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“Misteri al Castello”: raccontare Ferrara ai ragazzi

 

Di questi tempi, negli scaffali che le librerie predispongono per ospitare la letteratura per l’infanzia contemporanea si trovano alcune opere egregie, diversi testi normali e moltissima “croda”.
Quest’ultimo termine, preso a prestito dal vocabolario ferrarese, significa “frutta caduta dall’albero”, non da vendere a baco, cassetta ma da destinare alla sidreria. l’ho scelto perché esprime bene il senso di un prodotto di scarsa qualità che non riesce a conquistare l’attenzione dei lettori per la sua trama banale e poco significativa.

Ce ne sono tanti di questi libri in commercio; sembra che gli autori pretendano di conquistare i piccoli lettori edulcorando le loro storie con il semplice inserimento di qualche simpatico animaletto che agisce seguendo una presunta morale. Insomma, vedo pochi libri degni di nota destinati ai bambini e ai ragazzi. Fra questi, mi piace segnalare l’opera d’esordio della giovane giornalista ferrarese Cecilia Gallotta che si intitola “Misteri al Castello” (Robin Edizioni).
È un libro adatto a chi ha dai 10 anni in su.
È un racconto che si legge bene perché è scritto bene.
È una storia che incuriosisce ed attrae man mano che si procede.
È un testo che si presenta “appetitoso” quindi lo si “divora”.
È uno scritto in cui l’autrice riesce a mescolare sapientemente diversi ingredienti: storia e mistero, realtà e fantasia, passato e futuro.
È una trama dove gli intrighi attirano magneticamente il lettore e dove ci sono inviti indiretti ad approfondire, a ripassare e a studiare la storia della nostra città.
Infatti, due ragazzi si ritrovano catapultati nella Ferrara rinascimentale per risolvere un mistero del passato che potrebbe cambiare la realtà del futuro.
Cecilia racconta: “Ho cercato di creare più immedesimazione possibile attraverso la narrazione in prima persona della protagonista di 12 anni, nel tentativo di rendere la lettura leggera e fruibile pur avendo inserito cenni culturali a piccole dosi. Non manca poi un messaggio trasversale a tutte le età, quello del valore dell’amicizia, del coraggio e soprattutto della capacità di riconoscere quando compiere una scelta – anche se difficile e impegnativa – può cambiare le cose.”

La protagonista è Sara, una ragazzina di origini italiane trasferitasi negli Stati Uniti con la sua famiglia, che ha ricordi sfocati del suo paese natale; presto però ci tornerà in gita scolastica, e la prima tappa sarà proprio Ferrara. Lì, fra voci misteriose e indizi enigmatici, verrà trascinata da un irresistibile richiamo legato alla nostra città dal fascino rinascimentale, dietro cui si cela un incredibile segreto. Sarà l’inizio di un’avvincente avventura per Sara e il suo migliore amico Matt, che dovranno trovare il coraggio di compiere una scelta decisiva per le sorti del loro futuro, fra salti nel tempo e nella storia, suspense e colpi di scena.

Dal Castello Estense al Parco Massari, passando per il Duomo e per Le Mura d Ferrara, un ruolo fondamentale è poi dedicato anche al Museo della Cattedrale, dove Cecilia ha tenuto percorsi di guida didattica con la Fondazione Enrico Zanotti, e dai quali ha attinto qualche pillola di curiosità culturale sapientemente inserita nella vicenda.

“Misteri al Castello” è un libro perfetto per una lettura in chiave didattica e io lo consiglio sinceramente perché penso che sarebbe un bel testo da adottare a scuola a partire dalla classe quinta della scuola primaria e a continuare nelle tre classi della scuola secondaria di primo grado.

È raro infatti che un libro per ragazzi offra diversi elementi positivi: la motivazione alla lettura, il piacere nel leggere, la curiosità di approfondire e l’interesse verso la propria città.

L’autrice inoltre si rende disponibile per incontri con le classi e un’ottima occasione per partecipare alla presentazione del libro che avverrà, insieme a Sergio Gessi, nel pomeriggio del 13 maggio, alle ore 17.30 presso la libreria “Il Libraccio” di piazza Trento e Trieste a Ferrara.

Presto di mattina /
Il giacinto e la rosa

Presto di mattina. Il giacinto e la rosa

Due mondi

Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
(C. Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991)

cristina campoVisibile e invisibile, due mondi sono quelli di Cristina Campo (1923-1977): il mondo del senso preciso delle cose, della realtà tangibile e quello dell’invisibile. Celata realtà e tuttavia nello sprofondo del mondo tutta raccolta: “Lume coperto”, “sepolto Sole”, “portentoso Fiore”. Tesoro nascosto nel campo pure, «un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44).

Di lei abbiamo appena ricordato il centenario della nascita, il 29 aprile, e una raccolta di saggi ne ritrae ora e rilancia un profilo nel segno dell’amicizia: Cristina Campo. “Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile”, Mimesis edizioni, Milano 2023. Scrive la curatrice e coautrice Chiara Zamboni: «È la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo, per il quale l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà. È allora che la vita risplende» (ivi, 7). Nell’attesa un attimo di perfezione appare, fulgore di bellezza, un soffio si leva e subito si smorza.

Questo avviene grazie alla parola ascoltata, alla voce che come un filo di spola è tessitura nel visibile dell’invisibile, nel tremendum del fascinans: «poiché qui Dio non parla nel vento,/ Dio non parla nel tuono:/ parla in un piccolo alito/ e ci si vela il capo per il terrore» (La tigre assenza, 48).

 

Gli Imperdonabili

«Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,14).

Vi è come un diaframma tra due mondi, un taglio vivente che congiunge e, al contempo, separa ciò che fa luce e ciò che oscura la vita. Non tutte le voci dicono questa tessitura del mondo nell’ordito dell’invisibile. Solo quelle degli “imperdonabili”, che come nel racconto di Belinda, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, chiedono come dono «una rosa, solo una rosa in pieno inverno» (“Una rosa”, in Gli imperdonabili, Milano 2014, 11). E l’amore di Belinda trasformerà il mostro in un giovane principe.

Ma pure il cantico spirituale di Giovanni della Croce è una storia d’amore: «una classica storia d’amore e di viaggio alla ricerca del Principe incomparabile. Vi si parla di monti e di riviere, di tane di leoni e di isole strane, di superfici argentee nelle quali affiorano occhi, di letti nuziali difesi da scudi d’oro. Si fa voto partendo di non cogliere i fiori, di non temere le fiere, di valicare fortezze e frontiere. La fiaba delle fiabe, il viaggio dei viaggi, Il libro di Tobia, s’illumina di un vivido bagliore allorché il vecchio padre proferisce, rivolto allo sconosciuto dal pesce e dal bordone (L’angelo Raffaele): «O tu che conduci agli Inferi, tu che ne riconduci… » (Gli Imperdonabili, 22-23).

cristina campo gli imperdonabiliGli imperdonabili sono coloro che non rinunciano alla propria bontà, che è come dire al proprio destino. Essi sono quei personaggi o autori e le loro opere – riportati, tradotti e interpretati da Cristina Campo nel libro omonimo – che amano il loro tempo nonostante tutto sembri venir meno; anzi sembrano appassionarsi proprio a quanto è perduto o dimenticato. Essi, come Cristina, sfidano il destino perché si ostinano a cercare attraverso la fiaba, la poesia e la preghiera, la mistica e il rito, nelle loro fragilità e contingenze, forza e stabilità, nell’imperfezione la perfezione, nell’orrido la bellezza, nella maledizione la benedizione, nel rifiuto la grazia, nel peccato il perdono, nella necessità la libertà, nella disperazione la gioia e nella morte la vita sempre di nuovo risorgente.

«L’esempio di quei poeti – scrive Cristina Campo – era soltanto un esempio. Imperdonabile è, per il mondo d’oggi, tutto ciò che somiglia al giacinto di Persefone», Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? È un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. Questo dovrebbe fare la poesia», (Sotto falso nome, Adelphi, Milano 200, 203).

Gli imperdonabili, ostinati, più forti di ogni altra ostinazione, di una ostinazione dell’altro mondo. Essi vedono nelle ferite la guarigione, scorgono nella paura il coraggio, nella fine un inizio e, continuando ad essere abbandonati, offesi e calpestati, si abbandonano fiduciosi. Intravedono nell’umiliazione la gloria, nella liturgia e nel rito che si ripete i segni di una metamorfosi, l’incontro che apre a una trasformazione; nella mistica, nella liturgia e nella poetica sta la tessitura inconsutile – priva di cuciture – come la tunica del Cristo al calvario, tra il tempo e l’eterno, la carne e lo spirito, parola di carne che rivela alla fine il buon annuncio come ai piccoli, agli ultimi, ai semplici appartenga il Regno dei cieli, perché è già in loro ed è attraverso loro che l’Invisibile si fa visibile, il Lontano vicino, presente e reale l’Assente.

Sono imperdonabili perché si lasciano ferire e sedurre dalla parola ascoltata, la mettono in pratica, credono alla sua voce, la riconoscono come quella del pastore e si lasciano allora rialzare e condurre e portare via da lui verso un altrove. Si fanno essi stessi dolorosa e insieme dolcissima soglia anche per noi tra visibile e invisibile: la soglia del cuore trafitto a pasqua. Si lasciano attraversare come da una lama di luce, che discerne nel cuore i pensieri e le azioni, distinguendo quelle che mortificano, falsificando la realtà, da quelle che la vivificano portandola a salvazione. Gli Imperdonabili si fanno ricettacolo ospitale dell’illuminazione, della grazia, della bellezza taciuta; sono voci del visibile nell’invisibile, tessitori come la stessa Cristina Campo dell’inesprimibile nelle parole già udite, del nuovo latente nella tradizione. Veglia su tutti contro la tenebra «il santo ideogramma»: la mano benedicente del Cristo Pantocrator dei mosaici bizantini.

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni
Due mondi – e io vengo dall’altro.
(ivi, 45-46).

O chiave che apri e non chiudi,
chiudi e non apri e conduci
teneramente il vinto fuor della casa del carcere
e fuor dell’ombra della morte
e il senzatetto negli atri luminosi
dei mille occhi impassibili
di chi ha compiutamente patito
e delle mani contro la notte levate
nel santo ideogramma della benedizione.

L’invisibile? Ciò che mi interessa

È questo il titolo del saggio della teologa Antonietta Potente nella raccolta ricordata prima. Sono pagine che ritraggono Cristina Campo come lei ritrasse a sua volta l’amica María Zambrano: un volto e un dito sul labbro. Come a indicare «lo stupore di chi sta sulla soglia di quel Mistero che piaceva molto a entrambe e che, entrambe, accoglievano con “le labbra chiuse”, come avviene in ogni via mistica» (ivi, 67).

E continua: «In lei l’amore per l’invisibile non distrae, ma attrae lo sguardo sulla realtà che, per Cristina Campo, riluce grazie, appunto, all’invisibile: “Credo pochissimo al visibile, credo molto all’invisibile ed è forse la cosa che mi interessa di più” dichiarò nell’unica intervista rilasciata nel corso della sua vita. Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli; testi ricchi di realtà e invisibilità, che scavalcano l’orizzonte del visibile e lasciano sempre e solo intravedere l’altrove. Mi sembra questa una delle luci più belle dell’amorosa sapienza che Cristina Campo ci ha lasciato: l’unione tra realtà e invisibilità» (ivi, 68).

Per Cristina Campo tuttavia l’invisibile non si impone dall’alto, né dissolve il visibile, ma è nascosto in esso come semente. L’invisibilità germoglia dalla terra, fermenta come lievito la realtà, non si vergogna di rivestirsi o meglio di incarnarsi nell’umano attraverso i suoi sensi. Questo il suo insegnamento: «Lei insegna che all’invisibile si arriva per l’apertura dei sensi e la percezione; quei cinque sensi, che diventano cinque porte per far entrare l’invisibile» (ivi, 69).

Così ama l’invisibile colui che ama le storie e i racconti, che nel caso della Campo sono «quelle storie di vita di pellegrini e mendicanti che nella loro vita “cambiano improvvisamente rotta nell’inseguimento di una visione ignota e spesso soltanto per un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati, folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo ‘che è dietro quello vero’ soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti”. Queste persone non si rendono visibili a causa della giustizia o chissà per quali diritti, ma perché c’è un mondo dietro a quello vero che soccorre e guida» (ivi).

L’albero capovolto, radicato nell’invisibile nel visibile fruttifero

«Due mondi – e io vengo dall’altro» ha chiarito fin dall’inizio Cristina Campo. Come a dire io vengo da quello invisibile, senza cedere all’onnipotenza del visibile. E tuttavia quest’altro mondo determina un rovesciamento dello sguardo: così – sembra dire – riconosco e sono radicata nelle radici aeree dell’albero rovesciato, che distende le sue radici in alto mentre i suoi frutti sono raccolti in basso. Vi è così un rapporto di analogia tra i due mondi simile a quello esistente tra l’albero e l’uomo.

Rabbi Judah Loew ben Bezalel (1526-1609), detto il Maharal di Praga – acronimo di “Il Nostro Maestro il Rabbino Loew” – esegeta, talmudista e mistico affermava: «In verità l’uomo è chiamato albero del campo come è scritto: perché l’uomo è un albero del campo (Dt 20,19), ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa nella terra, mentre l’uomo ha la radice in alto. Infatti la sua radice è l’anima che viene dai cieli, le mani sono i rami dell’albero, le gambe sono rami sovrapposti a rami e il corpo è il tronco dell’albero. E perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha la radice in basso perché deriva la sua vitalità dal suolo, mentre l’uomo deriva la vitalità della sua anima dai Cieli» (Nétzach Jisra’el 7,26).

Pregare con gli alberi

È invece Rabbi Nachman di Breslav, a farci comprendere il rapporto che lega piante, animali e uomo nella preghiera, quando afferma: «Sappi che quando un uomo prega nel campo, allora tutte le erbe entrano nella preghiera, lo aiutano e danno forza alla sua preghiera. Questa è la ragione per cui la preghiera viene chiamata meditazione/ sichà, sulla base di quanto è detto: ogni arbusto/ sìach del campo (Gen 2,5). Ogni arbusto del campo dà forza e aiuta la preghiera. (Liqquté Moharan, II, Il)». Ed egli pregava così: «Tutta la vegetazione del campo e tutte le erbe e gli alberi e tutti i germogli si sveglino per venirmi incontro, si alzino e diano la loro forza e la loro vitalità alle parole della mia meditazione e della mia preghiera. Possano la mia meditazione e la mia preghiera raggiungere la più completa perfezione con l’aiuto di tutta la vegetazione del campo, in modo che tutte loro, con la loro forza e vitalità e con la loro spiritualità che sale fino alla loro radice superna, possano esse incorporate nella mia preghiera. (Liqquté Tefillòt II, 11)».

Il canto degli alberi

Quello degli alberi è un canto che trabocca nel silenzio, come ogni la preghiera trabocca nell’invisibile presenza: «Gioia canti insieme la campagna con le sue verzure e messi e animali/ Sì di gioia fremano gli alberi,/ la selvaggia foresta ne moduli il suono/ davanti a Colui che sempre viene» (Sal 96 [95]).

Sappi
che ogni pastore e pastore
ha un suo canto speciale.
Sappi
che ogni pianta e pianta
ha un suo canto speciale
e dal canto delle piante sapir
si crea la melodia del pastore.
Quanto è bello
quanto è bello e gradevole
quando si ascolta il loro canto
è molto bello stare tra loro in preghiera
e con gioia servire il Signore.
E dal canto delle piante
il cuore si riempie e anela.
E quando il cuore si riempie di canto
e anela alla Terra di Israele
una grande luce
allora si protrae e dilaga
dalla santità della terra su di lui.
E dal canto delle piante
si crea la melodia del cuore.
(Naomi Sapir Shemer (1930 -2004) cantautrice, compositrice e poetessa israeliana)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

L’Italia sceglie il Fossile.
La retromarcia ecologica del governo Meloni

L‘Italia sceglie il Fossile, ingrana la retromarcia e volta le spalle alla transizione ecologica. Nel pieno della crisi energetica e della guerra in Ucraina, inizia ad emergere in modo più chiaro la strategia energetica del governo Meloni e dei poteri forti.

L’interprete più autentico di questo nuovo corso è senz’altro il confermato presidente dell’Eni Claudio Descalzi, fedele accompagnatore della premier Meloni nei suoi viaggi dall’Algeria agli Emirati Arabi per incrementare il flusso del gas da quei Paesi all’Italia.

In una recente intervista, il nostro dice chiaramente che “quello che pensa l’Europa non è per forza quello che pensa tutto il mondo. In Europa la quota degli idrocarburi scenderà, ma non così in Cina, India, in Africa….Ora, che l’Europa voglia fare bene sul fronte ambientale è un esempio importante che sta dando a tutto il mondo, ma che pensi che la questione ambientale è l’unica componente da considerare è però un errore, perché dobbiamo parlare di competitività, di prezzi….Perchè di eccesso di virtù si può anche morire”.

Questa nuova strategia si basa sull’idea di fare del nostro Paese un “hub” del gas, cioè snodo del suo transito e scambio per tutta l’Europa, rilanciare la sua estrazione nell’Adriatico e in terraferma, mettere in funzione nuovi rigassificatori, a iniziare da Piombino e Ravenna, contrabbandare per fonti rinnovabili anche quelle che non sono tali, come il biometano, in buona sostanza decidere di continuare a stare nell’economia del fossile per i prossimi 15-20 anni.

