattina di venerdì 27 gennaio a Ferrara in Piazza Municipale, mentre i musicisti sistemavano strumenti e microfoni e amplificatori e bambini e bambine della scuola primaria Poledrelli, ragazzi e ragazze della secondaria Tasso si collocavano a formare due cerchi concentrici attorno alla bandiera della pace stesa per terra.

Fondamentale, per questo evento organizzato, in occasione della Giornata della Memoria dall’Associazione Culturale e scuola di musica Musijam in collaborazione con l’Istituto Comprensivo C. Govoni, l’immagine del cerchio: lo ‘spettacolo’ prevedeva l’esecuzione di due danze ebraiche e una zigana, per illustrare le quali mi piace riportare le parole di un allievo:

«per non dimenticare i bambini e i ragazzi e le persone vittime della Shoah eseguiremo danze ebraiche e rom, tenendoci per mano e muovendoci in cerchio.  Il cerchio è un simbolo presente in molte tradizioni religiose e rappresenta il cerchio della vita senza inizio e senza fine, esprime il senso di appartenenza ad un gruppo, ad un popolo; nel cerchio i danzatori si guardano e comunicano, si è tutti sullo stesso piano».

I due cerchi concentrici (foto Maria Calabrese)

Il ragazzo ha poi ringraziato, a nome dei suoi compagni e delle docenti, la maestra Isabella Gallesini (coordinatrice del gruppo Danze Insieme) per aver insegnato loro i balli.

Il progetto, elaborato dai docenti della scuola Musijam e indirizzato agli istituti scolastici, ha il significativo titolo “Le musiche… interrotte” e intende, facendo risuonare quelle note e quei canti drammaticamente interrotti dalla Shoah, rievocare alcuni aspetti peculiari della vita di Ebrei e Rom, quelli legati alle feste di comunità rallegrate da musiche e danze.

Ebrei e Rom insieme perché, alla luce di precise scelte culturali derivanti da accurate ricerche nel campo dell’etnomusicologia, non si vogliono individuare distinzioni nette tra le culture di ebrei e zingari, i quali hanno abitato le medesime terre ed elaborato tradizioni simili, al punto che si ritrovano numerose versioni diverse dei medesimi brani.

Il territorio di riferimento delle musiche eseguite e danzate, come hanno illustrato alcuni allievi, è quello dell’Est Europa, dove «ancora agli inizi del Novecento troviamo una grande comunità, caratterizzata dall’uso della lingua yddish; sono gli eredi di quegli Ebrei che giunsero in Europa nel primo secolo dopo Cristo, seguendo la via Ashkenazita, mentre altri, percorrendo la via Sefardita, si stabilirono nella penisola Iberica.»

L’Ensemble musicale, formato da Elio Pugliese alla fisarmonica, Marco Vinicio Ferrazzi al canto, Emanuele Zullo al basso, Diego Insalaco alla chitarra e Giampietro Beltrami alla batteria, ha iniziato la propria esibizione con due composizioni in lingua yddish: Shprayz Ich Mir (Alla Fiera) e Dona dona.

Il primo è un brano dalla ritmica trascinante, che quasi subito ragazzi e adulti presenti nella piazza hanno preso ad accompagnare battendo le mani e penso che avrebbe divertito tutti conoscerne il testo: narra la vicenda di un uomo che si reca al mercato per comprare un cavallo, ma non sa resistere davanti alla porta aperta dell’osteria e, un bicchierino dietro l’altro, si beve tutto il denaro e fa salti dalla rabbia, ma intanto si canta una canzoncina…).

Dona dona è, nell’immaginario dialogo fra il contadino e il suo vitello, una riflessione sulla tragedia della deportazione nei campi di sterminio. Un vitello viene portato al mercato su un carro (dona dona indica il suo incedere), osserva in alto una rondine e chiede, piangendo, perché non può essere libero come quell’uccello che vola lassù, sopra il suo capo. Ma il contadino gli risponde che è nato vitello e non rondine, e quello è il suo destino, anche se non ne ha alcuna colpa.

Nella versione inglese, resa famosa da Joan Baez nel 1960 e Donovan nel 1965, l’ultima strofa invita a comprendere l’importanza dell’autodeterminazione e a farsi rondini, non umili gigli nei campi, ma uomini dalla volontà e dalla coscienza irriducibili.

