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Lingua madre e sacralità della parola

 

Nelle radici delle parole, nellorigine dei termini linguistici si nasconde una rappresentazione del mondo, una forma di pensiero e perfino un destino”.
Inizia così larticolo Le radici della pace di Gianpaolo Caprettini sullIndipendente.
E non potrei essere più daccordo.

Da diverso tempo mi occupo di maternità surrogata e mi batto contro questa pratica che considero aberrante. Proprio su Ferraraitalia ad aprile 2020 avevo scritto un articolo sul perché sono contro la maternità surrogata, e dimostravo come le parole contenute nei contratti e dunque promosse dalla legge che regolamenta tale pratica, sono parole disincarnate, perdono le loro radici originarie, causando la crisi del linguaggio e contribuendo a distruggere il senso stesso di essere umano.

Quando scrissi questo articolo eravamo nel pieno del primo lockdown e da allora lo stravolgimento delle parole è aumentato in maniera esponenziale. La narrazione della pandemia è stata segnata dalla perdita di senso delle parole. Come se vivessimo in una babele, parole di senso comune sono diventate parole che acquistavano significati diversi  a seconda di chi le ascoltava, creando scompiglio e incomunicabilità.

Questo processo, che sembra appunto molto recente, in realtà è in azione da parecchi decenni e, a mio modo di vedere, è stato costruito a tavolino con grande pazienza e determinazione dallideologia neoliberista, mondialista, globalista e finanziaria, che fonda i suoi principi sul transumanesimo, che punta a trasformare il senso stesso di umanità e, in nome della cancellazione della sua fragilità, a farne una macchina onnipotente grazie allintelligenza artificiale.

Basti pensare al fatto che oggi la differenza dimoformica,  quella differenza ontologica biologica dei corpi, viene cancellata in nome di un sentire – io sono ciò che mi sento nel pensiero – rinnegando la realtà biologica e le parti di corpo invisibili (quelle interne a noi).

La famosa dicotomia cogito ergo sum” di Cartesio contrapposta al ”sum ergo cogito” di Anna Maria Van Shurman, (poeta, filosofa e scienziata  eccellente, poco conosciuta, ma contemporanea a Cartesio) invece di trasformarsi in una olistica visione dellumano raggiunge, ai giorni nostri nelle democrazie occidentali, lapice a favore della tesi cartesiana e cancella il sapere ancestrale dei corpi, proprio come vuole il transumanesimo.

Ora, durante la pandemia, questo assioma cartesiano è diventato un diktat. È della settimana scorsa il comunicato della Corte Costituzionale che anticipa la decisione sul dibattimento sull’ammissibilità dellobbligo vaccinale decretato durante il periodo pandemico.

La Consulta ha prontamente ribadito che le decisioni prese dal governo Draghi non sono incostituzionali. Ora come semplice cittadina ho seguito il dibattimento (per fortuna visibile in diretta). Le argomentazioni scientifiche ma anche quelle a carattere logico e di diritto, portate dagli avvocati che avevano impugnato le leggi che decretavano lobbligo vaccinale per certe categorie,  mi sono parse molto chiare.

Con dati alla mano, argomentazioni legate al diritto naturale, di senso logico, anche una profana e non preparata nel campo giuridico, quale sono io, ha potuto seguirne la traccia senza trovarci alcuna contraddizione, mentre le argomentazioni degli avvocati a sostegno delle azioni del governo sono state fumose, astratte e tutte caratterizzate dal ridondante ribadire il dovere della collettività a perseguire un bene collettivo più alto, di cui il Padre Stato, o forse meglio dire lo stato padrone, è il decisore.

Non stupisce la celerità del comunicato della Corte Costituzionale a difesa delloperato del governo. Fa male, però constatare che per lennesima volta le istituzioni non sono più garanti dei diritti delle cittadine e dei cittadini. La celerità delle decisione a mio parere mette in risalto quanto il potere si senta braccato dal dilagare della verità e tenti in qualsiasi modo di fermarne la corsa.

Eppure resta importante che il dibattimento sia registrato e che tutti possano ascoltare le ragioni portate da ambo le parti. Forse per la prima volta da anni ho sentito forte e chiaro chi usava una lingua che aveva radici comuni con la mia e in questa babele ho ritrovato casa nella lingua madre, una parola che risuona nelle mie viscere.

Come femminista so quanto il principio di autodeterminazione sia alla radice del mio sentire e faccia parte di un sentire non solo legato al logos, ma anche a quello materico. Sono le femministe che, nel loro enorme lavoro di disvelamento delle parole che riguardano le donne e i loro corpi, sono riuscite a rendere sempre più concreto e semplice da comprendere il diritto inalienabile e naturale allautodeterminazione.

La legge 194 è un esempio dellenorme lavoro fatto. Allora, al contrario di oggi, il dibattimento sui corpi delle donne ha portato alla conclusione che nessuna autorità esterna può entrare nel campo del sentire biologico e biografico dellindividuo fino ad obbligarlo a un agire sul suo corpo che non corrisponda alla sua coscienza profonda.

Questa consapevolezza è una conquista dellumanità che spaventa  il transumanesimo, perché riconosce allindividuo un ortus conclusus, uno spazio di libertà che appunto nessuna ‘ragione collettiva’ può invadere senza che questo sia vissuto come un abuso.

Il sistema patriarcale, che ha fondato il suo potere sulla legiferazione dei corpi delle donne, subì, allora, un colpo quasi mortale, e come reazione ha perseguito una propaganda di mistificazione dei significati della parola, che è causa della babele che oggi ci avvolge.

Eppure la lingua madre è una lingua che nasce dalle viscere e che oggi muove le pance di moltissimi. Come un vulcano in procinto di eruttare ribolle sotto le nostre membra ed è pronto a fuoriuscire con tutta la sua lava incandescente. Ci hanno provato, in pandemia, a zittire quella voce interiore, ma hanno fatto male i conti.

Troppe le parole disincarnate che continuano a circolare e che oggi, superata la grande paura, cozzano con la vita dei più. E così, nonostante la pressante propaganda, qua e là si aprono dei varchi a un ripensamento delle narrazioni main stream, alluso delle parole e dunque alla rappresentazione del mondo.

Lenorme lavoro di ricerca di quegli avvocati per affrontare il dibattimento ne è la dimostrazione, ma non è lunica. Penso ad esempio allo sconvolgente ma garbato documentario di Paolo Cassina Invisibili, che raccoglie le testimonianze dei danneggiati dal vaccino contro il Covid-19.  Un documentario carico di umanità, di un’umanità sofferente, che con enorme dignità chiede di essere riconosciuta.

Viviamo tempi estremi, siamo a un bivio epocale, come dice bene Susanna Tamaro, ma siamo in tempo ancora per dire no alla parola disincarnata, e riattivare lenergia nascosta ma miracolosa della parola sacra.

Il verbo si è fatto carne” non è una trovata letteraria dellevangelista San Giovanni, ma è una forma pensiero” e il destino dellumanità.

Parole a capo
Floriana Porta: “La mia non è poesia”

“È sempre così, per tutta la vita sono arrivato alle cose dopo averle incontrate nei libri.”
(Jorge Luis Borges)

 

LA MIA NON È POESIA

 

la mia non è poesia
è una strada sterrata
una nebbia che s’infittisce
un incedere a tentoni

la mia non è poesia
è il suono del diapason
un abito di seta
una figura a metà cancellata

in fondo cerco solo d’imprimere
i miei versi sulla carta

la mia non è poesia

 

L’ANIMA È NUDA

 

l’anima è nuda
ruota in un’orbita
di plasma e cartilagini

ad ogni sorso d’acqua
a me sembra più viva

 

CARTILAGINI DI FIATI E D’INCHIOSTRO

 

è virginale il segreto
di ogni poesia
parola femminea
stretta nei versi

lavora a fondo la materia
e accoglie nel suo morbido grembo
cartilagini di fiato e d’inchiostro

 

IL MIO POETARE

 

ha maturato con forza
il caldo seme del mio poetare

involucro verbale
nato per sorprendere e incantare

involucro di dettagli
rarefatti e profondamente vivi

involucro che nasce
da un accordo di incensi e resine

involucro che resiste
nel tempo immobile del presente

non esiste confine più puro

 

UN LUNGO INVERNO


un non-sguardo
mescola il suo vedere
a strappare dall’oblio e dal nero
il proprio vissuto

sensi e carne raggelati
nel disordine del loro grafismo
lembi di un tempo lontano
ognuno nel proprio alfabeto
che sembra non avere mai fine

una pagina bianca
intorno al corpo
e al centro del foglio
uno schizzo frettoloso
di mani colme di neve

quel nascere insieme
di fogli di carta sparsi
segnerà l’inizio
di un lungo inverno

 

QUALCOSA IN LONTANANZA

 

qualcosa in lontananza
ruota il palmo della mano
e sembra dirci qualcosa
su cosa sia questa mia preghiera

tra carne e carne
a mani giunte

(Le poesie che pubblichiamo, su autorizzazione dell’autrice, fanno parte della raccolta “La mia non è poesia” uscita nel 2017 per Aljon Editrice. Nella prefazione leggiamo che “le poesie di Floriana Porta incarnano i percorsi interiori che ognuno di noi vive nel suo io più profondo, dove la natura, il surreale e il sogno coesistono in maniera sorprendente. (…) una poesia dallo stile ermetico, che fa a meno della punteggiatura, e lontana dalla retorica e dal sentimentalismo.”)

Floriana Porta è nata a Torino nel 1975, vive a Vinovo e fin da piccola ho avuto la necessità di scrivere, comporre e disegnare. Si presenta con forme espressive di rara intensità e la sua opera – poetica e figurativa – si dispiega fra la natura e la bellezza, l’introspezione e il sogno, elementi imprescindibili della sua riflessione esistenziale. Uno stile, il suo, caratterizzato da raffinatezza, contemplazione e armonia. Ha esposto nel Torinese e nell’Astigiano le sue opere ad acquerello; attualmente collabora con diversi siti culturali e artistici. Titoli delle sue principali pubblicazioni: Verso altri cieli (Edizioni REI, 2013), Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014), Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, 2014), L’acqua non parla (Libreria Editrice Urso, 2015) Fin dentro il mattino (Fondazione Mario Luzi Editore, 2014), La mia non è poesia (Aljon Editrice, 2017), I nomi delle cose (Edizioni L’Arca Felice, 2017), In un batter d’ali (AG Book Publishing Editore, 2018), Offro respiro ai versi (La Ruota Edizioni, 2018), Il Giappone in controluce (AG Book Publishing Editore, 2020), L’infinito è in me (AG Book Publishing Editore, 2021).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

CONTRO I MOSTRI DELL’EOLICO INDUSTRIALE: il 18 Dicembre per difendere i crinali dell’appennino tosco-emiliano.

 

QUANDO I POLLI AVEVANO I DENTI E LA NEVE CADDE NERA….
…bimbi state bene attenti, c’era allora c’era c’era…

Così esordiva Guido Gozzano nel meraviglioso grande libro blu di Fiabe, il mio preferito di quando ero bambina.

Mai più mi sarei aspettata di dover rispolverare quel vecchio, ma sempre meraviglioso incipit dopo quasi 60 anni di vita e in particolare per dare avvio ad un discorso su ambiente, energia e paesaggio. Su chi lo difende davvero e su chi lo vuole deturpare, in nome di una “salvezza” che di salvifico non ha proprio niente, se non vogliamo definire “salvifici” gli affari, gli interessi e gli ultraprofitti di un gruppo di industriali dell’energia e di alcune associazioni che in questo business intravedono la propria speranza di successo, che ben nascondono dietro la nostra comune e umana speranza di futuro.

Certo, non siamo noi cittadini di un comprensorio limitato della Toscana, che si estende a sud e lungo l’ Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo che va dal passo della Futa fino alle pendici del Falterona, un po’ boscaioli, un po’ agricoltori, un po’artigiani e artisti..(senza offesa, sia chiaro, per I nostri progenitori: Giotto, Beato Angelico, Benvenuto Cellini.. per citare solo i più noti ai molti), chi siamo noi per criticare la scelta tardo industrialista e cementificatrice di associazioni note a tutti e di livello nazionale come: Legambiente, il Fai, il WWF, tra le più anziane, o come Ecolobby tra le
più giovani, già compromesse nel nome …e di fatto?

Le posizioni e poi le scelte in materia di energie rinnovabili, e di conseguenza d’impianti industriali per la loro produzione, verso cui queste associazioni si sono dirette e spesso sulle quali si sono arroccate, aborrendo qualsiasi pensiero libero, approfondito e comunque critico hanno veramente qualcosa di favolesco e fantastico, ma non nel senso positivo del termine, anzi, diciamo meglio, di mostruoso e incredibile, raccontano davvero brutte brutte storie!

La diffusione dell’eolico industriale a tutti i costi e ovunque, anche sui crinali delle montagne, è stata favorita dagli editti usciti dalla “bocca fiammeggiante con lingua biforcuta” del Re Draghi, che con immenso diletto delle Grandi Imprese ha eliminato (giusto in tempo prima che Mago Conte gli scagliasse l’anatema e lo facesse dipartire) tutta una serie di passaggi tecnici, di approfondimenti e di controlli ambientali (leggi V.I.A.) che la legislazione prevedeva a tutela dell’ambiente e del paesaggio italiani.

Tant’è che oggi, quest’ “inganno verde” e viene ora caldeggiato ampiamente e addirittura promosso dal fior fiore dell’intellighenzia ambientalista italiana in testa, associazioni che si sono associate pure con gli industriali, le finanziarie e le imprese che realizzano gli impianti, giusto per autofinanziarsi un po’, per il bene e il futuro dell’umanità tutta.
Ma questi signori, singoli e associati, non vedono che l’interesse. E il proprio interesse non è certo lo stesso di coloro che nelle aree naturali che vorrebbero industrializzare, ci vivono, lavorano, crescono I figli, si riposano e si distraggono dal lavoro, e parlo delle persone che abitano questi luoghi da sempre, ma anche di piante, alberi, muschi che qui hanno trovato il loro habitat ideale, di animali, mammiferi, artropodi, uccelli.. di acqua che scorre, di vita, nel suo complesso straordinario e denso di biodiversità.

Ormai sono rimasti soltanto pochi specialisti e storici dell’arte a difendere l’ ambiente, la natura e il
paesaggio? Ringraziamo Tomaso Montanari, Vittorio Sgarbi, Franco Tassi e tante associazioni come Italia Nostra, la LIPU, il CAI, IDRA, Mountain Wilderness International, Amici della Terra, Altura, Pro Natura, GRIG, Atto Primo (e potrei citarne molte altre) per il loro impegno nel combattere l’avanzare degli orrendi mostri, alti anche 170/200 m, che paiono palazzi, grattacieli di 40 piani, che sventolano, talvolta, quando c’è un po’ di vento, si perché I climatologi confermano come il vento stia diminuendo in frequenza e intensità, nel nostro Belpaese.

Noi, per parte nostra, continuiamo imperterriti e continueremo fino alla fine a lottare:
NO EOLICO INDUSTRIALE SUL CRINALE DEL GIOGO DI VILLORE E CORELLA|

Per contatti:
Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano
libericrinali@gmail.com Vicchio

Le storie di Costanza /
Dicembre 1959 – Gli Angeli Gialli

 

Mina e le sue sorelle

Mina era la più giovane delle tre sorelle Viscioli, l’unica che aveva studiato. Faceva la professoressa di disegno alla scuola media di Casalrossano e di vacche da squartare non ne voleva proprio sapere.

Da giovane era stata in convento, voleva prendere i voti e consacrare la sua vita al Signore ma, la malattia e la conseguente morte del padre, l’avevano convinta a tornare a casa e a contribuire, con la sua presenza e il suo stipendio, alla sussistenza della famiglia e della proprietà.

Pregava, disegnava, leggeva libri, preparava le lezioni per i suoi studenti e non entrava in macelleria nemmeno per sbaglio. Ciò che succedeva in negozio non le importava minimamente, anzi credo che le facesse schifo tutto quell’odore di carne cruda, di interiora, fegato e reni di bovino, venduti come prelibatezze.

Non si occupava nemmeno di faccende domestiche se non per spolverare e pulire vetri e pavimenti, faccende che le permettevano di stare lontano dal sangue, quanto un palombaro dalla luna.

Mina era alta, bionda e magrissima. Tutt’altro che brutta, ma inavvicinabile. I maschi fiutavano subito che quella signorina non era disponibile e la sua aurea ghiacciata intimoriva anche i conquistatori più avventati.

A differenza delle sue sorelle non consumava amori piccanti, ma nutriva un amore platonico per il preside della sua scuola, amore mai corrisposto e nemmeno conosciuto dall’interessato che viveva una vita tranquilla con moglie e figli, senza occuparsi di quella professoressa di disegno, che arrivava tutti i giorni in bicicletta da Cremantello.

La bicicletta e il mal di schiena

Mina andava a scuola con una biciletta nera dalla sella di pelle e dal passo veloce, come facevano tutte le pendolari in quegli anni. La patente era prerogativa di pochi maschi ricchi, la macchina possibilità di pochi temerari. La Fiat 500 era già stata brevettata da alcuni anni, ma nessuno a Cremantello sapeva della sua esistenza, il boom avvenne nei primi anni ’60 cambiando molte abitudini e molte aspettative.

La signorina era freddolosa e d’inverno si metteva addosso un cappotto di cavallino a chiazza bianche e marroni che le aveva conciato e confezionato un’amica di famiglia. Il cappotto era duro e rigido, se lo appoggiavi in terra restava “in piedi” e ne potevi ammirare la forma esattamente come se contenesse una persona. Ma sta di fatto, che quel cappotto scaldava molto e le permetteva di arrivare a scuola in condizioni ottimali per insegnare, anche d’inverno.

Camminava un po’ piegata in avanti perché spesso le veniva mal di schiena, a volte era perfino costretta a passare intere giornate a letto senza riuscire nemmeno a muoversi. In quelle occasioni sua sorella Carolina saliva nella sua camera, situata all’ultimo piano della grande casa rossa, e le portava il pranzo e la cena su un vassoio di peltro, senza dire nemmeno una parolaccia. Cosa strana per lei che insultava chiunque per un nonnulla, probabilmente le sofferenze fisiche della sorella le bloccavo un po’ la lingua, oppure considerava la malattia uno stato umano degno del massimo rispetto.

Caròla, come la chiamavano a volte, aveva perso la falange di un dito grazie a un pesante coltello da macelleria e sapeva quanto la sofferenza imbruttisca le persone e possa diventare un tarlo che impoverisce l’anima. Si sentivano i suoi pesanti passi sulla scala centrale della casa e si vedeva la sua traballante figura scomparire un pezzetto alla volta. Chi stava giù guardandola salire, si chiedeva come facesse a fare le scale dondolando a quel modo, senza rovesciare il vassoio con la minestra. Eppur ci riusciva.

Il dottore aveva detto che qualche vertebra di Mina era spostata, oppure schiacciata, oppure aveva qualche piccola ernia al disco. Non si seppe mai quale di queste alternative fosse quella giusta, sta di fatto che la povera signorina si tenne il mal di schiena fin che visse e quando morì era talmente incurvata che si fece fatica ad adagiarla nella bara.

Mina e i colori

A Mina piaceva particolarmente il colore azzurro. Forse perché le ricordava il cielo e il paradiso, sicuramente perché era l’antitesi del rosso, il colore preferito da Gemma.