Accanto e “coerentemente”a questo, ci si oppone alle direttive europee sull’efficientamento energetico degli edifici e sulla cessazione delle vendite di autoveicoli con motore endotermico entro il 2035.

Il risultato finale è quello di abbandonare qualsiasi ipotesi di transizione e conversione ecologica, fondate sulle fonti rinnovabili, che invece vengono ostacolate. Rinunciare all’autonomia energetica. Decidere che il contrasto al cambiamento climatico e alle emissioni climalteranti non è un problema serio e drammatico da affrontare ora.

Ma c’è persino di più: emerge anche un tentativo, assai pericoloso, di dipingere la transizione ecologica come “un lusso per i ricchi” e conseguentemente, si lasciano sole le persone, in particolare quelle a reddito medio basso, ad affrontarla, con l’idea che si possa anche dar vita ad un blocco sociale e popolare contrario alla stessa.

Per fortuna, è in campo una mobilitazione che è partita dai territori, e dai cittadini che li abitano, dove da ultimo si stanno installando o progettando i nuovi rigassificatori. Un movimento promosso e sostenuto da un arco vasto di reti e associazioni sociali, in primo luogo la Rete nazionale contro i rigassificatori, la campagna Per il clima- Fuori dal fossile, la Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna e diversi altri ancora.

Tale mobilitazione si è snodata attraverso manifestazioni che si sono svolte a Piombino l’11 marzo, a Cagliari il 15 aprile e la cui prossima tappa è prevista per il 6 maggio a Ravenna [Vedi su Periscopio il testo della convocazione della manifestazione di Ravenna] .

Inutile sottolineare la coltre di silenzio che i media mainstream hanno dedicato a questi appuntamenti e, per converso, l’importanza che esse assumono per provare a contrastare e invertire le scelte che governo e poteri forti stanno mettendo in campo.

Quest’impostazione, peraltro, ha una forte pervasività e si traduce in atti che investono l’insieme dei territori del nostro Paese. Da questo punto di vista, è emblematico anche ciò che succede nella provincia e nel comune di Ferrara. Due vicende saltano immediatamente agli occhi.

La prima
è quella che riguarda la messa in funzione dell’impianto di biometano di Villanova
: un impianto industriale molto grande, che produrrà più di 12 milioni di mc/anno, il secondo per dimensioni del genere nella regione Emilia-Romagna, che va ad aggiungersi alla cinquantina di impianti di biogas già esistenti nella provincia.

Ora, è bene chiarire, intanto, che il biometano non può essere considerato facente parte del ciclo dell’economia circolare, né assimilato ad una fonte energetica pulita e rinnovabile, visto che esso produce comunque emissioni climalteranti.

In più, il progetto presentato fa emergere seri problemi dal punto di vista dell’impatto ambientale e della salute dei cittadini, forti problematiche derivano dai volumi di traffico che si genererebbero, non sufficientemente approfonditi e altrettanti motivi di preoccupazione traggono origine dalla vicinanza dell’impianto nei confronti delle case e dell’abitato.

A cui si somma il grave problema democratico che si è evidenziato nel percorso dell’autorizzazione dello stesso: i cittadini coinvolti non sono mai stati né informati e tantomeno consultati e si è proceduto incuranti della loro opinione  e della contrarietà manifestata in numerose occasioni dalla gran parte dei residenti.

Inoltre, ci è toccato assistere allo spettacolo scandaloso offerto dall’Amministrazione comunale di Ferrara che, con una delibera votata a maggioranza dal Consiglio Comunale, ha espresso, ancora nel febbraio dello scorso anno, la propria bocciatura dell’insieme del progetto, facendo finta di non sapere che, stante l’attuale vergognosa normativa relativa all’autorizzazione agli impianti di questa natura, considerati di per sé strategici e di pubblica utilità, essa non avrebbe prodotto nessun effetto sulla decisione finale.

Mentre l’opposizione da parte dell’Amministrazione comunale alla variante urbanistica necessaria, che avrebbe bloccato l’iter autorizzativo, non è stata agita e, alla fine, è arrivato anche il parere positivo dei vari uffici dell’Amministrazione.

Anche questo vulnus democratico – un vero e proprio gioco delle tre carte – impone di azzerare la decisione, ridiscutere la vicenda in Consiglio Comunale, arrivare ad un’iniziativa del sindaco che blocchi il progetto, come chiesto in modo chiaro dalla Rete Giustizia Climatica di Ferrara e dal gruppo di cittadini che si oppongono all’impianto.

La seconda vicenda che merita di essere evidenziata è quella relativa all’incredibile aumento delle tariffe per le famiglie che sono allacciate alla rete di teleriscaldamento, ben di più di quello verificatosi per l’incremento del prezzo del gas.

La questione è che, nel comune di Ferrara, il teleriscaldamento è alimentato dalla geotermia, dall’inceneritore e dal ricorso al gas: ebbene il paradosso sta nel fatto che questo fortissimo incremento – bollette bimestrali a più di 700 € per consumi “normali”- deriva maggiormente dal costo della geotermia – derivato direttamente da un accordo tra il Comune e la multiutily Hera che gestisce il servizio di teleriscaldamento, fortemente sbilanciato a favore di quest’ultima- piuttosto che da quello del costo del gas.

Con il risultato straordinario di aver sollevato la giusta protesta e iniziativa dei cittadini interessati rispetto a questa situazione, ma anche quella di creare un immaginario collettivo – guarda caso in linea con le considerazioni svolte prima- per cui la responsabilità di quanto successo sta più in una fonte rinnovabile come la geotermia locale e meno dalle vicende del gas.

Insomma, siamo in presenza di vertenze locali importanti e che hanno visto la mobilitazione di cittadini e Reti e Associazioni, che non sono questioni ciascuna a sé stante, ma si inseriscono in un quadro che origina dalle stesse scelte di fondo. Per questo meritano di essere connesse tra loro e, ancor più, di essere inserite in un orizzonte generale capace di cogliere i nessi tra quanto avviene nei territori e le scelte compiute a livello nazionale.

Probabilmente la strada per opporsi e costruire un’alternativa credibile alle scelte regressive in tema di politica energetica e ambientale sta proprio nel tenere insieme vertenze locali e nazionali: qui si può utilmente collocare l’idea di sviluppare in modo diffuso le comunità energetiche, che ci dicono appunto che possiamo costruire concretamente soluzioni vicine alle comunità e contribuire fortemente alla realizzazione di un modello alternativo di produzione e consumo energetico.
Ma di questo avremo senz’altro modo di tornare a parlare.

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Storie in pellicola / Il mio amico Nanuk

Il mio amico Nanuk; quando dall’incontro fra due cuccioli nasce un sodalizio invincibile

Un cucciolo di orso adora un cucciolo di uomo. Si sono trovati insieme rotolando e giocando. Ma anche scambiandosi il cibo.

Una storia di amicizia in un Artico che non è deserto, ma un paradiso da proteggere dove migliaia di animali si riproducono e tornano ciclicamente. Un inno alla Natura.

Un film d’avventura, quello firmato da Brando Quilici (per le scene artiche) e Roger Spottiswoode, ma anche di sterminati paesaggi, di natura incontaminata e potente oltre che di grandi affetti ad altezza di ragazzo, Il mio amico Nanuk.

Protagonista è il giovane coraggioso e indomito Luke (Dakota Goyo), alle prese con un tenerissimo e candido cucciolo di orso (di tre mesi), perso dalla madre e recuperato casualmente. Inizialmente cercherà di crescere il cucciolo e di evitargli lo zoo o la gabbia, poi, grazie anche all’aiuto di una preziosa guida esperta, Muktuk (Goran Višnjić), si avventurerà nelle ostili terre ghiacciate del Nord canadese per trovare una casa per il piccolo orso bianco. Sarà un viaggio rischiosissimo e pieno zeppo di pericoli.

Luke ha da poco perso il padre e sua madre Madison (Bridget Moynahan) è una ricercatrice che, per motivi di lavoro, lascia lui e la sorella Abbie (Kendra Leigh Timmins) per lunghi periodi per recarsi presso una lontana stazione di ricerca.

Al ritrovamento, nel suo garage, del cucciolo di orso polare separato dalla mamma catturata dalle autorità cittadine e trasportata in elicottero in una remota zona a nord della regione artica del Canada, si assume la responsabilità di ricondurlo a lei.

Violente tempeste (tanta suspense), branchi di orsi polari e il crollo di giganteschi blocchi di ghiaccio non fermeranno Luke e Nanuk che riusciranno a sopravvivere in questi spazi sconfinati, diventando indispensabili l’uno per l’altro. Una “favola ecologista”.

Per realizzare il film è stato coinvolto il miglior addestratore di orsi polari al mondo, Mark Dumas, tutti gli attori, orsi inclusi, sono in carne ed ossa, nessuna scena è stata costruita al computer. Un inno al realismo più vero. Splendida fotografia, scene nell’Artico canadese ma alcune anche nelle isole norvegesi Svalbard (1.600 km a sud del Polo Nord).

Tanti sono i temi del film: i cambiamenti climatici (sono proprio le conseguenze sul clima su questo luogo delicato del pianeta a rendere più difficile e pericolosa l’avventura di Luke), la magia dell’amicizia, la bellezza della natura incontaminata, la gentilezza degli inuit, il desiderio di protezione e libertà, la fiducia negli esseri viventi, il desiderio e la ricerca della felicità ma, soprattutto, la capacità dell’essere umano di cambiare le situazioni che non funzionano. Imperdibile.

Il mio amico Nanuk, di Brando Quilici, Roger Spottiswoode, con Dakota Goyo, Goran Visnjic, Bridget Moynahan, Peter MacNeill, Kendra Leigh Timmins, Italia/Canada, 2014, 98 minuti.

Brando Quilici

Nato a Buenos Aires nel 1958, è regista televisivo e documentarista. Figlio di Folco Quilici, ha lavorato per molti speciali su reti americane, tra cui National Geographic Channel, Discovery Channel e su reti europee, tra cui ZDF, France 5 e la Rai. Ha vinto numerosi premi, tra cui quelli al Jackson Hole Film Festival e al Trento Film Festival. Dopo Il mio amico Nanuk, nel 2022 ha prodotto, diretto e scritto il film Il ragazzo e la tigre.

Diario in pubblico /
Lacrime in armocromia

Diario in pubblico. Lacrime in armocromia

Sempre di più il faticosissimo lavoro che mi sono imposto, quello cioè di seguire con una certa costanza programmi televisivi di successo, alternandolo con quello che è il mio naturale compito, cioè quello di critico e teorico della letteratura, mi produce straordinarie ‘dissonanze’ che nemmeno le teorie di musica dodecafonica hanno affrontato.

Da buona radical chic, posizione che sempre più si attesta tra le scelte esistenzialmente e politicamente più interessanti, molto mi ha colpito la coraggiosa intervista di Elly Schlein rilasciata a Vogue, che non sembrerebbe certo la sede più adatta per proporsi nel suo recentissimo status di nuova segretaria del PD.

lacrime in armocromia
Elly Schlein

Naturalmente le ‘belve’, vale a dire i seguaci del social nelle sue più raffinate specializzazioni, hanno trascelto dall’articolo la notizia che più di ogni altra sollecitava curiosità e interesse, vale a dire che la Schlein si affida a una studiosa di ‘armocromia’, che la consiglia nel coniugare i colori del suo aspetto fisico con gli abiti che indossa. Una rapida indagine propone questa definizione:

L’armocromia è l’equivalente dell’anglosassone Color Analysis: una vera e propria ‘scienza del colore’ che trova le tonalità più adatte a valorizzare il nostro incarnato, bilanciando il colore degli occhi e dei capelli.”

Probabilmente, però, questo termine non era mai stato associato alla politica prima di Elly Schlein. Alla domanda sulle sue scelte d’abbigliamento, Schlein ha risposto: “Dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio.

La situazione si fa interessante quando nella discussione interviene Fausto Bertinotti, a suo tempo bersagliato per il golf di cachemire indossato in molte occasioni. Egli sostiene che fu una compera della moglie al mercatino dell’usato e che comunque l’attenzione a ciò che s’indossa addirittura aveva un illustre precedente in Palmiro Togliatti (!) che invitò i parlamentari comunisti ad indossare l’abito blu per recarsi alla camera.

Ma naturalmente la dissonanza si amplifica nelle recenti indagini, quando ai cronisti davanti ai cancelli della fabbrica di Mirafiori si sentono rispondere dall’80% delle operaie “Elly Schlein? E chi è?”.

Ma- e questo è il punto – come vestono le operaie? Senza dubbio come la moda imposta dai social prescrive. Quindi? Ritorniamo al punto di partenza. La politica, come ogni altra espressione sociale, parte dalla ‘moda’, i cui più importanti tedofori sono lo sport e i divi della canzonetta.

Nelle trasmissioni più seguite comunque ciò che imperversa è la lacrima armocromata. Figli, amici, parenti di vecchie glorie si presentano alle sollecite conduttrici pronti a risuscitare sprazzi di gloria (televisiva o sportiva). Sbattendo l’occhione già umido per il racconto; poi, parte lo show lacrimoso.

Le donne delicatamente s’appoggiano la nocca dell’indice all’angolo dell’occhione perfettamente truccato e ispirando profondamente a tempo con l’intervistatore raccontano, piangono, si autocelebrano. I maschietti meno delicati grugniscono, si coprono il volto e tra le dita separate esce un vento, immagino non odoroso, che sostiene la loro virilità.

I pianti degli eroi dello sport sono naturalmente più complessi in quanto tutto ciò che induce alle lacrime dall’azione ben riuscita all’errore clamoroso s’accompagna con la scivolata sulle gambe (certo non immune dal dolore). Il tutto condito con l’urlo belluino condiviso con il pubblico e infine le copiose lacrime che condiscono il tutto.

Se dunque la moda interviene come lievito sul comportamento pubblico non ci stupiranno le mises dei politici, dai calzoni meloniani, alle giacchette renziane non dimenticando le bandane berlusconiane e – orrore! – i semi-nudi di Salvini.

Diamo spazio allora a lacrime e costumi per essere in consonanza con questa patria sì bella e (poco) amata.

Invito poi per essere maggiormente edotti di leggersi l’articolo di Claudia de LilloUn giorno al sexy shop, su ‘Il venerdì di Repubblica ‘ del 28 aprile 2023, pp.48-51, assai istruttivo.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui] 

Parole a capo
Giorgio Casali: “Per il compleanno di Claudio” e altreGiorgio Casali

La poesia è l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del genere umano”
(Josif Brodskij)

Per il compleanno di Claudio

Quando la sera è legale,
è primavera e spingiamo
oltre il ponte, oltre il fiume e la terra modenese
mentre una canzone ridice chi eravamo
e finisce svanendo la frequenza –
con voi Meri e Claudio e Daniele
a bere stasera scordando anniversari.

*
È vero, come siamo cresciuti
dieci estati indietro al parco
con il motorino, il primo orecchino
che ancora portiamo con fare bambino
– ci mette del tono, ci finge ribelli –
quando s’ammette, sdraiati a fumare,
il piacere che è stancarsi a lavorare.

*
Sono nuovi questi versi come riti
come danze della pioggia sui calanchi
fino a che l’afa passi via tra i viali
dove ancora ci siamo incamminati;
né tombe che ci fanno lo sgambetto
né prati nutrienti per i fiori;
cosa farci, cosa farci dell’amore
se d’amore non abbiamo più sentore.

Amarle

Quando la curva ti spara in faccia
vento forte e ti manca il respiro,
àlzati ancora più sopra nel sole
giocando a panorami e mani strette
– e stare qui seduti per colline
amarle amarle amarle
e poi non ricordarle.

da Notte provincia (seconda edizione 2023, in uscita presso Edizioni Contatti)

 

Segni sulla pelle

Hai graffiato la notte con le unghie
e con i denti, eri bella e timorosa
dei miei segni sulla pelle, graffiti
con forza che hai marcato
come le gomme
su un prato a Ferrara.

da Sotto fasi lunari (Incontri editrice, 2013)

 

Che tu goda o meno

Dalla prima volta che mi guardi
coi tuoi occhi scuri grandi
sei mistero, che tu goda o meno,
malinconico sguardo che a sbalzi
mi guarda e proprio mi rende
nel mio letto domestico atteso.

da Domestiche abitudini (Edizioni Contatti, 2020)

Giorgio Casali è nato nel 1986 e vive a Fiorano, in provincia di Modena. Ha pubblicato alcuni libri di poesia tra cui Notte provincia (Edizioni clandestine, 2011), Sotto fasi lunari (Incontri editrice,
2013), Diarietto cattolico (Giuliano Ladolfi editore, 2016) e Domestiche abitudini (Edizioni Contatti, 2020). Suoi testi sono inseriti nell’antologia Poeti di corrente (Le voci della luna, 2013), curata da Matteo Bianchi e Anna Ruotolo, e sul sito di Atelier. Con il pittore Andrea Chiesi ha pubblicato il catalogo d’arte 19 paintings 19 poems (Italian Cultural Institute of New York, 2014), dal quale è stato estratto lo spettacolo “Forma Suono Parole”, con la collaborazione musicale dei Divisione Sehnsucht, presentato la prima volta al Poesia Festival 2014. È uno dei centoquattro poeti dell’antologia Come sei bella (Compagnia Editoriale Aliberti, 2017) curata da Camillo Langone e dedicata all’Italia.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Terra. Amata Terra: la teoria di Gaia

Terra. Amata Terra.