Ed ecco che si comincia a danzare! Ma Navu è una danza calma, ben ritmata e relativamente moderna, ballata su musica con melodia tipicamente orientale; il testo, a mio parere molto bello,  è ispirato a un versetto di Isaia: Come sono belli, sui monti, / i piedi del messaggero di buone notizie / che annunzia la salvezza / che annunzia la pace.

Si prosegue con Klezmer-Chava, danza chassidica, allegra e vivace; paradigma fondamentale del  Chassidismo è praticare la preghiera attraverso il canto e la danza, che esprime gioia, rispetto davanti al Signore e comunione; «le tue danze sono più efficaci delle mie preghiere», recita un detto chassidico citato da uno studente.

La musica klezmer (letteralmente ‘strumento per fare musica’), nata all’interno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, fonde in sé strutture melodiche, ritmiche ed espressive che provengono dalle differenti aree geografiche e culturali (Balcani, Polonia, Russia, Ucraina e altri territori dell’Europa Centro-Orientale) con cui il popolo ebraico è venuto in contatto.

La successiva danza è Ederlezi, che – ci dicono gli studenti – «appartiene alla tradizione Rom, con il testo in lingua romanì; il titolo significa ‘primavera’ e si riferisce a una festività serba che si celebra il 6 maggio (nel calendario gregoriano, nel nostro il 23 aprile), molto sentita dai Rom di tutto il mondo. Con questa danza vogliamo ricordare che, oltre agli Ebrei, anche i Rom furono perseguitati dai nazisti e dai loro alleati: circa 500.000 Rom furono deportati nei campi di sterminio; in lingua romanì esiste il termine porajmos che significa ‘distruzione’.»

Gli ultimi due brani eseguiti dall’Ensemble Musijam sono Karev yom e Hava Nagila.

Il primo Karev yom, il cui titolo significa ‘il giorno si avvicina’, viene cantato durante il primo e il secondo Seder (‘ordine’ o ‘sequenza’) di Pesach (‘Pasqua ebraica’); esprime la speranza e la brama per la redenzione finale, che avverrà in un tempo in cui non ci saranno più né giorno né notte. Le parole sono tratte dall’ultimo versetto di un poema liturgico del VI-VII secolo, che elenca una serie di eventi miracolosi, tutti, secondo la tradizione, avvenuti alla mezzanotte di Pasqua, riguardanti il ritorno dall’esilio o l’alleviamento delle sofferenze causate dall’esilio.

Hava Nagila (‘rallegriamoci’) è una canzone ispirata ad una melodia ucraina della Bucovina; è stata composta dal musicologo Abraham Zevi Idelshon nel 1918 per celebrare la vittoria inglese in Palestina al termine del primo conflitto mondiale, con la conseguente dichiarazione di apertura da parte del governo britannico nei confronti della creazione di una National home ebraica in Palestina.

L’evento, inserito nel programma delle manifestazioni patrocinate dal Comune di Ferrara per la Giornata della Memoria, si è aperto con gli interventi dell’Assessora alla Pubblica Istruzione e Formazione Dorota Kusiak e della Dirigente Scolastica dell’Istituto Comprensivo C. Govoni Anna Bazzanini.

Kusiak ha sottolineato il compito storico, che spetta a tutti noi, di tornare a fare memoria ogni anno della Shoah, ricordando i bimbi, i professori nelle scuole, le famiglie, gli enormi numeri che riguardano i perseguitati.

Anna Bazzanini, ponendo l’accento sul ‘finalmente’, ha evidenziato che: «finalmente dopo due anni di sospensione si torna a manifestare per la pace, per la fratellanza fra i popoli e le culture; finalmente le classi della primaria Poledrelli e della secondaria Tasso sono tornate, e continueranno, a celebrare la Giornata della Memoria in questa piazza, con le loro danze in cerchio, anche in rappresentanza delle altre scuole che stanno svolgendo diverse altre manifestazioni, per dire no all’odio, no alla violenza, no al pregiudizio, no alla guerra, no al razzismo, per dimostrare, assieme ai loro docenti e agli amici dell’Associazione Musijam, la volontà di abbattere ogni muro e costruire ponti di pace, di dialogo, di fratellanza, tolleranza e rispetto nei confronti di tutte le culture.