Portava spesso vestiti e cappellini di quel celestiale colore e le piacevano i foulard di seta da mettere al collo con sfumature tra il verde e il blu. Sempre per quella sua indole freddolosa e forse perché doveva fare chilometri in biciletta tutti i giorni, i foulard erano il suo capo di abbigliamento preferito e ne conservava un bel numero impilati nel primo cassetto del suo comò.

“Questo è un bell’azzurro, è come il mare in burrasca” la si poteva sentir dire. Non si sa come facesse a sapere che quello era il colore di un mare agitato, visto che al mare non c’era mai stata, l’aveva solo visto dipinto e ciò le bastava. Tutti prendevano le sue considerazioni sui colori come veritiere, perché lei era un’insegnante di disegno e una delle poche persone istruite del paese.

A lei erano delegati tutti gli aspetti artistici della manutenzione casalinga: restaurava i mobili, li dipingeva e addobbava, smaltava le inferriate ed era l’unica autrice dei quadri impressionisti che caratterizzavano l’ingresso di casa Viscioli.

Lezioni di musica

Mina sapeva anche suonare il pianoforte e cercò per molto tempo di insegnare a mia madre quella meravigliosa arte. La faceva sedere davanti ai tasti con i libri sotto le ascelle per tenere le braccia “in posizione” e le faceva fare le scale musicali utilizzando i tasti bianchi e neri. Per ottenere una scala musicale, è necessario suonare in successione un tasto dopo l’altro. Ogni scala musicale (scala di Do maggiore, scala di Do minore, scala di Do# maggiore, scala di Do# minore, scala di La maggiore, ecc.) ha un suo schema rigido da seguire.

Così ripeteva Mina a mia madre: “Se noi suoniamo la successione di tasti bianchi che va da un Do più basso a un Do più acuto, otteniamo la scala di Do maggiore. Se noi invece suoniamo la successione di tasti bianchi che vanno dal Re più basso a quello più acuto, non otteniamo la scala di Re maggiore e nemmeno quella di Re minore.

Per conoscere gli “schemi” sui quali sono costruite le scale musicali, bisogna prendere come riferimento una sola scala maggiore e tre scale minori. Esiste un unico modello per la costruzione di una scala maggiore e tre modelli per le scale minori.” Tutto questo a mia madre non interessava e non si è mai spiegata perché Mina continuasse a ripeterglielo.

A differenza dei conti della macelleria, che imparò a fare con precisione e che le davano soddisfazione, tutte queste storie sulle scale musicali la stufavano e, mentre la signorina gliele spiegava, lei guardava fuori dalla finestra per vedere cosa stessero facendo Gemma e Gianin. Gli sforzi di Mina furono comunque in parte ripagati e, ancora adesso, mia madre possiede un pianoforte che ogni tanto suona con una discreta abilità. Questa è la prova di quanto la costanza e la determinazione paghino e di quanto la convinzione di un risultato positivo orientino l’agire verso la ripetitività. Mia madre non divenne però una grande musicista e Mina visse questo come un parziale fallimento della sua attività didattica.

La signorina ogni tanto vagheggiava. Tali vagheggiamenti erano una sua caratteristica, il suo senso di realtà non era di certo allineato con quello delle sue sorelle che la consideravano spesso una presenza inutile. E così a tavola, quando le altre due parlavano di vacche da macellare, lei taceva o le guardava con sufficienza. Allo stesso modo, quando lei parlava delle sfumature del cielo, le sue sorelle la guardavano senza commentare e poi si guardavano tra loro alzando gli occhi.

Gli occhi di Carolina e Gemma rovesciati verso l’altro erano uno spettacolo un po’ inquietante, uno scambio tra loro due, da cui tutti gli altri erano esclusi. Essendo abituate l’una all’altra non si facevano impressione da sole e a Mina non importava nulla di quegli sguardi furtivi, strabici e stralunati perché la gioia, l’amore e l’aldilà erano verità che le sue povere sorelle non sapevano cogliere nella loro vera essenza e di cui, solo lei, conosceva i segreti e le prospettive.

Natale 1959, ovvero addobbi di carta e marubini

Si arrivò così al Natale del 1959 con Mina che fece un bellissimo presepio sul pianoforte, adagiato su un tappeto di muschio morbido e felci appena raccolte nel lato nord del loro orto. Decorò un alberello con palline rosse e nastri di raso, che venne posizionato all’ingresso e fece una strana fila di angeli di carta gialla che aprì una feroce discussione sul suo collocamento più idoneo.

Le signorine avevano anche un grammofono che fu posizionato all’ingresso, lucidato e rimesso in funzione da Gianin. Musica natalizia si diffuse nella casa e coprì la ricorrente lite delle tre sorelle su come fare i marubini da mangiare il giorno di Natale.

Nessuna di loro tre sapeva fare la pasta e la nonna Adelina, che di solito non amava molto le visite al vicinato, in quell’occasione andava aldilà del muro e le aiutava a tirare la sfoglia leggera e senza grumi. Una pasta gustosa e fresca che si accartocciava intorno al ripieno di ogni singolo marubino, fatto con carne di prima qualità, uova, formaggio e spezie.

Ma il vero problema arrivava quando si trattava di cuocerli. A Carolina e Gemma piacevano in brodo e a Mina asciutti. La lite su come cuocere i marubini si ripeteva uguale ogni Vigilia di Natale, ed era coperta dalla musica che usciva un po’ gracchiante dal grammofono e dalla voce della gente che entrava e usciva dal negozio per acquistare la carne da cucinare e per fare gli auguri a quelle tre signorine che a Cremantello erano una vera istituzione. La vita del paese ci avrebbe rimesso senza quel pittoresco trio.

La prova ci fu quando, parecchi anni dopo, morirono tutte e tre. Nessuno se le è mai potute dimenticare e, a Natale, mia madre dice sempre: “Le mie vicine di casa. Mi vengono sempre in mente, non sono mai riuscite a mettersi d’accoro su come cucinare i marubini”.

Ma siamo al 1959, le signorine sono là che litigano per gli addobbi di carta e i marubini e il mondo sorride a loro e a quel Natale che, tutto sommato, sta per consumarsi sereno. Gli angeli gialli sono posizionati sulla porta del negozio e strappano un sorriso a tutti coloro che arrivano. Un bel Natale rosso, azzurro e giallo, dove c’è spazio per la parentela, il vicinato e anche per una complicità che, come quasi sempre, funziona a fasi alterne.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

Parole e figure / Racconti della buonanotte, Strenne Natalizie 2

Altri libri, altri consigli per Natale. Questa volta possono essere racconti per la buonanotte, capaci di rasserenare grandi e piccini, prima di essere avvolti dalle delicate braccia di Morfeo. Un augurio di tranquillità per tutti.

Iniziamo con un albo che ci porta tra gli animali della foresta, in una vivace atmosfera fiabesca, per raccontare come anche un topino che si sente inutile possa rivelare talenti inaspettati. Si tratta de La danza del topino della foresta, della finlandese Pirkko-Liisa Surojegin, Iperborea (2022), un’autrice e illustratrice nota per il tratto fine e preciso con cui ritrae la natura e il folklore del suo paese.

È arrivato l’autunno e gli animali della foresta hanno passato l’intera giornata a raccogliere funghi. Lunghe camminate nel verde che sa di muschio. Il tasso, la lepre, la volpe ne trascinano cesti stracolmi con cui prepareranno una deliziosa zuppa e faranno una grande festa. Sono esausti e sfiniti ma tutti molto felici. Tutti tranne il topino, che, mogio mogio, è di cattivo umore fin dalla mattina (ha davvero la luna storta) e ora, seduto in cima alla montagna di funghi che trasporta l’orso, chiede di scendere a terra e abbandona la comitiva. Non ha voglia di festeggiare né tantomeno di preparare una zuppa, anzi, lui è l’unico così piccolo da non aver raccolto nemmeno un fungo e adesso che è rimasto solo e si guarda intorno nell’immensità della foresta si sente una vera nullità. Finché non nota le foglie che cadono leggere dagli alberi e che il vento fa volare tutt’intorno. La foresta è davvero bella!

Un’atmosfera degna di una fiaba. Una foglia gli passa sopra il musetto e lui prova ad afferrarla senza riuscirci. Allora comincia a saltare e volteggiare in aria inseguendo le foglie e giocando con loro, sempre più agile, leggero, euforico, mentre canticchia spensierato. “Non ho mai visto una danza più bella in vita mia”, dice la lepre quando lo vede, rimanendone incantata. Felice e affamato, il topino raggiunge così la festa, dove tutti gli altri animali si mettono a ballare cercando di imitare la sua danza. Con una storia di delicata semplicità poetica e illustrazioni evocative e divertenti nel ritrarre la vita degli animali, questo libro incoraggia tutti i topini danzerini a credere in loro stessi. Saltellando e sorridendo, tanto. Sempre ed imperterriti.

Continuiamo con Le cose che passano, della bolognese Beatrice Alemagna, Topipittori (2019), un piccolo libro illustrato, raffinato, ironico, delicatissimo dedicato a tutti i lettori, da zero o cento anni. Ci sono poi le pagine trasparenti che introducono il momento successivo a rendere la lettura accattivante. Quasi aprano alla curiosità.

Perché nella vita, sono molte le cose che passano. Si trasformano, se ne vanno. Il sonno finisce. Una piccola ferita guarisce (quasi) senza lasciare traccia… La musica scivola via, con le sue delicate e avvolgenti note che si disperdono nell’aria (proprio come le bolle di sapone sulle quali si soffia con impeto sperando spazzino via il buio e la malinconia), i pensieri neri svaniscono come si asciugano le lacrime (magari modellando un pupazzetto con una morbida argilla o con il Pongo di un tempo), il fumo evapora dalla tazzina di caffè, il cielo schiarisce sempre dopo la pioggia (e torna il sereno con il suo arcobaleno) e la paura se ne va. Le foglie secche cadono così come, a volte, i capelli e i dentini da latte, quelli a cui il topino curioso porta il soldino sotto il bicchiere sul comodino. La polvere torna ma poi, puff, sparisce di nuovo. Tutto passa, trascorre, cambia e magari (ri)torna. Ma in questa continua e spesso sorprendente metamorfosi delle piccole cose, in questo flusso inarrestabile di cambiamenti, c’è una sola cosa che non cambierà mai e che resterà per sempre. Scopritelo!

Finiamo (per ora) con Il meraviglioso Cicciapelliccia, di Beatrice Alemagna, Topipittori (2015), perché, come diceva Pippi Calzelunghe, “è assolutamente necessario, per i bambini piccoli, avere una vita organizzata; specialmente nel caso che se l’organizzino da sé”.

Un albo colorato dal sapore un po’ retrò, avvolto dai toni del rosa, quasi fossimo immersi in una profumata cipria che sa di eleganza. C’è poi il romantico tono francese. Edith, Eddie per gli amici, ha cinque anni e mezzo, ha i capelli lisci e dritti come spaghetti e non sa fare niente (almeno così lei dice). Il padre parla cinque lingue, la madre canta benissimo e la sorella è un astro nascente del pattinaggio. Ma lei non sa fare nulla o almeno così credeva fino a una bella mattina dove sente la sorella dire “compleanno-mamma-ciccia-pelliccia”.

Serve un regalo unico per la mamma, il suo compleanno si avvicina. Un cicciapeloso che troverà forse da Monsieur Jean il panettiere? O una cicciamolliccia da Wendy, la fioraia più carina del quartiere? Forse un cicciapiumino nel negozio dai mille oggetti della gentile Mimì? Ermett l’antiquario dai grandi occhiali fucsia potrebbe avere qualcosa in stile ciccione, un francobollo rarissimo della Marina inglese. No, no, di male in peggio.

Eddie chiede a tutti coloro che incontra per strada, serve un’idea brillante e super originale. Lo scorbutico macellaio Theo non ha certo tempo per un ambarabaccicicciottò (e qui la pagina si apre a libro su una lunga fila di clienti al bancone della macelleria…). Oh no, brrrr, inizia a nevicare, non ci voleva davvero, serve un riparo. E qui Eddie, meraviglia delle meraviglie, sente dei meravigliosi rumorini e scorge su un tetto un adorabile Cicciapelliccia rosa. Il regalo dai mille usi (scopriamo quali). Ci siamo allora, finalmente. Aspettiamo solo di vedere che faccia farà la mamma…

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

TERZO TEMPO
Mordersi la lingua?

Leggera, riconoscibile e alla portata di tutti: la lingua del calcio in Italia è figlia del linguaggio comune, e negli ultimi settant’anni si è avvalsa di espressioni e figure retoriche già in uso, nonché dei più accattivanti forestierismi e neologismi. Che ci piaccia o meno, il racconto giornalistico della “cosa più importante tra le cose meno importanti” si mischia con il lessico quotidiano da almeno tre generazioni, e, seppur con altri mezzi, continuerà a farlo.

Insomma, il linguaggio che utilizziamo quando parliamo di calcio è uno spaccato della nostra identità, ed è per questo che ho riflettuto su alcuni cliché che abbiamo sdoganato e con i quali conviviamo più o meno tacitamente. È stato un po’ come guardarsi allo specchio e domandarsi il perché di un’abitudine che è sempre stata lì, ma alla quale non avevo mai prestato attenzione.

Cominciamo dall’intramontabile fascinazione per le metafore belliche: basti pensare che una partita può diventare una battaglia, una squadra può essere una corazzata e ci si difende con la cara e vecchia retroguardia. L’epica guerresca ci ha inoltre consegnato espressioni quali “espugnare lo stadio avversario”, “infilare il portiere” o “sentire l’odore del sangue”, mentre per gli scontri al di fuori dello stadio viene spesso utilizzato il termine “guerriglia”.
Un’altra tendenza è quella di utilizzare, o addirittura italianizzare, i già citati forestierismi: dal più stagionato forcing all’attuale surplace, senza dimenticare le espressioni spagnole che nell’ultimo decennio hanno influenzato qualsiasi discussione, sia al bar che nelle interviste post-gara. Di matrice ispanica è anche l’esotico “uruguagio” di Gianni Brera, così come la famigerata garra charrúa di Daniele Adani e i nomignoli sudamericani di Federico Buffa.
Infine, ci sono delle parole utilizzate perlopiù nei titoli o nei trafiletti che mi fanno sempre un po’ sorridere: “tegola” in caso di infortunio o problema societario di varia natura, “blitz” in caso di presunte operazioni di calciomercato – anche quest’espressione, tra l’altro, è di origine bellica – e “bum bum” in caso di doppietta.

Probabilmente gran parte di questo linguaggio dipende dalla necessità di spettacolarizzare l’evento calcistico e dall’innata passione per la drammaticità che un po’ ci contraddistingue. Se è efficace o meno, non spetta a me dirlo; ciò che vorrei fare, invece, è pormi delle domande per osservare un’abitudine che diamo per scontata.

Utilizzeremmo quel lessico in altri contesti?
Non è un po’ troppo machista?
Lascia spazio a un’interpretazione che non sia quella della sopraffazione dell’avversario?
Alla lunga, l’incessante spettacolarizzazione appiattirà la percezione dell’evento sportivo?
Siamo consci che informazione e formazione vanno di pari passo?
Possiamo fare di meglio?

Canova svelato al Teatro Nuovo

La danza per sua natura porta bellezza ed è sinonimo di grazia e leggerezza. E non solo dal periodo neoclassico. Da sempre.

Se, a duecento anni esatti dalla morte, ripercorriamo parte dell’eredità storica e artistica del più grande scultore di quel periodo, vedremo subito come lo studio del movimento e di quella grazia che una danza armoniosa porta con sé sono un tratto meraviglioso di un’anima sensibile e curiosa. Possagno, Antonio Canova e marmo: il trinomio perfetto.

Basti ricordare la Danzatrice con i cembali (1809-1812), la Danzatrice con le mani sui fianchi (1806-1812)  che si innalza sulle punte e si volge e solleva con le mani la lunga veste mentre sembra voler richiamare un compagno per unirsi a lei nella danza, affascinato dalla sua seduzione, per capire come quel marmo, pur dalla sua solidità, diventi anima e dia luce ad una vera bellezza in movimento. Anche la Danzatrice col dito al mento (1809) mostra una figura composta, in atteggiamento di riflessione, impegnata in un movimento intermedio in cui un piede poggia sul collo del piede opposto. Se nella prima lo scultore coglie il ritmo qui si sofferma sull’espressione della danza. Per arrivare al meraviglioso triplice abbraccio delle Tre Grazie (1812 – 1817), tre figure stanti, con le braccia intrecciate che circondano i corpi come in una danza leggera. Ma la lista sarebbe ancora lunga.

Canova svelato courtesy of RBR

Ecco allora che, dopo Roma, Bologna e Trieste, il Teatro Nuovo di Ferrara, sabato 10 dicembre, ha ospitato un’originale e potente creazione ispirata a Canova: la Compagnia RBR Illusionisti della Danza, con la firma dei coreografi Cristina Ledri e Cristiano Fagioli, ha portato in scena un’originale interpretazione delle opere del Maestro di Possagno. Lo spettatore ha potuto assistere ad una vera e propria traslazione: le opere d’arte hanno preso forma e vita nel mondo contemporaneo. Il muro della convenzione viene abbattuto, è necessario saper guardare oltre: anche le sculture, i maestri del passato, l’Arte stessa possono insegnare a prendersi cura del nostro Mondo e solo un teatro intriso di evocative illusioni può essere il luogo di partenza per questa “canoviana” esperienza.

Canova svelato ph Chiara Lucarelli
Canova svelato ph Chiara Lucarelli

Potente la fusione fra l’energia della danza contemporanea e dei corpi scolpiti e le più moderne tecnologie visive e del light design. La musica e la voce narrante di Michele Vigilante sono anch’esse fonte di grande empatia. Ma è la luce la grande protagonista e complice dei corpi e dei loro movimenti in essa fluttuanti, in uno spazio senza tempo o limiti e dai contorni indefiniti. E come il marmo prende vita dalle mani dell’artista, così le sculture più famose del Canova prendono vita attraverso il corpo di questi splendidi ballerini e la loro forza espressiva. Scorgiamo, tra atmosfere oniriche e surreali, Amore e Psiche, le tre Grazie gioiose e lievi, una bellissima Venere, Perseo trionfante, Teseo mentre lotta contro il minotauro. Ogni gesto è sorprendentemente scultoreo e magico. Emozionante.

Canova svelato courtesy of RBR
Amore e Psiche Museo del Louvre Parigi
Teseo sul minotauro Victoria and Albert Museum Londra

Una lettura consigliata (un po’ diversa dal solito…): Antonio Canova. In corso d’opera, di Stella Nosella (Autore) e Andrea Oberosler (Illustratore) L’Orto della Cultura, 2021

 

Canova svelato – Gli illusionisti della Danza – Regia: Cristiano Fagioli, Coreografie: Cristiano Fagioli e Cristina Ledri, Danzatori: Cristina Ledri, Alessandra Odoardi, Francesca Benedetti, Michela Moretti, Daniele Bracciale, Riccardo Tosi, Musiche originali: Diego Todesco, Direttore creativo: Gianluca Magnoni, Costumi: Raffaele Diligente per Diverso, Produzione: RBR Dance Company. Spettacolo prodotto in collaborazione con il Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno

Canova svelato ph Chiara Lucarelli

RBR DANCE COMPANY ILLUSIONTHEATRE (https://www.rbrdancecompany.com)

Dopo un’intensa esperienza di formazione e di perfezionamento a New York e Parigi, Cristiano Fagioli e Cristina Ledri, anima e cuore della Compagnia, fondano nel 1999 la RBR Dance Company illusionistheatre, dal nome delle linee metropolitane di New York che conducevano da Brooklyn, dove i due risiedevano, a Manhattan. Una Compagnia quindi che è anche omaggio ai grandi maestri e luoghi, della danza contemporanea.