È stato molto tempo fa. Posso ancora sentire lo stupore quando la notizia sensazionale venne diffusa dai media: “La Terra vive” o: “La nostra Terra, un essere vivente”. Come se qualcuno avesse visto la luna per la prima volta.

Non potevo credere allora, e non posso crederci nemmeno adesso, a come tante, troppe persone possano rinchiudersi in un misero isolamento. Chiunque ascolti anche solo un po’ i propri sensi non può non rendersi conto che questo meraviglioso essere, la nostra Terra, Terra Madre, è piena di vita. Respira, sente. Si muove come un’isola azzurra nell’immensità dell’universo. È magnifica, maestosa. Un’opera d’arte di terra e acqua, occupata e popolata da miriadi di creature viventi.

Su di essa, il granitico splendore delle rocce, la vita meravigliosa delle piante, il magico mondo degli animali e poi noi, gli esseri umani, dotati della capacità di una coscienza riflessiva, del magnifico dono dei sentimenti, dell’ingegnosa capacità di pensare, di individuare le connessioni, di imparare dal passato e di modellare con fantasia il futuro. In grado di riconoscere le nostre radici nell’eterno presente. Tutto questo sulla Madre Terra. Come potrebbe non essere un organismo vivente?

Ancora oggi mi vengono i brividi quando vedo con quanta noncuranza alcuni trattano la Terra che ci dà sostegno e fondamenta. La nostra astronave e la nostra casa. Ci connette alla luce delle stelle e invita il sole a fornire l’energia e il calore per la vita. Noi essere umani siamo terrestri. Di quali prove abbiamo bisogno per dimostrarne l’evidenza?

La Teoria di Gaia | I protagonisti

Ecco a voi, al vostro servizio. Sono stati due scatenati pensatori, entrambi insigniti di onorificenze accademiche, a fornire la prova dell’ovvio: la Terra è un essere vivente, come formulato nella “Teoria di Gaia”, dal nome della dea greca della Terra.

Per una volta, prima l’uomo. James Lovelock, laureato ad Harvard, astrofisico, ingegnere, ricercatore pioniere della NASA. Delineò le basi della Teoria di Gaia, fornendo prove su prove. James Lovelock visse una lunga vita. Nato nel 1919 e deceduto nel 2022, arrivò all’età di 103 anni. Il 26 luglio è sia il giorno della sua nascita che della morte.

Lynn Margulis (1938 – 2011) creò scompiglio nel mondo della ricerca per tutta la vita con le sue audaci teorie. Nel lavoro si collocò accanto a Lovelock; nel privato era sposata con l’astrofisico di fama mondiale Carl Sagan. Margulis era una microbiologa. La sua passione erano i “lampi dell’evoluzione” e questo includeva la Teoria di Gaia, che arricchì con i suoi studi.

La Teoria di Gaia | I punti principali

Lovelock e Margulis raccolsero una serie di prove inconfutabili che la Terra è un essere vivente. Queste prove comprendevano la composizione dell’atmosfera, la vitalità dell’acqua e degli oceani, i cambiamenti del clima e, soprattutto, i processi di feedback, che permettono quella che scientificamente viene definita omeostasi, ovvero la capacità di mantenere un equilibrio, un bilanciamento. Solo in questo modo è possibile far fronte anche ai cambiamenti più drastici. Questa capacità è espressione della vita stessa.

L’amore

Tutto questo può essere interessante, persino importante, dal punto di vista accademico, ma ciò che è veramente significativo è la nostra presa di coscienza, la nostra relazione d’amore con questo misterioso, grandioso, divino essere chiamato Terra. La sua pazienza con noi sembra infinita. Forse è proprio questa sua capacità che la rende una madre? La capacità di amare senza limiti, incondizionatamente, che scaturisce dal suo interno.

Terra. Amata Terra.

Traduzione dal tedesco di Barbara Segato. Revisione di Thomas Schmid.

Karl Gamper
Karl Gamper è un ricercatore della coscienza, docente e autore di diversi libri. Insieme alla moglie Jwala Gamper, ha fondato l’Accademia e il Centro di ricerca NeuLand. Il suo obiettivo è sostenere le persone nel percorso di sviluppo della coscienza e promuovere così l’evoluzione dell’umanità verso una società pacifica. (traduttore Deepl)

Una favola (triste) di uomini e di orsi

C’erano una volta in Italia, nei boschi delle Dolomiti, gli orsi. Ci vivevamo da sempre, in pace e in equilibrio con tutte le specie vegetali e animali.

Poi arrivò l’uomo, che si sentiva superiore ad ogni altra specie, un dio in terra col potere di decidere il destino di tutto ciò che lo circondava, e li ammazzò tutti.

Un giorno capitò che l’uomo si svegliò sentendosi animalista e tanto buono e si dispiacque di averli ammazzati tutti. Così andò in Slovenia, dove strappò alcuni esemplari dal loro habitat per portarli con la forza nei luoghi in cui fino a quel momento li aveva ammazzati.

L’uomo pensò di aver fatto una vera figata: aveva rimediato ai suoi errori ripopolando la zona. Così, con la coscienza a posto, smise di interessarsene. Li lasciò liberi di vivere sulle montagne. E loro stavano là in alto senza dare fastidio a nessuno.

Passarono gli anni, gli orsi si riabituarono a vivere lì. Crebbero e si moltiplicarono. L’uomo, però, non smise di assassinare l’ambiente.

Le montagne col tempo divennero luoghi inospitali nei quali per gli animali vivere era sempre più difficile. Per procurare il cibo per sé e per i propri cuccioli furono costretti, loro malgrado, a scendere verso valle avvicinandosi sempre più alle zone abitate dagli umani. Sempre più affamati, sempre più spaventati.

E fu così che, un giorno, l’uomo-dio-in-terra e l’orso-spaventato-e-affamato si incontrarono. L’uomo quel giorno ebbe paura. E invece che riconoscere il suo errore, la superficialità del suo operato e pensare a provvedimenti da attuare con urgenza che potessero permettere la coesistenza in sicurezza per entrambe le specie, l’uomo decise che l’orso era un animale selvaggio, cattivo e pericoloso e che si stava meglio quando in giro non ce n’erano. Decise quindi che la soluzione era ammazzarli nuovamente.

Morale 1: nella terribile vicenda di Val di Sole l’orso non ha avuto alcuna responsabilità, si è limitato a vivere, ovvero a sopravvivere nel solo modo che gli era possibile, subendo le scelte dell’uomo-dio-in-terra, che come è sempre stato e sempre sarà, fa, disfa, deturpa, uccide, nel nome del proprio ingiustificato delirio di onnipotenza, per poi scaricare la responsabilità dei suoi danni a terzi, che siano umani o addirittura animali.

La morte del giovane in Val di Sole è un fatto orribile, ingiusto e insopportabile per la famiglia, cui vanno le mie sentite e sincere condoglianze. Ma se di colpa si può parlare, questa non va certo addossata all’orso. Parlare di “orso assassino”, e che quindi va punito con la più severa pena possibile, oltre che essere completamente sbagliato, è un’idiozia.
L’orso non può commettere reati alla stregua di un essere umano, né può essere giudicato per le sue azioni. L’orso non fa cose buone o cattive. L’orso fa l’orso. Piantiamola di umanizzarlo e iniziamo ad assumerci le responsabilità delle nostre scelte e delle loro conseguenze.

Morale 2: in questa terribile storia qualcuno può vedere una metafora di qualcosa di ancora più grande, e più grave. Io sono tra questi.

Nella foto  di copertina:  Juan Carrito, forse lo ricorderete, l’orso buono e giocherellone, che é morto il 23 gennaio scorso, dopo 2 ore di agonia sull’asfalto, senza ricevere alcun soccorso, dopo essere stato investito da un’automobile a Castel di Sangro (AQ), nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Non era lui ad attraversare la strada, ma la strada ad attraversare il bosco, la sua casa.

Nota di Redazione:
Se vuoi firmare la petizione “Salviamo l’orsa JJ4 dal lager del Casteller e dalla morte!” che ha già  superato le 362.000 firme, vai su:   https://www.change.org/p/salviamo-l-orsa-jj4-dal-lager-del-casteller-e-dalla-morte?source_location=petitions_browse

LIBERIAMOCI DAL FOSSILE! – 6 MAGGIO 2023 MANIFESTAZIONE NAZIONALE A RAVENNA

6 MAGGIO 2023 MANIFESTAZIONE NAZIONALE A RAVENNA

di Campagna Per Il Clima – Fuori dal Fossile – Rete No Rigass No Gnl – Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Il prossimo 6 maggio giornata nazionale di lotta per fuoriuscire dal sistema fossile
Costruiamo le convergenze di tutte le mobilitazioni sociali  

L’ambiente e la svolta ecologica devono diventare la frontiera avanzata della lotta per il lavoro e i diritti

In tutto il Paese e in tante parti d’Europa e del mondo sta crescendo la mobilitazione sociale per costruire la possibilità di vivere in modi diversi da quelli che fino ad ora ci sono stati imposti e che  ci stanno portando alla catastrofe climatica, che va ad aggiungersi alla crisi economica in un quadro in cui peggiora la qualità della nostra vita per difendere gli interessi di pochi.

L’aumento della temperatura, la desertificazione, la siccità, che porteranno a una sempre più grave crisi alimentare, all’impoverimento collettivo, alle guerre continue, alle inevitabili migrazioni climatiche,  e l’aggravarsi di tutti i tipi di sfruttamento e di umiliazione dei diritti  sono il motore della nostra lotta.

Le prossime settimane e i prossimi mesi saranno teatro di molte mobilitazioni sociali, per contrastare le politiche che ci governano e per riaffermare i diritti civili. In questo programma l’Ecologia non è un tema fra i tanti. Essa deve diventare sempre di più la via maestra da percorrere per costruire l’orizzonte di una società più giusta e un mondo realmente vivibile per chi verrà domani. E quindi la trasformazione radicale del modello produttivo e sociale deve divenire punto di vista strategico di ogni lotta  e delle sue rivendicazioni. Attivarsi oggi per la vera svolta energetica, per realizzare un sistema davvero alternativo che renda l’energia sostenibile in termini di costi economici ed ambientali, è una componente fondamentale per resistere alle politiche sbagliate e avviare quelle giuste.

Nei vertici del settore energetico, e purtroppo anche in gran parte del mondo politico e delle Istituzioni, si parla con insistenza di ricoprire il nostro Paese con una fittissima rete di strutture dedicate al gas. Mentre a Piombino è già arrivata la grande nave rigassificatrice, e tra poco un’altra dovrà arrivare a Ravenna, si stanno già progettando molte altre strutture di rigassificazione in Sardegna e in Calabria, si riparla del medio e basso Adriatico, si pensa al Golfo di Trieste, alla Liguria e a potenziare gli altri siti (Livorno, La Spezia e Rovigo) dove gli impianti di rigassificazione ci sono già. E naturalmente si dissemineranno le coste d’Italia di depositi di GNL. Contemporaneamente, si progettano e si realizzano altri gasdotti, altri siti di trivellazione, e tutte quelle strutture che ci legheranno al sistema estrattivista per sempre. Strutture che renderanno il gas, già ambientalmente insostenibile, più costoso.

Si punta tutto su queste opere costosissime per le tasche di tutte e tutti noi, che non ci porteranno benefici in termini di economia né di indipendenza energetica, ma che vengono spacciate per strategiche, quando in verità la strategia è solo volta a garantire extra profitti alle multinazionali dell’oil&gas.

Non va tralasciato che sono pericolose per la sicurezza e per la salute, spesso classificate fra gli impianti “ad alto rischio di incidente rilevante”, nocive per la qualità dell’aria e per l’ambiente marino, pesantissime dal punto di vista della crisi climatica.

Piombino, nave rigassificatrice  (foto greenreport.it)

La comunità scientifica insiste inascoltata nell’appello ad iniziare al più presto la riduzione delle emissioni dovute alle fonti fossili e la sua sostituzione con le fonti rinnovabili, ma da parte del Governo, di gran parte dei poteri locali e del mondo industriale si insiste a potenziare l’intero sistema estrattivista. Si vuole dichiaratamente fare del nostro Paese il punto centrale di tutto il “sistema fossile” nel Mediterraneo, con il quale  saremo condannati a convivere. Una grave minaccia al futuro, nostro, delle nostre figlie e figli, nipoti e delle future generazioni. Purtroppo dobbiamo prendere atto che anche la Regione Emilia Romagna, il cui Presidente è stato nominato (al pari di quello toscano) Commissario Straordinario per il rigassificatore, e il Comune di Ravenna, nonostante le intenzioni più volte affermate di voler favorire la transizione ecologica, fanno parte del fronte che sostiene il potenziamento e l’estensione del sistema fossile.

Questo modello di sviluppo vecchio e anacronistico va cambiato in profondità, con  una decisa svolta verso rinnovabili, produzione energetica diffusa e decentrata, risparmio ed efficientamento; le opportunità produttive e occupazionali, della svolta ecologica sono gigantesche, e in grado di contribuire al  contrasto alla povertà energetica, alla difesa dei ceti più fragili, oltre che ad espandere i processi democratici e di controllo dal basso.

La Campagna Per il Clima Fuori dal Fossile, la Rete No Rigass No Gnl, la Rete Emergenza Climatica e Ambientale dell’Emilia-Romagna stanno da anni tracciando un percorso che ha portato ad incontrare molte sensibilità e molte esperienze, cresciute nelle innumerevoli  vertenze per la difesa dell’ambiente, della salute, del clima e della democrazia, che ha segnato tappe fondamentali, fra le quali la recente lotta di Piombino con la manifestazione dell’ 11 marzo scorso. In continuità con tali esperienze, fin dall’inizio del percorso che si snoda in tutta Italia sotto il nome di “Territori in cammino”, abbiamo indicato il 6 maggio come data per la tappa ravennate. Altre iniziative di uguale rilevanza organizzate nel frattempo, che trattano le tematiche del lavoro e della lotta alla violenza sulle donne, sono altri tasselli di un disegno complessivo di lotta alle disuguaglianze, alla povertà, allo sfruttamento e al calpestamento dei diritti primari delle cittadine e dei cittadini.

Invitiamo tutte e tutti quindi alla mobilitazione in generale, nel nostro caso per la lotta alla deriva fossile alla

MANIFESTAZIONE NAZIONALE
Sabato  6 maggio 2023 a Ravenna
con appuntamento alle ore 14 in testa Darsena di città

   

Campagna Per Il Clima – Fuori dal Fossile – Rete No Rigass No Gnl – Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Cover: FSRU GOLAR TUNDRA NAVE RIGASSIFICATRICE FSRU GOLAR TUNDRA, PIOMBINO (foto GEA Greem Economy Agency)

Tree climbing, che passione

Tree sleeping? No, tree climbing…

Gli alberi, che meraviglia, che passione incontrollabile.

Sempre pervasi da un amore infinito per questo pilastro del mondo naturale che ci collega alle stelle del cielo, abbiamo spaziato dal pensare come un albero” al fenomeno del Tree sleeping.

Oggi vogliamo raccontarvi del tree climbing, letteralmente “arrampicata sugli alberi”, una tecnica che permette, attraverso l’uso di funi e imbraghi, di accedere alla chioma dell’albero in assoluta sicurezza. Nato negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900 (dove, recentemente, è tornato alla ribalta della cronaca, diventando protagonista come originale forma di protesta pacifica in difesa di alcune millenarie sequoie.), si è poi diffuso in Europa principalmente come tecnica di lavoro sugli alberi ornamentali, nei parchi e in ambito urbano.

Oggi è diventata una vera disciplina sportiva che unisce l’amore per la natura con la tecnica dell’arrampicata sicura, con tanto di Campionati Italiani, dove ci si cimenta in varie prove sfidanti, quali la simulazione di salvataggio di persona in condizione di pericolo, su un ramo di un albero, o una salita sulla pianta con un finto lavoro di sistemazione e potatura della stessa. Atletismo che fa l’occhiolino alla natura.

A raccontare la breve ma intensa storia del tree-climbing italiano (una filosofia), un libro di Luca Vitali, Arrampicare gli alberi – Il tree climbing in Italia, Edizioni Montaonda, che raccoglie avventure di protagonisti sospesi tra i rami e appesi a una fune, che hanno sperimentato nuove tecniche e materiali, per toccare e incontrare gli alberi, salirli e curarli, potarli e quando necessario abbatterli, ma sempre con il rispetto che si deve a questi eccezionali e antichissimi esseri viventi.

L’immagine della copertina, del noto fotografo americano James Balog, sintetizza tutto ciò che l’albero significa: un sistema complesso e articolato, un’unicità che lo rende una montagna viva, dove l’uomo spicca per la sua piccolezza di ragnetto rosso, una mole quasi magica che sfida tempo e materia. Una centralità innegabile ed evidente nel sistema vivente terrestre.

Raccontata dalle voci dei protagonisti (climber ma anche agronomi), ecco ricostruita la storia della rivoluzione dell’arboricoltura in Italia, in tutta la sua complessità: dalle manovre in pianta alle tecniche, dalla potatura alla nuova gestione del verde urbano, dalla concretezza della professione alle nuove filosofie ambientaliste.

