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Presto di mattina /
Noi, come gli alberi, primi servitori della luce

“Le tenebre non l’hanno vinta”

«Egli era la vita
e la vita era luce per gli uomini.
Quella luce risplende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta»
(Gv 1,4-5)

La Pasqua è tutta qui, in questa manciata di parole, prodighe sementi del buon Seminatore nella vita di tutti. Parole nascenti già nel prologo giovanneo, che fanno eco a quelle pronunciate fin da principio nel libro genesiaco quando «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». Là una parola ruppe il silenzio e disperse le tenebre: «“Sia la luce!” E la luce fu.» (Gn 1,2-3)

La Pasqua è tutta qui, nell’atto del passaggio dall’oscurità alla luce, dal silenzio alla parola. E tuttavia la Pasqua è anche oltre, sempre al di là, interrogante, sorgiva, come la luce che entrò e uscì da un sepolcro vuoto per la pietra rotolata via.

Allo stesso modo lo Spirito del Risorto, che in principio aleggiava sulle acque, nella Pasqua, già ora, «scova, strappa dalle tenebre le cose più recondite e trae le oscure alla luce» (Gb 12, 22) e continuerà a irradiare fin nell’ultimo scorcio, fin nell’ultima riga dell’Apocalisse come lampada orante insieme ai credenti, a chiamare fuori, a invocare la fonte stessa della luce: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”… Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù/ Marana tha» (Ap 22,20).

«La luce che viene è una voce che parla» (Fabio Pusterla)

Certo la Pasqua, come la luce, nel suo passaggio è un’immagine del mondo visibile e nondimeno rivelativa di quello invisibile. Essa delimita i contorni delle cose senza esserne delimitata. L’informe ritrova nella luce incorporea la sua forma; ma linee, volume, spazialità, non delimitano la luce e neppure la Pasqua.

Essa abita i confini e dischiude al contempo l’infinito, come uscendo dalla sua insondabile profondità. La “Pasqua-luce” dà senso alla nostra limitatezza aprendola sempre di nuovo all’illimitato e, all’insperato, disvelando il nuovo. Pasqua è una parola di luce generativa di cammini di luce dentro ogni oscurità. È nomade la luce, ma non senza una meta: così è della Pasqua, Pasqua per noi, Pasqua di tutti.

C’è una fedeltà della luce anche alle parole: sono «come l’olio che dorme nel lume, e che ben presto tutto si cambia in bagliore». Fedeltà non solo alle Scritture o ai loghia evangelici, ma alla stessa parola poetica che nel suo passaggio, nella sua Pasqua, può diventare luce aurorale, preconio pasquale, soffio e volo, attimo fuggente che si perde agli occhi e nondimeno trasparente alla luce dell’aurora che l’ha baciata:

La notte non è quel che credi, rovescio del fuoco,
crollo del giorno e negazione della luce,
ma sotterfugio necessario ad aprirci gli occhi
su ciò che resta irrivelato se lo rischiari.
A te parlo, mia alba. Eppure questo
non è che un volo di parole in aria?
È nomade la luce. Chi baciasti
si fa chi fu baciata, e poi si perde.
Ancora una volta, l’ultima, nella voce che l’implora,
si levi dunque, e risplenda, l’aurora.
(La luce dell’alba, Ph. Jaccottet, in Il barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, Einaudi, Torino 1992, 91).

Poesia è dire con la voce della luce

Philippe Jaccottet (1925-2021) ricorda Jean Starobinski è “poeta della nascita del giorno” così come del suo morire, della luce nascosta nell’oscurità: «L’incertezza è il motore, l’ombra è l’origine … In me, tramite la mia bocca, ha sempre parlato la morte. Ancora sostenuto dall’interminabile tenebra/ e alla schiena sospinto dalla notte brutale/ estenuato in quest’ alba di novembre/ vedo il vomere del freddo che avanza e divampa/ e, indietro, la terra solcata dall’ombra/ con sempre più luce» (ivi, 179).

Se la poesia è «la voce della morte», tuttavia nella terra arata dall’ombra di morte è la voce/verso della luce – con sempre più luce – che risale dal suo sprofondo.

Parola-passaggio della luce è la poesia come quella dell’annuncio pasquale, spazio aperto dalla luce che lotta con le tenebre, prodigioso duello: morte e vita si sono affrontate – dice la sequenza liturgica – ma le tenebre non l’anno vinta: «luce al suo culmine è forse lo strumento del passaggio dentro ciò che non può più essere né luce né oscurità» (Passeggiata sotto gli alberi, prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, Milano 2021, 112).