Da allora non si sono mai fermati producendo spettacoli innovativi di danza contemporanea utilizzando diversi linguaggi. Con lo spettacolo Bicycle 2000/2001, la compagnia si fa conoscere al grande pubblico e alla critica. Tra il 2002 e il 2004, al palcoscenico la Compagnia alterna le presenze artistiche in televisione, soprattutto per alcuni programmi RAI. Seguono anni di intenso lavoro e numerose produzioni in Italia e all’estero: Abyss, Open Space (con il tour in Messico), Blue Two in co-produzione con il Teatro Bellini di Catania, Statuaria, Show System e Pericle  Principe di Tiro rappresentato in prima nazionale al Teatro Romano di Verona, 4 (Aria, Acqua, Fuoco e Terra) in prima regionale al Teatro Petruzzelli di Bari, la Natura e l’Amore con i Virtuosi Italiani, Varietas Delectat rappresentato al Teatro dell’Hermitage di San Pietroburgo, Mosaico creato per il prestigioso Premio Michelangelo, Giulietta e Romeo, l’amore continua… e Il Circo di Zeus” spettacolo commissionato da Arteven Circuito Teatrale Regionale.

Il 2015 è l’anno di due grandi produzioni, Indaco e gli illusionisti della Danza, racconto danzato sull’ambiente come anima del mondo per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema del rispetto ambientale e The Man in co-produzione con la Camerata Musicale Barese. Nel 2021 debuttano con Boomerang gli illusionisti della Danza, dove danza e sensibilità a tematiche ambientali si fondono in una magica illusione scenica, una ricerca artistica già iniziata con lo spettacolo Indaco, molto amato dal pubblico, qui ampliata e intensificata. La Compagnia ha ricevuto premi e riconoscimenti come: il Premio Hesperia, il Premio Internazionale Re Manfredi, il Riconoscimento Premio Michelangelo. Nel 2021 viene riconosciuta dal Ministero della Cultura come Organismo di Produzione della Danza.

Foto in evidenza, Chiara Lucarelli

Diario in pubblico /
Dopo l’ospedale

 

Non mi nasconderò sotto un nome, ma anch’io, al momento di dire la maledetta parola “cancro”, ho svicolato. Ecco allora “sarcoma”, che vela la crudezza di un nome fino a poco tempo fa non dicibile e che ora s’avvia a prendere il suo posto tra i tanti mali che ci affliggono senza remore di sorta, anche nel pronunciarlo. E la risposta – tanta dei lettori – mi ha confortato.

Baldanzosetto, m’avvio alla sala radiazioni, accolto dall’affettuosissimo “ciao Gianni” di tutto il reparto, mentre mi giunge una mail di plauso dal ‘capo’ che m’aspetta la settimana prossima.

A rendere più eccitante questo momento ecco mi si annunciano libri importanti: dalla nuova edizione della Antologia di Spoon River (La nave di Teseo, 2022) a I presocratici di Sergio Givone (Il Mulino, 2022).

Di entrambi e di altri darò opportuno rilievo nelle settimane a venire, ma non posso dimenticare come il libro di Edgar Lee Masters sia stato tra le pietre miliari della mia attività di critico entro lo studio ‘ matto e disperatissimo’ di Pavese.

Una nota d’amarezza però disturba questo momento: la risposta di Michela Murgia intervistata a Di martedì da Giovanni Floris. In un mio articolo ero partito proprio da lei per commentare la parola impropria di Saviano – “bastardi” – sull’operato di Salvini e Meloni e mi ero schierato con la Murgia sul ruolo degli scrittori/intellettuali in rapporto alla politica.

Ma ora che ho recuperato il pezzo televisivo della trasmissione di Floris, che non avevo visto in diretta, sono decisamente contrario alle affermazioni della scrittrice sarda. Così afferma Michela Murgia a Di Martedì: “Due entità perseguitano Saviano in questo momento: una è la camorra e l’altra è la presidente del Consiglio”. “Questo parallelo le verrà rinfacciato”, commenta Floris. Ed ha ragione da vendere.

Per anni abbiamo criticato certi atteggiamenti. Ora non si può né è lecito né è giusto avventurarsi in giudizi sbagliati e non coerenti. Peccato! Ma è caratteristica anche degli intellettuali riuscire a sbagliare per avventatezza o per prese di posizione.

Altrettanto contrario ad un’affermazione di Vittorio Sgarbi, che pretende un sovrintendente italiano alla guida della Scala. Così commenta il noto critico a proposito del sovrintendente Dominique Meyer della Scala:

“Sarà opportuno quindi – ha detto il sottosegretario – ripensare al rapporto tra il teatro, la creatività e il popolo, e anche valutare l’indicazione di un nuovo sovrintendente. Attenzione: nulla contro gli stranieri. Ma per quel che riguarda due simboli assoluti dell’Italia davanti al mondo, due valori nazionali, gli Uffizi, dove pure ha operato un ottimo direttore tedesco, e la Scala, non s’intende perché non si possa, anzi non si debba, indicare un italiano”.

Mi dispiace dover contraddire Sgarbi, ma questa affermazione mi sembra in totale contrasto con quanto ha sempre sostenuto e diffuso: il carattere internazionale della cultura che non ha bisogno di essere italiana o straniera.

Ier sera quindi con legittima curiosità mi appresto alla visione televisiva dell’opera alla Scala. La conoscevo nella versione Abbado, ma non è stata mai tra le mie preferite. Sono rimasto folgorato! Non solo per l’attualità dell’argomento e per il suo indubitabile rapporto con la situazione storica attuale dilaniata tra potere e ingiustizia.

E mi meraviglia l’opposizione di una parte, seppur non rilevante, degli ucraini, ma forse si può spiegare col fatto che non credo che l’attuale zar renderà accessibile ai russi le ragioni di questa scelta. Anche lui novello Boris farà di tutto per nascondere la verità.

Concludo con un accorato appello cioè di quanto sia o potrebbe essere pericolosa la rimozione della sublime arte russa che è fondamentale non solo per l’Europa ma per tutto il mondo. Chi potrebbe dirsi colto se non ha letto Tolstoj o Dostoevskij?

Perché la vera arte è semplicemente verità.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Cover: Teatro alla Scala di Milano (su licenza Wikimedia Commons)

CINEMA/
Luigi Ghirri, il fotografo delle piccole cose che riempie due sale del cinema Apollo

Un film documentario dedicato al fotografo Luigi Ghirri viene presentato a Ferrara. Vedo la locandina al cinema Apollo, passando in bicicletta da piazzetta Carbone, tra le viuzze del centro storico. Ovviamente per me è una grande notizia. Amo la fotografia di Ghirri che ho scoperto come una folgorazione, uno strumento per sdoganare un modo diverso di guardare il paesaggio che ci circonda, per apprezzare cose piccole, dei particolari che fino a ieri sarebbero sembrati non fotografabili o di poco conto. Invece quelle immagini rivelano un occhio attento a situazioni emblematiche che – senza di lui – si tendeva a catalogare tra quelle irrilevanti. Senza le sue foto sarebbe stato difficile affermare la poesia dei nostri paesaggi piatti, delle nostre spiagge adriatiche di fine stagione, con le loro vecchie giostrine come uniche protagoniste del paesaggio un po’ sbiadito, o la forza lirica delle colonne di una cancellata aperta quasi sul nulla, davanti a un viottolo di campagna velato di nebbia. E poi quegli scorci di mondo aperto, affacciato su cieli, piazze o scale dove campeggiano solitari bambini o bambine. Nella bacheca esposta davanti al cinema annunciano anche la presenza degli autori in sala. Vado!

Lido di Spina
Il famoso portale
Polignano

È  martedì sera, il tema riguarda un fotografo che credo di nicchia e mi sorprende trovare l’atrio d’ingresso stracolmo di gente. Penso che ci sarà qualche altro film hollywoodiano nella stessa serata. Noto diversi amici tra il pubblico in attesa, i soci di un circolo, ma anche tanti volti che ho visto in cerimonie istituzionali o presenti a eventi più mondani. Un’amica mi dice: muoviti a fare il biglietto, se non ce l’hai, io l’ho prenotato tre settimane fa. Fortunatamente alla cassa ci sono ancora disponibilità, per il semplice motivo che il grande afflusso ha convinto gli organizzatori dell’Apollo cinepark a predisporre una seconda sala dove proiettare lo stesso film, con una differita di venti minuti.

Un ragazzo, che ha l’aria di essere uno studente universitario, commenta: “Ma cosa ci fa qui tutta questa gente? Forse anziché Ghirri hanno pensato che stasera ci fosse Ghirr, Riciard Ghirr”. Rido tra me e me, confortata dalla constatazione che qualcun altro condivide il mio stupore.

Sala 2 dell’Apollo per la serata su Ghirri

Ho letto che questo documentario esce a trent’anni dalla scomparsa di Luigi Ghirri per la regia di Matteo Parisini con la voce narrante di Stefano Accorsi ed è un omaggio al grande fotografo emiliano che sta facendo tappa in moltissime città italiane, da nord a sud. È stato già presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022, poi ovviamente a Reggio Emilia, dove Ghirri è nato (1943-1992), ma anche a Fano, Polignano, Prato, Carpi, a Milano in occasione del Design Film Festival, a Santarcangelo di Romagna e a Cesena.

Locandina del docufilm su Ghirri

In sala la proiezione è preceduta da una breve chiacchierata con la figlia minore, Agnese Ghirri, che sottolinea: “Il regista ha avuto l’idea di fare il film a partire dai testi. Ed è proprio dalle sue parole, da quello che ha scritto durante tutto il suo percorso che si può intuire la profondità del suo pensiero e della sua ricerca artistica. Per questo noi, come eredi, abbiamo fatto ripubblicare tutti i suoi scritti l’anno scorso con il titolo ‘Niente di antico sotto il sole’ per Quodlibet.  Le foto parlano già molto bene da sole, ma spesso sono viste come immagini semplici, ingenue. Invece traducono con un linguaggio semplice una complessità del reale e una profondità di pensiero basate su ricerca, letture e uno studio continuo fatto soprattutto da autodidatta”.

Agnese Ghirri – a sinistra – al cinema (GioM)

Il documentario affianca alle parole del fotografo le testimonianze delle figure fondamentali che lo hanno accompagnato nel suo percorso.

Lo stampatore Arrigo Ghi ad esempio racconta: “Quando mi sono trovato per la prima volta le sue immagini tra le mani, mi sono chiesto: ma che razza di foto fa questo qua? Veniva a seguito di Franco Fontana e Francesco Vaccaro, che facevano foto pittoriche, belle, che ti colpiscono subito. Ho chiesto a mia moglie cosa ne pensasse e lei mi ha detto che non sapeva perché, ma queste foto le toccavano il cuore. E mi sono reso conto che anche a me facevano questo effetto”.

La sorella della compagna di vita e di lavoro Paola Borgonzoni, che aveva 19 anni quando conobbe Ghirri 31enne, racconta che lei si era innamorata di lui non per il suo aspetto tutto sommato dimesso, con le giacche indossate senza attenzione, ma per il suo sguardo, per la curiosità infantile che aveva dentro e in cui anche lei si ritrovava.

Il fotografo pugliese Gianni Leone sottolinea: “Ghirri è riuscito a produrre una cultura nuova del vedere, ha cambiato il modo in cui si poteva guardare e rappresentare non solo l’Emilia-Romagna, ma tutto il nostro Paese”.

Per lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle “Ghirri dà un’iconografia a un mondo che un’iconografia non aveva. Noi vediamo quello che conosciamo. L’immaginario è determinato dal tempo e anche dalla storia”.

Massimo Zamboni nel film su Ghirri

Il musicista, compositore e cantautore Massimo Zamboni ricorda l’incontro nel casolare dove i Cccp suonavano e dove Ghirri era andato a trovarli. “Guardando le cose che guardava lui – racconta – non capivamo cosa vedesse. Osservava, non spostava mai le cose. Al massimo faceva accostare o aprire le finestre. Vedendo le foto che ha fatto, poi, abbiamo capito la sua visione. E, come accade quando esci da una mostra o dopo che hai visto il film di un autore come Herzog, ti trovi in strada a guardare il mondo con il suo punto di vista”.

Copertina disco Cccp
Piero della Francesca

Il pittore Davide Benati fa notare che “Ghirri cercava la luce, una luce pittorica, che rende una scena apparentemente banale simile a un’opera di Vermeer o di Piero della Francesca”.

Casa Benati per Ghirri
Lattaia di Vermeer
Donna che scrive di Vermeer

La figlia Ilaria Ghirri conclude: “Diceva che lo pagavano per fare ciò che più amava, cioè guardare il mondo. C’è stato un periodo che ogni giorno usciva dicendo che andava a fotografare il cielo. Per lui, il cielo era qualcosa di non trascrivibile, che non è mai uguale. Diceva che non c’è nulla di vecchio sotto il sole. Le sfumature di blu e di azzurro sono sempre diverse. Tutti i giorni è infinito”.

“Infinito” di Luigi Ghirri

Come le 365 fotografie di cieli diurni, scattate una per ogni giorno dell’anno. Come il titolo del docu-film “Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri”. E come l’unicità, la singolarità, la differenza infinita che ci sono in ogni veduta.

Per certi versi/La ballata dell’autunno

La ballata dell’autunno

La malinconia
Soffia muta
E forte
Che non torneranno
Più
Non
Torneranno
Le foglie rosseggianti
Il rorido acero
Che ancora brilla
Come ventimila lumache
In scia
Che no
Non torneranno
Le viti americane
Più rosse
Del sangue di una madre
Che quel giallo
Del gelso
Strattona la gelosia
Che sento
Per la sua fantasia
Monocolore
Non tornerà
Neppure il limone
Del dolcissimo acacio
Francobolli del vento
Quel beige
Delle querciole
Tra le dune
I funghi
E un paletot
Fuori moda
Non torneranno
Dice la malinconia
Il vestito più
Delicato
Del cuore
Il suo romanzo
Verso la fine
Occhi di civetta
La ragione
In prosa
Aggiunge
Che tra un anno
Tornerà
Tutto tornerà
E sarà
Rosa

 

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Le vie dell’avvento

La corona dell’Avvento

«Da più di duemila anni Signore
I tuoi passi sanguinano incessantemente
Ai margini dei nostri cuori»
(Pierre Emmanuel, Evangeliaire, ed. Du Seuil, Paris 161, 158).

Una corona di rami di sempreverdi, il pino e l’agrifoglio, indicano l’immortalità; la forza vitale e la cura il cedro; l’alloro la vittoria su ingiustizie e crudeltà; le loro foglie appuntite ci ricordano la corona di spine del Cristo.

Una corona che è come il nostro mondo: luogo di itineranza dolente e sperante. Su di essa, come punti cardinali, quattro ceri e quattro luci che via via vanno accendendosi, rischiarando il cammino di avvento, le sue vie.

La prima luce, della profezia, invita alla vigilanza, perché Dio vigila sulla sua parola per portarla a compimento. La seconda luce induce la parola a germogliare fuori dal silenzio, come un pollone di radice, virgulto in terra arida.

La terza è quella della gioia, perché il germoglio sta per fiorire: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa» (Is 35,10).

Questa terza luce ha l’intensità dell’Aurora al suo sorgere, perché è messaggera delle parole indirizzate da Gesù a Giovanni, prigioniero nella fortezza di Erode, desideroso di conoscere se fosse lui l’atteso dalle genti: «Dite a Giovanni quel che avete visto: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Lc 7,22-23).

La quarta luce è quella di una donna, del sogno di Dio nel sogno di Giuseppe, e nei nostri sogni, cui intende dare compimento: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva detto l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 123).

Le vie dell’Avvento come le Antiche vie

Il pensiero va subito alla storia di Tobia e al suo avventuroso viaggio da Ninive ad Ecbatana, nelle terre dell’Iran, accompagnato in incognito da Raffele, l’angelo il cui nome significa ‘Yhwh si prende a cuore e guarisce il cuore’. Il padre Tobia, rivolgendosi al figlio che parte e non sa ancora che incontrerà Sara la sua promessa, raccomanda: «In ogni circostanza benedici il Signore Dio e domanda che ti sia guida nelle tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine» (Tb 4,19)

Le vie dell’Avvento sono le più svariate e molteplici, visibili invisibili, dritte o tortuose, si arrampicano sulle alture, attraversano altipiani, foreste, solcano i mari e i deserti; vie d’acqua e di boschi, infuocate o gelide, fangose o soleggiate, slavate o verdeggianti; infinite vie, cammini d’uomo e di donna come arterie, vene e capillari del corpo della terra in cui circola il sangue della vita, quella incontrata sulle strade del passato, come su quelle inesplorate nel futuro.

Vie non solo del nomadismo dei patriarchi, ma anche le invisibili orme tracciate sulla sabbia, il vagare di passi e passi per 40 anni nel deserto di dodici tribù per diventare un popolo, e giungere infine alla terra promessa.

Vie pure misteriose escono alla luce inaspettate, e anche quelle più oscure e impraticabili, sconosciute, si illuminano nella Galilea delle genti per tutti i popoli: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta… I calzari dei soldati invasori e tutte le loro vesti insanguinate saranno distrutte dal fuoco. È nato un bambino per noi! Ci è stato dato un figlio! Gli è stato messo sulle spalle il segno del potere regale. Sarà chiamato: “Consigliere sapiente, Dio forte, Padre per sempre, Principe della pace”» (Is 9,1).

Così le vie dell’avvento assomigliano a quelle “antiche vie” descritte da Robert Macfarlane, alpinista e critico letterario, che narrò la sua itineranza fattasi, passo dopo passo, sempre più interiore nell’intento di connettere “storie e tradizioni”.

Continuando “il patto tra scrittura e cammino” egli ha trasformato per i lettori le strade e i sentieri in storie, i paesaggi in un viaggio nella memoria che ha trovato nella scrittura e nella letteratura un’antica via in cui altri possono inoltrarsi: «Se solo ci facciamo attenzione, vediamo che il paesaggio è ancora fittamente solcato di piste e sentieri, che seguono come un’ombra il moderno reticolo stradale, intersecandolo obliquamente o ad angolo retto: vie di pellegrinaggio, strade verdi, tratturi, fossi, vie dei morti, sentieri lastricati, redole, andane, camminamenti, viottoli, vie cave, ippovie, mulattiere, carreggiabili, strade rialzate, strade militari.

Molte regioni hanno ancora le loro antiche vie, che collegano luogo a luogo, che salgono ai valichi o aggirano i monti, che portano alla chiesa o alla cappella, al fiume o al mare…I sentieri e i loro segni mi attirano da sempre: catturano il mio sguardo e lo tengono avvinto. L’occhio è sedotto da un sentiero, e così pure la fantasia. Non si può fare a meno di proseguire con l’immaginazione una linea tracciata sul terreno: mentalmente, andiamo avanti nello spazio ma torniamo anche indietro nel tempo, ripercorrendo la storia di un itinerario e di chi prima di noi lo percorse.

Interrogarmi sulle loro origini, sui motivi che ne determinarono la creazione, sui viaggi ordinari di cui mostrano i segni, sulle avventure, gli incontri e le partenze di cui custodiscono il segreto» (Le antiche vie. Un elogio del camminare, Einaudi, Torino, 2013, 15; 17-18).