Nelle ampie interviste con l’istruttore-arboricoltore Renato Comin, l’istruttore tre volte campione italiano di tree climbing Alberto Anzi, l’agronomo Daniele Zanzi, esperto di alberi monumentali (e ne ha parlato a Geo&Geo nel 2013),

gli agronomi Laura Gatti e gli esperti Gianmichele Cirulli, Maurizio Coerini, Massimo Sormani, Matteo Cortigiani, Domenico Abbruzzo, vengono sviscerati gli aspetti e le vicende di un mestiere sempre più richiesto e apprezzato, che affascina e coinvolge sempre più persone. Fra le verdi chiome che sanno di infinito.

Partendo dagli anni ‘80 fino ad a oggi, il libro, che contiene anche bellissime immagini, entra nel merito delle problematiche legate alla professione e alla pratica, considerandone anche le derivazioni secondarie, quelle che spostano l’obiettivo dalla ‘cura dell’albero’ all’uomo, e propongono l’arrampicata in pianta come esperienza di crescita personale, sport e avventura o, anche, pratica di protesta. Mondi che si uniscono.

Un elemento di ulteriore grande interesse e peculiarità è l’esperienza della casa editrice Montaonda.

Luca Vitali

Nata nel marzo 2011, per iniziativa di Luca Vitali, cerca di pubblicare libri utili, ostili alla logica massificante del capitalismo avanzato, favorevoli alla decrescita e a una vita serena e soddisfacente. In pochi anni è diventata la prima casa editrice italiana per l’apicoltura, traducendo testi stranieri, ripubblicando importanti libri esauriti, proponendo nuovi libri per specialisti e appassionati, per curiosi e bambini. Non ha distributori ma ha preferito l’auto-distribuzione. Incuriositi, cercate un suo libro? Basta andare sul sito.

Luca Vitali, Arrampicare gli alberi, Il tree-climbing in Italia, Edizioni Montaonda, 2013, 216 pp.

Primo Maggio, festa della merce-lavoro

Il Primo Maggio si celebra la conquista della giornata di otto ore lavorative, iniziata nel 1867 nello stato dell’Illinois, per poi espandersi molto lentamente in tutto il territorio statunitense. Una coda tragica si ebbe il primo maggio 1886, diciannovesimo anniversario, quando durante lo sciopero a oltranza deciso dalla Federation of Organized Trades and Labour Unions come il giorno di scadenza limite per estendere, appunto, tale legge in tutto il territorio americano, la polizia uccise due manifestanti a Chicago.

Faccio il sindacalista, da un anno a tempo pieno. Mi occupo di migliorare la vita in azienda delle persone che lavorano nella mia categoria. Negozio accordi, cercando di ottenere le migliori tutele e cercando di farle applicare – cosa non così scontata. Ascolto i loro problemi, alcuni molto seri, alcuni meno gravi. In entrambi i casi, si tratta di problemi vissuti da persone che hanno un contratto di lavoro stabile, una progressione economica garantita, una previdenza assicurata, e che grazie a queste cose – non concesse, ma conquistate – hanno potuto chiedere un mutuo, farsi una famiglia, immaginare e programmare un futuro. Queste garanzie sono frutto delle rivendicazioni collettive di lavoratori che si sono organizzati in sindacati, cioè in organizzazioni miranti a tutelare interessi comuni attraverso il ricorso alla forza collettiva conferita ai loro rappresentanti da una delega.

Finora tutto bene, vero? Dove sarebbe il problema? Il problema è che le lavoratrici ed i lavoratori di cui “mi occupo” hanno almeno 40 anni. Poi vado a casa, e ascolto quello che raccontano i figli e i loro amici di 20 o 25 anni a proposito del loro lavoro. E rabbrividisco. Mi succede soprattutto quando sono reduce da consessi sindacali nei quali noi,  grazie alle nostre lotte, parliamo di problemi nel lavoro: mentre fuori da lì ci sono problemi del lavoro. Di un lavoro che non conosciamo più e di persone che non intercettiamo più. A volte, non sappiamo nemmeno dove sono.

Leggo che “i lavoratori coperti dai 207 Ccnl confederali sono circa il 97% del totale dei contrattualizzati” (Fonte: Fondazione Di Vittorio della Cgil). Poi ci sono 687 contratti firmati da organizzazioni sindacali che non rappresentano quasi nessuno, e che fanno dumping, accettando di sottoscrivere condizioni al ribasso.  I lavoratori tutelati da un contratto nazionale sono 14,5 milioni.  I lavoratori attivi (dato dentro il quale si trova un po’ di tutto) sono poco più di 23 milioni. Infine (si fa per dire) gli “inattivi” – persone che potrebbero lavorare ma non lo fanno, per vari motivi – sono quasi 13 milioni.

Dentro quei 9 milioni di non contrattualizzati c’è di tutto, ma anche dentro coloro che lavorano con un contratto c’è di tutto: a tempo determinato (più di 3 milioni), con somministrazione (dato variabilissimo, oscillante attorno alle 450.000 unità). I numeri sono importanti, darne troppi rischia di non far focalizzare gli elementi più rilevanti del quadro generale. Che a mio avviso sono tre:

più di una persona, rispetto a due che lavorano (13 milioni su 23), non lavora. Diciamo che “preferisce” non lavorare e mantenersi a un livello di sussistenza con altri mezzi che non siano il lavoro.

9 milioni di persone lavorano “in nero”, sono i “sommersi”. Un numero enorme.

-tra i contrattualizzati a vario titolo, un quarto sono a termine, e il 5% sono dipendenti delle Agenzie per il lavoro, che li somministrano ad aziende per cui lavorano ma che non hanno bisogno di licenziarli, quando non servono più, perchè non li hanno nemmeno a libro paga. E pensare che c’era una legge, che io studiai, che vietava l’interposizione di manodopera. Adesso, se ti registri come agenzia di intermediazione, puoi diventare un caporale autorizzato. La differenza è enorme: prima era vietato l’istituto, adesso è vietato non pagare lo Stato che ti autorizza a farlo.

Negli anni ’90, ben prima della fusione a freddo che diede vita al PD, arrivarono questi accademici cattolico-socialisti prestati alla politica che, non so dire se armati delle migliori intenzioni, aprirono la porta all’utilizzo del lavoro precario (che chiamarono “flessibilità”) per migliaia di imprenditori, sull’assunto che il mercato del lavoro poteva migliorare abbassando le soglie di tutela del lavoro stesso, invece che stimolando l’aumento di produttività ed efficienza delle aziende. I vigliacchi assassini delle Brigate Rosse che ammazzarono Marco Biagi, uno dei più lucidi teorici della precarizzazione del rapporto di lavoro, fecero un altro capolavoro: resero impossibile criticare le sue idee, pena l’essere accusati di giustificare un delitto.

Renzi e i suoi apostoli (ora in parte convertiti alla fede nella nuova leader, che si deve guardare da loro più che dai fascisti, perchè il loro mimetismo è imbattibile) in fondo non fecero, con il Jobs Act, che completare l’opera dei loro predecessori, a partire da Treu. Resero precario ab origine anche il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, coerenti con l’assunto che l’imprenditore dispone i fattori della produzione, e se licenzia, anche illecitamente, non deve correre il rischio di ritrovarsi quel lavoratore di nuovo in azienda: al massimo, dovrà pagare una “multa”. Il licenziamento (illegittimo) come costo d’ impresa, calcolabile ex ante. E pensare che nemmeno per l’AD di Ikea Italia (leggi qui) l’art.18 dello Statuto dei lavoratori era un problema, lamentandosi invece lo stesso dell’incertezza nei tempi della burocrazia e della politica. Eppure la sinistra contemporanea che elaborava idee d’avanguardia alla Leopolda decise che era ora di dare una bella spallata.

Tutto molto moderno, molto contemporaneo. E se succede a tua figlia? Se succede a lei, improvvisamente tutta questa modernità ti appare con un altro volto: quello della mercificazione delle persone e del lavoro.

Questo armamentario teorico promana da un filone importante della sinistra italiana. Questi giuristi sono stati selezionati all’interno di compagini, poi divenute governi, di centro-sinistra. La mercificazione del lavoro in un paese che dichiara di essere una “Repubblica fondata sul lavoro” è stata approntata e messa a terra dentro un filone di cultura politica appartenente alla “sinistra”, e questo più che un’ opinione mi appare come un dato di realtà.  Ciò detto, come è possibile meravigliarsi del fatto che milioni di persone, in particolare tra le classi sociali meno abbienti, non vadano più a votare? Forse c’è da meravigliarsi che milioni di persone ancora ci vadano (siamo in una fase talmente decadente della nostra democrazia da considerarne svuotate di senso alcune sue regole fondanti, fatto tra l’altro storicamente foriero di sventure).

E’ una celebrazione agrodolce, resa grottesca da un Consiglio dei Ministri convocato il primo maggio per deliberare misure sul lavoro, che scommetterei destinate a renderlo ancora più “flessibile” di quanto già non sia.

Lino Guanciale in Europeana, al Teatro Abbado di Ferrara

Uno splendido Lino Guanciale in Europeana di Patrik Ourednik, scampoli di Novecento, secolo contraddittorio

Uno spettacolo, quello in scena al Teatro Comunale di Ferrara dal 28 al 30 aprile, dove, per usare le parole dello stesso Lino Guanciale di cui è interprete e regista, è come stare dentro un frullatore, corollario di un secolo, il Novecento, quasi inafferrabile. D’altra parte, i frullatori – ed elettrodomestici simili – sono nostri fedeli e onnipresenti compagni quotidiani.

Europeana è un libro straordinario e insolito (una curiosità: stesso nome della biblioteca digitale europea). Sono 150 pagine che raccolgono scampoli della storia europea del Novecento, accumulati come si accumulano i giornali vecchi in uno sgabuzzino stretto, buio e polveroso. Le più diverse notizie vengono date una di seguito all’altra, con pari importanza, tutte rigorosamente alla rinfusa, un susseguirsi di scampoli, brandelli e flash della storia europea: tragedie, slanci, sarcasmi, progressi, scoperte, passioni, omicidi, politica, guerre… Un vortice di contraddizioni. Non manca nulla, pare, c’è tutto, ma a pezzettini, come ritagli di un’enciclopedia, di quelle che a scuola i boomer e i ragazzi della generazione X sfogliavano. Come se il prodigioso e terribile ventesimo secolo fosse ormai laggiù, distante e quasi sepolto con tutte le sue agitazioni, irrequietezze e pazzie; come fosse già una civiltà antica di cui restano solo frammenti. Basta parlare con i giovani e tecnologici nipoti e questa sensazione diventa subito realtà.

Il praghese Patrik Ourednik ha raccolto quel turbine di voci, di follie e aspirazioni come da una civiltà o un futuro lontani e le ha riunite in un solo respiro. La furia di questa lista è la sua potenza. Finisce per essere una storia di mille storie, in cui ci getta Lino Guanciale, avvolto dai frammenti musicali del bravissimo fisarmonicista sloveno Marko Hatlak. Atmosfera avvolgente e affascinante, emozionante. Nel buio della sala.

Palcoscenico con sfondo nero, una montagna di stracci – che scopriremo essere magliette che l’attore indossa durante il reading – che ricorda la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (1967), l’apertura con la fisarmonica di Marko che ci regala alcune note di Oblivion di Astor Piazzolla. Tutti attenti ad ascoltare, per sapere, contro i pregiudizi.

Un vero rapporto corpo a corpo fra l’attore e il testo (d’altra parte l’attore viene dal rugby). Una fatica fisica che si vede anche nelle oltre 20 magliette indossate durante la lettura-recitazione. “Il teatro è un fatto fisico, se non è presenza non è”, dice Guanciale. E poi c’è il corpo a corpo agonistico per il lettore. È un tour de force ammaliante e ipnotizzante da cui non si può distogliere l’attenzione nemmeno per un attimo.

“Il pallino viene lasciato all’attore”, continua, “che si muove sulla base della sensazione del momento. Il rapporto con il testo che viene letto è forte e intenso, si tratta di una scelta poetica volta a restituire il funzionamento dello stesso testo. Il reading è un grande spazio di manovra nel teatro, la lettura dà valore alla versatilità dell’attore. Non è lettura e basta – o diventerebbe mortale – ma è recitare con un rapporto diretto con la pagina come struttura portante. Se si recita seguendo un testo inventando in quel momento o seguendolo come un musicista segue la sua partitura viene fugato ogni equivoco identificativo: l’attore è una cosa, il testo un’altra, l’incontro fra i due una mediazione cui partecipa il pubblico e da esso ci si aspetta un punto di vista critico nei confronti del testo”. Verissimo e nello spettacolo si vede bene.

Rispetto a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, Europeana rinuncia all’ambizione di controllo, dice Guanciale in un’intervista. Nel testo di Kraus la voce narrante tiene insieme i pezzi, qui invece no. Lo spettatore si impegna a prendere posizione, chi ascolta deve costruire un suo pensiero, un proprio percorso critico.

Se i fatti elencati sono tanti tantissimi, avanti e indietro nel tempo, i ponti vanno immaginati e costruiti da chi “subisce” il testo, trascinato in un vortice. Ai fatti va resa la loro anima.

La lista dei fatti e dei numeri – come i chilometri fatti dalla somma delle altezze dei soldati morti durante la Prima Guerra Mondiale – mette lo spettatore sotto un rullo compressore di breaking news che scorrono 24 ore su 24, a cui si deve dare un senso e un ordine. Un accumulo di dati ed eventi che siamo noi a dover ordinare o almeno a provare a farlo.

Immersi come siamo nel frullatore che pervade la nostra società, con come compagni domestici quei frullatori e quelle invenzioni tecnologiche tanto decantate, ma anche con i morti o gli animali che perdono il loro status domestico e ne acquistano un altro di attrazione zoologica o i tanti altri oggetti che possono stare nella discarica o nell’uragano della storia, dobbiamo fare noi un bilancio, tirare filo e conclusioni.

Ogni cittadino ha avuto una sua idea di Europa a seconda dell’epoca che ha vissuto. Per alcuni è stata la contrapposizione segnata dalla cortina di ferro e dalla guerra fredda, per altri è diventata una strana signora a memoria Thatcher o Merkel, per altri ancora è legata alla caduta del muro di Berlino (e nello spettacolo ci sono anche le note di The Final Countdown degli Europe). Per molti è quella di oggi con le sue feroci ingiustizie.

Il Novecento è stato un secolo contraddittorio, legato da conquiste e sconfitte, che ha generato valori e disvalori. Scoperte e guerre devastanti, buoni e cattivi. Come sempre, d’altronde. Per Lina Wertmüller, in Un’allegra fin de siècle, di questo secolo si salvava il cinema. Per Guanciale-Ourednik, oltre alla scienza, si salvano anche la carta igienica, il reggiseno, l’elettricità e l’acqua calda in casa, per sorriderci un po’ sopra.

Il testo, del 2001, pare scritto oggi. Il suo filo è la memoria, la storia. La chiarezza su chi siamo e da dove veniamo. I regimi che si fronteggiano. Il capitalismo e il consumismo che si rincorrono. La Barbie deportata del 1986 è un esempio, terribile, per tutti, di come mercificare anche la memoria, di come il cittadino sia ormai il consumatore e il consumatore sia cittadino sono in quanto consumatore.

“E nel 1986 fu creata una bambola Barbie con la divisa a righe dei campi di concentramento con un piccolo copricapo a righe sulla testa”.

Trailer realizzato da Anna Margotti nell’ambito del corso Area Non Fiction di bottega finzioni, Bologna

Non bisogna perdere la grande eredità data dalla memoria, in un mondo che ci getta nella “marmellata”, ossia la mondializzazione e la globalizzazione in cui siamo cresciuti.

Nel 1989 Francis Fukuyama profetizzò l’imminente “fine della storia riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico e la fine della Guerra Fredda, la democrazia liberale e il capitalismo sarebbero stati destinati a pervadere, gradualmente, tutte le nazioni del pianeta. E pace, equilibrio ed uguaglianza sarebbero stati per sempre e per tutti. Pare proprio, invece, che si reiterino sempre gli errori del passato e che molte persone non conoscano questa teoria. Perché continuano a (voler) fare la storia.