Nel ricordare l’apertura e la liberazione del campo di Auschwitz e la scoperta dell’orrore di quello che accadeva nei lager, si vuole dire no e costituire, noi che stiamo per occupare tutta la piazza, ‘pietre d’inciampo’ su cui fermarsi, per non dimenticare e per dire a Liliana Segre che questa giornata non sarà mai confinata in due pagine nei libri di storia, finché sarà la scuola a portare avanti questo ricordo e la Memoria».

In copertina: uno dei due cartelloni dal titolo ‘Pietre d’inciampo’ realizzato dagli studenti delle classi per l’evento, foto di Maria Calabrese

ACCORDI
20 anni di Permission To Land, l’esordio folgorante dei Darkness

20 anni di Permission To Land, l’esordio folgorante dei Darkness

Il rock è morto, viva il rock.
Le presunte, e a volte forzate, resurrezioni del rock’n’roll ci accompagnano da almeno trent’anni, solleticando quel mix di nostalgia e curiosità che risiede in ciascuno di noi. La verità è che il rock non se n’è mai andato, così come qualsiasi altro genere musicale. Si è semplicemente trasformato, adattandosi all’evoluzione della società e alimentandosi della sua stessa linfa vitale.

Una delle tappe più sfavillanti e autoreferenziali di questa trasformazione risale a vent’anni fa, e precisamente all’irresistibile Permission To Land, disco d’esordio degli inglesi The Darkness. Nella decade dell’indie e dell’hip hop, la band di Lowestoft dette una bella spolverata a tutti quei cliché che associamo al rock degli anni ’70 e ‘80: sound robusto, vocalizzi e abiti glam, assoli selvaggi e presenza scenica travolgente. Insomma, ascoltando Permission To Land è difficile non divertirsi.

Sì, i suoni, la struttura e i testi degli undici brani li abbiamo già sentiti, eppure, funzionano senza alcun intoppo. E poi, soprattutto, l’estensione vocale di Justin Hawkins colpisce sin dal primo ascolto, così come il crescendo emotivo delle due ballate Love Is Only A Feeling e Holding My Own. Il pezzo a cui sono più affezionato è la scanzonata Friday Night, la cui ricetta è più o meno la seguente: prendete le sonorità e il gusto melodico di Brian May, aggiungeteci la spensieratezza del cantato di Robert Smith, e il gioco è fatto.

Dopo Permission To Land, il successo commerciale dei Darkness vivrà una parabola discendente, complice la dipendenza dalla cocaina di Justin Hawkins – un altro cliché del rock’n’roll da aggiungere alla lista. Tuttavia, negli ultimi dieci anni la band inglese ha pubblicato ben cinque album, e lo stesso Justin Hawkins si è fatto notare per il suo canale YouTube Justin Hawkins Rides Again [Qui], nel quale il frontman dei Darkness commenta con leggerezza, ironia e un bel po’ di competenza tutto ciò che gli passa davanti: dai singoli più chiacchierati del momento alle discussioni sul futuro dell’industria musicale, passando per le immancabili provocazioni acchiappaclick. Il risultato è uno show godibile e interessante, oltre che sufficientemente strambo. Un po’ come la musica dei Darkness, insomma.

Vite di carta /
Le scarpe perdute e i libri trovati a mezzanotte

Le scarpe perdute e i libri trovati a mezzanotte

Che ora, la mezzanotte. L’ora delle streghe. L’ora di Cenerentola, quando la carrozza che l’ha condotta alla reggia per il ballo si dissolve in una zucca e la magia finisce. L’ora per andare a letto: fino a due anni fa alle 24 dormivo da un pezzo  e la sveglia per preparare la mia giornata a scuola era puntata all’alba, ora ci chiudo la giornata salendo le scale per coricarmi a leggere un po’.

Nell’ultimo libro che ho letto Nora Seed, una trentacinquenne infelice che vive in una piccola città inglese, a quest’ora entra in una biblioteca misteriosa che contiene infiniti libri dalle infinite sfumature di verde. Altro elemento magico, è evidente.