I sentieri dell’avvento sono come «le consuetudini di un paesaggio anche spirituale. Sono atti di creazione consensuale». Essi vanno percorsi e vissuti insieme attraverso l’esercizio di una comune responsabilità: «I sentieri sono consensuali anche perché senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono: sommersi dalla vegetazione, oppure arati e coltivati o magari edificati» (ivi, 19).

Percorrendoli i sentieri dell’Avvento alla fine sveleranno il segreto che custodiscono: la tua luce interiore: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, Cammineranno i popoli alla tua luce» (Is 60, 1;3).

Le quattro vie dell’Evangelo

Derisivo e sonante vuoto
Mentre il cielo se ne va
E un tempestoso nulla
Solo testimone di questo abbandono
Eppure mi alzerò
La mia fame sarà la mia bussola
Passo dopo passo scriverò
Il mio cammino verso la Parola

In questo cammino di verità
Dio lascia la sua impronta
Piacque a lui aggiungere ad essa
La bellezza come grazia
(Pierre Emmanuel, Visage nuage, ed. du Seuil, Paris 1955, 34-35)

La bellezza è la grazia nascosta in ogni erranza, dentro l’impronta di ogni sentiero, anche il più tortuoso. Essa rialza e muove il passo, anche quando si è avvolti dal tempestoso nulla. La fame della parola, come stella polare, apre il cammino ad ogni scrittura, come passi una parola dopo l’altra: tanti cammini in un cammino solo verso l’unica Parola. Tetramorfo, quadriforme è la buona novella del regno dei cieli.

Così sarebbe bello sagomare le quattro candele della corona dell’avvento nelle forme simboliche con cui, nell’Apocalisse, sono rappresenti le quattro facce di quell’unica Parola: un leone, un bue, un uomo alato, un’aquila. I loro cammini, così diversi eppure consonanti, sono le vie antiche e sempre nuove che percorre inarrestabile l’unico Evangelo di Gesù, l’Errante.

Mosso dallo Spirito, Gesù ha una singolare predilezione per il cammino, passione ereditata da tutta le Scritture bibliche. Paradigmatica suona così la professione di fede che Mosè consegna al popolo di Israele, secondo il libro del Deuteronomio (26,5): «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele».

L’archetipo dell’itineranza rivela il bisogno di uscire da sé, di centramento della persona sull’altro; come fu del popolo di Israele nel deserto sul suo Dio, e di Gesù in preghiera sul monte nel Padre suo, e dei discepoli nelle parole e nelle vie del Maestro. Ci si affida all’altro, alle sue mani, confidando in lui.

Gesù non era solo un itinerante, ma la struttura della sua prassi di vita e di parola hanno una logica che genera messaggi e azioni generativi di relazioni, che cambia i destini delle persone perché riapre alla fiducia nell’altro. La sua itineranza feconda la sterilità dei rapporti: in una parola è salvifica.

Nella lettura allegorica dell’Apocalisse proposta da Ireneo di Lione nel II secolo, i quattro esseri viventi posti intorno al trono di Dio diventano simboli dei quattro vangeli. L’apostolo Giovanni infatti nella sua visione aveva visto quattro esseri viventi: «il primo vivente era simile a un leone; il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello; il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo con ali da angelo; il quarto vivente era simile a un’aquila che vola» (4,7).

Così il simbolismo quaternario che già era riferito ai quattro punti cardinali, o ai quattro venti, finiva per rappresentare anche i messaggeri della provvidenza divina nelle avversità: la nobiltà il leone, la forza il bue, la sapienza l’uomo e l’agilità l’aquila.

Il leone è assegnato a Marco, perché il suo scritto – come sottolineò Girolamo – si apre con il deserto selvaggio ove lo stesso Gesù, dopo il Battista, è presente “in compagnia delle fiere” (1,13). Il vitello o toro rappresenta Luca, il cui Vangelo inizia nel tempio di Gerusalemme con i sacrifici. L’uomo alato designa il vangelo di Matteo la cui opera comincia con la genealogia terrena di Cristo, a partire da Abramo e Davide fino a Giuseppe e Maria, quale concretizzazione storica del Dio fattosi Uomo. Infine, Giovanni è rappresentato l’aquila, che scruta le profondità del mistero del Verbo incarnato, che vede oltre, contempla come aquila i sentieri dell’invisibile Spirito.

La via del leone, quella del bue, dell’uomo alato e dell’aquila non sono state scritte una volta per sempre. Nascondono ancora significati e paesaggi segreti. Esse, dunque, sono da percorre e da scrivere di nuovo e di continuo. Il che accade ogni qual volta passiamo dalla semplice lettura del vangelo alla sua meditazione: dal vangelo letto al vangelo pregato, contemplato ed infine agito nei nostri sentieri e nelle pratiche di ogni giorno.

«La poesia è una via al vangelo»: così insegnava il vescovo latinoamericano Pedro Casaldaliga (1928-2020), vescovo di Sào Felix do Araguaia, pastore e profeta nel Brasile del latifondo, tra i primi a denunciare le violenze arrecate alle terre delle popolazioni indigene.

Papa Francesco ha riportato una sua poesia nella lettera post-sinodale Querida Amazonia (n. 73) che ho ricordato già in un precedente mattutino. Così mi sono incamminato di nuovo nel fuoco, nella cenere e nel vento delle sue poesie che mettono in cammino l’acqua e la terra e i passi di ognuno, che anche senza saperlo procede «giorno dopo giorno,/ sopra la stessa palma della tua Mano».

Gli uomini che volano alto
hanno gran potere di sintesi,
dalle nubi distanti.
Ma chi cammina a piedi
analizza ogni passo
e sintetizza nei suoi occhi
questa pietra,
quel fiore,
gli occhi di ogni fratello.

Quando cammini
chiedi.
Rispondi
quando cammini,
se, camminando, ascolti.
Tu sei la parola udita
quando vivi camminando
con tutti quelli che camminano.

E giungerò, di notte,
con la piacevole paura
di vedere,
infine,
che camminai,
giorno dopo giorno,
sopra la stessa palma della tua Mano.
(Fuoco e cenere al vento, Cittadella, Assisi 1985, 53-54; 88).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Mi chiamo Rose Rosse

Il meteo mette pioggia per tutta la domenica. Un watsapp di Miria mi salva: “C’è un open day del gusto al Museo di civiltà contadina di Bentivoglio.”
Arrivo senza prendere neppure una goccia d’acqua. Anzi sopra di me avanza sempre più il sereno.
Giro nei padiglioni tra i prodotti dei contadini e proposte di assaggi. Mi fermo in uno stand di un fornaio tentato da una tipica schiacciata bolognese.
Sembra molto soffice. E’  come piace a me, alta e morbida.
Qualcosa mi spinge più avanti verso un bancone tra i meno appariscenti. Dietro, gesticola simpaticamente con un cliente il titolare
“Guardi”, dice al cliente con voce gentile, “le lascio il mio bigliettino da visita. Prima di partire mi chiami, almeno cosi non viene per niente.
Ci sono due numeri di cellulare, il mio è quello sotto, l’altro da maggio non funziona più. È quello di mia moglie. È morta a maggio…”
Si fermano lì le sue parole, si volta, vede che ci sono anche io. “Mi sembra impossibile solo pochi mesi fa eravamo qui, lei di fronte a me …”
Poi ancora rivolto al cliente” …mi chiami e vedo se riesco ad accontentarla…”
“E per lei invece cosa posso fare? Qui ho una torta di mele con farina di castagne… Se compra una fetta le do pure la ricetta, cosi può rifarsela a casa quando vuole!
Questa è invece polenta con farina di castagne… non spetterebbe a me dirlo. ma è una cannonata. È affumicata. Accompagnata dai formaggi è la sua morte!
Ma qui la ricetta non gliela do. Ci metterei a spiegarla più di mezz’ora e poi a casa non riuscirebbe a farla…è complicata Troppo.
“Va bene “, dico io,”..due fette di entrambe signor…?” ” Carlo. Ma mi chiamano tutti Rose Rosse…. Da quando 53 anni fa partecipai con la canzone ROSE ROSSE  ad una corrida canora tra esordienti. Ricordo ancora tutto… Vuole sentire queste? Queste non le trova a casa sua. Sono pere volpine annegate nel mio pinot, aggiungo cannella e chiodi di garofano poi tutto sul fuoco lento…”
“Si…va bene, aggiunga le pere volpine!”
“Sentirà… poi per due euro, soldi spesi bene. Ma faccia attenzione a tenerle diritte, se no esce tutto.
“Ok…e quanto costa la farina di castagne? “
” Eh ..beh…con la farina di castagne ma fa quello che vuole!
Le tagliatelle coi funghi champignon, e il cioccolato con la farina di castagne poi! E i cantucci!…mia moglie aggiungeva il …ma come si chiama…come si chiama…accidenti…
Lei era capace di fare tantissime cose…. La solitudine è una brutta bestia sa. Sono solo nella nostra casa adesso. Mi sembra impossibile. Aveva una ernia, si è strozzata…. Era un po’ robusta mia moglie. Siamo sempre stati insieme, è stato tutto molto veloce, molto veloce”
Gli occhi che fino ad ora avevano corso in qua e là a spiegarmi tutte le qualità dei suoi prodotti non guardano più nulla come volessero vedere lontano. Via. Lassù.
“Avete figli?”
“Si tre e dieci nipoti. Ma non conta, è un’altra cosa, è dentro… manca sempre dentro. È come se volessi appoggiarmi e non trovo nulla, e allora ti senti cadere e non finisce mai…
Adesso le do anche un po di questa roba qui, queste che sembrano ciliegie sono mele, provi a sentirle! Questo invece è corbezzolo ma mi raccomando non lo mangi di sera se no non dorme più.
Questa è corniola e queste azzeruole”.
“Bene, ho preso il mondo! Grazie Rose Rosse! Allora la vengo a trovare a Bologna al mercato …dove ha detto?”
“Certo, al giovedì alla tettoia Lucio Dalla, ma non tutti i giovedì. Prima mi chiami; qui c’è il numero, quello sopra è il mio non l’ho tolto l’altro è quello di mia moglie.
Mi raccomando prima mi telefoni così non viene per niente…”

Storie in pellicola / Nostalgia canaglia

Non è la canzone di Al Bano e Romina Power e nemmeno la “cara e celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante. Anche se di amore sempre si parla. E pure se il titolo ricorda il celebre film di Andrej Tarkovskij del 1983, siamo in tutt’altro mondo e tutt’altra storia.

Certo è che la nostalgia di un tempo che fu, che, nei tempi, era diventata rimembranza per Giacomo Leopardi, spleen per Charles Baudelaire e nostalgia del futuro per Robert Musil, è spesso al centro dell’arte cinematografica, fin dal pluripremiato Nuovo Cinema Paradiso.

Il presente manca, è assente, deformato dai ricordi di un passato magari non sempre roseo ma fatto di forti legami e tanta gioventù. Nostalgia, di Mario Martone, ha tutti questi ingredienti ed è favoloso, per quanto spiazzante.

Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea e con protagonista uno strepitoso Pierfrancesco Favino, il film è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, ha vinto 4 Nastri d’argento, il 26 settembre scorso, è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2023 nella sezione del miglior film internazionale ed è stato designato Film Europeo dell’anno al 27° Capri, Hollywood the International Film Festival, lo scorso 13 novembre.

Tutto ambientato nel Rione Sanità, un mondo sconcertante ma anche affascinante, come lo era stato recentemente ne Il bambino nascosto di Roberto Andò. È qui che il protagonista, Felice (Pierfrancesco Favino), torna, per riabbracciare la madre anziana, Teresa (Aurora Quattrocchi), dopo quarant’anni di assenza e lontananza, partito per sfuggire a un destino che poteva essere molto diverso.

 

Con l’allora inseparabile compagno di bravate, il quasi fratello Oreste Spasiano (un meraviglioso Tommaso Ragno, che recentemente abbiamo visto in Rapiniamo il Duce, Siccità, Il Cattivo poeta, per citarne alcuni) aveva commesso qualche piccolo crimine. Fino alla tragedia che lo aveva fatto fuggire all’estero, prima Libano e Sudafrica e poi Il Cairo dove vive, da ricco imprenditore felicemente sposato.

Tommaso Ragno, Foto di Fabrizio Iozzo

Chi parte e chi resta, chi cambia il proprio cammino per tentare di emergere da fango e pozzanghere che paiono non asciugarsi mai. Ma Felice non ha dimenticato il vecchio amico, colui che oggi tutto il quartiere teme, il terribile boss ‘O Malommo, che ricorda un po’ il colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Lo vuole incontrare. Il faccia a faccia tra i due, in napoletano stretto, sarà magistrale. Lo spettatore resta però combattuto, un po’ smarrito: il momento è estremamente ricco di pathos e porta con sè sentimenti contrastanti.

Tutto è nostalgia: per la terra che si è dovuta lasciare, per quel sentirsi sempre un po’ straniero, per una lingua italiana biascicata che si mescola a una forte cadenza straniera, per la gioventù perduta, per quel che è stato e quel che poteva essere, per una Napoli intensa protagonista, per una madre che se ne è volata via, per una bellezza che se ne è andata, per un’amicizia che si è come sciolta al sole. Legami che furono.

Fare pace con il proprio passato non sarà facile, in un presente fatto di complesse ragnatele dove poco è cambiato ma dove qualcuno, come don Luigi Rega (Francesco Di Leva), cerca ostinatamente di modificare le carte in tavola e i giochi, di trasformare la disperazione in speranza. Una città che resiste a molte trasformazioni, quasi immobile, se non fosse per chi si divincola e danza al ritmo di musiche dal sapore orientale.

E se perdersi vuol dire trovarsi, in una città dove la casa e la strada sono spesso una cosa sola, quando si decide di rimanere si è deciso. Costi quel che costi.

Nostalgia, di Mario Martone, con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Aurora Quattrocchi, Nello Mascia, Sofia Essaidi, Emanuele Palumbo, Salvatore Striano, Virginia Apicella, Italia, Francia, 2022, 117 mn.

La conoscenza è nella Nostalgia. Chi non si è perso, non ne possiede. Pier Paolo Pasolini

 

Parole a capo
Maria Laura Valente: “Io maledico l’anno il mese il giorno” e altre poesie

Terrò per l’anima, come altri per il corpo, un’aggiornata cartella clinica.
(Gesualdo Bufalino)

(Di seguito, alcuni testi poetici tratti dalla raccolta La memoria del dolore, Edizioni
Progetto Cultura, 2022, nella collana Le Gemme, a cura di Cinzia Marulli e alcune poesie inedite)

io maledico l’anno il mese il giorno
il suono della sveglia che ha spezzato
un tempo onirico ignaro del tormento
sia maledetta l’ora e anche il minuto
il flettersi del corpo di parola
l’innesto approssimato degli sguardi
lo scudo abbandonato senza fuga
e poi stramaledico quell’istante
il subitaneo crollo delle mura
la luce inabissata nei tuoi occhi
il taglio vivo dei punti di sutura

***

dammi la bocca
rimetto a posto tutte le parole
che non mi hai detto ancora
le mastichiamo insieme lentamente
nel buio caldo di un istante inesplorato
lo senti il nero liquefarsi dei fonemi?
e quanto è acerba ogni sillaba sconnessa?
il rosso strazio dei grafemi eviscerati
te lo passo con la punta della lingua
deglutisco in fondo agli occhi i tuoi silenzi
ogni singola omissione e reticenza
a te lascio il retrogusto dolceamaro
del trisillabo di cui non hai coscienza

***

non conosco la parola che stenografi il dolore
che coaguli in grafemi l’infezione dei pensieri
forse è nota di chiusura di volumi fuori stampa
un lessema desueto in idiomi che non parlo
resta vuota la casella, confessione non siglata
un silenzio raggrumato che ristagna tra le ossa

***

quanto pesano i riflessi della luce
sulla guerra che non abbiamo vinto?

vigiliamo disarmati le macerie
nel rifugio fatto campo di battaglia

nominandoci recisi e mutilati
deponiamo le vestigia del rancore

sulle nostre dita nude tutto il peso
dell’enigma che rimane indecifrato

cosa resta dei riflessi della luce
se la notte cala prima del tramonto?

siamo pallidi fantasmi in dissolvenza
il ricordo il solo limbo da abitare

(inedito)

***

non sarà una coordinata di distanza
questo farmi trasparenza quotidiana
la misura dell’amore che ti porto
sfugge al computo fallace dei mortali
decifrando l’alfabeto dell’assenza
saprai leggermi oltre il velo della carne
sarò polvere sospesa nella luce
l’ombra stanca che si allunga a mezzanotte
nuda pioggia che ti versa il cielo in faccia
la parola sulla punta della lingua
riconosci il mio vegliarti in filigrana
cingi il vuoto per non farti lontananza
accompagnami nel tempo senza spazio
lungo i sogni abbandonati sul cuscino
sappi amare questo essere imperfetto
stella spenta che non sa dove orbitare

(inedito)

***

e non dimenticare d’aver cura
di tutto ciò che accade con lentezza
della crisalide, del seme
del darsi vinti al sonno da bambini
del fuoco basso
del punto fine
della lievitazione naturale
datti il tempo
dei moti millenari:
fatti muta collisione d’orogenesi
deriva paziente di continenti
solenne processione di equinozi
recessione indomita di galassie

(inedito)

Maria Laura Valente (Campobasso, 1976), docente e poetessa, ha pubblicato tre raccolte poetiche (Giochi d’Aria, Rupe Mutevole Edizioni, 2010; Lustralia, LunaNera Edizioni, 2016; La memoria del dolore, Edizioni Progetto Cultura, 2022) e due sillogi di poesia haiku (La carezza del vento, LunaNera Edizioni., 2018; Hatsuyume, La Ruota Edizioni, 2019, Premio Speciale della critica nell’VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia L’Arte in Versi, Jesi, 2019). Redattrice per i lit- blog Versante Ripido e Cinquesettecinque, è impegnata su un doppio fronte di ricerca e composizione poetica: poesia lirica in lingua italiana e haiku in lingua inglese. Attualmente, vive e lavora a Cesena.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

Vite di carta /
Donne: ne uccide e ne salva più la lingua

 

Ho qui davanti a me i pieghevoli colorati di rosa e di rosso relativi a conferenze e incontri del 25 novembre e dintorni, i fogli con gli appunti che ho preso, le foto di alcuni libri usciti di recente: tutti dedicati al tema della lotta alla violenza sulle donne. Uso la parola tema nella accezione di significato per cui credo stia andando tanto di moda sui media: “dal greco théma, argomento che si vuol proporre, soggetto di uno scritto, un ragionamento, una discussione” come recita lo Zingarelli.

Il tema della violenza sulle donne nei giorni scorsi ha riempito anche i palinsesti delle reti tv insieme agli spot sul Black Friday, è la ruota che gira nel percorso ciclico dei riti social(i). Voglio glissare  però sull’appiattimento delle notizie a cui siamo condannati a rischio di assuefazione e valorizzare invece un paio di eventi a cui ho assistito. La loro qualità mi spinge a darne conto perché più li penso più mi restituiscono il valore di una battaglia di civiltà.

L’evento più recente è avvenuto mercoledì, ultimo giorno di novembre, alle Opere Parrocchiali di Poggio Renatico: su invito del Club Rotary locale sono intervenute in qualità di relatrici Giulia Trombelli e Nina Komadina, laureate in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, nonché impegnate nel direttivo di Koliba, un collettivo online composto da ragazzi sotto i trent’anni che si occupano di informazione e divulgazione culturale sui social.

