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In poco più di un decennio il Pd ha perso metà dei voti e ridotto gli iscritti da 830mila del 2008 a 412mila del 2019, poi a 320mila del 2021 e ai 150/200mila del 2022. Tutti i partiti risentono dell’astensionismo, ormai altissimo in Italia, ma in particolare il Pd che pure raccoglie, ancora nel 2022, il maggior contributo dal 2 x mille (7,4 milioni da 475mila cittadini, media 16 euro), seguito da Fratelli d’Italia (3,1 milioni da 234mila cittadini, media 13 euro). Le elezioni si vincono non tanto perché ci sono forti flussi in transito tra sinistra e destra (e viceversa), ma se un partito riesce a farsi votare anche dalla sua area di potenziali astensionisti che, o votano quel partito, o si astengono. Il PD ha avuto negli ultimi anni la maggiore astensione, oltreché una fuoriuscita di elettori. Sono in attesa di una proposta più convincente.

Una causa della perdita di iscritti e attivisti, la cosiddetta base che il partito vantava come quota garantita, da mobilitare all’occorrenza, e che lo differenziava dagli altri, è che il PD è diventato anche un partito “dirigista”. I capi decidevano e quello era il “verbo cui allinearsi. Le scelte fondamentali (sulle alleanze governative, sulle posizioni da tenere sui grandi temi che stavano travolgendo la società) non discendevano più da indicazioni della base, dagli esiti del dibattito fra gli iscritti, ai quali è rimasta solo la presa d’atto.

Le cause della crisi dei consensi sono varie, ma quella fondamentale è che il Pd è stato vittima dei cambiamenti nella società e nell’economia avviatisi negli ultimi 20 anni, ma esplosi con la crisi del 2008, da quando si è avviato un processo mondiale (e poi europeo) che ha portato ad una crescente liberalizzazione dei mercati, allo strapotere della finanza nella globalizzazione, all’indebolimento degli Stati e dell’intervento pubblico nella protezione dei cittadini e alla diminuzione dell’occupazione a livello nazionale e locale.

Nei primi 8 anni del mercato unico europeo l’Italia è cresciuta anche come monte ore lavorate di 3,2 miliardi, ma poi dalla crisi dei subprime (2008) c’è stata una continua discesa del dato, con la perdita di 4,5 miliardi di ore retribuite: un tracollo. Sono così cresciute in modo enorme le disuguaglianze e si è concretizzato, per la prima volta dal dopoguerra, un impoverimento del 70% dei cittadini. In questo contesto l’idea (in teoria giusta) del PD di acquistare sempre più voti anche tra i ceti moderati per diventare un partito maggioritario, che ha portato alla vittoria di Renzi (2014-16) col 40%, ha subito uno stop non potendosi tradurre in fatti concreti (occupazione, welfare,…) a causa anche dei vincoli europei e mondiali.

Nel frattempo questo spostamento al centro del PD ha portato a trascurare i ceti deboli che aumentavano a causa del crescente disagio sociale. Liberalizzazione dei mercati, globalizzazione, Europa dei mercati e della moneta, responsabilità di governo, atlantismo sono state parole d’ordine sempre più assunte dal PD (anche in contrasto con le tradizioni di DC e PCI). Parole d’ordine che hanno “funzionato” dal 2000 al 2008 (e ancora nell’onda lunga fino a Renzi, apparso come una novità dirompente), quando l’economia cresceva, ma non più negli ultimi anni, da quando sono emersi, sempre più evidenti, i molti guai in cui si dibatteva la maggioranza dei cittadini. Gli elettori PD si sono rivolti così ad altre proposte o si sono astenuti.

Oggi la maggioranza dei cittadini è alla disperata ricerca di protezione e cerca più occupazione, più salario, più welfare, meno carovita,…. Non stupisce quindi che il 56% dei cittadini sia contrario all’invio di armi all’Ucraina (71% Lega, 75% Sinistra-Verdi, 60% Fratelli d’Italia) che vedono come una sottrazione di risorse al welfare (a una sanità pubblica al collasso, alla scuola e ad altri servizi), mentre tra gli elettori del PD solo il 33% sono contrari. Ciò mostra come il PD sia insediato nella parte più istruita, professionale e “responsabile” dell’elettorato, ma come abbia perso appeal verso gran parte dei ceti deboli e di chi critica il mainstream e sia diventato minoritario nel paese sulle grandi questioni sociali.  Il partito viene anche assimilato (non a torto) ai decisori americani ed europei che sostengono un modello produttivo “global”, che non solo viene visto come distruttivo della Natura, ma allineato alle strategie americane e non consono a tutelare gli interessi degli italiani (e della stessa Europa).

La maggioranza dei suoi ex elettori, non sentendosi tutelata, si astiene o si rivolge ad altri (M5S, FdI) nella speranza di trovare maggiore protezione.

Il declino del PD è quindi crisi della sua cultura politica, troppo allineata a quella liberista, con l’enfasi su chi aveva successo nella società, mentre avveniva una “discesa all’inferno” della maggioranza. Il sociologo Richard Sennett ammonì (già nel 2005) sui guasti che avrebbe prodotto il nuovo capitalismo finanziario, sul vuoto dell’individualismo contemporaneo che la destra sociale della Meloni ha saputo meglio cogliere, promettendo tutele, protezioni e ridando un ruolo allo Stato italiano, mentre il PD parlava molto di Europa e globalizzazione. La Meloni parla agli italiani, il PD (come europei) agli immigrati, la Meloni ai ceti deboli, Bonaccini alle imprese. Carlo Trigilia nel suo recente libro (2022) parla di “sconfitta culturale” e non di un cambiamento inevitabile.