Nora come Cenerentola ha attirato su di sé un sortilegio: ha una vita infelice ed è dominata dai rimpianti. La tormenta il pensiero delle scelte inautentiche che ha fatto nella vita, ancor più la tormentano le altre opzioni, quelle che ha scartato. Sente di essere solo pura sofferenza e decide che non vuole più vivere…

La biblioteca in cui si ritrova ha regole molto precise e una bibliotecaria irreprensibile nel farle rispettare. Si tratta di Mrs Elm, Nora la ricorda per i modi gentili con cui prestava i libri agli studenti nella scuola della sua infanzia. Ora è qui a consigliarle come scegliere i volumi che scorrono sugli scaffali in un moto senza inizio e senza fine. Ogni volume è una vita diversa, basta aprirlo per ritrovarsi dentro una di loro.

E Nora procede, libro dopo libro viene proiettata in una versione alternativa di sé e del suo vissuto: sta ancora con una persona con cui ha rotto i rapporti, fa un lavoro che non ha accettato,  segue la carriera di nuotatrice olimpionica, diventa una glaciologa, è una famosa cantante rock, una madre e moglie felice e via dicendo. Vita dopo vita, Nora cerca la risposta alla domanda di tutte le domande:  “E se potessi tornare indietro e cancellare i tuoi rimpianti, cosa faresti in modo diverso”?

Leggo alcune recensioni del libro e ripenso alla conversazione che c’è stata giorni fa nel gruppo di lettura di cui faccio parte; mi occorre avere le bussole degli altri, perché la mia è ondivaga e sembra non trovare il Nord. Questo libro mi ha catturata all’inizio, quando la biblioteca-limbo, in cui Nora è appena entrata, le mette davanti infinite alternative di vita.

Poi ho avvertito una certa ripetitività nel racconto: a ogni ingresso in un nuovo libro-vita la protagonista ne mette a fuoco i punti di forza, si adegua alla nuova sagoma di sé e poi, al primo segnale di imperfezione, di insoddisfazione, scivola via e continua la ricerca della vita migliore.

Qualche altro lettore dice di avere capito a questo punto quale sarebbe stato il finale. Io confesso che no, non ho voluto andare alle conclusioni, come mi è capitato altre volte ho sospeso di rielaborare la storia e me la sono lasciata versare addosso. E quando sono arrivata al finale non l’ho trovato così scontato.

Il finale è che Nora comprende l’inutilità dei rimpianti, tocca con mano che ogni vita è imperfetta e che non sappiamo se da scelte diverse potessero scaturire vite migliori. Nora alla fine è pronta a vivere la sua vita di prima: quando la Biblioteca di Mezzanotte si dissolve (e la dissoluzione dipende da lei) lascia il limbo tra vita e morte e si ritrova nella propria casa a fare i conti con la solita quotidianità.

Ora però è determinata a giocare la partita, a esplorare le potenzialità che questa vita le offre per essere felice. Dice: “Non è necessario giocare tutte le partite per rendersi conto di cosa significa vincere”. Che Nora sappia di poter vincere hic et nunc è una lezione che non fa mai male ripetere, in più nel libro ci sono molte citazioni del filosofo David Thoreau che bene esprimono l’idea. Hanno anche ragione le lettrici insoddisfatte da un finale così banale, tuttavia mi viene spontaneo rivalutarlo in base a un sano repetita iuvant.

Penso anche alle riflessioni profonde che Nora fa quando chiama in causa dalla fisica quantistica la teoria del “multiverso”, dell’esistenza cioè di mondi alternativi a quello in cui viviamo. Dalla molteplicità del soggetto, a cui ci avvia il nuovo paradigma della conoscenza all’inizio del Novecento, alla molteplicità dei mondi: è il passo compiuto dal pieno secolo XX che investe anche il primo ventennio del XXI. Anche in questo il romanzo di Haig mette una delle sue radici e mostra di estendersi anche in profondità, non solo nella enumerazione delle vite possibili.

Ascolto l’autore in una breve presentazione del libro che ho trovato in rete e colgo un ulteriore aspetto della sua narrazione, quello introspettivo. Haig ammette di avere pensato alla morte e alla infelicità in un momento di depressione e assegna alla scrittura della storia di Nora un potere catartico, se non salvifico addirittura. Per sé stesso, prima di tutto.

Comprendo meglio perché nella scrittura ha esplorato così tante vite e finalmente metto a fuoco cosa penso del finale:  mi è chiaro che a lasciarmi perplessa non è tanto la sua prevedibilità, quanto la visuale piatta con cui Nora riprende la sua vita, l’individualismo come unico orizzonte.