Insieme hanno presentato il libro di Valeria Fonte Ne uccide più la lingua. Il sottotitolo Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole spiega eloquentemente lo scopo del testo.

Preparatissime, hanno inondato la platea con slide piene di statistiche e con informazioni e considerazioni critiche sulla violenza ai danni delle donne, sulla retorica con cui sono costruiti gli stereotipi linguistici, allargando la visuale dal libro a una vasta letteratura dedicata alle discriminazioni di genere.

Si sono rivolte a una sala piena di persone di ogni età, sapendo coniugare al quadro esposto poco prima riferimenti concreti alla esperienza di tutti, suggerendo il confronto tra le mentalità delle diverse generazioni presenti.

In particolare hanno suscitato gli interventi su frasi tratte dal libro come queste: “E tu perché hai fatto questo video?”, “Potevi dire di no, “Le vere molestie sono altre”, “Sei troppo aggressiva, calmati”, evidenziando la violenza che vi è sottesa: la violenza che relega le donne dentro le sbarre degli stereotipi, che le vogliono sensuali, prive di rabbia, pronte a colpevolizzarsi e soprattutto subalterne.

In ottemperanza alla tesi del libro di Valeria Fonte hanno fatto i conti con la “misoginia dei discorsi”, mettendo sotto la lente di ingrandimento il potere di certe parole ed espressioni come violenza maschile e patriarcato, paura e cultura dello stupro, che, liberate dalle incrostazioni semantiche degli stereotipi, vanno ricondotte al loro significato autentico e rivelatore.

Ora passo dal plurale donn-e al singolare, modificando la parte finale della parola mediante la desinenza –a. Resta intatto il tema della parola, che in linguistica si definisce come “ la forma ampliata o meno con cui si presenta la sua radice” (da Oxford Languages), ovvero la sua parte persistente nel sistema della lingua.

Armata di questa seconda accezione del termine entro nel bel romanzo di Viola Ardone, che ha per titolo un nome di donna, Oliva Denaro. Scelgo una pagina dove Oliva, dopo avere subito la violenza del suo” innamorato” al paese, deve decidere se accettare il matrimonio riparatore oppure se denunciare l’oltraggio che l’ha disonorata.

Si sente sola ed emarginata dal “coro paesano”, mai come ora che ha sedici anni ha ben compreso quale ingiusta discriminazione la penalizza rispetto all’altro sesso. Pensa al fratello gemello con cui è cresciuta: ”Se fossi nata maschio come Cosimino, avrei potuto restare con me stessa e non appartenere a un uomo. Invece sono nata al femminile e il femminile singolare non esiste”.

Proprio il 25 novembre son andata a incontrare la scrittrice Viola Ardone a Ferrara presso l’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza. Ho condiviso l’evento con circa duecento studenti del Liceo Ariosto venuti a incontrare l’autrice napoletana intervistata dai loro compagni del gruppo Galeotto fu il libro su Oliva Denaro, il suo ultimo romanzo.  Le classi che si sono avvicendate in due turni hanno portato dei contributi originali: brevi filmati sui contenuti del libro, locandine e disegni coloratissimi che vengono proiettati nel corso delle interviste.

Ascolto gli interventi dei ragazzi “Galeotti” che stanno attorno alla scrittrice le rivolgono a turno le domande e le considerazioni che hanno condiviso tra loro e con le insegnanti: domande che sono andate in profondità sugli aspetti forti del romanzo, sul percorso di formazione della protagonista che vuole essere libera in un momento storico, la Sicilia degli anni ’60,  in cui nascere donna è una condanna.

Sugli altri temi che vi si intrecciano, i rapporti dentro la famiglia, il valore della scuola; sulla struttura narrativa, sui personaggi e sul contesto culturale non solo siciliano del secolo scorso contrassegnato  dalle battaglie per i diritti civili. Anche loro fanno molte osservazioni sul linguaggio, citano la maestra di Oliva che nel libro ripete “le parole sono armi non solo quelle difficili, anche quelle ordinarie, che ballano in bocca agli ignoranti”. Leggono passi in cui la protagonista prova su di sé il potere che hanno gli stereotipi, i retaggi culturali che le parole trasmettono come frecce acuminate.

Mi piacciono una volta di più questi giovani liceali che ho frequentato a centinaia facendo l’insegnante per quasi quarant’anni, una volta usciti dal Liceo fanno studi come quelli di Giulia e di Nina, leggono testi che non conosco e me ne trasmettono il valore. Mi domando quanto sia cresciuto il loro numero un anno dopo l’altro, quale incidenza possano avere sulla circolazione di idee più giuste. Quali visioni del mondo vadano ad aprire le loro parole tanto consapevoli.

Per finire l’incontro e salutare la loro ospite, si alzano in piedi ragazze e ragazzi della prima fila e pronunciano passandosi il microfono una frase ciascuno. Le frasi riprendono un modo di esprimersi di Oliva nei momenti decisivi della sua storia:

“Io sono favorevole al riscatto”
“Io sono favorevole al consenso”
“Io sono favorevole al rispetto reciproco”
“Io sono favorevole alla sorellanza tra le donne per affrontare ogni tipo di sopruso”

“Io non sono favorevole alla sottomissione”
“Io non sono favorevole alla vergogna”
“Io non sono favorevole alle ingiustizie”
“Io non sono favorevole alle libertà che si prende un uomo sul corpo di una donna”.

Infine tutti insieme “Il femminile singolare dipende da noi”.

Anche Viola Ardone è insegnante. Insegna Italiano e Latino in un Liceo della provincia di Napoli e qui oggi ha verificato quanto sia passata la sua lezione di grammatica. Mentre si alza per ringraziare e salutare a sua volta mi accorgo che si sta asciugando gli occhi.

Nota bibliografica:

– Valeria Fonte, Ne uccide più la lingua. Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole, De Agostini, 2022
– Viola Ardone, Oliva Denaro, Einaudi, 2021

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Parole e figure / Parole e ali, Strenne Natalizie 1

Tempo di Natale, tempo di regali, quelli belli e delicati, tempo di strenne senza renne. Nella rubrica di oggi e nelle prossime fino a Natale (magari andiamo oltre, fino all’Epifania…)., vogliamo dare ai nostri lettori qualche consiglio di lettura e magari di dono attenzionato per gli amici, adolescenti curiosi o adulti rimasti un po’ bambini che siano.

Il primo albo illustrato è Parole, dello spagnolo Raul Nieto Guridi, Kite Edizioni (2022), un piccolo libro che andrebbe letto in tutte le scuole e proiettato all’ingresso di ogni mostra d’arte, perché le parole sono importanti, bisogna saperle pronunciare, quelle che servono, quelle che a volte non andrebbero nemmeno pensate. Le parole sono importanti nella vita, possono essere salvifiche o autentici macigni, sono quelle che ci siamo detti, quelle che non abbiamo avuto il coraggio di dire, quelle che abbiamo detto ad altri e non a chi si dovevano dire, quelle che ci siamo urlati addosso o che non sono state capite, quelle che abbiamo aspettato a dire e che magari abbiamo detto troppo tardi, quelle che non vogliamo dirci, quelle che abbiamo provato a dire ma che non ci sono (ri)uscite, quelle rubate dal vento. Questo albo ci ricorda che le parole sono quasi tutto quello che abbiamo per farci capire dagli altri, che sono connessioni e relazioni fondamentali. Un prezioso regalo per molti, soprattutto se tenute in serbo a lungo, un bisogno. D’altra parte, Jacques Prévert aveva scritto il suo meraviglioso Paroles e non è così vero che verba volant…

Se le parole non volano, c’è invece un uomo con le ali che non sa nulla di sé stesso, che vuole imparare a volare, con o senza le sue parole o quelle degli altri. Solo con il pensiero.

Si tratta del primo titolo della collana Le voci che Kite Edizioni, dal 2013, dedica a lettori più adulti, dai 15 anni almeno. Le immagini sono forti per un pubblico troppo giovane, terribilmente realistiche. Guarda che la luce è del cielo, è un albo di Giulia Belloni (scrittrice, editor e giurata del premio Campiello Giovani) e dell’illustratrice Kaatje Vermeire che, fin dalla sua copertina grigio-azzurra, parla di differenza non richiesta e di identità. Con molta introspezione. Come gestire la differenza che a volte ci separa dagli altri? Patirla, nasconderla o trasformarla in un dono? Come osservare lo specchio, con amore e timore, e notare una stranezza nel proprio corpo? Starà al protagonista di questa storia capire, o meglio sentire, cosa deve farne, in un lungo viaggio verso sé stesso. “Ho sempre pensato che non fossi come gli altri”…, dice il protagonista alato. Ma lui non può più tornare indietro né confondersi con tutti gli altri e questo, almeno in principio, lo fa molto soffrire. Poi però riesce a capire perché quella differenza è stata destinata proprio lui e che cosa ne può fare. In fin dei conti non è da tutti avere le ali, no?

E poi l’amore è come il vuoto, non si vede.

Lo stesso amore che ci può far dire Grazie!, le bellissime pagine di Isabel Minhós Martins e Bernardo Carvalho (edizioni Kalandraka, 2022), nella collana Libri per sognare. Quel sentimento di gratitudine che ci insegna ad avere pazienza e ad aspettare, a valorizzare la disciplina e rispettare i più grandi, a saper vincere e perdere, integrarsi in una squadra, essere solidale con i compagni. A saper ascoltare e approfittare del silenzio, a riposarsi, ad affrontare dei rischi per superare le paure, anche pedalando in salita, a essere prudente e perseverante. Ad apprezzare la bellezza di certi momenti e delle cose che ci circondano… Incontri fatti di attimi. Insegnamenti fatti di sguardi e sorrisi.

L’albo illustrato è un potente messaggio rivolto a tutti coloro che attraversano la nostra vita e partecipano alla nostra educazione e crescita, aiutandoci a forgiare il nostro modo di essere e a vivere nella società: la famiglia, gli amici, i vicini di casa, gli animali domestici, la scuola… A tutti dobbiamo un immenso grazie. Essere grati è fondamentale e non poi tanto difficile. Saper ringraziare è la prima lezione della vita.

Narrato in prima persona con frasi brevi che descrivono la quotidianità del protagonista, l’albo porta il lettore a riconoscere vicende proprie o esperienze comuni. Le illustrazioni, contraddistinte da tratti delicati e colori luminosi che trasmettono positività, descrivono scene familiari vissute in campagna o in città, incontri con persone molto diverse con cui si interagisce ogni giorno, spazi per il divertimento e il gioco. Un insegnamento che inizia nell’infanzia e che durerà per sempre.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Giallo, Canalnero e biancazzurro
Intervista a Marco Belli

Un giovedì di metà novembre ci troviamo presso una nota birreria della zona io, il direttore e Marco Belli, per una sana chiacchierata tra amici.  Sembriamo un po’ il Corsaro Nero, l’Olonese e Michele il Basco che tra i fumi di una bettola delle Tortue organizzano l’assalto a Maracaibo.

Marco, oltre a essere un grande amico, è insegnante, fotografo, sommelier e direttore artistico di Elba Book festival, collabora con l’editore Millebattute e organizza workshop di scrittura e fotografia per l’Europa ed è parte integrante del collettivo di scrittori spallini L.A.P.S. Nel 2015 esordisce con “il romanzo dell’ostaggio” (Koi Press), nel 2018 “Adagio polesano” (Babbo morto editore) e con Edicola Edizioni ha scritto “Uno sbaffo di cipria” e “Canalnero”. Un intellettuale eclettico, un misto tra Gramsci e Costante Tivelli, uno scrittore che conosce i tempi del romanzo e gioca con le parole come un autore consumato; insomma, l’è fòrt. Quello che segue è il resoconto, vagamente fedele, di quella serata.

 

Periscopio: perché il giallo? Hai seguito la scia del Montalbano di Camilleri?

Marco: intanto perché ho sempre amato il genere, dal tenente Colombo a Derrick in TV, la Signora in Giallo, ecc. Inizio a leggere tardi, verso i sedici anni. Oltre alla poesia sono attratto dai gialli.

Periscopio: Quindi ora la poesia non la “pratichi” più?

Marco: diciamo che di tanto in tanto ci ricasco, mi piace inserirla nei miei romanzi, alle volte anche come forma enigmistica nei miei gialli. Il “negativo” leopardiano l’ho inserito anche nel mio primo romanzo. La mia passione per il giallo è il motivo per cui da esordiente ho iniziato da lì. Quando ho una storia spesso mi capita che inizi da un cadavere. In Italia forse il genere non è ancora stato del tutto sdoganato, ma io, frequentando gli amici di Giallo Garda, ho avuto la fortuna di confrontarmi con magistrati e studiosi che mi hanno fatto crescere molto. Negli Stati Uniti e in Inghilterra si studia il genere.

Periscopio: ho conosciuto Oreste del Buono, padre del genere giallo in Italia. Quali sono i tuoi autori preferiti?

Marco: Se mi chiedi i tre giallisti che mi hanno segnato in qualche modo ti dico che sono partito dai racconti di Poe, che continua ad essere un punto di riferimento importante per me. Poi sicuramente Dürrenmatt, (Il Giudice e il Boia) e Manuel Vasquez Montalban, un autore che mette insieme il giallo e la mia passione per l’enogastronomia, un autore fondamentale per la mia formazione.

Periscopio: Montalban parla anche di calcio…

Marco: Calcio, cibo e militanza politica mi avvicinano molto a Montalban, oltre al fatto che lui è uno dei massimi esponenti del giallo classico, il genere che io prediligo. Mi piace meno il giallo che vira verso il thriller. Sono un giallista che utilizza i tempi classici, con accelerazioni magari improvvise, senza essere adrenalinico e frenetico.

Periscopio: Perché hai utilizzato la figura di Elizabeth come personaggio dei tuoi romanzi? E’ vero che hai ritagliato la figura di Vivian prendendo spunto da Elizabeth?(ndr: Elizabeth Rose Alper è una famosa clochard che viveva a Ferrara, deceduta di recente)

Marco: Elizabeth l’ho vissuta intimamente, in quanto fondatore assieme ad altri amici del Circolo “La Resistenza” posso dire di essere stato suo amico. Mi occorreva una donna, un personaggio un po’ particolare, curiosa, magari un po’ logorroica, ma allo stesso tempo raffinata, a suo modo. Ero alla Resistenza, Elizabeth era lì, mi stressava, mi faceva un milione di domande, io ero stanco, ero appena tornato da scuola; cominciai allora a scrivere di lei, avevo voglia di un personaggio un po’ marginale, fuori dalle righe, originale, senza armi, che non fosse uno sbirro. E ce l’avevo lì davanti. Mi domandai a un certo punto: ma lei può avere le caratteristiche che mi servono? Si, è un personaggio che vede, che guarda, ha tempo per guardare, in un ipotetico pedinamento può passare inosservata in quanto “barbona”. In più lei è un medico, nel senso che è realmente laureata in medicina. Alla fine, pensandoci, quanti detective sono meno dotati di lei. Da lì sono partito e sono andato fuori a cena con lei, anche perché non era per nulla scontato che accettasse di essere ritratta fra le pagine di un libro, anzi di esserne il personaggio principale. All’inizio avevo scritto un personaggio molto simile a Elizabeth, molto spigoloso, poco empatico, paranoico, ma l’editore mi ha suggerito che occorreva smussarne gli angoli. Ne ho parlato con lei, ha letto i libri e alla fine ci ha preso gusto.

Periscopio: tra l’altro lei partecipava alle riunioni, andava all’università, alle manifestazioni…

Marco: e abitava alla Resistenza…

Periscopio: Hai lavorato con un editor?

Marco: La casa editrice con cui collaboro, non lo dico io, ha uno dei migliori editor della micro editoria italiana. Per un libro di Vivian occorre il lavoro di quasi un anno.

Periscopio: Ho notato che nei tuoi libri i cattivi sono molto cattivi e i buoni sono molto buoni, mancano le sfumature e i grigi. E’ una tua scelta?

Marco: Nel primo romanzo esiste un taglio abbastanza netto tra il bene e il male, nel secondo il cattivo sembra “buono” per quasi tutto il libro; nel terzo, che sto scrivendo in questo periodo, i grigi sono toni ben presenti nel romanzo. Sono partito da una situazione di bene contro male, nel secondo abbiamo visto che l’omicida è un misto, nel terzo le responsabilità saranno più condivise.

Periscopio: Il terzo sarà quindi il più “taoista” dei tre?

Marco: Sì, come viene naturale ambientando la vicenda in un territorio come quello del Polesine, dove vi è una grande predominanza di acqua, di fango, dove le cose si mischiano continuamente, dove l’acqua non è mai limpida e dove la terra non è mai solo terra. Sostanzialmente nel terzo romanzo questi intrecci saranno ben presenti. Ho cercato di fotografare i luoghi e metterli sulla pagina scritta, credo di essere più bravo a raccontare la psicologia dei luoghi rispetto a quella delle persone. Grazie al cielo ho una compagna psicoterapeuta, che nella terza indagine di Vivian dovrà darmi una mano.

Periscopio: Quando ci si può definire scrittore? Ad esempio io credo che chiunque abbia giocato con una maglia bianca e un numero scritto sulla schiena col pennarello può definirsi un calciatore, è la stessa cosa per chi scrive?

Marco: credo le due cose siano in parte sovrapponibili, anche se non possono essere fatte insieme: nel senso, se fai una non fai l’altra… il gioco, l’odore della canfora, il rumore dei tacchetti, mi manca come a un tossico manca la roba. Anche se, forse, mi sono disintossicato. Ho giocato fino al 2013, ho fatto una partita di calcetto all’Elba quest’estate, ma di solito dico sempre di no.

Abbiamo avuto tantissimi scrittori che facevano altro: operai, impiegati, esempi che io adopero molto spesso a scuola, per cercare di ricompattare la figura dell’intellettuale organico a chi fa qualcosa con le mani. Spesso chiedo ai miei ragazzi di immaginarsi un contadino che può fare lo scrittore, così come uno scrittore può arare la terra. Alcuni nostri vecchi insegnanti in maniera sprezzante e offensiva dicevano al meno bravo della classe “vai a zappare”, non sei buono per lo studio, creando quella frattura di cui parlavamo all’inizio tra il mondo del lavoro e quello intellettuale: una frattura che va ricompattata. Questo concetto cerco di trasmetterlo ai ragazzi a scuola.

Periscopio: La “missione” del Pci fino a quaranta anni fa era anche quella, insegnare ai cafoni a leggere, per avere opinioni, per poter aumentare la propria conoscenza, per poter ribattere al padrone…

Marco: Mao diceva che l’uomo doveva lavorare con le braccia e con la mente, l’immagine dell’intellettuale odierno è quella di una persona distaccata dalla realtà, in un salotto bene, gente che ha i soldi… ecco perché la cultura è ancora appannaggio delle classi privilegiate. I Wu Ming sono un esempio di intellettuali che cercano di ricomporre questa frattura, atavica, tra mondo del lavoro e cultura.

Periscopio: in conclusione, due parole sul rapporto tra letteratura e calcio.

Marco: forse vi deluderò, ma non mi sento un esperto di calcio. Non conosco i giocatori, i moduli, gli schemi, ma ho giocato tanto al calcio, sono stato un eroinomane di calcio, ho girato molto col pallone, ed stata per me una scuola, ho letto poco di calcio perché lo praticavo.