Il PD difende l’Europa, non sapendo analizzare criticamente però processi enormi come la concorrenza dei paesi dell’Est Europa entrati nel 2004, che hanno spiazzato l’Italia e il Sud Europa a vantaggio dell’asse nord-tedesco/est. Questi paesi, pur sferzati dal neoliberismo, sono cresciuti in occupati, welfare, contenendo (in parte) le disuguaglianze e consentendo retribuzioni in crescita (+20/30%), mentre l’Italia sprofondava dal 2008.

Per le socialdemocrazie centro-nordiche welfare e lavoro sono un volano d’investimento sociale e comunque la crescita economica lì c’è stata. La Merkel aveva capito l’importanza di una Europa indipendente dagli Usa e la Germania cresceva con un compromesso tra Mercato e Stato, tra produzione della ricchezza e sua redistribuzione, forte di una alleanza con la Russia per avere materie prime a basso costo ed export in Cina. Un modello vincente che aveva portato ad una rivalutazione dell’euro sul dollaro del 60%…ma che al Re dollaro non piaceva affatto.

Ora l’allineamento imposto a tutti gli Europei dalle strategie Usa, farà “saltare in aria” questo modello e il PD si trova spiazzato, cullandosi con Bonaccini nel “modello industriale emiliano”  – e la sua tradizionale buona amministrazione – che si reggeva però sul collegamento alla manifattura tedesca (ora in crisi). Gli italiani sanno bene, al di là della propaganda ossessiva dei media, che in Ucraina è in ballo qualcosa di più grande del Donbass. I debiti Usa col resto del mondo ammontano a 18mila miliardi di dollari (15 volte il Pil dell’Italia, cifra da capogiro), a cui fa da contraltare un attivo di 4.100 miliardi della Cina (e 600 miliardi della Russia). In ballo c’è un Nuovo Ordine Monetario Internazionale, una de-globalizzazione che vuole mettere in discussione la “domanda da ultima istanza” del Re dollaro. E gli Usa non vogliono mollare a costo di indebolire l’Europa, minata da maggiori costi di gas e materie prime e ora anche spiazzata da 500 miliardi di sussidi al “libero mercato” Usa.

In un tale contesto di inedito allarme sociale, i ceti deboli si rivolgono a quei partiti che mostrano una radicalità che è stata espunta dal PD – moderato e “responsabile” – e che premia oggi la Meloni (domani si vedrà). Il PD ha sofferto della scomparsa delle grandi omogeneità di classe sociale, protagoniste della seconda metà del Novecento. Gli operai della manifattura sono diminuiti, ma i lavori a bassa qualificazione sono cresciuti nei servizi segmentando il lavoro (specchio delle disuguaglianze), tra (relativamente) garantiti e non garantiti. Tutto ciò è avvenuto in 15 anni in cui il PD ha spesso governato senza interventi davvero incisivi e nuove grandi idee per invertire la “frana” che si stava producendo.

Ora che il lavoro e il welfare sono “re nudi” si notano le conseguenze delle basse retribuzioni medie degli ultimi 22 anni: i poveri triplicati, la perdita di sicurezza del/nel posto di lavoro, la mancata occupazione femminile e giovanile, il collasso del meridione. Potevano questi ceti deboli non rivolgersi a proposte più radicali di fronte ad una élite che, alleata ad una Europa mercantilista, andava in direzione opposta alla tutela del nostro lavoro? Il prof. Carlo Corbari (Università di Ancona) afferma: “da inizio secolo mentre penetrava il neoliberismo nella cultura del centro sinistra e le classi si diluivano in una massa frammentata a rischio di ‘assoggettamento volontario’ ai nuovi media, il Pd, nato nel maggioritario, era impegnato nella rincorsa al centro, alla conquista dei ceti medi moderati: in parte li ha raggiunti, ma non aggiunti”.

C’è chi sostiene che il proporzionale potrebbe spingere i partiti a crearsi un’identità precisa, dando centralità a una democrazia parlamentare più snella. De Masi ipotizza ormai tre “sinistre”: il M5S , un PD “alla Bonaccini” continuista e un altro radicale “alla Schlein”, al fine di “marciare divisi” per poi “colpire uniti” alle elezioni. Insistere col maggioritario credo sia azzardato e porterebbe quanto prima il Pd a rischiare il ruolo di partito gregario.

Sui temi strategici che interessano i cittadini (pandemia, guerra, inflazione) i cittadini in maggioranza vedono chiaramente tutti i “ritardi” dell’Ue e la scelta del riarmo anche per la guerra in Ucraina come sciagurata, ma il PD sta altrove. Ciò che manca è una coraggiosa retrospettiva su questi 15 anni di declino sociale (avviatosi però nel 1999-2001) dovuto alla crisi globale e agli errori commessi, ma che potrebbe restituire al Pd una nuova visione e un pensiero nuovo capace di fare tesoro dell’esperienza. Non sarà però un congresso con le caratteristiche di quello in corso a consentirlo.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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