 

Lino Guanciale

Nato nel 1979 ad Avezzano (L’Aquila), dopo alcuni trascorsi rugbistici, si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dove si diploma nel 2003 e ottiene il Premio Gassman come miglior allievo degli ultimi dieci anni. Subito dopo inizia a lavorare in teatro, prima con Gigi Proietti (Romeo e Giulietta, spettacolo inaugurale del Globe Theatre di Roma), poi con Claudio Longhi (Il Matrimonio di FigaroLa solitudine dei campi di cotoneSallingerPrendi un piccolo fatto vero) e Franco Branciaroli, collaborando con alcuni tra i più importanti nomi del palcoscenico italiano, da Luca Ronconi (Atti di guerra) a Walter Le Moli (Gli incostantiAntigone), da Massimo Popolizio (Ploutos, o della ricchezza) a Michele Placido, che dopo averlo diretto in Fontamara gli affida il ruolo di Nunzio nel film Vallanzasca – Gli angeli del male. Al lavoro in teatro affianca dal 2005 l’attività di insegnamento e divulgazione scientifico-teatrale negli istituti scolastici medi superiori e nelle Università (è nel corpo docenti dello IUAV di Venezia). Al cinema esordisce nel 2008, interpretando Wolfgang Amadeus Mozart in Io, Don Giovanni di Carlos Saura, cui segue La prima linea di Renato De Maria. In seguito, è nel cast, oltre che del citato Vallanzasca, dei film Il gioiellino di Andrea Molaioli, Il sesso aggiunto di Francesco Antonio Castaldo, Il mio domani di Marina Spada, To Rome with Love di Woody Allen, La scoperta dell’alba di Susanna Nicchiarelli. Nel 2012 è stato protagonista di Happy Days Motel di Francesca Staasch, coprotagonista de Il volto di un’altra di Pappi Corsicato e nel cast corale de di Stefano Tummolini e di Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani. Nel 2017 è protagonista dei film I Peggiori di Vincenzo Alfieri e La casa di famiglia di Augusto Fornari, nel 2018 è in sala con Arrivano i prof di Ivan Silvestrini. In tv ha interpretato le fiction Il segreto dell’acqua di Renato De Maria, le tre stagioni di Una grande famiglia (per la regia di Riccardo Milani e Riccardo Donna) ed è stato protagonista maschile di alcune serie di grande successo in onda sulle reti Rai: Che Dio ci aiuti 2 e 3, La dama velata, le due stagioni di Non dirlo al mio capo e La porta rossa, le tre stagioni di L’Allieva. È il Commissario Ricciardi nella serie di Alessandro D’Alatri in onda su Raiuno e parte di Sopravvissuti. In teatro, dopo il successo de La resistibile ascesa di Arturo UI di Bertolt Brecht (Premio dell’Associazione Nazionale Critici Teatrali come Migliore spettacolo dell’anno), de Il Ratto d’Europa (Premio UBU 2013) e di Istruzioni per non morire in pace, tutti per la regia di Claudio Longhi, nel 2016 ha inaugurato la stagione del Teatro Argentina di Roma con Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, portato in scena da Massimo Popolizio. Nella stagione 2017/2018 è il protagonista della trasposizione teatrale di La classe operaia va in paradiso, per la regia di Claudio Longhi, che gli vale il Premio UBU e il Premio dell’Associazione Nazionale Critici Teatrali come miglior attore, e alla fine del 2018 è il protagonista maschile di After Miss Julie, per la regia di Giampiero Solari. Nelle ultime stagioni ha portato in scena Non svegliate lo spettatore, omaggio alla vita e alle opere di Ennio Flaiano, Dialoghi di profughi di Brecht e ha esordito nella regia teatrale con Nozze di Elias Canetti. Nel 2015 ha ricevuto il Premio Flaiano come Personaggio rivelazione dello spettacolo italiano.

Marko Hatlak

È un fisarmonicista sloveno, noto per le sue performance vivaci e appassionate e per l’ampia varietà di generi che adora esplorare – dal barocco alla musica contemporanea, al tango, all’etnica al jazz. Il suo percorso musicale inizia a sei anni, a Idrija, nella scuola musicale della sua città natale. Dopo essersi diplomato al Conservatorio di Ljubljana ha proseguito i suoi studi in Germania, prima a Weimar (Accademia di Musica Franz Liszt) e poi a Würzburg, dove ha concluso il suo perfezionamento con il maestro Stefan Hussong. Solista da venti anni, leader di ensemble, ha condiviso la scena con numerosi altri solisti di fama, ensemble, orchestre e direttori, che ne hanno valorizzato il suo unico e peculiare approccio. Negli ultimi anni ha composto vari lavori per orchestra e per solo, nonché brani popolari per i suoi gruppi. Tra gli artisti con cui ha collaborato ci sono Stefan Milenkovich, Vlatko Stefanovski, Stefan Hussong, Una Palliser, Neil Innes, Tommy Emmanuel, Iztok Mlakar, Miho Maegaito, Marko Churnchetz. Ha inoltre lavorato con i seguenti direttori e orchestre: l’Orchestra filarmonica di Mosca, la Jenaer Philharmonie, la RTV Slovenia Symphony Orchestra, En Shao, Marko Letonja, David de Villiers, Carmina Slovenica. Si è esibito in importanti teatri e sale da concerto nel mondo, tra cui il Kennedy Center (Washington DC, USA), Križanke – Festival Ljubljana (Slovenia), Sava Centar (Belgrade, Serbia), University of Harvard (Boston, USA), Slovenian Philharmonic (Ljubljana, Slovenia), Ronnie Scott’s (Londra, GB) e l’ensemble della BBC Terrafolk.

Lino Guanciale in Europeana. Breve storia del XX secolo, di Patrik Ourednik

Copyright © 2001 Patrik Ourednik, Traduzione Andrea Libero Carbone, © 2017 Quodlibet srl, regia e con Lino Guanciale, musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica, costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca, luci Carlo Pediani, co-produzione Wrong Child Production e Mittelfest2021, in collaborazione con Ljubljana Festival

Foto di Luca A. d’Agostino

Per certi versi
La ballata delle favole

La ballata delle favole

Un giorno
Le favole
Invasero il mondo
In segno di pace
Gli adulti
Per grazia ricevuta
Si dimisero da contemporanei
Con una e-mail
Al centro
Potere di tutti
Libertà di ognuno
Diretto da due dodicenni
In omaggio
Alle disparità di genere
Tre lepri
Una fila di aironi
Quattro gabbiani
In due coppie fedeli
Le favole
Invasero il mondo
Levando dalla Terra
Tutte le armi
Esplose in un momento
Solo
Dell’universo
I potenti
Rimasero senza potere
Nel regno democratico
Della solitudine

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Storie in pellicola / Biglietto per il Paradiso

Se il Paradiso è in terra, non è poi così lontano…

Ricorda un po’, nella trama, All you need is love, con Pierce Brosnan e Trine Dyrholm (i genitori che non approvano un matrimonio dall’aria frettolosa). Nei luoghi, Bali, ci riporta a Mangia Prega Ama (peraltro una delle protagoniste è sempre lei, Julia Roberts dal sorriso travolgente). Con la Roberts recita un George Clooney spigliato e divertente, non li si vedeva insieme dai tempi di Ocean’s Twelve.

Ticket to Paradise, di Ol Parker, è una rom-com ideale per passare un’ora e mezza in spensieratezza, fra battute che fanno sorridere e battibecchi divertenti e pungenti di una ex coppia che non si sopporta più (sarà vero?). Due sofisticati genitori – Giorgia e David – che sognano un brillante futuro americano per la figlia Lily (Kaitlyn Denver) non sopportano neppure di incontrarsi ma si uniscono per sventare un matrimonio non gradito. Condividono dunque il piano del “cavallo di Troia”, che consiste nel fingersi felici e solidali con la ragazza salvo poi lavorare dietro le quinte per la rottura del nuovo legame.

E poi c’è lei, Bali, soprattutto, fra qualche stereotipo e tanta comodità dei luccicanti alberghi di lusso per occidentali ma la cui straordinaria bellezza a tratti incontaminata fa riflettere. Una purezza che profuma, colori delicati che bucano lo schermo. Tradizioni.

C’è un tocco di esotismo, una critica implicita allo stile di vita americano delle grandi città e le grandi carriere.

Se, poi, ci si estranea anche solo un attimo dal racconto del matrimonio osteggiato che si vuole sventare fra Lily-che tanto ha studiato per diventare avvocato e il balinese coltivatore di alghe Gede, si può dare spazio a una profonda riflessione che miti ormai, pare accomunare: cosa stiamo facendo, noi piccoli uomini, dove stiamo andando, cosa conta o dovrebbe veramente contare nella breve esistenza di ciascuno?

Quella Natura bellissima fatta di scorci mozzafiato, di tramonti avvolgenti gratuiti e generosi che parlano da sé sembra volerci rimettere al nostro posto, riportarci sui binari, pare voler tentare di darci una corretta direzione. Prima che sia tardi.

Roba per ricchi, direbbe qualcuno, riflessioni possibili solo per coloro che non devono, ogni giorno, lottare per sopravvivere. Possibile. Probabile.

Ma il Dalai Lama dice: “quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente, in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”.

E questa commedia brillante, per quanto leggera, ci ricorda questo. Ed è già importante.

 

Ticket to Paradise, di Ol Parker, con George Clooney, Julia Roberts, Kaitlyn Dever, Billie Lourd, Maxime Bouttier, USA, 2022, 104 minuti.

L’Arte che Cura /
Anna e il Chiriguare – La costruzione del sè

Anna e il Chiriguare – La costruzione del sè

Arriva nel mio studio Anna, 20 anni. La mamma adottiva è preoccupata perché la figlia è come bloccata. Il suo isolamento è progressivo come pure l’insuccesso scolastico, la passività, i sintomi depressivi. É carina, con lunghi capelli neri e lucidi. Ha un fascino esotico che osservo ma non commento. Ha nuovamente interrotto gli studi universitari. Non sa che fare della sua vita. Ha idee molto generiche, sensate: lavoro e famiglia ma, pare, non esista strada per avvicinarla realisticamente a questi traguardi.

Alla fine della prima seduta, nel salutarla, commento positivamente il suo aspetto e Anna mi informa educatamente ma quasi risentita, di essere sudamericana, specifica molto frettolosamente: “non so lo spagnolo, non sono mai stata né desidero andare in sudamerica”. Mi liquida come se avessi oltrepassato un confine molto preciso anche se invisibile.

Penso che, forse, uno dei problemi di questo blocco, iniziato nella adolescenza, sia la presenza di un conflitto ineriore più antico: il desiderio di una identità.

La presenza di un senso di sé idealizzato al confronto con un principio di realtà che rende impossibile il bisogno di non portare su di sé, impressa nel corpo e non eludibile nel profondo inconscio della mente, la sua origine primigenia.

La sua immagine è quella di una indigena del pueblo, una Pocahontas sudamericana. Cerco di capire come può conciliare il riflesso che lo specchio le rimanda: occhi a mandorla, incarnato olivastro, piccola statura, con i canoni estetici occidentali cui aspira, sottolineati involontariamente dai suoi genitori: alti, bianchi, colti, affermati.

Come ritornare con il pensiero ad una madre che l’ha abbandonata, a un padre chissà se esistito, a una recondita inconsapevole certezza di un rifiuto, di una vita iniziata nella trascuratezza, nella povertà, con la sola urgenza di sopravvivere e chissà cos’altro? 1

Come tutto ciò può trovare posto nella sua ricerca di radici non frammentate, di identità di giovane adulta italiana?

La sua soluzione é nella negazione, nella rimozione. Freezing: una dissociazione che permette di sopravvivere psichicamente ma che, come in ogni trauma porta al “congelamento” e alla scissione. L’esito: la costruzione di una identità diffusa e frammentata.

Difficile capire, per me, come arrivare ad una integrazione che le permetta di ridare dignità e rispetto alla sua origine e non la metta contemporaneamente, nel contesto attuale, dentro ad un confronto perdente o rabbioso persino con la sua famiglia come in parte già avviene. “Non mi hanno mai capita”.

Ma un giorno mi viene in mente El Chiriguare.

Cerca la laguna vive el chiriguare
con cara de burro i cola de bagre(…)
Viene el chiriguare te và a comè

[Intorno alla laguna vive il chiriguare con la testa d’asino e la coda di pesce….arriva il chiriguare  ti mangerà]

Le racconto, come per un pensiero casuale, di conoscere alcune canzoni del folklore latino-americano. Le chiedo se può aiutarmi a disegnare questo strano animale che viene descritto nella canzone ma che vorrei tanto prendesse una forma. Niente di serio, un gioco, una canzone infantile, le leggo il testo in spagnolo e lo traduco, faccio confronti con alcune filastrocche della mia infanzia, lo canticchio.

Anna asseconda la mia richiesta e comincia a lavorarci sopra in diverse sedute: prima lo sfondo di uno stagno con acque invitanti i cui colori mescola con spontaneità, sapienza, senza esitazioni. Poi su un altro foglio si dedica al Chiriguare che verrà disegnato per una prima bozza, poi ridisegnato, decorato, impreziosito e infine ritagliato e collocato sul primo foglio. Il risultato è esteticamente piacevole, il suo impegno leggero, silenzioso, preciso.

Osservo: El Chiriguare è stato disegnato con cura, ma è stato “tagliato” e tolto dal suo foglio di origine. Appiccicato su quel verde stagno immobile di cui non si scorge nulla, lì come in prestito, al centro e solo. Terminato il lavoro lo metterà in disparte e non ne farà più spontaneamente alcun riferimento.

Il lavoro con Anna è continuato, a lungo hanno predominato il silenzio, poche parole incerte e imbarazzate ma questa fertile suggestione ha permesso un nesso significativo, rispettoso, delicato. Una rappresentazione visibile che spero permetta ad Anna di ricontattare amorevolmente le sue prime radici e permetta un disgelo che invita al risveglio della primavera della sua giovane vita.

Una affermazione di sé convinta e non appiccicata e, a quel tempo, messa da parte.

Ci sarà una svolta nel suo percorso grazie ad un altro lavoro pittorico ma vi lascio nella suspense per una prossima volta.

Una chiave di lettura:
I genitori affermano di averle raccontato la sua storia, Anna dice di non sapere niente dei suoi primi anni. Sottolineo che il senso di una identità stabile ed integrata si sviluppa proprio nei primi mesi in base allo stile di attaccamento, cioè alla qualità e all’affidabilità delle cure della figura primaria che quasi sempre è la madre. L’adolescenza è una fase in cui si fa pressante la domanda chi sono e chi voglio essere e può far riemergere istanze emotive psichiche irrisolte.

Nota importante: tutti gli articoli della rubrica sono tratti da casi clinici reali, romanzati ed adattati per rispettare la privacy. Le immagini dei pazienti sono autorizzate dalla liberatoria che mi è stata concessa solo a scopo di pubblicazioni a mio nome. Ne è vietata la riproduzione per altri usi.

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioli, clicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.  

In copertina: El Chiriguare, tecnica tempere e collage

Parole a capo
Valentina Meloni: “I poeti” e altre poesie

La mia opinione sui versi si riduce a questo: rammentare la parentela tra verso e universo.
(Velimir Chlebnikov)

la casa delle fate

                                  a Goffredo Parise
                                  11 aprile 2020
c’è una piccola casa
sulla riva sinistra della Piave
lungo un sentiero di ghiaie
tra filari di viti e volti gentili
nelle case macchiate dal fango.
ha quel sorriso mentre porgi
le mani alle rose e ne interri
l’essenza moceniga di fiaba
come il colore delle fate,
delle pareti in intonaco a vernice
e gli occhi verdi delle persiane
aperte sul verde del greto alberato.
c’è il ricordo delle cose dette ieri
e qualche goccia di pioggia
che cade tra le fessure aperte
dalla piena improvvisa del fiume.
lo avresti detto? ero lì e ho sentito
vibrare la voce delle pietre e sai
cosa dicono ai vecchi gelsi adesso?
li sento sussurrare nel vento d’aprile
mentre noi siamo qui a morire
perché è questo il mese crudele
eppure vedi? c’è il sole e ancora
l’abbraccio del roseto in giugno
come una memoria rifiorente.
li senti gli alberi parlare?
fosse anche il mio desiderio
diventare vecchio e andarmene
in una giornata di vento mentre
le onde del prato si muovono
al canto degli uccelli come se
invisibili dita passassero nel mezzo
i bei capelli le nubi in candidi ciuffi
sugli embrici vestiti di muschi…
spiritelli che mi vengono a cercare.

 

anche gli alberi sanno

anche gli alberi sanno
da loro ho imparato l’attesa
la fiducia di chi aspetta pioggia
la pazienza di chi sorregge il cielo.
oggi il vecchio salice mi ha parlato
scuotendo i rami al vento
in un tintinnio irradiato di dolcezza:
«vedi» mi ha detto «allungo un ramo
per toccare le nuvole ma non posso
raggiungerle… attendo che piova»
allora ho compreso la resa
che mi chiama a scriverti
a sfiorarti col pensiero fino
a quando pioverai parole
dal luogo inatteso che mi abita.

i poeti

i poeti
creature di altri mondi
non scrivono compongono
un bouquet di fioriti fiori
una piccola faretra di frecce avvelenate
una manciata di proiettili…
poi
lanciano nel vuoto
quella strana creatura fatta di niente
e da lì si leva il fragore del tuono
da lì il canto
da lì il profumo
un invito a ricomporsi interi
a creature d’altri mondi
anche loro sole con il loro piccolo respiro
in quell’angolo sospeso di cielo

(L’evidenza del vuoto, Ensemble 2022)

c’è un pianto nel cielo

il freddo m’è penetrato nelle ossa
oggi tutto riluce di vaghezza
c’è un pianto nel cielo che resta

sospeso tra nubi e desiderio
la siepe si è innalzata a dismisura
nei miei occhi ha messo foglie
e gitti che prima non esistevano – ora –
mi chiude allo sguardo ogni parola
mi preclude l’infinito che sognammo.

ali

se manco l’attesa di piccole gioie
ricordami, passero, la tua venuta:
nell’aria gelida il tuo passo lieve
di orma aggraziata su candido vello.
lascia una piuma se manca la neve
posata nel vento come un pensiero
o una briciola sul davanzale
nel canto dell’alba, tu mattiniero.
se manco il giorno creatura di cielo
lo ascolterò dal tuo becco sonoro
e le ali che spero in questa realtà
inaudita beltà apriranno in volo.