Come l’ombra della luce quella di Jaccottet è allora una poetica dell’Inafferrabile nel quotidiano, dell’Illimitato che affiora nel limite, dell’Inavvicinabile sentito vicino. È l’Impercettibile fattosi udibile, lo smisurato che si fa misura, l’inatteso che da sempre e in ogni cosa è ricercato e atteso.

«Riuscii così, per diverse settimane, a non creare ostacoli alla luce esteriore; sentii la felicità di una rinascita. Ma non ebbi la saggezza di tenerla segreta: ero troppo felice, troppo rassicurato, troppo pieno di uno spirito nuovo. E di nuovo tutto fu perso, non so per quanto tempo: forse finché non smisi di pensarci.

La poesia dunque è quel canto che non si può afferrare, quello spazio in cui non si può restare, quella chiave che tocca sempre riperdere. Cessando d’essere inafferrabile, cessando d’essere incerta, cessando d’essere altrove (si dovrebbe dire: cessando di non essere?) si abissa, non c’è più. Questo pensiero mi sostiene nelle difficoltà» (ivi, 124).

Così, tradurre il senso oscuro e luminoso dell’esistenza nella parola poetica è simile al tradurre la Pasqua nella vita di ogni giorno. Si è chiamati a frasi ricettacolo, divenendo uditori di una parola e di una luce d’altri, estranea e tuttavia vicinissima, al fine di darle voce, esserne risonanza attraverso tutto il nostro essere, la nostra lingua e il nostro agire fattosi permeabile anzi trasparente. Una forma, una trasparenza e un linguaggio nuovi a ciò che abbiamo ascoltato, a ciò che ci è venuto incontro.

Starobinski ricorda come, nei testi di Jaccottet, il richiamo continuo alla fine e al morire sia intrecciato al suo amore dichiarato per la luce: «Sì, egli l’ama tanto da voler che essa circoli tra le parole da lui tracciate, tanto da non scrivere mai una sola riga che non sia un itinerario di luce per il lettore, quand’anche parlasse dell’ombra e della notte».

Il suo – scrive Starobinski – è un “parlare con la voce della luce” (Parlare con la voce della luce, in Il barbagianni, 175). Nella sua poetica la luce fiorisce dagli steli insieme alle parole divenendo una liturgia, un canto alla luce: «C’è solo la fioritura naturale della luce in parole, come una sorta di culto reso dall’uomo alla luce» (ivi, 108).

La forza della poesia di Jaccottet non è da cercare né nell’ingegnosità combinatoria né nella creatività improvvisatrice: per Starobinski risiede piuttosto in una relazione e aderenza alla realtà; nel porre questa al centro.

Vi è anche nella sua prosa poetica «una costante esigenza di verità: esigenza tanto più imperiosa quanto meno essa è sostenuta da qualsivoglia sapere presuntivo, da una qualunque convinzione invariabile. Unico garante: la relazione interrogativa ch’essa intrattiene con il mondo.

Occorre infatti precisare che per Jaccottet la verità – così difficile da salvaguardare in mezzo a tutte le menzogne che ci assediano – non è una credenza, né un sistema d’idee, e nemmeno un’intimazione del sentimento. Essa si rivela nella qualità di una relazione con il mondo, nell’esattezza sempre rinnovata del rapporto con quel che ci sta di fronte e che ci sfugge» (ivi, 171-172).

E, tuttavia

«Quiete della notte, vicino allo spuntar dell’alba. Lo spazio intermedio, l’aperto recinto, forse la mia sola patria: il mondo che non si limita alle sue apparenze e che non si amerebbe a tal punto se non comportasse quel nocciolo invisibile che un poema come quello di san Giovanni della Croce fa risplendere meglio d’ogni altro; proprio come non si saprebbe amare una luce che ne implicasse la dimenticanza o il rifiuto» (Ph. Jaccottet, E tuttavia, seguito da Note dal Borto, Marcos y Marcos, Milano 2006, 73).

E, tuttavia” è il titolo di una raccolta poetica di Jaccottet nella traduzione di Fabio Pusterla. Tuttavia è avverbio e congiunzione composto da tutta” e via per indicare una continuità, meglio lo svolgimento di quando accade strada facendo; l’incontrare ancora qualcosa oltre il già camminato e il già compreso.

Accanto al percorso fatto, ecco una nuova circostanza, un fatto nuovo; la luce da un’altra prospettiva fa intravedere e disvela quella ancora in ombra. L’uso di tuttavia dice che la strada è questa, non muta; è così e, nondimeno, è aperta perché contiene o congiunge altro in positivo o in opposizione.

Con il titolo Et, néanmoins/E, tuttavia, Jaccottet esprime così l’ambivalenza dello sguardo che passa dall’uno ai molti, da qui a là, transitando dal già al non ancora. Sguardo che tiene insieme come il respiro il fuori e il dentro o come il soffio l’in-alto e l’in-avanti; che entra nell’oscurità come nella luce, che segna quel tratto di strada, la sola e unica via che è dato vivere a ciascuno.