 

E la Spal? Non è calcio: è un’utopia in pantaloncini corti, ammantata dai colori del cielo.

 

Scritto con la collaborazione di Francesco Monini

 

 

Diario in pubblico /
In ospedale

 

In questi lunghi giorni passati all’ospedale di Cona per curare una forma non consueta di sarcoma, ho potuto osservare, apprezzare e condividere il delicato e spesso non appagante lavoro degli addetti: dal primario, ai medici, agli infermieri ai tecnici, fino a coloro che tengono puliti gli ambienti.

Vengo accolto da una gentile signora, che cambia aspetto a seconda dell’età che s’intuisce sotto la mascherina e ne ho ammirata una che esibiva con fierezza una capigliatura integralmente tosata ai lati e fieramente svettante sul cocuzzolo.

Immediatamente, proprio per combattere l’ansia che mi divora, cerco di trasformare in racconto ciò che sperimento. La prima volta sono ammesso alla presenza del ‘capo’, che cortesemente mi fa accomodare e rivela subito la conoscenza del mio lavoro e delle mie inclinazioni culturali.

Mi chiede senza ambagi se l’aiuto a montare una mostra di pittura ferrarese da esibire nei corridoi del reparto, che accompagni i pazienti-fruitori nel loro percorso al luogo dell’irradiazione. Accetto entusiasta, promettendo di interessare gli amici della LILT e delle altre associazioni medico-culturali, però (non smentendo la mia natura contrattuale) chiedo anch’io un grande favore, ovvero quello di essere spostato alla mattina invece che nel pomeriggio.

Gli racconto che il sonnellino post-prandium è così connaturato alla mia natura che, ai tempi dell’Università non ho mai frequentato le lezioni di latino che si tenevano alle 15, osando sfidare il grande studioso, divenuto poi collega e amico, cercando di arrampicarmi sugli specchi fino a buscare un “ritirato”, che avrebbe potuto macchiare il mio impeccabile libretto e la possibilità di mantenermi a Firenze con le borse di studio. Così per un anno dormii su Tito Livio, ma alla fine riscattai la dormitina con un altro 30 e lode.

Vengo fatto accomodare nella sala d’attesa; mi si assegna un numero che, una volta scandito al microfono, mi avrebbe condotto alla sala radiazioni. Nella sala d’attesa troneggia uno scaffale pieno di libri. Un cartello indica che si possono leggere, portarli a casa e sostituirli con altri e allora mi si apre il cuore. C’è un Arbasino che non avevo. L’ho cambiato con altri sei testi.

Infine risuona il mio numero. Trepidante m’avvio alla stanza accompagnato da una giovane allegra che mi chiama Giannantonio. La interrompo spiegandole che rifiuto quel nome e che avrei apprezzato di venir chiamato Gianni. Allegramente annuisce. Ora, dopo molte sedute, le ragazze e i ragazzi nel reparto fanno echeggiare un “ciao Gianni!” che mi inorgoglisce.

Infine, arrivo e mi si presenta quella che chiamo ‘la maschera di ferro’. Tumultuosi si affacciano i ricordi dei libri letti sull’argomento, specie quello di Dumas, che da ragazzetto mi intrigava al punto di tentare di leggerlo in francese nei miei primi anni giovanili.

Vengo sdraiato su un lettino sotto un tetto luminoso che fotografa un bellissimo ramo fronzuto con le foglie autunnali. Attorno a me si stringono diverse persone, tra cui un gigante dalla voce profonda dotato di meravigliosi zoccoletti di lavoro gialli.

Si appresta la maschera che già mi era stata confezionata: imponente, bianca, un poco mostruosa. Ma già alla prima seduta comincio ad averne fiducia, mentre interpellanze gentili chiedono cerotti e nastri adesivi; la musica in sottofondo trasmette le più recenti canzoni canticchiate da chi attorno procede alla sua collocazione. Dal basso profondo del gigante in zoccoli, alle voci femminili che rivelano provenienze regionali diverse.

Chiudo gli occhi e un gelido sacchetto mi viene posto sul cranio mentre il medico, come una partita di calcio, dà il via. Da lontano un misterioso rumore annuncia l’irradiazione, si fa più vicino, scarica i suoi benefici raggi e s’allontana, mentre un affrettato trapestio m’annuncia ciò che vien detto con affetto “Gianni, ora lo liberiamo”.

Così con delicatezza mi mettono in piedi e di nuovo insciarpato raggiungo l’uscita, pronto per il giorno dopo. È un’esperienza che potrebbe essere traumatica se non fosse per la preparazione, la cura di tutti che sfiora l’amore e mi rende orgoglioso di far parte di quella istituzione che è il servizio nazionale pubblico e che così vergognosamente viene trattato dalla politica.

Non dimenticherò questa esperienza e ancora dico grazie a chi svolge il proprio lavoro con consapevolezza e orgoglio.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Per certi versi/Come il Mar Rosso

Come il Mar Rosso 
Si apre il cielo
Come il Mare Rosso
E scappano dalle catene
Milioni di donne
E bambini
La manna che nevica
Sono piume di angeli
Fatte per volare
Sopra i confini spinati
Del mondo
Troveranno la loro pace
Il loro modo di vivere
Di vestire
Di sognare
Troveranno pane
Caldo
Sentieri musicali
Acqua
Libri
Questi gioielli
Portatili
Da abbellire
La mente
Alleggerire il cuore
Troveranno…
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Caso Soumahoro
Un lavacro per la coscienza corrotta della società italiana

“E’ nella natura dei mortali calpestare ancora di più chi è caduto”

Eschilo

 

La vicenda che ha investito Aboubakar Soumahoro e la sua immagine è un autentico lavacro per tutti i maneggioni italiani, i puttanieri, i trafficoni, i piccoli o grandi delinquenti con il colletto bianco o l’appellativo di onorevoli o amministratori segnalati al casellario giudiziale. Ed è una mangiatoia anche per i loro prezzolati cantori a mezzo stampa. In un paese, dal Parlamento alle circoscrizioni, immerso nel malaffare, nelle malversazioni, con un livello di evasione fiscale unico al mondo, segnato dai patti con la criminalità siglati da chi ha influenzato il governo e il costume italiano negli ultimi trent’anni, poter infamare il nero paladino dei diritti equivale ad un pantagruelico banchetto in cui tutti si possono abbuffare, con liberatorio corollario di rutti e pernacchie all’indirizzo dell’impostore.

L’indifferente se ne frega della sorte di quelli che stanno sotto di lui. Non gli interessa nulla di nessuno, a meno che non riguardi lui e la sua famiglia, percepita spesso come fosse una famigghia. Tutti gli altri possono andare a farsi fottere.

Se la coscienza ogni tanto gli manda una puntura di spillo, casi come quello delle cooperative della famiglia Soumahoro, che dichiara una vocazione al riscatto degli oppressi mentre (forse) essa stessa li sfrutta, tacitano ogni morso interiore: lo vedi? Siamo tutti uguali. Anzi, io sono meglio di loro, perchè non sono un ipocrita impostore.

Per questo la debolezza umana, l’errore, la superficialità sono imperdonabili per chi si erge o viene erto a simbolo di lotta contro l’ingiustizia. Soprattutto se la lotta prevede un impegno di riscatto degli ultimi dalla loro condizione. Se emerge la possibilità di mostrare che il difensore degli sfruttati è uno sfruttatore, l’amoralità dell’indifferente esulta. Se poi il difensore degli oppressi opprime proprio coloro che dovrebbe liberare, l’indifferente trionfa, banchettando sulle sue spoglie. Non parliamo poi dei trafficoni, dei delinquenti, dei puttanieri. In questo caso, ad essere legittimate non sono le intime amoralità, ma le loro azioni.

L’esempio conta più delle parole. Enrico Berlinguer, come lui era, per un militante contava molto più della parola “comunismo”. Sandro Pertini, come lui era, contava per un cittadino più della parola “partigiano”. Se l’esempio è negativo, le parole (e persino le azioni) più oneste e condivisibili vengono irrimediabilmente sporcate dal fango. Che un Berlusconi abbia corrotto giudici, pagato parlamentari, messo su un giro di prostitute, alcune minorenni, non è percepito così grave da una parte della popolazione, perchè coerente con l’idea intima che si ha della persona. Che poi la stessa parte della popolazione provi ammirazione per quel tipo di persona, è un fatto che Ennio Flaiano descrive in maniera insuperabile a proposito del carattere degli italiani.

Vicende come questa inquinano e devastano il territorio dell’immaginario molto più nel profondo di quanto appaia. Il fango schizza addosso a tutti coloro che, coi loro limiti, le loro imperfezioni e debolezze, lavorano per una qualche forma di “giustizia sociale” – e il fatto che, nello scriverla, trovi l’espressione retorica, restituisce lo strame che è stato fatto di certe idee.

Da questa vicenda si ricavano due (inascoltate) lezioni.

La prima: chiunque, anche il migliore dei rivoluzionari, dovrebbe schivare come il demonio l’ipotesi di diventare il totem di un culto, anche il più nobile. I totem hanno un destino comune: quello di essere abbattuti.

La seconda: chi fa propaganda della sua lotta, deve essere più irreprensibile degli altri. Altrimenti, più viene portato in alto, più la caduta sarà rovinosa.

 

 

 

Presto di mattina /
Avvento di tenerezza

 

L’ombra della luce

L’ombra sta alla ferialità dei giorni come la luce alla festività. Ombra della luce è allora l’avvento, come pure la poesia: il dono di una benedizione attesa, un seme nella mano da sparpagliare nei solchi del quotidiano.

Scambio occhiate nervose
con l’uomo che vende
semi di cocomero a mia figlia.
L’ombra di un uccello passa
sopra le nostre mani.
Il venditore alza la frusta e
parte in fretta, dietro il vecchio cavallo
in direzione di Beersheba.
Mi offri di scegliere i semi che voglio.
Hai già dimenticato l’uomo
il cavallo
e anche i cocomeri e
l’ombra era qualcosa non vista
tra me e il venditore.
Accetto il tuo dono qui
sulla strada asciutta.
Allungo la mano per ricevere
la tua benedizione.
(Semi, Orientarsi con le stelle. Tutte le poesie di Raymond Carver, minimum fax, Roma 2016, 463)

Un feriale, quotidiano avvento − ho pensato − quello tutto dispiegato nell’opera poetica di Raymond Carver (1938-1988).

La quotidianità è il luogo in cui esso ha preso forma: un attendere a parole e a racconti fissando l’attimo passante nello scorrere dei giorni, senza pretese di stupire. Sulle prime si ha l’impressione siano parole radenti la banalità. Giorno dopo giorno, quelle stesse parole paiono invece segnate dal mistero latente in ogni cosa, oggetti, persone e avvenimenti raccolti nel momento del loro accadere.

Perché dire ‘quotidiano’ è come dire usuale, prevedibile, dimesso, proprio come paiono le poesie di Carver. Del resto, per dirla con le parole di madonna Fiammetta, in un racconto del Boccaccio, una poesia «semplicemente è di feriali vestimenti vestita». Una poesia in compagnia delle sue più nobili compagne, che «rifiutando li già voluti onori», trovi «umile, ne più bassi luoghi». Tale è stata anche l’esperienza poetica ed esistenziale dello scrittore Carver.

Fu segnato dall’inquietudine fin dalla giovinezza per le difficoltà materiali dovute alla povertà. Ciò non gli impedì tuttavia di coltivare la sua passione per la letteratura. Leggeva testi di Isaak Babel, Ernst Hemingway e Anton Čechov, ma anche Thomas Mann, Hermann Broch, Elias Canetti. All’inizio scriveva in qualunque posto si trovasse: in cucina, in garage, nella macchina parcheggiata. Poi ovunque la solitudine gli facesse compagnia.

Nel 1963 tra molte difficoltà riuscì a laurearsi. Passò attraverso l’alcolismo, ma ne uscì grazie all’incontro con la poetessa Tess Gallagher che divenne in poi sua moglie. Grazie a lei ottenne la cattedra di Letteratura inglese presso la Syracuse University, così da potersi dedicare anche alla scrittura. Arte che insegnò pure a molti apprendisti scrittori.

Suo è il testo Il mestiere di scrivere, un’iniziazione alla scrittura creativa attraverso il racconto della sua breve esperienza umana e letteraria (morì ancora giovane a 50 anni per una grave malattia). Nell’introduzione di Tess al libro leggiamo: «Quando soffriamo, torniamo sulle sponde di certi fiumi» (Czesław Miłosz). E secondo me, per Ray anche le poesie, come i fiumi, erano luoghi dove riconoscersi e guarire:

[…] A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua
e il vento che fischiava sulla cima degli alberi. Lo stesso vento
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po’ mi son lasciato immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire»
(ivi, 26).

Essenzialità, sobrietà, povertà del tracciato testuale non sono sinonimi di improvvisazione e trascuratezza. Nascono al contrario dalle continue rifiniture, cambiamenti che egli apportava ai testi per toglierne il superfluo e risaltare la prossimità, più prossima, tra parole e l’accaduto.

Come nella luna calante la limpidezza del cielo notturno fa intravedere anche la parte in ombra del disco lunare, così l’atto di scrittura che riduce al minimo la realtà per farla stare nelle parole, in un certo modo la eclissa, la oscura, sino a manifestarne non tanto la luminosità, ma la forma d’ombra.

Chissà cosa avranno pensato i vicini
vedendo una famiglia lasciare la casa
nel cuore della notte?
La lanterna che si muoveva dietro le finestre
senza tendine. Le ombre che si spostavano di stanza
in stanza raccogliendo le proprie cose in scatoloni.
L’ho visto di persona
come può ridurre un uomo la frustrazione.
Può farlo piangere, può fargli sfondare
una parete a pugni. Può fargli sognare
una casa tutta sua
alla fine di una lunga strada. Una casa
piena di musica, agio e generosità.
Una casa che non è stata ancora vissuta
(ivi, 124)

Così si sta nella poesia di Raymond Carver: come nell’ombra della luce. Il sublime della luce è presente attraverso e nella sua ombra, come la festività è presente nella ferialità del quotidiano quale suo principio e alimento.

Così lo ricorda la moglie e curatrice dei suoi testi Tess Gallagher: «Ray voleva innestare la lingua all’esperienza in tutta la sua tenace vitalità, nella sua crudezza» (ivi, 21).

Come eravamo saliti.
Strisciando alla cieca tra gli arbusti, scavalcando i tronchi caduti,
inoltrandoci tra i cespugli. Le ombre scendevano dagli alberi
ormai sulle rocce piatte ancora calde di sole. E anche i serpenti.
(ivi, 135)

E prosegue: «Ricordo un commento sulla vita e l’opera di Emily Dickinson in cui le sue poesie venivano descritte come scaturite in modo così diretto dalle esigenze dell’anima da infrangere persino il concetto stesso di poesia come prodotto strutturato della lingua…

Ray faceva sembrare ciò che è estatico una cosa comune, alla portata di tutti. Sapeva anche qualcosa di essenziale, che troppo spesso viene sacrificato a preoccupazioni minori: che la poesia non è semplicemente reticenza servita al posto di ciò che intendevamo dire. È un luogo dove essere aperti e riconoscenti, per fare spazio e accogliere quegli avvenimenti e quelle persone che più sono vicine al nostro cuore. “Te lo volevo dire”. E lo ha fatto» (ivi, 18; 26).

Così, seguitando la lettura, scopri l’ombra della luce vivente

Per addentrarti nel mistero dell’Avvento, come dentro una Poesia, occorre l’ostinazione di continuare a provare: perché leggere come scrivere, credere come sperare equivale a disegnare una finestra su un muro d’ombra, per poi provare ad aprirla.

“L’ombra della luce vivente” è una espressione molto cara alla monaca e mistica medievale Ildegarda di Bingen, dotata di una rara qualità visionaria. Nella sua simbologia l’ombra della luce è l’umanità, e viene utilizzata non già per affermarne l’inconsistenza davanti a Dio, ma per esprimere la sua origine. L’ombra non ha pertanto valenza negativa; piuttosto l’umanità e la mistica sono per Ildegarda ombra della luce vivente perché originate dalla luce increata, create e informate dalla luce inaccessibile in cui abita Dio:

«Si chiama ombra della luce vivente, e come il sole, la luna e le stelle si vedono nell’acqua, così le sacre scritture, i sermoni, le virtù e certe opere degli esseri umani mi si manifestano risplendendo come immagini in essa… Non posso assolutamente vedere che forma abbia questo splendore, allo stesso modo in cui non passò guardare fissamente la sfera del sole.

Tuttavia qualche volta riesco a scorgere in esso una luce diversa, che per me si chiama luce vivente. E quando vedo questa luce mi si sgombra la memoria di ogni tristezza e dolore e allora mi comporto come una ragazzina nella sua semplicità, e non come una donna anziana» (Michela Pereira, Ildegarda di Bingen, Verona 1917, 20).

L’assist a seguitare il cammino nell’ombra nei testi di Carver mi è venuto dal gesuita Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica e studioso del poeta, che in un’intervista ha dichiarato: «La poesia di Carver è una poesia che usa un linguaggio assolutamente ordinario, e quindi mi parvero all’inizio abbastanza banali. Cominciai perciò a leggere, un po’ stupito, quasi infastidito.

Però, continuando a leggere, mi resi conto che lì c’era vera poesia, cioè mi resi conto che i miei occhi, la mia mente, la mia attenzione erano incollati alla pagina: sentivo l’emozione che scaturiva da quel linguaggio tanto ordinario.

Rimasi sorpreso dalla forza che percepivo leggendo, da quei versi e dalla assoluta semplicità della parola, quello che Carver definisce understatement of emotion. (Eufemismo: quando qualcosa o qualcuno, un sentimento. un’emozione, un fatto vengono minimizzati rispetto al loro valore intrinseco per facilitare la comprensione della parola). Proprio questo patto profondo, direi quasi biografico, si stabilisce tra il lettore e lo scrittore, grazie a un linguaggio che non fa infrazione rispetto alla norma ordinaria né è particolarmente sperimentale. Sentivo che lì c’era della vita» (Pangea, Dialoghi, 22.5. 2022).

Scrivere per essere pronti alla tenerezza

Questa mattina c’è neve dappertutto. Lo notiamo entrambi.
Mi dici che non hai dormito bene. Ti confesso
che nemmeno io. Hai passato una nottataccia. «Anch’io».
Siamo straordinariamente calmi e teneri l’un con l’altra
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale.
Come se ognuno sapesse cosa prova l’altro. Anche se,
naturalmente, non lo sappiamo. Non lo si sa mai. Non importa.
È la tenerezza che mi preme. È questo il dono
che mi commuove e mi prende tutto questa mattina.
Come tutte le mattine
(ivi, 337).

Proseguendo ancora tra le righe de Il mestiere di scrivere. Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa, (Einaudi Torino 1997) la finestra nell’ombra ha dischiuso ancora il lume della tenerezza; si è aperta sopra: Meditazione su una frase di Santa Teresa, che fu l’ultimo discorso di Carver tenuto in pubblico, il 15 maggio 1988, in occasione della cerimonia in cui gli fu conferita la Laurea in Lettere honoris causa dall’Università di Hartford, Connecticut:

«C’è una frase negli scritti di Santa Teresa che, nel preparare questo discorso, mi è sembrata via via sempre più adatta all’occasione. È stata usata come epigrafe per una recente raccolta di poesie di Tess Gallagher, la mia cara amica e compagna che oggi è qui con me, ed è dal contesto di questa epigrafe che cito la frase.