 

Valentina Meloni è nata a Roma nel 1976, dal 2007 vive in Umbria. Ha pubblicato per la poesia: Le regole del controdolore (Temperino Rosso, 2016), Eva (Edizioni Nosm, 2018), Alambic (Progetto Cultura, 2018), con Giorgio Bolla. Corrispondenze da un mondo increato – epistolario poetico (La Vita Felice, 2018), L’evidenza del vuoto (Ensemble, 2022), La tessitrice (Yod Edizioni, 2022). Le plaquette numerate: Nei giardini di Suzhou, con dipinti sumi-e di Santo Previtera (FusibiliaLibri, 2015), Il Fiore della Luna, Leggenda di Rosaspina poemetto in haiku (La linea dell’equatore, 2018) e Suite della solitudine illustrato dall’artista Rosario Morra. Le raccolte bilingue: Nanita (Otata’s Bookshelf, 2017), Enso: Haiku Yoti (Nausicaa 2019); le fiabe illustrate: Storia di Goccia, Nanuk e l’albero dei desideri, Nanuk e il ragno Alvaro, Briciole di Haiku. La raccolta di prose brevi e haibun Ippocampo – Prose poetiche e Reminiscenze (ilmiolibro 2020). Ha curato e tradotto dall’inglese Dendrarium del poeta bulgaro Alexander Shurbanov (Musicaos, 2021). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, spagnolo, cinese, giapponese, arabo, bulgaro, russo e sono apparsi in blog, riviste e quotidiani internazionali. Contatti: www.valentinameloni.com
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Vite di carta /
Marco Malvaldi al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 2. parte

Vite di carta. Marco Malvaldi al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 2. parte

Questa volta mi sento proprio impreparata e vengo a ricevere lumi dall’incontro con Marco Malvaldi su un argomento di fisica. Si tratta di una nuova branca del progetto Galeotto fu il libro, il Galeotto scientifico per l’appunto, e Marco Malvaldi torna a incontrare gli studenti all’Ariosto, dopo esserci venuto nel maggio del 2015.

il secondo principio marco malvaldiOggi viene  per dialogare sul suo saggio dal titolo Il secondo principio, uscito nel 2021 presso Il Mulino. Si parla di termodinamica e di chimica, si fa riferimento a sistemi isolati, in particolare a uno: l’universo fisico. Una bazzecola.

Non solo sono impreparata, arrivo anche quando l’incontro è cominciato da una buona mezz’ora e non mi piace per niente partecipare alle cose a metà. Però sono qui e mi dico che almeno sentirò per intero la seconda parte della conversazione, quella sul ‘libro Galeotto’ scelto da Malvaldi. Si tratta di Il sistema periodico di Primo Levi, un capolavoro.

Prendo posto in prima fila, dove le colleghe e amiche mi hanno riservato un posto e una copia cartacea del canovaccio preparato insieme agli studenti intervistatori. Scorro le prime pagine e trovo come sempre la presentazione dell’ospite e del libro su cui si dialoga oggi, seguono le domande.

Leggo e intanto ascolto Malvaldi con la sua voce potente che si accalora a rispondere. Lo vedo muoversi sul palco, è in piedi e fa la spola tra lo schermo su cui sono proiettate slide esplicative preparate dai ragazzi e la parte del palco più vicina all’uditorio, oltre un centinaio di studenti. Quando è in quest’ultima posizione ce l’ho davvero a poca distanza e la prossemica fa la sua parte.

C’è silenzio, c’è attenzione. Sono in ballo concetti, quello di entropia in primo luogo, che coinvolgono il sistema universo. Sento la mancanza delle risposte che Malvaldi ha già dato, ma mi sforzo di captare i contenuti su cui si concentra con la sua verve espositiva.

L’entropia è una grandezza fisica che misura il grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un dato momento” leggo nel canovaccio; Malvaldi intanto sta dicendo che nell’universo essa è destinata ad aumentare nel tempo, sulla base del secondo principio della termodinamica.

Ripercorre i contributi che a questo principio hanno dato alcuni grandi studiosi nella storia del pensiero scientifico, da Lucrezio a Boltzmann passando per l’’Ulisse della termodinamica’, il tedesco Rudolf Clausius. Mescola nomi della letteratura a illustri uomini di scienza e col suo accento toscano, non troppo pronunciato, ma pur sempre inconfondibile, fa da eco a un certo Galilei di cui sento la presenza.

Tocca corde piuttosto sensibili per i giovani che ha davanti. Parla di futuro, parla della conoscenza come primaria forma di potere e come antidoto a ogni forma di totalitarismo;  incita i ragazzi alla curiosità, alla voglia di consapevolezza su di sé e sull’universo con le sue leggi.

E quando lo studente di turno introduce la conversazione su Il sistema periodico, Malvaldi passa all’altra sua anima, la letteratura. Lo fa con scioltezza e si misura col capolavoro di Primo Levi come chimico e come uomo.

il sistema periodico primo leviMette in campo un respiro ancora più ampio da dare ai discorsi. Cosa rappresenta questa raccolta di racconti nella produzione di Levi: è una autobiografia in chiave chimica, dice, un affresco della natura umana fatto di 21 tasselli, ognuno un elemento della tavola di Mendeleev.

Ognuno una metafora della antropologia di cui siamo fatti, come si vede per esempio in Zinco, il racconto sulla impurità. Quello in cui Primo, giovane universitario, ha il vero incontro con la chimica e lavorando in laboratorio a preparare solfato di zinco scopre il comportamento assai diverso che questo elemento assume a seconda dei composti ai quali prende parte.

Scopre che “perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze… Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape; il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”. In analogia perfetta con la propria diversità di ebreo.

Nell’etimologia stessa della parola chimica è contenuta la capacità di trasformare, precisa Malvaldi, e riferisce a se stesso prima cha al sistema universo questa chiave di lettura. La chimica lo ha edotto sui suoi limiti, lo ha reso consapevole della propria identità attraverso successi ed errori,  ha incentivato in lui curiosità e conoscenza in un intreccio ancora produttivo.

Anche come romanziere ha bisogno della chimica, per avere un rapporto più obiettivo con la realtà, per dosare precisione e fantasia nel composto narrativo dei suoi gialli.

Guardo dalla mia postazione le colleghe che hanno lavorato a questo incontro: l’insegnante di matematica e fisica, che è al suo primo Galeotto, mi sembra più emozionata che mai. La capisco. A incontro finito le potrò rivolgere la domanda per me più vera: “Quanto ti sei divertita a fare questa esperienza Galeotta?” Ha il viso stanco, che le si illumina, mentre fa sì più volte con la testa.

Malvaldi sta mettendo insieme uomini e mondi nelle sue osservazioni, comprendo bene che sta dando prova della continuità tra i saperi, del continuum conoscitivo a cui ci ha invitati già da un po’ Galileo.

La platea è fatta di adolescenti: non sarà che li sta portando troppo lontano? No, mi rispondo. Ce lo hanno condotto loro, con domande come la numero 6: “Sapendo che l’entropia è una grandezza fisica che misura quanto un sistema sia lontano da uno stato di equilibrio, e sapendo che l’entropia dell’universo è gradualmente aumentata, possiamo pensare che possa influire anche sulle nostre emozioni?

Nota bibliografica:

  • Marco Malvaldi, Il secondo principio, Il Mulino, 2021
  • Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1979

Immagine della cover a cura dell’autrice

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

25 Aprile: di cosa oggi dobbiamo liberarci

Mentre Ignazio La Russa perfeziona il suo processo di liberazione dagli antifascisti fuggendo a Praga per il 25 aprile a disturbare l’anima di Jan Palach pur di non rischiare di incrociare qualcuno dell’ANPI, noi ci domandiamo sul senso della Liberazione.

Ricordo con gioia e un pochino di nostalgia l’Arena di Pace e Disarmo a Verona il 25 Aprile del 2014che riempì l’Arena di Verona con migliaia di persone che lanciarono in cielo un ironico aereoplanino di carta “no F-35”; per dire allora come ora che la liberazione profonda è la liberazione dalla violenza di ogni tipo ma, per cominciare, dalla violenza delle armi che ora risuonano in Sudan, ma da tempo in Ucraina e in un numero ormai imprecisato di luoghi del pianeta.

Dobbiamo liberarci innanzi tutto della “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, come la chiama Francesco, che non solo miete vittime dirette ma una quantità di vittime collaterali, poveri, migranti, affamati, vittime dell’uranio impoverito e giustifica altre violenze: quelle sulle donne, quelle su chi ha un altro orientamento di genere, i dissidenti da tutti i governi, chi protesta per il salario o per le pensioni.

Dobbiamo liberarci dalla terribile guerra che i potenti hanno scatenato nei confronti della Madre Terra quando hanno ritenuto che in nome del profitto (che hanno chiamato progresso, con uno spietato banditismo semantico) si potessero rubare risorse ai popoli e consegnarle al sistema capitalistico industriale con il permesso di farne qualunque cosa, purché rendesse denaro. Quando ricorderemo il saggio apachi che segnalava, molti anni fa, che “i soldi non si mangiano?”.

Dobbiamo liberarci dalla violenza e, soprattutto, dall’idea che la violenza possa essere la soluzione: più telecamere contro gli stupri, più controllo per i giovani, più sanzioni e armi per i governi ribelli o sgraditi, più controllo elettronico e fisico delle persone, più gabbie fisiche e mentali per tutti.

L’Essere Umano ha bisogno urgente di liberarsi dalla violenza per proseguire un cammino luminoso, per abbracciare la sua casa, il Pianeta Blu che lo ospita da tanto tempo, per vivere in armonia con le altre specie viventi, per conoscere nel profondo la sua natura e le sue infinite possibilità. L’oscurità che a volte percepiamo nel presente è una nebbia che deve e può diradarsi per aprire la strada al cammino evolutivo della specie umana, ma il destino dell’Essere Umano è nelle sue mani, nelle mani di noi tutti e non è indifferente la via che intraprendiamo e la direzione che seguiamo.

Una buona liberazione per tutte e tutti.

Cover: Un momento dell’Arena di Pace e Disarmo, Arena di Verona,  25 Aprile del 2014 (articolo e foto di Pressenza)

Festa della Liberazione a Casa Cervi: 25 aprile 2023.
Con le immagini in diretta della Festa

Da quest’anno la Festa si può raggiungere anche con il treno: sono assicurate navette tutto il giorno dalle 10 alle 21 (ultima corsa) collegate con diversi parcheggi vicini, anche da e per la stazione ferroviaria della vicina Sant’Ilario D’Enza (Reggio Emilia). Per maggiori informazioni guarda la mappa dei trasporti e dei parcheggi e gli orari delle navette.

Festa della Liberazione a Casa Cervi: 25 aprile 2023

#25aprileacasacervi


GUARDA LA FESTA IN DIRETTA STREAMING

PROGRAMMA COMPLETO DELLA FESTA

MAPPA DELLA FESTA

PRESS KIT E COMUNICATO STAMPA

Il 25 aprile 2023 a Casa Cervi (mappa) si celebra, come ogni anno, la Festa della Liberazione. Sono in corso i preparativi per il grande evento, pronto ad accogliere gli amici da tutta Italia. La Festa è aperta tutto il giorno dalle ore 10 alle ore 20.

È preferibile il pagamento in contanti (possibili problemi di linea al POS per sovraffollamento).

Ore 12
VINICIO CAPOSSELA
MARA REDEGHIERI

Ore 15,30
BANDABARDÒ & CISCO

Ore 18
LO STATO SOCIALE

Ore 19
DJ SET RESISTENTE
con Mark Bee & Keemani

Segui tutti gli aggiornamenti della Festa sui nostri profili Facebook e Instagram

Ampio parcheggio nel campo davanti a Casa Cervi (costo: 2 euro)

Da quest’anno la Festa si può raggiungere anche con il treno: sono assicurate navette tutto il giorno dalle 10 alle 21 (ultima corsa) collegate con diversi parcheggi vicini, anche da e per la stazione ferroviaria della vicina Sant’Ilario D’Enza (Reggio Emilia). Per maggiori informazioni guarda la mappa dei trasporti e dei parcheggi e gli orari delle navette.

NAVETTA 1: S. Ilario Stazione – Parcheggio Coop (Croce Bianca) – Museo 
NAVETTA 2: S. Ilario Stazione – Parcheggio Coop (Croce Bianca) – Parcheggio Methis – Museo
NAVETTA 3: Calerno – Caprara Z. I. – Museo

La Festa è aperta tutto il giorno dalle ore 10 alle ore 20; nel pomeriggio la Festa è visibile anche online in diretta streaming su questo sito.

La Festa si svolgerà regolarmente anche in caso di maltempo: i partecipanti sono invitati a munirsi di ombrello qualora vi fossero previsioni incerte.

La partecipazione alla Festa è a ingresso a offerta libera e non richiede prenotazione.

Il Museo Cervi sarà aperto per tutta la durata della Festa con ingresso a offerta libera.

Per informazioni è possibile scrivere a info@istitutocervi.it

Acquista la maglietta ufficiale di Casa Cervi!

1° MAGGIO A CASA CERVI E “I GIORNI DELLA DEMOCRAZIA”
Evento Facebook

Immagini in  diretta della grande Festa di Liberazione …

 

Foto e video in diretta di Maria Cecilia Graziani

 

E se siete a Casa Cervi, non dimenticate di visitare …

Il Museo Cervi
Un luogo emozionante per tutte le età

Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne

Il Museo Cervi si trova nella bassa pianura reggiana, fra i Comuni di Gattatico e Campegine, ed è ambientato nella casa colonica dove la famiglia Cervi arriva nel 1934. Contadini mezzadri, i Cervi compiono all’inizio degli anni ’30 scelte che si riveleranno fondamentali sia in ambito produttivo sia nel consolidamento di un deciso orientamento antifascista.

Fucilati insieme a Quarto Camurri per rappresaglia nel dicembre del 1943, la vicenda dei sette figli maschi di Genoeffa e Alcide assume da subito un forte valore simbolico, mentre la loro casa – durante il secondo conflitto mondiale punto di riferimento e di concreto aiuto per antifascisti, renitenti alla leva, e per chi si opponeva alla guerra – diventa la meta privilegiata di tutti coloro che si riconoscono nei valori dell’antifascismo e della democrazia.

Casa Cervi diventa “Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne” dopo uno spontaneo processo di trasformazione che si è concluso con il riallestimento del 2002.

Il Museo Cervi permette oggi di riscoprire la storia di questa famiglia, attraverso percorsi di visita nuovi e in costante aggiornamento, sia all’interno delle stanze del Museo, che sul territorio.

L’itinerario di visita all’interno del Museo si snoda attraverso tre sezioni principali:
1. “Il lavoro contadino”
2. “L’antifascismo e la Resistenza”
3. “Una famiglia nella memoria”

Scopri i percorsi di visita -> QUI

Scopri le opere d’arte, le fotografie e gli oggetti della cultura contadina custoditi dal Museo Cervi attraverso le schede a cura di IBC – Emilia-Romagna ->

-> Schede OA (Opere d’arte) -> http://bit.ly/1q5EzyG

-> Schede BDM (Cultura contadina) -> http://bit.ly/1V8DV0h

-> Schede F (Album fotografici) -> http://bit.ly/1V8E2cd

 

A Fidardo De Simoni, Fosse ardeatine, 24 marzo ‘44

 

Lettera di Davide Ferrari,
“Casa dei Pensieri”, Bologna 25 aprile 2023

Gentile Signor De Simoni, ho trovato il suo nome fra gli uccisi. Poco si parla di voi, siamo costretti ancora a parlare delle responsabilità che i politici della destra italiana vorrebbero assegnare ai partigiani, anche in questa vicenda. Comunque siano andate le cose lei è stata una delle vittime. Lei, un innocente. Lei, come Cristo. Non si usa più richiamare il titolo di nostro Signore, tantomeno l’esempio. Ma Lei era un cristiano, credeva nell’Evangelo, in tutta la Bibbia.

La Bibbia non scherza. Parla delle terribili punizioni e della giustizia del Dio degli eserciti, ma comanda che lo straniero sia accolto come uno di famiglia, sempre. Lei era nato ad Acqualagna, vicino a Pesaro e viveva a Roma. La sua strada, con un nome bellissimo e dolce, via dei ciliegi, è a Centocelle. Un giorno portò a casa tre soldati, magri, impauriti come tutti gli uomini in fuga dalla guerra. Solo in una cosa erano diversi da Lei e da me: erano inglesi. Non conosco il loro nome, non so dove li avesse incontrati. Erano stranieri. Volevano vivere. Li nascose. La gentaglia che sempre aiuta gli oppressori la denunciò. La imprigionarono. Certamente avrà avuto paura. Avrà pregato.

Ancor di più avrà pregato quando con i suoi compagni di sventura l’hanno portata alla morte. Il comando britannico, ho letto, ha mandato una lettera di encomio a sua moglie. Non è vero che solo i cristiani, i cristiani veri intendo, come Lei, hanno aiutato i fuggiaschi. Ma lei ha DOVUTO aiutarli. Non c’è una terza possibilità: o Resistenza o resa, per essere fedeli, come indicava il suo nome, Fidardo. Queste parole le scrisse Dietrich Bonhoeffer, ma lui era un Pastore eccezionale, di una cultura sconfinata, un uomo grande, non un piccolo cristiano come Lei e come me. Ma i doveri di ogni cristiano sono gli stessi, improrogabili, e tutti noi, diciamo la verità, li conosciamo. Permetti che ti dia del tu? Fratello De Simoni, nel 1935 avevi aderito ai Pentecostali. Siete una Chiesa entusiasta, vi piace cantare e incitare a voce alta il predicatore, lodando Iddio. La prima volta che ho partecipato a un culto pentecostale non sapevo nulla delle vostre celebrazioni vivaci, delle vostre frequenti esclamazioni di fede. Ne rimasi meravigliato, quasi sobbalzando alle prime voci, io, valdese, calvinista abituato alla massima sobrietà possibile.