Parole entro uno “spazio intermedio” e tuttavia “aperto recinto” perché comporta un prima e un dopo; spazio in cui, improvvisa, guizza la luce al modo in cui balena dentro i salici un Martin pescatore, le ali di un blu-verde come pietra di malachite, un azzurro brillante come lapislazzulo la livrea, il panciotto infine: un’opale di fuoco, come l’arancione del quarzo di corniola.

Occorre così allenare lo sguardo ai passaggi repentini passando dai luoghi d’ombra o di luce, renderlo penetrante o dilatato, aguzzo e tuttavia panoramico. È lo sguardo, infatti che per primo intravede un passaggio, un’apertura: «il problema del nostro animo è aprire dei passaggi segreti nei muri piuttosto che ammassare blocchi di marmo o edificare templi» (ivi, 40).

Il “Martin pescatore” è reminiscenza in Jaccottet della poesia di G. Hopkins, intravisto pure da lui come un gioiello alato, apparsogli e subito involato nell’scurità del fogliame e tuttavia non senza avergli suscitato in cuore queste parole:

Come il martin pescatore balena

Una sola volta basterebbe, per cosa? Per dire cosa?
Un solo lampo di piume
per lasciarti capire che la morte non è la morte?
Cacciatore, non prendere la mira: questo uccello non
è preda.
Guardalo, ma non prendere la mira, raccogli soltanto
il lampo delle piume tra i canneti e tra i salici.
Che allea tra le sue piume sole e sonno.
Non hai mai amato i gioielli più di tanto, lo ricordo.
Ma un gioiello alato, un gioiello dotato di cuore?
Un lampo selvaggio e che forse ti deride, come un tempo
certi sguardi?
Il martin pescatore balena dentro i salici.
È balenato.
E se qualcosa di simile bastasse per uscire dalla tomba
prima ancora di esservi adagiato?
(ivi, 49).

Noi, come gli alberi, i primi servitori della luce

Dialogando con il suo interlocutore durante la “passeggiata sotto gli alberi” Philippe Jaccottet racconta: «La luce è una forza inaudita e penso che l’amiamo più di ogni altra cosa, ma siccome le grandi passioni ci appaiono raramente, tramite l’impercettibile vibrazione della mano di una donna, oppure attraverso una lacrima subito asciugata, cosa sapremmo noi della luce se non ci fossero questi pioppi ad accoglierla e a illuminarcisi?

Più tardi, con tutte le loro foglie, ci faranno scoprire il vento. Evidentemente mi sono espresso male, ne convengo. Tuttavia non sente, forse oscuramente ma profondamente come me, che in questi incontri c’è la manifestazione di un alto grado di realtà e allo stesso tempo una sorta d’apertura o di cammino per lo sguardo?

Deve pur esserci una ragione della nostra felicità sotto questi alberi. Ciò che posso dirle finora, in modo del tutto provvisorio e con l’ingenuità e l’incertezza inscindibili dai suggerimenti della nostra voce profonda, è che ai miei occhi gli alberi sono i primi servitori della luce e conseguentemente – se mi permette questa follia un po’ improvvisa – che, una volta liberati dalla nostra condizione di fantasmi, è la morte a illuminare le nostre giornate.» (Passeggiata, 87-88)

E, tuttavia, il bagliore ostile della morte non spegne il lucignolo fumigante che alimenta nel la brama dell’Assoluto: «Si capisce che è verso la terra che ritorno, che non mi è possibile non ritornarvici: ma come potrei negare questa brama dell’Assoluto e, in seno all’amore per una vita resa abbagliante dalla morte, l’orrore di una morte resa inaccettabile dalla vita? Se l’Assoluto sfugge alla parola, sfuggirà alla negazione tanto quanto all’affermazione e non smetterà d’affascinarci» (ivi, 41).

Nell’inno dell’ottava di Pasqua si legge:

Ecco il gran giorno di Dio,
splendente di santa luce:
nasce nel sangue di Cristo
l’aurora di un mondo nuovo.
La colpa cerca il perdono,
l’amore vince il timore,
la morte dona la vita.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La militarizzazione della società secondo Yurii Sheliazhenko del movimento nonviolento ucraino

 

La recente nomina in Ucraina di Oksen Lisovyi a ministro dell’Istruzione e della Scienza ha sollevato la durissima reazione del Movimento Pacifista Ucraino, che ha inviato all’UNESCO un rapporto approfondito che apre una preoccupante visuale sulla militarizzazione della cultura in Ucraina.