Nessuna considerazione sociale, nessun riferimento alla formazione che ha ricevuto dalla società inglese, alle coordinate storiche. Solo i condizionamenti che ha subito sul piano esistenziale, il peso su di lei delle aspettative della famiglia e di poche altre persone davvero importanti.

È salita come Cenerentola su una zucca incantata, che nel suo caso è la Biblioteca sospesa tra la vita e la morte, ha abitato il non-tempo della mezzanotte. Eppure ha manipolato le tante varianti di sé più extensive che intensive, per dirla con Galileo. Con una profondità di sguardo che si è fermata a metà.

Nota bibliografica:
Matt Haig, La biblioteca di mezzanotte, Edizioni E/O, 2020 (traduzione di Paola Novarese)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Europa portaerei. Europa dei 17 muri, Europa gregaria degli Stati Uniti…
Alla ricerca del proprio spazio vitale

Europa portaerei. Europa dei 17 muri, Europa gregaria degli Stati Uniti…
Alla ricerca del proprio spazio vitale

Nel trentennio che va dal 1915 al 1945 l’Europa si è retrocessa a continente di serie B a favore dell’America (del Nord) che è diventato Impero e si è sostituita nel compito di guidare il mondo. L’intervento nella seconda guerra mondiale è stato decisivo. Una volta messo piede, sbarcati, nei luoghi da cui erano partiti trecento anni prima hanno deciso di non andarsene più, iniziando una colonizzazione al contrario.

Finita la guerra l’Europa si trovò divisa a metà, da una parte gli americani e dall’altra i sovietici. Ognuno rimase sulle posizioni guadagnate per paura, o grazie, alla presenza dell’altro. Si costruì un muro che ancora oggi simboleggia l’idea della divisione del mondo tra buoni e cattivi, di idea contrapposta di come sia giusto immaginare la società e il futuro, di falsità ideologiche. Forse due modi simili nel fine, quello di controllare le masse e i destini delle genti.

Poi i sovietici si ritirarono, sparirono coperti dai loro errori, orrori, e mezza Europa si liberò ritrovandosi più povera e troppo diversa in tema di sviluppo economico e sociale per essere accettata dall’altra metà, cresciuta con il mito dell’America, della conquista del West e delle immense praterie dove correvano felici i bisonti (più o meno).

Ma mentre questo succedeva, e mentre nasceva la nuova Russia dalle ceneri di quello che era stato un grande impero che ne aveva assorbito e miscelato un altro, i cosiddetti paesi dell’Est, abbandonati a se stessi, senza un padrone, diventavano una grande prateria a loro volta da occupare.

Per qualche anno regnò l’incertezza, poi passo passo gli americani decisero di muoversi al di là dell’ex cortina di ferro, riuscendo a coprire tutti gli spazi ex sovietici, eccezion fatta per la Georgia e l’Ucraina. Effetti della ripresa della storia che Fukuyama aveva interrotto troppo precipitosamente nel 1991.

Dopo la seconda guerra mondiale i vincitori decisero di rimanere sui territori conquistati giustificando la scelta con la presenza dell’altro. Quando finalmente uno dei due collassò, perché l’altro non prese una decisione conseguente decidendo di smantellare l’apparato bellico post guerra mondiale? Non bastava l’amicizia dei trattati, la consolidata saldatura dei rapporti commerciali e l’identità oramai certa della cultura occidentale? Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, si saranno detti. E allora, ancora prima della guerra in Ucraina, a oltre settant’anni dagli sbarchi in Normandia e in Sicilia, l’Europa rimane costellata di basi americane e Nato.

La Nato nasce nel 1949 come strumento di difesa dall’Urss a cui si contrappose qualche anno dopo il Patto di Varsavia creato per gli stessi motivi a parti inverse. Dopo la dissoluzione dell’URSS diviene strumento di offesa, ovviamente per difendere la pace e la stabilità occidentale nel mondo. Cioè laddove l’Occidente ritiene che ci sia un pericolo per l’Occidente, può attaccare in quanto si sta difendendo in anticipo. Il comando militare della Nato è affidato a un generale americano e il suo vice è un generale britannico, questo dal 1949 non è mai cambiato e continua a segnare un confine tra vincitori e vinti.