Santa Teresa, questa donna straordinaria vissuta 373 anni fa, ha detto: “Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza”. Così espresso, questo pensiero è limpido e bellissimo. Lo ripeterò un’altra volta perché, in un sentimento portato alla nostra attenzione a questa distanza, in un’epoca che è sicuramente meno disponibile a sostenere questo importante collegamento tra ciò che diciamo e ciò che facciamo, c’è anche qualcosa di strano, di esotico: «Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.

C’è qualcosa che è più che misterioso, per non dire – perdonatemi – addirittura mistico, in queste parole… di “Tenerezza” – ecco un’altra parola che non sentiamo tanto spesso oggigiorno e specialmente in un’occasione pubblica e gioiosa come questa. Pensateci un attimo: quando è stata l’ultima volta che l’avete usata o l’avete sentita usare?

È altrettanto rara quanto l’altra parola, “anima”. Nel racconto di Cechov II reparto n. 6, c’è un personaggio di nome Mojsèjka, stupendamente delineato, che per quanto ricoverato nel settore dell’ospedale riservato ai malati di mente, ha assunto l’abitudine di praticare una particolare specie di tenerezza. Ecco cosa scrive Cechov: «A Mojsèjka piace rendersi utile. Porta l’acqua ai suoi compagni, li copre quando s’addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; ed è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra, che è paralizzato».

Parole che rimangono nell’aria come azioni: un lavoro da compiere

Così sorpreso e ammirato di questo supplemento di coscienza e di lume ho esclamato dentro: “Avvento, cammino di tenerezza; avvento: passante di valico dal dire al fare, al modo dell’ombra che risale alla sua luce vivente“.

Alla scuola di scrittura di Raymond Carver, questo sabato.

In dono: l’aura del suo lavoro.

Il mio lavoro

Alzo lo sguardo e li vedo incamminarsi
giù per la spiaggia. Il giovanotto
ha sulle spalle uno zaino con il bambino.
Questo gli lascia le mani libere
per poter prendere la mano della moglie
nella sua e dondolare l’altra. Chiunque può vedere
quanto sono felici. E intimi. E costanti.
Sono più felici di chiunque altro e lo sanno.
La cosa li rende allegri e modesti.
Vanno fino alla fine della spiaggia
e scompaiono alla vista. Ecco fatto, penso,
e ritorno a questa cosa che governa
la mia vita. Ma dopo qualche minuto
ecco che tornano a passeggiare sulla spiaggia.
L’unica differenza
è che hanno cambiato lato.
Lui è dall’altra parte ora rispetto a lei,
dalla parte dell’oceano. Lei, da questa parte.
Ma si tengono ancora per mano. Ancor più
innamorati, se possibile. E lo è.
Lo sono stato anch’io per tanto tempo.
La loro è stata una modesta passeggiata, quindici minuti
all’andata, quindici al ritorno.
Hanno dovuto farsi strada
tra gli scogli e aggirare grossi tronchi
sbattuti qui quando il mare ha fatto il matto.
Camminano in silenzio, lentamente, tenendosi per mano.
Sanno che l’acqua è lì, a due passi,
ma sono così felici che la ignorano.
L’amore sui loro volti giovani. La sua aura.
Magari durerà davvero per sempre. Se sono fortunati,
e buoni, e tolleranti. E attenti. Se riusciranno
a continuare ad amarsi senza risparmio.
E a essere sinceri l’uno con l’altro – soprattutto questo.
E lo saranno, naturalmente, lo saranno,
sanno benissimo che lo saranno.
Torno al mio lavoro. Il mio lavoro torna a me.
E il vento si alza un po’ sull’acqua.
(ivi, 209-220).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Storie in pellicola / C’mon C’mon 

Andiamo, forza! Basta esitare, avere dubbi, andiamo avanti per le nostre strade, pur con tanta fatica, perché le cose vanno molto diversamente da come ce le siamo immaginate. Proseguiamo, allora, testa alta e schiena dritta, in questo incredibile viaggio chiamato vita.

“Quando pensi al tuo futuro, come te lo immagini”? Questa la domanda che Johnny (un meraviglioso Joaquin Phoenix, lo ricordiamo da Joker…), noto giornalista radiofonico dal cuore tenero, pone ai bambini americani durante molteplici interviste realizzate spostandosi attraverso gli Stati Uniti. Imprevedibilità dell’esistenza, futuro non proprio idilliaco…

Mike Mills, ph Julieta Cervantes

Eccoci proiettati nel bellissimo film C’mon c’mon, di Mike Mills, un racconto on the road rigorosamente in bianco e nero, alla scoperta delle vite dei più giovani e della loro visione del mondo e del futuro. Che fa restare a bocca aperta, avvolti dalla meraviglia e dallo stupore del tenero e delicato legame che si instaura fra il giornalista e il giovane nipote Jesse (la rivelazione Woody Norman), al quale la sorella Viv (Gaby Hoffmann) chiede di badare mentre lei si prende cura del marito che soffre, da tempo, di disturbi mentali.

Woody Norman, ph Julieta Cervantes
Woody Norman, Joaquin Phoenix, ph Julieta Cervantes

Johnny è perso per la morte della madre e l’abbandono della donna amata, fatica ad aprirsi. Jesse ha solo otto anni ma è incredibilmente intelligente e sensibile, curioso e iperattivo ama giocare al fingersi orfano. Strano gioco. Durante il loro viaggio fra Los Angeles, New York, Detroit e New Orleans, tra zio e nipote si viene a creare un legame inaspettato e tenero, fatto di comprensione e complicità oltre che di grande affetto e amore. Un’esperienza unica che cambierà profondamente entrambi.

Woody Norman, Joaquin Phoenix, ph Julieta Cervantes
Woody Norman, Gaby Hoffmann, ph Tobin Yelland

Un viaggio che tocca i temi della paternità mancata, dell’importanza e difficoltà di essere figli, amici o genitori (nella sua bellezza entusiasmante, perché non esistono regole per essere bravi genitori), dei giganteschi punti interrogativi sul futuro nostro e del pianeta.

Tutto in un bianco e nero brillante che amplifica il senso di intimità della storia donandogli un’atmosfera senza tempo e confini. Una quotidianità che resta poetica, fatta di due anime che si vedono e ascoltano, pur faticando a raccontarsi, a volte quasi invertendo i ruoli.

Un affresco da sfiorare in punta di dita e di pensieri, un racconto intimo dai caldi toni d’acquerello da vedere con il fiato sospeso e pure con qualche lacrimuccia.

C’mon c’mon, di Mike Mills, con Joaquin Phoenix, Woody Norman, Gaby Hoffmann, Jaboukie Young-White, Elaine Kagan, Scoot McNairy, Mary Passeri, Brandon Rush, Kate Adams, Molly Webster, Deborah Strang, USA, 108 min.

 

Immagine in evidenza Joaquin Phoenix, Woody, Norman Courtesy of A24

ACCORDI
Non s’ammazza così neanche un cane

Crime of the century (Supertramp, 1974)

L’uomo camminava incerto tra le macerie, era legato ai polsi e il suo carceriere lo seguiva puntandogli il kalashnikov alla nuca. L’uomo non pensava a nulla, solo a ciò che gli sarebbe accaduto di lì a poco.

Sapeva che la sua vita era alla fine, che non avrebbe più rivisto sua moglie e suo figlio. Sapeva che avrebbero gettato il suo corpo in una fossa comune e che non l’avrebbero più trovato.
Sapeva già tutto anche se nessuno gli aveva detto nulla.
In questa guerra maledetta se ti fanno prigioniero sei finito, e la cosa migliore che ti può capitare è quella d’essere ammazzato in fretta. Questo sapeva.

Ma lui era stato torturato.
I suoi aguzzini erano due ragazzi dell’età più o meno di suo figlio. Lo torturavano e se la ridevano tra loro mentre ascoltavano musica metal a tutto volume così da coprire le urla dell’uomo.
Per due giorni gli martoriarono le carni con un rasoio e con una tenaglia gli strapparono le unghie delle mani, poi passarono ai genitali colpendoli con un martello. L’uomo era svenuto più volte sopraffatto dal dolore, e ogni volta era stato svegliato con una doccia d’acqua gelida.
Non cercavano informazioni e non lo sottoposero ad alcun interrogatorio, la tortura non serviva a questo scopo, era solo uno sfogo d’odio, nulla di più di questo.

Trascorsi due giorni le torture cessarono: un ufficiale anziano era entrato nella stanza e, dopo aver constatato le condizioni del prigioniero, aveva ordinato ai due giovani soldati di smetterla.
I suoi carcerieri non volevano che morisse al chiuso di una camera della tortura per un banale infarto: la sua morte doveva essere pubblica e la sua esecuzione doveva servire da esempio e da monito per tutti i nemici della patria.

L’uomo camminava verso il suo patibolo e lo sapeva. Ciò che non sapeva era come sarebbe morto, del resto gl’importava poco, sperava solo che fosse una cosa rapida…

Biondo, occhi azzurri, ad appena sedici anni ti ha già superato in altezza. Somiglia a sua madre ed è un bravo ragazzo. Ancora non sa bene cosa vuol fare ma gli piace lavorare il legno, e magari potrebbe darti una mano in bottega quando tornerai… però non tornerai.
Ma lui e sua madre sono al sicuro oltre confine e per te questa è l’unica cosa che conta.

Da quando ti hanno catturato non hai mai chiesto pietà. Non è stato per l’onore o per stupido orgoglio, è stato per un semplice senso di pudore. Hai ammazzato tanti uomini senza nemmeno sapere chi erano, se avevano figli, genitori o mogli. Erano semplici nemici e questo t’è bastato.
In guerra uccidere è normale, è come prendere l’autobus per andare a lavorare. È necessario, punto!
E nel conto ci metti pure la tua morte. Lo sapevi quando hai accettato di andare a combattere in una terra non tua. Conoscevi il rischio.

T’hanno convinto perché dicevano che la tua stessa famiglia era in pericolo, che se non fossi andato tu a casa del nemico sarebbe venuto lui da te a violentare tua moglie e ammazzare tuo figlio. Questo dicevano.
T’hanno insegnato un odio che non avevi, più efficace di qualunque arma.
E ora, a un passo dalla morte, hai perso tutto: le armi, il coraggio, persino l’odio per i tuoi carnefici.

«T’ammazzeremo come un cane!» gli gridò alle spalle il soldato col kalashnikov. Era la prima volta che qualcuno gli rivolgeva la parola. Tutti s’erano sempre limitati a guardarlo, picchiarlo e torturarlo parlando soltanto tra loro. E lui leggeva il loro disprezzo ma non ricambiava.

L’uomo arrivò in un grande spiazzo circondato da case semidistrutte, con un calcio sopra il polpaccio il suo carceriere lo bloccò facendolo inginocchiare. Altri tre uomini lo sdraiarono a terra legandogli polsi e caviglie con delle funi collegate a due argani…

Schiena a terra e occhi al cielo. È la prima volta dopo tanti giorni passati legato a una sedia che ti senti quasi comodo. Le ferite sparse in tutto il corpo bruciano ma, in qualche modo, il freddo ne affievolisce il dolore. Resta il tempo di guardare le nuvole grigie che si trasformano nei volti di tua moglie e di tuo figlio. Ti sorridono.
Scopri che almeno per loro sei stata una brava persona. Scopri che almeno per loro è valsa la pena d’aver vissuto. Scopri che la cosa più bella che hai provato è stato l’amore ricambiato.
E ora i tuoi nemici ti augurano l’inferno senza sapere che dall’inferno, finalmente, ti stanno liberando. Così guardi il cielo, sorridi e chiudi gli occhi.

I carnefici azionarono gli argani elettrici e le funi si tesero velocemente divaricando e distendendo le gambe e le braccia dell’uomo. Pochi secondi e tutti gli arti s’allungarono fino a dislocarsi, muscoli e tendini si strapparono, la pelle si lacerò. Pochi secondi e, con uno schiocco sordo, braccia e gambe si staccarono dal tronco.

Ma lo spettacolo riesce a metà: nessuno dei carnefici presenti sentì l’uomo urlare.
Lui era già morto prima che le macchine lo smembrassero. E sul suo volto non videro nessuna smorfia di terrore, solo un sorriso.

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Parole a capo
Stefano Agnelli: “Pianura” e altre poesie

Le stelle sono buchi nel cielo da cui filtra la luce dell’infinito.
(Confucio)

Cercarti nel silenzio del sonno
quando l’aria notturna accompagna
parole che hai lasciato ad altri.
Inseguo piccoli risvegli
lucidi istanti di confine
del tempo che ci separa.
Sapessi il tuo nome potrei
dipingere tra i lini il tuo corpo
baciare piano le tue labbra.
Nuvole alte svaporano dal cielo
un’alba ancora incerta del giorno
si consuma in un vocio d’esistenze.

***

Perdo ogni notte
tempo come avessi tempo
dimentico
mendico
gioia non mia
cerco tra voci la tua,
calda marea d’agosto.
Sosto d’amore accaldato
ai piedi di cento finestre,
accento da gatto randagio
rincaso adagio
scrivo ancora e ancora
pur di tenerti con me.

***

Momenti rubati
ai tuoi occhi scuri
nell’intreccio lucente
di capelli raccolti.
Un fermaglio
ultimo cade
lasciandoti nuda
al mio sguardo,
quando la mano
sognando sfiora
la tua pelle d’estate
un pensiero d’amore profondo
tra di noi quieto rimane.

***

Persiane socchiuse
sul finir dell’estate
un frinir di aduse
cicale beate.
Tra fresche lenzuola
di ruvido lino
dal tepore del vino
accaldato
l’intrecciato dono
due corpi sfiniti
in odor d’abbandono.

***

Lasci un sentore d’amaro
pomeriggio ruvido e vuoto.
Bruciano pensieri riarsi
non calore, ma luce
taglia il giorno che suda
nebbia dai cortili deserti.
Né spero, né vivo oggi
soltanto rido
folle di tedio.

***

Pianura

Campi di grano, vicini frutteti
maceri, d’alberi attorniati
stradoni e fossati
di nebbie a pareti
come sposi vestiti
esausti riposano,
ultimi superstiti
d’un giorno lontano.
Poi
Danzano sotto il sole cocente
al suono di mille fisarmoniche.
Zirlano armoniche
cinque merli dal niente,
la tristezza lontana
scopre strade d’asfalto
e la sera matana
nella piana fa salto.

Stefano Agnelli è nato a Codigoro (FE) nel 1964. Si è laureato in Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna. Attualmente insegna nella scuola secondaria di secondo grado e collabora con “Il giornale di Rodafà, rivista online di liturgia del quotidiano”. Ha pubblicato due libri di poesie: “La stagione del sonno fecondo”, Corbo, Ferrara, 2007 e “Turno di notte”, Albatros, Roma, 2011.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Cinque presidenti senza Stato (1985-2022)

 

Ne parla diffusamente Marzio Breda, giornalista del Corriere della Sera da oltre quarant’anni, nel saggio con cui ha vinto in settembre la 58ª edizione del Premio Estense. Capi senza stato è il titolo “furbo”, come lo definisce lui, con cui ha sbaragliato concorrenti importanti come la scrittrice Dacia Maraini e il direttore di La Repubblica Maurizio Molinari.

Caso davvero raro per me, negli ultimi due mesi l’ho incontrato due volte, prima e dopo la sua proclamazione come vincitore del Premio, in più ho seguito su Youtube l’incontro che ha avuto giovedì 24 novembre al Teatro Nuovo di Ferrara, dal titolo Premio Estense Scuola – Marzio Breda incontra gli studenti.

Ho anche letto Capi senza stato e ho diligentemente preso appunti, soprattutto durante la diretta dal Teatro Nuovo che è durata due ore. Breda non è stato zitto un minuto, non ha bevuto un sorso d’acqua e non ha perso il filo del discorso nemmeno una volta, immerso nei meandri degli aneddoti o delle considerazioni che andava facendo con andamento spiraliforme.

La mia senza dubbio è stata un’esperienza di lettura diversa dalle altre: il libro resta al centro del circuito comunicativo a cui ha dato vita, ma nell’incontrare l’autore altri due aspetti sono diventati oltremodo importanti.

Il primo riguarda l’aspetto umano. Breda si è rivelato, oltre che un giornalista o meglio un quirinalista di prim’ordine, anche una persona generosa di sé nel dialogo, gli è bastato un la per aprire l’immenso scrigno delle sue conoscenze e farle defluire con convinzione verso gli ascoltatori.

Che brio, però, la seconda volta, quando poteva parlare da vincitore del Premio. La soddisfazione di avere vinto l’Aquila D’oro ha agito come un lievito. Che ricchezza di aneddoti sui cinque ultimi presidenti della Repubblica Italiana, da Cossiga a Mattarella, e sulle mogli, ove ci fossero episodi curiosi. Come nel caso di Franca Ciampi, prima assoluta per vivacità relazionale negli incontri ufficiali del marito, al Quirinale o all’estero.

Capi senza stato è un saggio non facile. Per quanto ne conoscessi già la struttura, cinque parti dedicate ognuna a un Presidente, per quanto sapessi quale tesi intendesse sostenere l’autore, ho faticato ad avere chiaro davanti a me il quadro così complesso della vita politica italiana che ciascun Capo di Stato ha avuto attorno a sé.

Il quadro è quello della crisi di sistema che ha investito l’Italia da almeno trent’anni. La tesi del libro è esposta con chiarezza già nel capitolo introduttivo e ruota intorno a questo: il ruolo del Presidente è profondamente cambiato da Cossiga in poi; con lui è finita “l’epoca dei presidenti taglianastri, certificatori silenziosi delle scelte dei partiti”.

Cossiga e i suoi successori, dovendo fronteggiare la “transizione politica, economica e sociale” che ha preso avvio nel 1990 e che risulta “ancora irrisolta”, hanno di fatto allargato la “fisarmonica” delle prerogative riservate loro dalla Costituzione, assumendo una funzione cruciale nei confronti del Paese, con obiettivi e modi diversi.

Cito ancora dalla introduzione: “C’è chi ha fatto il profeta della catastrofe, come Francesco Cossiga, e chi l’antagonista delle prime forme di populismo e sovranismo, con l’avvento di Berlusconi e della Lega, come Oscar Luigi Scalfaro.

Chi ha voluto rianimare il patriottismo costituzionale, come Carlo Azeglio Ciampi, e chi è stato sollecitatore di riforme impossibili perché imposte dall’alto, come Giorgio Napolitano. Infine, chi ha predicato un’idea di Stato-comunità in un paese tormentato dalle divisioni, come Sergio Mattarella”.

Ora che gli istituti superiori di Bologna, Ferrara e Modena possono mettersi al lavoro e predisporre un elaborato originale da inviare alla giuria del 28° Premio Estense Scuola, mi interrogo su quante e quali difficoltà potranno incontrare nella assimilazione dei contenuti di Capi senza Stato. Nel concepire le logiche dei comportamenti assunti negli ultimi trent’anni dai partiti e dagli altri soggetti che incarnano le nostre istituzioni.

Andrea Pizzardi, che presiede la giuria ed è vicepresidente di Confindustria Emilia, ravvisa nella lettura di questo libro un’ottima opportunità che gli studenti hanno di scavalcare la cronaca sul presente per accedere all’orizzonte più ampio della storia politica del nostro paese.

Lo stesso Breda ha indicato come obiettivo del saggio la volontà di dare un valore sistematico ai passaggi storico politici a cui ha assistito come giornalista. Essere consapevoli di ciò che si verifica oltre la dimensione del presente, crescere come cittadini dotati di senso critico: questa la finalità che i ragazzi devono perseguire aderendo alla edizione 2022-23 del Premio.