In un video del 14 ottobre 2022, il nuovo ministro dice infatti che gli ucraini devono imparare a convivere per sempre con la guerra: “Questa guerra non è una guerra di un giorno. La avremo per molto tempo…Ho aspettato questa guerra tutta la vita. Sapevo che il suo tempo sarebbe arrivato e avevo paura che ad andare al fronte sarebbe stata una minoranza (com’è accaduto in passato). Ecco perché, nonostante l’enorme numero di vittime, il dolore di decine di migliaia di famiglie, la distruzione e le perdite, sono felice”.

“Oksen Lisovyi è l’opposto di tutto ciò che un ministro dell’Istruzione e della Scienza dovrebbe essere – dice Yurii Sheliazhenko, referente del movimento nonviolento ucraino, obiettore di coscienza e professore universitario -. Non è un professionista civile di indiscutibile integrità con un progetto e un’attitudine a costruire un futuro pacifico basato sulla conoscenza, o almeno a dare a studenti, insegnanti e studiosi uno spazio per sperare, avere fiducia e contribuire a un futuro migliore… Non è un accademico ma piuttosto un soldato… Non fa mistero delle sue intenzioni di trasformare l’istruzione in un’arma, di insegnare a tutti gli ucraini a convivere e a partecipare a una guerra infinita, di rendere le abilità di combattimento parte del curriculum scolastico obbligatorio senza eccezioni per gli obiettori di coscienza e di coinvolgere i giovani nello sviluppo di tecnologie militari”.

La denuncia del Movimento Pacifista Ucraino prosegue chiedendo la destituzione di Lisovyi non solo dalla carica di ministro, ma anche dalla direzione della Junior Academy of Sciences dell’Ucraina, che ha mantenuto anche mentre era volontario in guerra. “L‘immagine pubblica militaristica di Lisovyi, il suo dichiarato desiderio di arruolare giovani studenti nell’esercito e di costruire una “società di combattenti” non è in alcun modo coerente con il fatto che la Junior Academy of Sciences of Ukraine sia un centro di educazione scientifica sotto gli auspici dell’UNESCO – un’organizzazione culturale contro la guerra il cui compito è quello di prevenire le guerre e creare difese di pace nelle menti umane”.

Sotto la sua direzione, denuncia ancora Sheliazhenko, l’Accademia invece “lavora per il complesso industriale militare, sostiene e aiuta le Forze Armate dell’Ucraina e fa percepire come “nemici” o “traditori” chiunque osi criticare l’esercito ucraino o la NATO”.

Lisovyi va rimosso, perché “solo professionisti civili di indiscutibile integrità hanno il diritto morale di amministrare istituzioni scientifiche ed educative in modo che le generazioni future imparino a vivere senza guerra”.

“I valori della cultura della pace e della nonviolenza – aggiunge il report – e l’integrità accademica hanno un significato fondamentale per l’istruzione e la scienza… La cultura della pace è un insieme di valori, atteggiamenti, tradizioni e modi di comportamento e stili di vita fondati sul rispetto per la vita, sul rifiuto della violenza e sulla promozione e pratica della non violenza tramite l’educazione, il dialogo e la cooperazione, come dice l’articolo 1 della Dichiarazione sulla cultura di pace (Nazioni Unite, 1999)”.

Viene dunque da chiedersi quali interessi ci siano oggi dietro gli aiuti militari all’Ucraina e a chi finiscano davvero tali aiuti. Quali sono i veri obiettivi? Far cessare la guerra al più presto o continuarla all’infinito?
Preoccupante in questo senso è la cultura militarista che si sta imponendo anche nel nostro paese, dove già da alcuni anni proliferano gli incontri dell’esercito nelle scuole di primo e secondo grado e gli stage di studenti nelle caserme. Con quali obiettivi, se non promuovere una cultura militarista e bellicista e favorire l’arruolamento di volontari?

La guerra è un crimine contro l’umanità. Prendiamo la Pace nelle nostre mani, perché il nostro futuro dipende dalle scelte che facciamo oggi.

Europe for Peace

Cover: Yurii_Sheliazhenko, referente del movimento nonviolento ucraino, obiettore di coscienza e professore universitario 

L’orsa Jj4 e l’istinto materno

L’orsa Jj4 e l’istinto materno

Jj4 questo il nome che hanno dato all’orsa “assassina”. È stata identificata con analisi genetiche. Ma l’orsa è una madre e ha reagito a quello che lei ha considerato essere un attacco alla sua prole. Si chiama istinto materno e sono certa che ogni donna, capace di spogliarsi di migliaia di  stratificazioni di credenze accumulate nei millenni, che via via l’hanno staccata dal sentire del suo corpo, capace di decolonizzarsi, sarà capace di riconoscere dentro di sé nelle sue viscere quell’istinto primordiale.