Il fatto è, Fidardo, che tu a quelle parole di fedeltà hai creduto veramente. Per questo motivo gli assassini ti hanno rapito la vita a 45 anni. Mi chiedo cosa ci racconteresti, oggi. Le lettere di alcuni condannati a morte, in altri frangenti, ci sono giunte: qualcuna ha la bellezza di una poesia. Altre sono state scritte con parole commosse e terribili: libertà, eguaglianza, onore, amore, madre, sposa, figli. Forse a te sarebbe venuta fuori solo una parola breve, un nome che ti diceva tutto: Gesù. Non potevi girare la testa, lasciar fare, abbandonare, “Gesù non vuole”. Non avevi forse nient’altro da dire, se non l’abbraccio alla tua famiglia, la richiesta che ti perdonasse. La piccola fotografia tua che è nel fascicolo, la cartellina rosa dell’associazione dei familiari delle vittime, ingrigita, oggi anche su Internet, ti rivela un uomo del popolo, uno come tanti, ma i tuoi familiari avevano il diritto di averti sempre con loro, come tutti, come le famiglie dei filosofi e dei letterati. Chissà quante volte qualcuno avrà detto loro, usando la perfidia nascosta in tutti i luoghi comuni, che i sacrifici non servono a nulla, le testimonianze le danno i poco furbi, i poveri di spirito, perché la vita non ha mai un lungo futuro e, in fondo, non serve a nulla. E quante volte l’avranno detto a te. Immagino che non avrai risposto nemmeno, forse hai detto loro soltanto, a mezza voce: Gesù, Gesù.

 

Leggi le altre Lettere per la libertà su Cantiere Bologna

 

Parole e figure / Che bello essere kitsch!

Chi ci dice che dobbiamo distinguere ciò che è kitsch da ciò che non lo è? Un bel libro sui canoni incomprensibili degli adulti e la libertà di pensiero dei bambini

“La zia dice che i pantaloni della signora del sesto piano sono kitsch. Mi piace la signora del sesto piano, lancia giù certi sorrisi dalla rampa delle scale, poi china lo sguardo sulle zampe larghe dei suoi pantaloni bianchi e li sventola. Sembra un elefante alto e magro, tronco di betulla al contrario, una calla d’estate”.

È la fantasia libera della protagonista del bellissimo e coloratissimo albo illustrato Kitsch! di Daniela Iride Murgia, pubblicato da Edizioni Corsare, con le illustrazioni di Daniel Torrent. La spontaneità dei bambini. Il mondo salvato dai ragazzini.

Una simpatica e paffuta bambina che cerca di afferrare il senso di questa parola di origine tedesca e, a partire da essa, di molto altro. Un viaggio originale e divertente.

“Ai bambini che si chiamano Gillo e a tutti quelli che non si chiamano Gillo. Alle tartarughe, alle nuvole, ai cani, ai sassi e a tutte le cose che si chiamano Gillo”, è la dedica che apre il libro. E il pensiero va subito a lui, il critico d’arte Gillo Dorfles che, nel 1968, pubblicava, con l’editore Mazzotta, Il Kitsch: antologia del cattivo gusto, in cui definiva il kitsch come “un’operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (erotici, politici, religiosi, sentimentali)”. Dorfles esaminava ciò che sotto questo nome appariva ogni giorno nell’arte, nella vita e nei processi di comunicazione. “È necessario conoscerlo, anche frequentarlo e, perché no, qualche volta utilizzarlo, a patto di non farsi prendere la mano. Perché il “cattivo gusto” è sempre in agguato”, scriveva.

Nel libro che vi presentiamo oggi, la parola esplode fin dalla copertina colorata rosa shocking con sprazzi-pennellate di verde e di giallo, come uno starnuto improvviso, rumoroso e difficile da trattenere.

Una parola ostica che la nostra giovane protagonista non sa mai come scrivere, dal suono buffo e alla quale non sa dare significato. O meglio, lei ne ha uno tutto suo, sempre diverso da quello degli adulti. Autonoma, fin da subito. La bimba indossa un buffo cerchietto con antenne lunghe e tese – quasi da piccola ape vispa e ronzante -, perché nulla si indossa mai a caso, una maglietta a righe dagli insoliti colori e un pantaloncino nero con banda gialla laterale. Ha ginocchia e gote rosso fiammante punteggiate da lentiggini ed è ancora avvolta dalla morbidezza dell’infanzia. Ha capelli mori e corti. Ci piace, ispira tenerezza e simpatia.

Tante sono le domande che si fa, è curiosa. Sono kitsch le automobili tutte uguali con i vetri neri che passano in fila, accanto alla panetteria, sfrecciando al seguito di qualcuno di importante? O forse lo è quel negozietto buffo, dalle grandi vetrine, pieno di cose improbabili come il fenicottero con pantofole di coccodrillo? Neanche la maestra dalle sopracciglia folte, con il suo dizionario che sa tutto, lo sa spiegare… 1920, 1940?

Qualcuno usa la parola kitsch per indicare qualcosa di bizzarro, qualcuno qualcosa di artistico, qualcun altro qualcosa di brutto. Insomma, forse la cosa migliore è provare ad afferrare il senso della parola, insieme al suono, da soli. Sarà la bambina a decidere che è meglio valutare da sola, ogni volta, cosa è kitsch e cosa no.

“Ho deciso che è kitsch il cappottino invernale del cane del cuore, cioè del cane di Matilde, la mia amica del cuore. Non ne sono molto sicura, voglio dire, non sono sicura se è kitsch il cane o il suo cappottino, e non sono nemmeno sicura che lei sia la mia amica del cuore. Forse è kitsch avere tante amiche e chiamarci tutte “migliore amica”. Mi piacciono i cani… ho deciso che gli alberi non sono kitsch!”

Ma, in fondo, è kitsch anche il tramonto quando il sole si fa rosso fuoco e copre l’azzurro del cielo, lo è quel grande mazzo di fiori finti che resiste al sole dell’estate e al gelo dell’inverno, che non ha bisogno di acqua o terra e che, senza parole ma con esuberanza, per la bambina vuole dire semplicemente amore. Quel qualcosa che resta con te. Quel dono che puoi portare ovunque.

Questo sì, quello no… E voi, che senso date alla parola kitsch?

Daniela Iride Murgia nasce in Sardegna, si laurea in arte orientale a Venezia e consegue un Master in illustrazione a Padova. Collabora con riviste e case editrici internazionali. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il prestigioso premio A la Orilla del Viento (Mexico), la menzione al V Compostela International Prize for Picture Books, il Premio Caniem della National Chamber of the Mexican Editorial Industry, il Premio Rodari, l’Award of Excellence Communication Arts/USA, il Premio Letteratura Ragazzi di Cento. Nel 2021 le è assegnato il Premio Andersen come miglior illustratrice dell’anno. È cofondatrice di M+B studio, che progetta e cura mostre in collaborazione con artisti e architetti internazionali presso la Biennale di Venezia e altre sedi dedicate all’arte contemporanea.

Daniel Torrent nasce a Barcellona, si laurea in Storia dell’Arte e dal 2010 si dedica all’illustrazione, specializzandosi nella realizzazione di albi illustrati, di cui è spesso autore sia del testo che delle immagini. Docente di illustrazione, ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali. Ha esposto le sue opere in Spagna, Italia, Francia, Messico e New York. Per Edizioni Corsare ha scritto e illustrato Album per i giorni di pioggia.

KITSCH!, di Daniela Iride Murgia, illustrazioni di Daniel Torrent, Edizioni Corsare, 2022, 40 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Les Ballets Trockadero de Monte Carlo:
una tecnica impeccabile e una incontenibile comicità

 

La Compagnia Les Ballets Trockadero de Monte Carlo, o come si definiscono sul loro sito: “La più importante compagnia di balletto comico maschile al mondo”, è straordinariamente unica nel suo genere perché è formata da ballerini professionisti che si esibiscono in un vasto repertorio tratto dal balletto classico tradizionale che loro eseguono nel pieno rispetto delle regole canoniche.

I loro spettacoli non sono una banale parodia ma un’intelligente rivisitazione del balletto classico a cui rendono omaggio rispettosamente con esecuzioni ricche di virtuosismi davvero incredibili.

I ballerini riescono a coniugare, allo stesso tempo, una tecnica impeccabile ed una incontenibile comicità che viene raggiunta accentuando con ironia alcune caratteristiche tipiche della danza classica. Essi infatti interpretano tutti i ruoli possibili trasformandosi in cigni, silfidi, romantiche principesse e principi maldestri che caratterizzano con pochi ma efficaci tratti divertenti.

Nata quasi 50 anni fa a Broadway, dopo i disordini di Stonewall, questa compagnia ha conquistato il pubblico di tutto il mondo e anche lo spettacolo che hanno presentato giovedì 20 aprile scorso al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara ha confermato l’affetto smisurato del pubblico nei confronti di questi artisti straordinari.

A Ferrara hanno eseguito il secondo atto del “Lago dei Cigni” con le musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij a cui, dopo una breve pausa, hanno aggiunto “La morte del cigno” che ha fatto divertire moltissimo la platea risultando irresistibilmente comica.

Hanno proseguito con una bellissima Suite su musiche di Vivaldi e hanno terminato il programma con “Paquita” con musiche di Ludwig Minkus.
Stupendo anche il bis su musiche tradizionali irlandesi che a molti ha ricordato la famosa Riverdance.

I ballerini della compagnia, affettuosamente “Trocks”, hanno dato vita ad uno spettacolo sinceramente bello, divertente ed esilarante che, oltre a riempire per intero il nostro teatro, ha catturato l’attenzione e la curiosità di adulti e bambini portando un messaggio chiaro di impegno per la diversità, l’equità, l’inclusività e l’accessibilità in tutte le sue forme. Bravi!

La cover e le foto nel testo sono di Mauro Presini

Le dita nel naso.
L’inarrivabile fortuna letteraria del più comico dei nostri attributi

Nasi celebri in letteratura

Nel libro quarto, capitolo nono, di uno dei capolavori del Cinquecento francese, Gargantua e PantagrueleFrançois Rabelais fa giungere i suoi personaggi sull’isola immaginaria di Ennasin, ovvero l’isola degli “snasati”. Qui tutti sono parenti l’un l’altro, ma nessuno è parente nel senso comunemente inteso. Il capitolo, in realtà, è soltanto un espediente che permette all’autore di elencare una serie di epiteti per i due sessi:

Uno chiamava un’altra: mia lenza. E lei di rimando: mio pesciolino.

– Ecco un pesce, – disse Eustene, – che starà spesso attaccato a quella lenza.

Un’altra di queste parenti era salutata con le parole: – Buon dì, mia cunetta – e lei rispondeva: – Buon dì, manico mio

E così via. Rabelais descrive anche l’aspetto di questi abitanti dal “naso in forma di asso di fiori” (il disegno delle narici di chi manca della punta del naso), rassomiglianti “a quei rossacci del Poitou”. In questo breve capitolo però, a farla da padrone, è un artificio che proprio Rabelais consacra: l’elenco dissacrante. L’autore ne aveva già fornita prova autorevole nel libro primo, capitolo tredicesimo:

Quindi mi pulii con le lenzuola, con la coperta del letto, con le tendine, con un cuscino, con uno scendiletto, con un tappeto da tavola, una tovaglia, una salvietta, un moccichino, un accappatoio. E sempre vi trovai maggior piacere che non un rognoso quando gli grattan la schiena.

L’elenco dissacrante – qui sul materiale migliore con cui pulirsi dopo aver defecato – serve spesso a Rabelais per prendersi gioco delle dispute dotte, eredità medioevale, che erano in uso nelle Università del Cinquecento (si vedano anche i capitoli quattordici e diciannove del libro primo). È anche tipico della cultura popolare del periodo, che quelle stesse dispute canzonava (capitoli quinto e ventiduesimo del libro primo), aggiungendovi continui riferimenti smisurati a tutto ciò che riguarda il corpo – mangiare, bere, fare all’amore, orinare, defecare – con sommo divertimento di chi ascoltava.

Abbandoniamo ora Rabelais e facciamo un salto di circa due secoli. Tra il 1760 e il 1767, Laurence Sterne dava alle stampe il suo libro più famoso: The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman. Opera innovativa, che aprirà la strada ad autori come Joyce, lo Shandy è una digressione continua. La narrazione sinceppa ad ogni capitolo, ritardata da piccoli incidenti, scherzi (si veda la pagina completamente bianca o quella marmorizzata), aneddoti e riflessioni. L’umorismo vuole essere più alto, raffinato, rispetto a quello di Rabelais, eppure vi è più che una strizzata d’occhio all’autore francese. Nel capitolo ventisette del terzo libro – la divisione in libri e capitoli rimanda nuovamente a Rabelais, ma era del resto comune a molti autori – il protagonista dell’opera vede finalmente la luce. Durante il parto però il Dottor Slop “Gli ha schiacciato il naso come una focaccia e lo ha appiattito a livello della faccia”. Questo incidente avrà come conseguenza la disperazione del padre poiché, come Sterne ci fa sapere, tutti, in famiglia, avevano avuto “nasi” di considerevoli dimensioni. Se ho usato le virgolette, è perché anche qui, come in Rabelais, il naso è un espediente per introdurre argomenti a carattere sessuale.

Lo stesso Sterne cita più volte l’autore francese e – a proposito del naso – si premura di rassicurare il lettore:

Solo implorando in anticipo, e supplicando i miei lettori (…) di non permettere che con alcuna astuzia o inganno il nemico del bene metta nella loro mente idea diversa da quella che metto io nella mia definizione. Con la parola Naso, in tutto questo lungo capitolo sui nasi e in ogni altra parte della mia opera in cui ricorra la parola Naso, dichiaro che intendo né più né meno che un Naso.

Come credergli, se dopo una lunga digressione sulle maggiori autorità che si sono occupate di “nasi”, di per sé molto divertente, l’autore ci racconta una novella, ad opera di un fantomatico “grande e dotto” Hans Slawkenbergius, dove campeggia l’equivoco irrisolto tra il naso e l’organo sessuale maschile? Eccone un estratto:

– Come è vero che sono un buon cattolico, è un naso come il mio – disse la sentinella – solo ch’è sei volte più grosso –

– L’ho udito scricchiolare – disse il tamburino –

– Perdinci, l’ho visto sanguinare – ribatté la sentinella – (…)

– Benedicite, che naso! – gridò la moglie del trombettiere – è lungo quanto una tromba.

– È dello stesso metallo, – disse il trombettiere, – come puoi giudicare dal suono dello starnuto.

– È molle come un flauto, – disse la donna.

– È il timbro dell’ottone, – disse il trombettiere.

– Un corno! – ribatté sua moglie.

– Ti dico che è un naso di bronzo, – replicò il trombettiere.

– Vedrò bene cos’è che sta faccenda, – disse la moglie, – perché non andrò a letto questa sera se prima non avrò toccato quel naso con questo dito.

Come si vede, è qui riproposto il motivo rabelaisiano dell’elenco dissacrante.

A togliere ogni dubbio, sul mascheramento naso-organo sessuale, il passo in cui il forestiero indossa i calzoni di raso cremisi “con una sorta… di appendice”. Qui Sterne sostiene, con finto pudore, di non voler tradurre la parola scritta in greco, nella falsa versione di Slawkenbergius, che altro non significa se non “perizoma”, sostituendola con “appendice”. Vi è poi la strana inquietudine notturna che coglie “le penitenziarie del terzo ordine di San Francesco, le suore del Calvario, le Premostratensi, le Cluniacensi, le Certosine e tutti i più severi ordini di monache”, una volta saputo dello smisurato “naso”. A questi passi, fa seguito una lunga dissertazione fra i dotti delle due Università di Strasburgo – una luterana, l’altra papale – che, ancora una volta ad imitazione di Rabelais, mette in ridicolo la falsa erudizione adducendo, come argomento della disputa, l’enorme “naso” del forestiero che nessuno, tranne la sentinella, il trombettiere e sua moglie, ha mai visto. Se sia più comico dissertare, con tanto di citazioni autorevoli, di un “naso” non veduto o tenere un’arringa stramba e parodistica, ricolma del grossolano latino scolastico, come fa Rabelais (libro primo, capitolo diciannove), lascio giudicare al lettore.