Vengo allora al secondo aspetto della presentazione del libro che mi ha colpita. Ed è la profondità delle riflessioni emerse nel dibattito al Teatro nuovo, soprattutto grazie alle domande che hanno rivolto a Breda alcuni studenti di Istituti della provincia, come il Montalcini di Argenta, e di Ferrara, come il Dosso Dossi. Niente a che vedere con le richieste di aneddotica avanzate in precedenza dal pubblico ‘adulto’.

Ragazzi e ragazze sono saliti a uno a uno sul palco, si sono presentati e con uno studiato linguaggio formale hanno posto una o più domande del tipo: “Quale aggettivo sceglierebbe per definire con una sola parola ognuno dei cinque presidenti di cui tratta il suo libro?” “Un Capo di Stato deve leggere ‘opere politico-morali’ come il Principe di Machiavelli e possedere una cultura vasta?” “Sarebbe applicabile il semipresidenzialismo oggi in Italia?”

Breda si compiace del tenore delle domande, le sue risposte sono oro per me, che ho bisogno di rinforzare la mappa dei contenuti dopo una sola lettura del suo libro. Chiarisce che a ogni Presidente si può associare una espressione-chiave che ne riepiloghi l’operato e riprende i brevi titoli contenuti nel libro in ognuna delle cinque parti.

Un esempio: Ciampi è stato “il defibrillatore della crisi di sistema” col suo “carisma passivo” e la “lotta a colpi di passato”,  perché gli Italiani si ritrovassero “in una storia comune”. Dice che sì, i Presidenti sono uomini di vasta cultura, in particolare Cossiga e Ciampi; fino dagli anni del liceo hanno bruciato le tappe del loro percorso scolastico e hanno acquisito nel tempo una cultura sterminata.

Per rispondere al quesito sul semipresidenzialismo riprende i momenti salienti della grande crisi italiana: la spietata guerra contro la mafia dal 1992 e l’inchiesta di Mani pulite che, a partire dallo stesso anno, porta allo scoperto la corruzione dilagante del sistema politico, il crollo dei vecchi  partiti nel 1993 e la nascita l’anno dopo di nuovi soggetti politici, dai primi anni 2000 la grave crisi economica e il difficile rapporto dell’Italia con la Unione Europea.

Breda suggerisce alle scuole che vogliano partecipare al Premio Estense di cominciare dal quadro di questa crisi e dal guado in cui ancora il paese è impantanato. È necessario domandarsi come mai non ne siamo ancora usciti e dà la sua risposta: è mancata la capacità di riformare le istituzioni per mettere in sicurezza il paese. Dunque il semipresidenzialismo va affrontato con avvedutezza istituzionale e con attenzione al bilanciamento dei poteri.

Se i cinque Presidenti, di cui parla il libro, hanno sopperito al vuoto lasciato dalla inconsistenza della politica dei partiti, lo hanno fatto nel tentativo di “garantire la stabilità, e in qualche caso la salvezza dell’Italia, come ha fatto Mattarella, alle prese con i disastri della pandemia e della crisi economica”. Spesso contrastati dagli altri poteri.

Il titolo Capi senza stato mi pare che riveli allora, non solo la profonda conoscenza del quirinalista, che si onora di avere intrattenuto rapporti di amicizia personale con i presidenti, ma anche la sua amarezza. Siamo ancora nel guado e la figura di garanzia che ci dà un po’ di stabilità, Mattarella che va a Genova e abbraccia i parenti delle vittime del ponte Morandi (per dirne una) vive e opera in solitudine.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

TERZO TEMPO
Il lancio del sedano

Da circa quattordici anni è vietato portare anche un solo gambo di sedano sugli spalti di Stamford Bridge, stadio del Chelsea. Può sembrare un’assurdità, eppure la proibizione di tale ortaggio è stata l’inevitabile conclusione di una vicenda cominciata più o meno a metà degli anni ’80, cioè quando gran parte della tifoseria del Chelsea iniziò a lanciare gambi di sedano sul terreno di gioco. L’origine di quest’abitudine è ancora discussa: c’è chi sostiene che sia opera del settore più a sud dello stadio, ossia lo Shed End, e chi, invece, associa il lancio dell’ortaggio a un coro piuttosto goliardico, la cui versione originale era intitolata Ask Old Brown to Tea [Qui].

“Ask old Brown to tea, and all his family,
if he don’t come, we’ll tickle his bum with a lump of celery.”

Insomma, pare che qualche tifoso abbia preso spunto da queste parole per introdurre l’attuale e popolarissimo Celery, Celery, coro che, tra l’altro, contiene un evidente riferimento sessuale [Qui]. Al di là di queste ipotesi, sta di fatto che il lancio del sedano dagli spalti è stato il segno distintivo della tifoseria del Chelsea fino al 2007, anno in cui il club londinese lo vietò in seguito a un paio di episodi tutt’altro che edificanti, verificatisi peraltro in trasferta – non a Stamford Bridge, quindi. Il primo episodio risale alla semifinale di FA Cup del 14 aprile 2002, durante la quale cinque tifosi del Chelsea vennero arrestati per aver lanciato dei gambi di sedano all’indirizzo dell’allenatore del Fulham Jean Tigana. Qualche anno più tardi, invece, l’ortaggio in questione colpì il centrocampista dell’Arsenal Cesc Fàbregas nel bel mezzo di un altro derby londinese, cioè la convulsa e lunghissima finale di League Cup 2006/2007, conclusasi sul 2-1 in favore dell’undici di Mourinho. Così, il 16 marzo del 2007 il Chelsea pubblicò il seguente comunicato.

“The throwing of anything at a football match, including celery, is a criminal offence for which you can be arrested and end up with a criminal record. In future, if anyone is found attempting to bring celery into Stamford Bridge they could be refused entry and anyone caught throwing celery will face a ban.”

Tuttavia, il lancio del sedano è proseguito, e prosegue tutt’oggi, al di fuori di Stamford Bridge, e in particolare ai raduni pre-partita o ai festeggiamenti per le strade di Londra. Per farsi un’idea di tutto ciò, basta dare un’occhiata a questa breve intervista, nella quale è possibile ascoltare un ulteriore aneddoto sulla nascita del coro Celery, Celery.

Parole e figure / Il piccolo François Truffaut

Parigi, quartiere variopinto di Pigalle, i tetti parigini che tanto hanno ispirato cinema e letteratura. Una luce soffusa illumina l’ambiente, un tepore che invita all’ozio. Qui un bambino timido, gracile, delicato ma curioso e a volte euforico, legge per ore intere, per non far rumore, per non disturbare. È François. Con i libri, la sua immaginazione viaggia, vede luoghi lontani, paesaggi meravigliosi, personaggi strampalati. Ama tre libri in particolare, ne mescola storie e finali, un modo per passare da una vita a un’altra.

Quando esce di casa esplora strade e viali, con l’amicoamicoamico Robert, la città dalle mille luci gli appartiene. Magari, invece di andare a scuola, meglio infilarsi in un cinema e perdersi nella profondità dello schermo, tanto più che proiettano Les visiteurs du soir (in italiano L’amore e il diavolo, film ambientato nel tardo Medioevo e sceneggiato niente di meno che dal grande Jacques Prévert). Siamo nel 1942.

Il nostro François, che è François Truffaut, ha dieci anni e si ammala, prende una malattia contagiosa che si chiama Cinema. Da essa non si guarisce, mai.

“Un uomo si forma tra i sette e i sedici anni. Poi vivrà di tutto ciò che ha assimilato tra queste due età”, ha detto lo stesso Truffaut. E niente più del cinema illuminò quel periodo di crescita e di formazione oggi raccontato in una delicata biografia illustrata del grande regista francese maestro della Nouvelle Vague, François Truffaut. Il bambino che amava il cinema, Kite Edizioni, scritto da Luca Tortolini e illustrato da Victoria Semykina.

L’albo illustrato è vincitore del Premio Andersen 2021, “per illustrazioni briose ed eleganti, nervose e musicali, sempre contrassegnate da un sicuro possesso delle tecniche. Per un dialogo avvincente e serrato che pagina dopo pagina si dipana fra la storia e le immagini. Per l’efficacia narrativa di un testo sincopato e incisivo”.

Il volumetto ripercorre, con delicatezza, le fughe del piccolo François al cinema, nelle cui sale cariche di sogni e segreti si intrufola, con l’inseparabile e fedele amico Robert, accedendovi dalle finestre del bagno o nascondendosi tra gli spettatori che escono, perché ahimè quei curiosi ragazzini non hanno i soldi per il biglietto d’ingresso. Libri e pellicole sono un rassicurante rifugio.

Quell’imparare a memoria le battute dei film, ricordarne le trame e i costumi e raccogliere ritagli di giornali che parlano di cinema sono e diventano la sua linfa vitale quotidiana. “Era un mondo che andava formandosi articolo dopo articolo. La vita era diventata schermo”, si legge nel libro, e d’un fiato. Quella vita era complessa, pochi soldi e tante difficoltà, molte contraddizioni, molti ostacoli, la necessità di cavarsela da soli, di essere liberi e indipendenti. Ma anche dal terreno più difficile sboccia un fiore.

Da quella difficile infanzia, fatta anche di punizioni per un’indole caparbia, François emerge: inizia a scrivere di cinema su giornali e riviste, inizia a guadagnarsi da vivere, difendendo film ma anche criticandoli, con forza ed eloquenza si costruisce una solida reputazione.

Finché, a ventisette anni, nel 1959, dirige il suo primo lungometraggio Les quatre cents coups, con protagonista l’alter ego Antoine Doinel (I quattrocento colpi. Non a caso, quest’espressione francese faire les quatre cents coups corrisponde al modo di dire italiano “fare il diavolo a quattro”, o meglio ancora, in questo caso, “combinarne di tutti i colori”, “esser turbolento, ribelle”).

Non può fallire, ha paura ma è un grande giorno. E qui inizia tutta un’altra storia. Quella di un inconfondibile e impareggiabile Maestro.

Luca Tortolini è scrittore, sceneggiatore e docente, e vive a Macerata. Oltre a François Truffaut. Il bambino che amava il cinema, è autore di diversi libri, tra cui Le case degli altri bambini (Orecchio acerbo, Menzione Speciale Opera Prima al Bologna Ragazzi Award 2016) e Il giardino più bello (Il Castoro). Ama i gatti, i giardini e i libri. Scrivere, leggere e ascoltare storie lo rende felice. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue.

Victoria Semykina è un’illustratrice nata a Mosca nel 1980 ma dopo tanti viaggi ha deciso di fermarsi e ora vive a Bologna, dove si è laureata all’Accademia di Belle Arti. Quando viveva a Mosca, la sua casa si trovava in un quartiere industriale, l’ambiente era caratterizzato dal grigiore delle fabbriche e da nove mesi d’inverno. Quando a cinque anni visita per la prima volta il Mar Nero scopre un’atmosfera soleggiata e profumata che le torna alla mente. Dal suo studio di Bologna realizza le illustrazioni pubblicate in libri, riviste e pubblicità. Ha lavorato, tra gli altri, per Penguin, Anderson Press, Walker Books, De Morgen, Oxford University Press, Bonnier. In ogni sua immagine si trova un intricato miscuglio di acquerello, tempera, inchiostro, collage e, talvolta, digitale

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Brasile: raddoppiate in un anno le manifestazioni neonaziste

di Glória Paiva
giornalista brasiliana e traduttrice sulle elezioni presidenziali 2018 in Brasile

(pubblicato su Pagine Esteri, 25 novembre 2022 )

– Il 1 aprile 1933, il regime nazista organizzò la prima azione coordinata contro gli ebrei in Germania, che divenne nota come il “Judenboykott”, il boicottaggio a gli stabilimenti di proprietà ebraica. Secondo i portavoce nazisti, i tedeschi “puri” non dovevano frequentare negozi, ristoranti, studi medici, avvocati o altri studi professionali ebrei.
Secondo l’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti, il boicottaggio era basato sull’idea che gli ebrei avessero “troppa influenza” nell’economia e che fossero i colpevoli della Grande Depressione. Per tutta la giornata, con le liste delle vittime in mano, i nazisti hanno marciato scandendo slogan antiebraici, disegnando sulle vetrine la stella di David e la parola “jude”, appendendo cartelli e intimidendo proprietari e clienti.

Ottantatré anni dopo, quel tragico episodio trova un’eco familiare dall’altro lato dell’Atlantico, con nuovi attori e nuove tecnologie. Alcuni giorni dopo la vittoria di Luís Inácio Lula da Silva al secondo turno delle elezioni presidenziali, la BBC Brasile ha denunciato la diffusione di una serie di “liste di elettori del PT” (Partito dei Lavoratori), cioè elenchi di professionisti, stabilimenti e istituzioni che presumibilmente sostengono Lula. Le liste, create e diffuse da militanti bolsonaristi, vengono condivise in gruppi su Whatsapp, Telegram o sui profili Twitter e Instagram, al fine di boicottare gli elettori di Lula.

Dai bar a chirurghi plastici e a dipendenti pubblici, il servizio della BBC Brasile ha denunciato casi come quello di Monika Ganem, parrucchiera a Maringá (stato del Paraná) che ha ricevuto una telefonata da una cliente chiedendole se stesse “lavorando per Lula”. “Mi sentivo come se fossi nell’inquisizione o nella dittatura militare”, ha detto Monika. Il reportage ha raccontato anche storie come quella di un ristorante di San Paolo che ha avuto le sue foto pubblicate su un social network filo-bolsonarista insieme a dei messaggi di odio e numerose offese.

Il fenomeno delle “liste del PT” non è un fatto isolato e si accompagna ad altre forme di manifestazioni e violenze di carattere politico, razzista, xenofobo e classista, da omicidi durante delle discussioni a sfondo politico agli attacchi ai lavoratori del Movimento Senza Terra da parte di gruppi della estrema-destra. In uno di essi,  hanno inciso sui muri del Centro di Formazione Paulo Freire a Caruaru (stato del Pernambuco) il simbolo della svastica e hanno dato fuoco alla casa della coordinatrice dello spazio.

Nelle città di Porto Alegre e San Paolo, nell’ultimo mese, sono diventate note le dichiarazioni di studenti sui social che prendevano di mira la popolazione del nord-est del paese (regione decisiva per la vittoria di Lula) e gli studenti neri. “Voglio che questi nordorientali muoiano di sete”, ha condiviso uno dei membri di un gruppo Whatsapp di una scuola di Valinhos (SP), in cui anche gli altri partecipanti hanno inviato foto e meme di Adolph Hitler. Il gruppo è stato chiamato “Fundação Anti Petismo” e ha organizzato una protesta addirittura nella scuola contro i risultati del secondo turno delle elezioni presidenziali.

Allo stesso tempo, dal 31 ottobre si verificano atti antidemocratici sulle autostrade e nelle prossimità delle caserme delle forze armate in tutte le regioni del Brasile. I manifestanti rifiutano il risultato delle elezioni e chiedono “un intervento militare”, alcuni con passeggiate pacifiche, altri con metodi violenti come bombe fatte in casa, olio versato sulle autostrade, pietre lanciate e pneumatici in fiamme. In una di queste proteste, i sostenitori del presidente uscente, nel mentre bloccavano una strada a Santa Catarina, sono stati ripresi mentre facevano il saluto nazista. Secondo un reportage del quotidiano Estado de São Paulo, politici, agenti di polizia, sindacalisti e capi dell’agro-business incoraggiano le proteste e le finanziano.

L’idea di un intervento delle forze armate e il sentimento di un patriottismo violento, bianco, cristiano e patriarcale contro minoranze, nordorientali, antifascisti, donne e neri, hanno trovato risonanza e si sono nutriti dell’ideologia bolsonarista negli ultimi quattro anni. Le enormi campagne di disinformazione orchestrate dall’estrema destra hanno diffuso i principali messaggi di questa ideologia attraverso le reti sociali creando grandi bolle informative.

Gli studi rivelano una crescita significativa di gruppi, comunità virtuali e manifestazioni di carattere neonazista in tutto il paese. Secondo una delle principali ricercatrici sull’argomento, l’antropologa Adriana Dias, le cellule neonaziste sono più che raddoppiate, passando da 530 nell’ottobre dello scorso anno a 1.117 a novembre 2022. I gruppi sono presenti in 298 città brasiliane e lo stato di Santa Catarina, nel sud, è quello che concentra maggiormente questo movimento, con 320 cellule.

La ricercatrice riferisce di aver individuato 55 tipologie di correnti di pensiero e linee di azione. “C’è un gruppo brasiliano che difende il ritorno dell’apartheid in Sudafrica. Ci sono cellule di sostenitori del Ku Kux Klan e persino neo-confederati, movimenti degli Stati Uniti che hanno ripercussioni in Brasile. La maggior parte dei gruppi sono hitleriani e negazionisti dell’Olocausto”, afferma.

La maggior parte di questi gruppi, dice Dias, opera via internet. Tuttavia, in alcuni casi, le sue attività vanno aldilà dei limiti del virtuale. Il 14 novembre, un’operazione di polizia a Santa Catarina ha interrotto una riunione in cui otto uomini facevano apologia di nazismo. Uno degli arrestati indossava una cavigliera elettronica perché era già stato responsabile per la morte di un cittadino di origine ebraica. Successivamente, il gruppo avrebbe inviato una lettera alle autorità locali chiedendo l’annullamento di una fiera culturale con immigrati haitiani, l’espulsione di neri ed ebrei dallo stato e la liberazione degli otto arrestati – altrimenti, minacciavano, avrebbero compiuto un attacco terroristico, che fino ad ora non è avvenuto.

Secondo Adriana Dias, il neonazismo ha iniziato ad avere registri statistici in Brasile negli anni ’80 ed è cresciuto negli anni 2000 con gruppi revisionisti dell’Olocausto, principalmente nel sud del paese, che è stato in gran parte colonizzato dai tedeschi. Nel 2021, è stata la stessa antropologa a trovare una lettera di Jair Bolsonaro pubblicata su pagine neonaziste nel 2004. Nel 2011, i neonazisti di San Paolo hanno organizzato un atto pro-Bolsonaro. Per l’antropologa e altri specialisti, il bolsonarismo ha una forte relazione con la forte crescita di questi gruppi, in particolare negli ultimi quattro anni.

La strategia di comunicazione di Bolsonaro, sostiene Dias, oscilla tra due livelli. Da un lato, un discorso cristiano e fondamentalista rivolto al suo elettorato evangelico e conservatore, che crede in un Israele apocalittico e al secondo arrivo di Cristo. Dall’altro, un reiterato revisionismo storico segnato da messaggi pro-dittatura, antisemiti e pro-Hitler, e una chiara intenzione di creare un’identità nazionale. Nel 2020 è scoppiata una polemica quando l’ex segretario addetto alla Cultura, Roberto Alvim, ha proferito un discorso con dei frammenti chiaramente plagiati dell’ex ministro nazista Joseph Goebbels, con sottofondo un’opera di Richard Wagner. “Tutto questo non mi suona più come una serie di fatti casuali, ma come un progetto”, dice Adriana.

Sebbene esista, nel Codice Penale brasiliano, il reato di razzismo e di pregiudizio, esperti affermano che la mancanza di una legislazione chiara contro l’apologia del nazismo e l’incitamento all’odio è ancora il principale ostacolo per affrontare questo tipo di crimine