L’umanità che ci stanno delineando le “democrazie illuminate illuministe” è un’umanità cibernetica, intelligente, a loro dire, proprio perché priva dell’istinto, senza appartenenze ad una specie, classificabile fuori dalla Natura. Non stupisce dunque che l’Orsa non abbia un nome ma una sigla (simile ai numeri marchiati sulle braccia degli ebrei al loro ingresso nei campi di concentramento).

Spersonalizzare, distruggere le identità, ridurre tutti e tutto a codici a barre (madri surrogate), codici genetici questo l’obiettivo per controllare la Natura. Abbiamo dimenticato le parole che ci parlano della sacralità del vento e della pioggia, del sole e della luna, degli spiriti che abitano la natura, gli animali e i nostri corpi. Solo le popolazioni indigene le usano ancora. E questo ci dice quanto il mondo così detto ‘primo’ agisca in questa direzione da molto, molto tempo.

Ma l’uomo A-Natura, privo di natura, anche se è stata impressa un’accelerazione impressionante nella direzione della cancellazione della madre che partorisce carne della sua carne, ha dimenticato che noi donne  sentiamo, sempre più forte il riaffiorare di quell’istinto che ci porterà a fare qualsiasi cosa  pur di proteggere la nostra prole.

Anche la madre del giovane rimasto ucciso dall’aggressione dell’orsa,  si è espressa contro l’abominio di questa condanna. Potete continuare a rappresentare l’orsa come un’assassina, ma noi continueremo a vederci la madre, la donna e la forza dell’amore.

Sempre in di più volgiamo gli occhi a quelle culture che il legame con gli spiriti universali non lo ha mai spezzato e che come noi si è sviluppata fino ai giorni nostri. È venuto il tempo di sbriciolare credenze su cui si fonda un sistema malato, che fa di noi esseri superiori solo grazie alla tecnologia, ma che in realtà sta dimostrando la sua totale disumanità.

E la dimostrazione di quanto sta avvenendo nei nostri corpi, nella parte invisibile dei nostri corpi, l’ho trovata su FB con questa testimonianza  .

Decolonizzarsi.

“Nessuno me l’ha insegnato, me l’ha detto, me l’ha mostrato. È stato Il mio spirito, il mio DNA mi ha parlato. Io ho semplicemente ascoltato

Non sono cresciuta con la cultura #nativa.

Ma nel profondo di me, dentro le mie vene, quella conoscenza c’è sempre stata, quella sapienza su come far nascere, come nutrire, amare e prendermi cura delle mie creature.

Ho messo tutti e tre i miei bebè in #rebozos dal giorno in cui li ho messi al mondo.

La mia conoscenza nella pelle mi ha detto che questa era la strada. Poi l’ho mostrato a quelle intorno a me che volevano fare lo stesso.

Ho allattato tutte e tre le mie creature.

Nessuno me l’ha insegnato. Ero circondata dalla pressione del biberon e dell’alimentazione con latte artificiale.

Dove sono cresciuta era normale fare così e mi aspettavo di fare anch’io così, non sembrava normale portare fuori il mio #chichi per dare da mangiare al mio bambino. E invece l’ho fatto.

La #maternità è stato per me il più grande viaggio di #decolonizzazione.

Questo è il modo in cui le mie creature saranno veramente connesse con il loro spirito e con gli antenati e le antenate.

Prima devono connettersi alla Madre, sentirsi al sicuro e amate da me. Questo è il modo in cui avranno connessione con ogni creazione vivente nel cielo e sulla terra”.

#labodifsegnala grazie a @nativewomenswilderness

#nativeamerican #indigenouswomen

Decolonizzarsi, questa è la strada per tornare a incrociare la strada che trascende l’umano restando umani e lo possiamo fare anche noi occidentali che nel DNA portiamo l’eredità dei popoli che vivevano a contatto con la natura e, quando questa consapevolezza avrà raggiunto una buona parte di noi, saremo tutte orse inarrestabili.

Per leggere tutti gli articoli di Roberta Trucco su Periscopio clicca sul suo nome.

Storie in pellicola
Elvis, la leggenda

Elvis torna in un biopic hollywoodiano, con il bravissimo (e bellissimo) Austin Butler

Standing ovation di 12 minuti al festival di Cannes 2022, dove era stato presentato in anteprima mondiale, Elvis, il biopic hollywoodiano su Elvis Aaron Presley, firmato dal visionario Baz Luhrmann, è piaciuto e piace al pubblico.

Raccontare leggende ha sempre il suo fascino, soprattutto se si tratta di quei miti intergenerazionali che hanno fatto la storia del costume e scardinato modelli prestabiliti, con la forza della loro ostinata ribellione e trasgressione. Liberi.

Se poi a interpretare il “bello, ribelle e sexy” per eccellenza, dalla voce calda e suadente, è un altrettanto bellissimo e sensuale attore – in questo caso uno strabiliante Austin Butler – il risultato è garantito.