Nel 2005 in Europa c’erano circa 100.000 soldati americani, numeri successivamente in calo per poi tornare a quei livelli a fine 2021. Tutti i paesi dell’ex blocco sovietico che erano già entrati a far parte della Nato, quindi inglobati nell’area occidentale, sono stati rinforzati da truppe d’Oltreoceano. Nuove basi sono spuntate nelle praterie liberate negli anni ‘90.

L’Europa assomiglia sempre più a una portaerei pronta a lanciare missili e aerei. Per quanto ancora l’opzione nucleare rimarrà un’opzione? Il vecchio continente pullula di soldati, armamenti e … muri.

Abbattuto il vecchio e anacronistico muro di Berlino, simbolo dell’esistenza di ideologie sconfitte dalla storia, oggi se ne sono costruiti tanti altri con il beneplacito della non ideologia europea.

Insieme al muro di Berlino c’erano i muri di Cipro e dell’Irlanda del Nord, dagli anni ’90 del passato secolo si sono costruiti una serie di muri allo scopo di difendere la civile Europa dai migranti, i ricchi dai poveri, il benessere dal malessere. A guardarli però sulla cartina assumono un significato ancora più sinistro, una riedizione del muro più famoso spostato molto più ad Est. Tutti giustificati dalla presenza dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa utilizzando percorsi sempre più a Nord per evitare gli oramai noti muri balcanici. Quindi una linea che percorre da Nord a Sud i confini tra l’Europa e la Russia e i suoi (pochi) alleati.

La Norvegia, Lettonia ed Estonia hanno costruito muri ai confini con la Russia per più di 200 km. I Lituani hanno cominciato a costruire 550 km di muro ai confini con la Bielorussia anticipandone gli esiti con il filo spinato.

La Polonia, sempre per isolare Lukashenko che per destabilizzare l’Europa lasciava passare troppi migranti, ha ultimato nel 2022 un muro di 186 km, contemporaneamente ha accolto a braccia aperte milioni di profughi ucraini. Espressioni diverse di umanità.

In ultimo la Finlandia con il governo di Sanna Marin che ha ricevuto il via libera all’unanimità da tutti i partiti rappresentati del Parlamento alla proposta di costruzione di una recinzione di acciaio di 260 chilometri, che coprirà un quinto della lunghezza totale del confine con la Russia, che ricordiamo essere di 1.340 km.

Insomma, con un occhio ai migranti indesiderati e un altro allo scomodo vicino, l’Europa consta di 17 muri che un po’ difendono da ciò che ci sembra palesemente altro e diverso: Russia, Nord Africa e Asia. Un po’ dalle nostre paure antiche, quelle in cui non avevamo un protettore unico (la Grecia e la Bulgaria si difendono dai Turchi, la Macedonia dalla Grecia, paesi balcanici da altri paesi balcanici, la Gran Bretagna dalla Francia).

L’Europa di oggi è figlia di un grosso equivoco. I diritti umani, i diritti universali, la libertà individuale e tutte le belle cose di cui si è scritto e si scrive in continuazione e di cui si parla in eccesso è stato il prodotto della pax americana assicurata al prezzo dell’indipendenza. Abbiamo fatto finta di non vedere migliaia di soldati che mantenevano una pace armata, chiamata anche guerra fredda. Finto di credere in cambi di governo o di maggioranze parlamentari che nulla potevano cambiare mentre rispondevamo all’appello in tutte le missioni di pace che nulla avevano a che fare con le meravigliose idee di cui l’Europa si cingeva l’elmo.

Abbiamo vissuto di un benessere e di una pace in casa, che ci è piaciuta e di cui abbiamo goduto, ma nulla è gratis. Qualcosa bisognava pagare e magari ci è anche andata bene, visto che per secoli siamo stati in continua guerra fratricida, incapaci di trovare il bandolo della matassa. Abbiamo dovuto suicidarci e affidarci ad altri per rinascere, magari va bene così.

L’importante è capire chi siamo, i nostri limiti e fin dove possiamo spingerci.
Dovremmo capire che la guerra fredda è finita e con essa l’unica pace a cui siamo stati capaci di arrivare per non trasformarci in un nuovo campo di battaglia. È essenziale oggi crearci uno spazio di manovra, imparare a coltivare il nostro orticello nell’ambito dell’impero, provare a realizzare, cioè rendere reale, quanto scritto e detto negli ultimi settant’anni di torpore intellettivo.