Lasciamo ora l’Inghilterra di Sterne e torniamo in Francia: più di un secolo dopo, nel 1897, Edmond Rostand dà alle stampe l’opera teatrale in versi Cyrano de Bergerac. Inutile precisare che anche qui siamo alle prese con un naso, ma ogni allusione sessuale pare essere scomparsa, o quantomeno relegata nella fase di costruzione dei personaggi. A metà strada tra Victor Hugo e Victorien SardouRostand è forse l’ultimo dei romantici, allusioni “basse” e triviali non gli si addicono, né tantomeno lo spirito raffinato di uno Sterne; il suo pubblico era la piccola borghesia perfettamente integrata. Eppure qualche legame con gli autori già citati esiste. Parlando del naso di Cyrano, anche Rostand adotta la forma dell’elenco, non più dissacratorio, quanto piuttosto atto a sfruttare le possibilità comiche dell’accumulazione:

Cyrano: Eh, no! È un po’ poco, ragazzo mio! Ce n’erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo:

Aggressivo: Io, signore, se avessi un naso simile, me lo farei tagliare!

Amichevole: Certo che quando bevete vi si immerge nel bicchiere! Fatevene fabbricare uno su misura!

Descrittivo: È una montagna, un picco, un promontorio!… Ma che dico, un promontorio? È una penisola!

Curioso: A che vi serve questo affare smisurato? Da scrittoio, signore, o da scatola di lavoro?

Grazioso: Amate a tal punto gli uccelli che paternamente volete preoccuparvi di offrire un trespolo alle loro zampette?

E così via. L’elenco continua a lungo. Le affinità parrebbero rincorrersi, se consideriamo il celebre passo, in cui Cyrano finge di cadere dalla Luna per ostacolare de Guiche, ma quant’è lontano Rabelais con le sue descrizioni deformi e stranianti. Rostand pare qui far sfoggio proprio di quell’erudizione classica che, tanto Rabelais quanto Sterne, si divertivano a deridere.

Ci restano ancora da citare, per concludere il nostro breve excursus, le opere di Gogol e Pirandello, rispettivamente Il naso Uno, nessuno e centomila. Nella prima, Il Naso, scritt0 a Roma tra il 1832 e il 1848, lo scrittore russo sembra più intenzionato a mettere in luce la perdita della rispettabilità, nonché i difetti e la bassa levatura della burocrazia zarista, che ad usare il naso – qui vero e proprio personaggio – come elemento dissacrante. Come in Pirandello, dove la scoperta fatta dal protagonista – Vitangelo Moscarda – di avere il naso che pende a destra, altro non è se non l’inizio di un percorso verso la perdita dell’identità. Certo, in Uno, nessuno e centomila il riferimento a Sterne è diretto (come rivela lo stesso Pirandello nel saggio L’Umorismo). Eppure anche nell’opera dell’autore siciliano il naso non è elemento dissacratorio, quanto piuttosto espressione di quelle concezione sterniana che “dall’infinitamente piccolo vede regolato tutto il mondo” (cfr. di nuovo L’Umorismo), concezione che Pirandello seppe sviluppare abilmente.

Con queste poche considerazioni sopra Gogol e Pirandello, che meriterebbero di essere approfondite, ma qui si è ricercato tutt’altro, si chiude il nostro breve viaggio tra i nasi celebri in letteratura. Ora non vi resta che leggere o rileggere gli autori citati, sempre che questo scritto vi abbia incuriosito, com’era nelle mie intenzioni.

Opere con il naso:
François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, (1532-1564), Einaudi Tascabili Classici, Torino 2017
Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo  (1759-1767), Mondadori Oscar Classici, Milano 2018
Edmond Rostand,
Cyrano de Bergerac (1897), Feltrinelli Tascabili, Milano 2014
Nikolaj Gogol, Il naso (1842), Mursia, Milano 2009
Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila (1926), Mondadori Oscar, Milano 2015

Per approfondire:
Per Rabelais si consiglia M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, (1965), 2001 e il saggio Il mondo nella bocca di Pantagruele, contenuto in E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, (1946), 2000. Su Tristram Shandy e L. Sterne si vedano le pagine a lui dedicate nel fondamentale testo di V. Sklovskij, Teoria della prosa, Einaudi, Torino, (1925), 1981. Su Gogol, si veda in particolare l’approccio singolare di C. Solivetti, Strategie narrative in Gogol, Lithos, Roma, 2015. Infine, per quanto riguarda Pirandello e per l’uso che se n’è fatto nel presente articolo: L. Pirandello, L’Umorismo, Newton Compton, Milano, (1908), 2009.

La Russa, il fascista situazionista

“Se avesse vinto lei, io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.

Vittorio Foa al senatore missino Giorgio Pisanò

 

E’ il tempo degli upgrade. Odio l’inquinamento linguistico anglofono, ma da oggi lo pratico per disobbedienza civile. L’upgrade del senatore fascista Pisanò è il Presidente del Senato fascista La Russa. Oddio: volendo essere precisi, è proprio l’attuale capo del Governo Meloni ad essere fascista, ma forse la dignità del ruolo le ispira maggiore temperanza (anche se non me la scordo al congresso di Vox a dire bestialità berciando).

Invece l’avvocato Ignazio Benito Maria La Russa se ne frega della dignità del ruolo. “Me ne frego” del resto è un noto motto squadrista, e La Russa, detto “La Rissa” per i suoi trascorsi, se ne sbatte di questa paccottiglia democratica. Peccato che, proprio grazie ad un regime democratico e antifascista, lui è potuto diventare presidente del Senato. Me lo immagino un Pajetta presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

La Russa non ringrazia, rivendica. Non agisce, reagisce. Dice enormità (non c’è antifascismo nella Costituzione italiana) e le rettifica da cavilloso leguleio  (intendevo dire che non c’è la parola antifascismo). Il 25 aprile, giorno della liberazione italiana dai nazifascisti, il patriota Ignazio Benito festeggerà andando in Repubblica Ceca a ricordare Ian Palach. Come se il 14 luglio, per celebrare la presa della Bastiglia, Macron andasse a Campo dei Fiori davanti al monumento di Giordano Bruno. Uno scarto di senso, uno smarrimento dell’orientamento spazio-temporale che lo consegna dal fascismo ad un inconsapevole situazionismo.

Come sono ricche le famiglie italiane, ma come sono povere le famiglie italiane.
Cosa ci raccontano i numeri della Banca d’Italia

 

La Banca d’Italia ha stimato con Istat a quanto ammonta la ricchezza delle famiglie italiane, delle Amministrazioni pubbliche, dei privati e finanziari.

Famiglie ricche e Stato povero, ma a ben vedere anche gran parte delle famiglie sono povere. La ricchezza delle famiglie nel 2021 era di 10.421 miliardi (202mila pro-capite), 8,6 volte il reddito annuo. Se si toglie l’inflazione c’è un calo del 3% e anche il fatto che abbiamo 8,6 volte di patrimonio in rapporto al reddito (Germania 7,5, UK 8, Usa 8,4, Francia 9, Spagna 9,4, Canada 9,8) è dovuto al basso reddito italiano. Lo Stato invece è sempre più povero e indebitato: da -558 miliardi a -1.467. Le società finanziarie sono passate da un debito di 188 miliardi a un attivo di 680, le altre sono rimaste stabili (da 828 a 880 miliardi di attivo).

Metà della ricchezza delle famiglie è dovuta alle abitazioni. Negli ultimi 15 anni sono cresciuti molto i depositi bancari, azioni, fondi comuni, assicurazioni. Se vogliamo però sapere come si distribuisce questo ingente patrimonio dobbiamo usare l’indagine sul campione di famiglie che svolge sempre Banca d’Italia. L’ultima, relativa al 2020 è stata pubblicata a luglio 2022 e si può trovare al seguente link: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/metodi-e-fonti-note/metodi-note-2022/MOP_IBF_2022.pdf

La Banca d’Italia confronta il reddito delle famiglie italiane del 2020 con quello del 2006 e mostra che oggi è inferiore in media dell’8%. Nessuna ripresa reale c’è stata dopo la grande crisi dei subprime (made in Usa) 2008-2012. Se si analizza il reddito da lavoro nel lungo periodo, quello dipendente registra una crescita dal 1977 al 1989 di +9,5% e poi un crollo di -20,4% dal 1990 al 2020, confermato anche dall’Ocse per i salari italiani. Nell’intero periodo (45 anni) il reddito da lavoro (dipendente) italiano perde, pertanto, il 12,1%, mentre il reddito da capitale cresce del 163%. Poiché i capitali li posseggono i ricchi, ciò spiega perché continua a crescere la disuguaglianza, soprattutto dal 1992 ad oggi, mentre dal 1977 al 1992 cresceva ancora l’uguaglianza, che è stata una delle caratteristiche del secondo dopoguerra.

L’indagine è stata migliorata cercando di cogliere i valori reali anche di quelle famiglie più ricche che normalmente si sottraggano alle indagini. Ciò ha consentito alla Banca d’Italia di rivedere verso l’alto l’indice di Gini sulla disuguaglianza, che è passato per il reddito famigliare equivalente annuo da quello che si credeva fosse 35,8 a 42,6 (NB: più è alto, più c’è disuguaglianza). Siamo così finiti primi in Europa per disuguaglianza. I paesi più diseguali infatti – con indice di Gini superiore al 50 – sono in Africa subsahariana (i dati sono però molto incerti), seguiti dal centro-sud America dove sono tutti superiori a 40 con record in Colombia (indice 54), Panama (49,8), Costa Rica (49,3), Brasile (48,9); altri “disuguali” sono Turchia (41,9), Stati Uniti (41,5), Iran (40,9), Russia (36). In Europa i migliori sono Finlandia, Norvegia, Danimarca (27,7), il peggiore era la Bulgaria (40,3), ma i dati aggiornati di Banca Italia ci proiettano da 35,8 a 42,6. Ora i peggiori siamo noi.

Misurata sempre con l’indice di Gini, la ricchezza netta famigliare cresce di altri 3 punti (soprattutto per fattori finanziari) dal 2016 al 2020. I patrimoni sono ancora più diseguali del reddito annuo. L’indice di Gini è stato rivisto da Banca d’Italia da 64,7 a 68,2% (per memoria era 61,6% nel 2016), portando così l’Italia più in alto di Francia (67,4) e Spagna (67,7), ma meno di Germania (73,9). 69,5 è la media dell’Europa.

Se analizziamo gli ultimi 14 anni, fatto uguale a 100 il reddito medio famigliare, quello del 2006 è sceso con la crisi del 2008-2012 a 84,5 nel 2012, dove è rimasto fino al 2016 per risalire a 87 nel 2020. Siamo dunque 13 punti percentuali in meno rispetto al 2006. L’incremento registrato nel 2020 è dovuto soprattutto – dice la Banca d’Italia – agli interventi assistenziali del Governo per contrastare Covid-19 e al Reddito di Cittadinanza per i più poveri. Senza questi interventi assistenziali il reddito famigliare medio sarebbe ancora al livello del 2012.

I consumi delle famiglie (a prezzi costanti) sono scesi dal 2016 al 2020 e sono inferiori del 20% rispetto al 2006. Gli italiani sono un popolo risparmiatore. Se lo Stato è sempre più indebitato, il risparmio privato ammonta a circa 3.300 miliardi (2mila miliardi tra conti correnti, azioni, obbligazioni, titoli di Stato italiani ed esteri e altri 1.300 miliardi che sono investiti nel risparmio gestito, pensioni integrative e sanità). Si dimentica però di dire che il 3% dei più ricchi ne detiene quasi la metà e che il quinto (20%) più ricco ne detiene il 78,2%.

Un altro modo di vedere le cose (sono dati sempre di Banca d’Italia) è dire che il 30% degli italiani più poveri hanno un immobile che vale pochissimo o sono in affitto e una disponibilità finanziaria irrisoria (8.700 euro in media), che il ceto medio (le classi centrali) ha una casa che vale 170-200mila euro e 30-50mila euro in banca. Infine che il 5% dei più ricchi hanno una casa che vale un milione di euro e 600mila euro in banca o titoli. Mentre i poveri e il ceto medio hanno perso negli ultimi 4 anni (e anche negli ultimi 20 anni), i ricchi crescono in continuazione.

La disuguaglianza nel possesso delle attività finanziarie (conti correnti, titoli e risparmio gestito per la pensione integrativa, etc.) è ancora maggiore di quella patrimoniale, perché il ceto medio e la classe operaia hanno spesso la casa di proprietà (77% delle famiglie italiane).

Nel 2020 erano necessarie 8 annualità di reddito per acquistare una casa di 100 mq. al Nord (9 al Sud in quanto i salari sono più bassi nonostante le case costino molto meno). Il valore delle case è in riduzione da 10 anni e per questo si è passati da 11 a 8,5 annualità.

Nel 2020, causa la pandemia gli italiani hanno risparmiato altri 120 miliardi. Il primo quinto più povero però non riesce a risparmiare, il 2° quinto risparmia circa 5mila euro all’anno a famiglia (ma solo il 25% ci riesce), il 3° quinto 8mila euro (ma solo il 35% delle famiglie), il 4° 14mila (il 52%), il 5° 46mila euro (il 70% delle famiglie). Come si può capire il 5° quinto (più ricco) risparmia 3/4 del totale e possiede il 79,2% del totale. Quindi dei 3.300 miliardi, ben 2.600 sono nelle mani del 20% delle famiglie più ricche. Ciò spiega perché ristoranti, settimane bianche e moda siano sempre in gran spolvero, nonostante l’impoverimento degli altri.

Tra Reddito di Cittadinanza e interventi assistenziali le famiglie povere (1° quinto) hanno ricevuto in media tra 5mila e 7mila euro nel 2020 e ciò spiega perché nel 2020 (a confronto col 2016) l’incremento maggiore del reddito (+13%) sia avvenuto proprio nel 1° quinto delle famiglie italiane (quelle più povere), mentre il 20% dei più ricchi è cresciuto del 5-6%. Le restanti famiglie sono invece cresciute solo di 1,5%, tranne il secondo quinto (20%), cioè la fascia di operai e ceti deboli immediatamente successivi a quelli più poveri che è cresciuta del 3% (aiutati anche da cassa integrazione e reddito di emergenza). Non bisogna però dimenticare che i poveri assoluti sono passati dal 6,1% del 2013 al 7,5% nel 2021 (5,571 milioni, fonte Istat) e triplicati in 20 anni. In crescita anche i poveri relativi (8,8 milioni che prendono meno di 1.040 euro al mese in due persone). Ciò spiega perché le famiglie indebitate siano il 21,3% (erano il 15,4% nel 2016).

La ricchezza netta delle famiglie italiane è crollata dal 2010 al 2020 passando da numero indice 105 a 78 nella media, mentre la mediana (il valore centrale) è scesa a 68. Ciò è dovuto soprattutto alla svalutazione della prima casa, oltre al calo dei redditi e dei patrimoni finanziari che hanno colpito l’80% degli italiani ma soprattutto la classe media. I ricchi hanno invece continuato a crescere (e più sono ricchi più crescono) e i poveri (per via degli 8 miliardi del Reddito di Cittadinanza) hanno avuto il loro anno migliore da 20 anni.

La nostra società fa in sostanza arricchire solo il 20% dei cittadini già più abbienti e impoverire il restante 80%. Può reggere a lungo un tale sistema? Ciò senza considerare la crisi climatica, la distruzione delle comunità, lo sfacelo delle relazioni umane e nuove minacce come pandemia e guerra.  Non ci piacevano il comunismo e il fascismo. Come pensare che l’attuale liberalismo ci porti verso una società più umana?

ACCORDI
Weird Goodbyes: com’è strano dirsi addio

Weird Goodbyes: com’è strano dirsi addio

Non mollare mai. Se ci credi, ce la fai. Volere è potere. L’unico ostacolo al tuo successo sei tu.
Quante volte le avete sentite queste frasi? Quante volte i vostri familiari, i vostri amici o i vostri colleghi vi hanno dato questo consiglio?

Pensate invece alle volte in cui un familiare, un amico o un collega vi ha ascoltato profondamente e, con parole sue, vi ha suggerito di lasciar perdere o di rinunciare a qualcosa. Sono decisamente inferiori alle altre, vero?

Intendiamoci: non c’è niente di sbagliato nell’accendere il nostro entusiasmo e la nostra voglia di successo con delle frasi motivazionali. Fa parte della nostra cultura, alimenta le nostre passioni e dà degli stimoli a chi non ne ha più.

Il fatto è che la società altamente performativa in cui ci ritroviamo non si adatta a noi. Siamo noi che ci adattiamo, spesso con affanno e preoccupazione, a una narrazione un po’ tossica del successo. Dovremmo imparare a lasciar andare, a lasciar scorrere la vita dalle nostre mani, senza che lo stigma del fallimento annebbi la nostra vista.

Così, nell’epoca del quiet quitting e della maggiore consapevolezza del benessere psicologico, c’è un pezzo che ben descrive l’abbandono di qualcosa che non fa per noi, che sia un lavoro, una relazione o una schema mentale. Come nelle migliori ballate dei R.E.M., Weird Goodbyes dei National è una sequenza cinematografica di immagini e sensazioni: c’è una vecchia macchina che arranca sotto la pioggia – metafora di un pezzo della nostra vita che se ne sta andando, che non ce la fa più – mentre il segnale radio va e viene. Il protagonista accosta sul ciglio della strada, sperando che sia un problema passeggero, ma sa già che non è così.

Il crescendo emotivo è scandito da un beat incessante e dall’alternanza delle due voci: quella calda e confidenziale di Matt Berninger, l’altra più melodiosa e sofferta di Bon Iver. L’amara verità del ritornello è un colpo al cuore, specialmente sul finale, e dà un senso all’inquietudine e ai dubbi delle strofe. Perché sì, per quanto possa sembrare strano, dirsi addio è necessario e inevitabile, prima o poi.