Per il ruolo, Butler, partito dalle serie Disney, ha ricevuto una candidatura agli Oscar 2023 come miglior attore protagonista (il film ne ha ricevute 8), e, per calarsi nella parte, ha usato il metodo Stanislavskij, con un’immersione talmente profonda per due anni che oggi, ha raccontato in un’intervista a Entertainment Weekly, ha difficoltà a distinguere la sua voce da quella del personaggio. Nel film, infatti, canta e benissimo.

Insieme a lui, l’attore due volte premio Oscar Tom Hanks che interpreta l’enigmatico manager-padrone che decide tutto, quell’Andreas Cornelis van Kuijk che pretendeva di essere americano e si faceva chiamare colonnello Tom Parker, il “cattivo” della storia che, sul punto di morte, nel 1997, racconta la leggenda di Elvis, annegato in un mare di lustrini.

Al centro di tutto, elemento originale del racconto, il rapporto tossico fra la star e il manager-impostore, che fiuta subito la “gallina d’oro”, la manipolazione che un Elvis fragile, incerto e insicuro subisce sempre da parte di un uomo senza scrupoli che lo tiene legato a sé, indissolubilmente, con continui ricatti psicologici e raggiri.

Il colonnello Parker mette il giovane astro nascente sotto contratto, lo manda in Europa a fare il servizio militare per fuggire alle accuse di immoralità (qui conoscerà la futura moglie Priscilla, interpretata da Olivia DeJonge), lo fa diventare grande ma non gli permette di fare tour all’estero e lo spreme per anni legandolo a Las Vegas, anni di concerti in cui Elvis diventa la versione grottesca di sé. Con un matrimonio che andrà in frantumi anche a causa di pasticche bianche, Elvis si ritroverà solo, depresso, insoddisfatto e infelice.

Nelle riprese principali svoltesi nel Queensland, in Australia, a fianco di Butler, Hanks e DeJonge, recitano anche la pluripremiata attrice teatrale Helen Thomson, nei panni della madre di Elvis, Gladys, Richard Roxburgh in quelli del padre di Elvis, Vernon, e Kelvin Harrison Jr. che interpreta B.B. King. Per ritrarre le altre icone della musica del film, Luhrmann ha scelto la cantautrice Yola come Sister Rosetta Tharpe; il modello Alton Mason come Little Richard; Gary Clark Jr., come Arthur Crudup e l’artista Shonka Dukureh come Willie Mae “Big Mama” Thornton.

Nel film c’è ovviamente tantissima musica, dalle prime performance con le fan in delirio fino ai tristi show di Las Vegas degli ultimi anni. Molto intense sono le scene dell’incontro di Elvis con la musica blues e gospel (fin da quando, ragazzino, spiava i canti e i balli afro, proibiti alla chiesa) e la chitarra elettrica, le inquadrature di fan urlanti e le performance esplosive. Ci sono, in un crescendo coinvolgente, musica, danza e tante celebrità. Elemento molto interessante, appunto, l’influenza della musica nera su Elvis e il pericolo che questo rappresentava per i sostenitori della supremazia bianca. Ragione di più per osteggiare, oltre a un “movimento di bacino scandaloso e lussurioso” (la star detestava l’appellativo che gli era stato attribuito “Elvis, the Pelvis”).

In una parabola di una celebrità che nasce, cresce, giunge fino all’Olimpo e poi declina e muore, non si perdono mai di vista la delicatezza e la fragilità di un uomo che ha vissuto per la musica e per il suo pubblico. Alla fine, soccombendovi.

 

 

Elvis, di Baz Luhrmann, con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, USA, 2022, 159 minuti.

Immagini Warner Bros. Pictures

CRINALI LIBERI DALLE PALE EOLICHE
Presidio popolare in piazza a Dicomano (Firenze): domenica 23 aprile 2023, alle ore 9,30

PRESIDIO POPOLARE PER I CRINALI DELL’APPENNINO DA SITI INDUSTRIALI
nella piazza di Dicomano  (Mugello – FI)
23 Aprile 2023 a partire dalle ORE 9.30 

Chiudiamo le porte al Progetto eolico Monte Giogo di Villore
Apriamo le porte al Futuro in Mugello

“La nostra deve essere la Prima Generazione che lascia i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che abbiamo ereditato.” V Rapporto sul Capitale Naturale in Italia.

Se sfondano qui, ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, nessun crinale dell’Appennino sarà più integro e libero!

I crinali appenninici del Mugello, non sono zona idonea ad impianti industriali eolici, sono infatti i corridoi ecologici del Parco Nazionale, un Bene comune unico di pubblica utilità, ricco di ecosistemi naturali ben conservati e di biodiversità, non da degradare, ma da tutelare, proteggere, da consegnare alle nuove generazioni, come afferma la Costituzione all’articolo 9.

Sui crinali appenninici di Monte Giogo di Villore, fragili e franosi, si snodano i meravigliosi SENTIERI nazionali ed europei, il Sentiero 00 Italia, il Sentiero GEA Grande Escursione Appenninica, il Sentiero

Europa E1 che collega Capo Nord a Capo Passero in Sicilia, il Cammino di Sant’Antonio, i luoghi citati dalla Divina Commedia di Dante Alighieri.
Siamo in continuità funzionale con il Parco, sull’Alta Via dei Parchi,  paradiso del Turismo escursionistico, ampiamente finanziata dalle Regioni, che congiunge l’Emilia Romagna alla Toscana attraverso la dorsale degli Appennini Toscoromagnoli.

L’Aquila Gaia sul cielo del Mugello

Questo tratto di crinale fin oltre la Colla di Casaglia è da sempre frequentato da aquile reali (ne prova l’esistenza e i movimenti il monitoraggio satellitare) che in quelle zone hanno diversi siti riproduttivi. Peraltro la “prateria arbustata” del Monte Giogo di Villore Corella è ideale come sito alimentare per gli individui nidificanti nelle zone occidentali del Parco. Fondamentale per l’ ecologia dell’ aquila reale è la presenza di numerose aree aperte o praterie secondarie, ideali aree di caccia ricche di prede, che si alternano a BOSCHI con esemplari vetusti, alberi ad alto fusto dove, in alternativa alle rupi, le aquile costruiscono i loro grandi nidi in un insieme di ecosistemi ricchi di  biodiversità e di foreste ben conservate, con ecosistemi caratterizzati da complessa biocomplessità in quanto  prossimi a 5 Siti Rete Natura 2000 con Zone a Speciale Conservazione tra cui il sito Natura 2000 ZSC Muraglione Cascata dell’Acquacheta, citata da Dante Alighieri. Un incidente alle pale d’estate potrebbe dar luogo a incendi boschivi tali da mettere a rischio le foreste del Parco Nazionale.

L’ incidenza negativa del mega-impianto eolico, a fronte di dati sul vento secretati, negli habitat di rete Natura 2000 confinanti e nel Parco Nazionale Foreste Casentinesi, sono ampiamente motivati nel Parere contrario del Parco e della Soprintendenza.
I danni irreversibili al sistema idrogeologico, al turismo escursionistico, ai paesaggi di Giotto e del Beato Angelico, all’economia dei territori, gli espropri di uliveti, marroneti produttivi, castagneti secolari, terreni agricoli costituiscono un attacco violento e un’insanabile ferita inferta alla bellezza unica e alle risorse dei territori del Mugello senza alcun ritorno occupazionale.

I crinali appenninici dell' Alto Mugello
I crinali appenninici dell’ Alto Mugello (foto Fabio Innocenti)

Non è battaglia localista, ma globale e nazionale: la narrativa della “Green Economy” sostituisce la finta transizione energetica alla transizione ecologica e prevede l’impianto di almeno 8.000 pale eoliche per coprire tutti i crinali appenninici, cementificando e trasformando in suolo nudo e zero bosco  molti ettari di crinale, incidendo sugli acquiferi di superficie e di profondità, impattando sulla produzione e la qualità dell’acqua che arriva in valle, modificando infrastrutture per il passaggio di mezzi pesanti con enormi pezzi di pale, distruggendo intere faggete per fare ampie strade  che arrivano sul crinale.

Secondo i dati ISPRA il fabbisogno energetico strategico potrebbe essere raggiunto con il fotovoltaico coprendo tetti, capannoni, cementate e degradate. Ciò può essere realizzato in Comunità energetiche a gestione pubblica e a controllo democratico. Gli interessi dominanti, estrattivisti, di rapina e saccheggio, continuano a essere quelli della classe dominante che consegue profitti privati, quantunque legittimati come affari di Stato e di pubblica utilità. Dietro le grandi opere esistono invece potenti interessi industriali e finanziari, gli stessi interessi speculativi, sovente mafiosi, che oggi promuovono tanti parchi eolici.

Vieni in piazza a Dicomano per difendere e liberare i nostri crinali
ABBRACCIAMO TUTTI INSIEME L’APPENNINO!

Comitato Tutela Crinali Mugellani

Su  Eolico Industriale e  difesa Crinali Appenninici leggi su Periscopio:
Fabrizia Jezzi : https://www.periscopionline.it/il-sentiero-dellaquila-gaia-una-storia-molto-vera-273610.html
Jonatas Di Sabato: https://www.periscopionline.it/eolico-malvagio-186640.html
Marina Carli: https://www.periscopionline.it/eolico-industriale-in-appennino-opportunita-verde-o-grandi-affari-per-grandi-imprese-236547.html
Tommaso Capasso: https://www.periscopionline.it/contro-leolico-industriale-sul-nostro-appennino-273463.html

In copertina: un tratto del Sentiero dei Crinali, Alto Mugello

TERZO TEMPO
Chi ha mangiato tutte le torte?

Chi ha mangiato tutte le torte?

Assistere a una partita di Premier League in pieno inverno può essere impegnativo, specialmente se è uno di quei famigerati mercoledì sera di Stoke-on-Trent in cui fa freddo, tira vento e piove a dirotto [Qui]. In una situazione del genere, il cibo ideale con cui sfamarsi, e soprattutto scaldarsi, è la popolarissima meat pie, il tortino di carne che da più di settant’anni è una presenza fissa sugli spalti degli stadi inglesi. Oltre alla carne, la farcitura può contenere carote, sedano o piselli, ed è racchiusa in un involucro di pie crust, il corrispettivo britannico della pasta brisé.
Ebbene, l’abitudine di consumare quei tortini salati nel pre-partita ha dato il via a un coro piuttosto irriverente: si tratta di Who Ate All The Pies? [Qui], indirizzato solitamente al giocatore più paffuto o fuori forma della squadra avversaria.

“Who ate all the pies? You fat bastard, you ate all the pies!”

Sta di fatto che, perlomeno nel Regno Unito, questo motivetto gode di una popolarità a dir poco trasversale: ogni tifoseria l’ha intonato almeno una volta, e di recente ha ispirato programmi radiofonici, account su Twitter e monologhi comici, tra cui quest’imperdibile “esegesi” di James Acaster [Qui]. Tuttavia, il successo di Who Ate All The Pies? è associato perlopiù alle vicende di due ex giocatori: il portiere William “Fatty” Foulke e l’attaccante di origini italiane Micky Quinn.

Il primo, com’è intuibile dal soprannome, è ricordato soprattutto per i suoi 150 chili distribuiti in quasi due metri di altezza, e proprio per questo motivo pare che sia stato il bersaglio originario del coro di cui sopra. Senonché, un recente articolo della BBC smentisce quest’ipotesi, poiché la melodia di Who Ate All The Pies? sarebbe stata presa in prestito da una canzone goliardica (Knees Up Mother Brown) le cui prime testimonianze risalgono al 1918, cioè due anni dopo la morte dello stesso Foulke.

Micky Quinn, invece, è stato soprannominato in vari modi per via della sua stazza: da “Sumo” a “Hippofatamus”, passando per un più semplice “Bob”, dovuto alla somiglianza con il comico televisivo Bob Carolgees. In particolare, l’episodio più bizzarro e iconico della carriera di Quinn è avvenuto circa trent’anni fa, ossia quando l’allora attaccante del Newcastle raccolse e mangiò un tortino che qualche spettatore aveva lanciato sul prato di Blundell Park, stadio del Grimsby Town. Quella vicenda, assieme ad altri aneddoti piuttosto curiosi, è raccontata nell’autobiografia dello stesso Quinn, intitolata per l’appunto Who Ate All The Pies?.

Se volete saperne di più sull’inscindibile abbinamento tra meat pie e stadi inglesi, c’è un libro che fa al caso vostro: si intitola 92 Pies [Qui], ed è il resoconto del viaggio gastronomico intrapreso dall’autore Tom Dickinson, il quale ha trascorso l’intera stagione calcistica 2008/2009 ad assaggiare tortini di carne negli stadi d’oltremanica.

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L’Arte che Cura.
Torre di Controllo a Maggiore Tom

Torre di Controllo a Maggiore Tom.  Psicoterapia espressiva e psicosi 

Space oddity
(David Bowie)

(…)
Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.

Perché
Sto seduto in un barattolo di latta,
Lontano sopra il mondo,
Il pianeta Terra è blu

E non c’è niente che io possa fare.(…)

Quando ho conosciuto Tom è così che lo percepivo, come un piccolo astronauta che aveva perso il contatto con la base ed era destinato a navigare nello spazio solo e all’infinito.
I miei tentativi di contatto, per aiutarlo a tornare sulla terra sembravano  inutili.

Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti

l’unico riscontro che avevo era il riprodursi della medesima scena……

 Sono qui che galleggio
attorno al mio barattolo di latta,
Lontano sopra la Luna,
Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare

 Tom abitava una astronave cui era fortemente attaccato e che lo rendeva sicuro.

 Malgrado sia lontano
più di centomila miglia,
Mi sento molto tranquillo,
E penso che la mia astronave sappia dove andare

Ma purtroppo non poteva sapere che la sua nave  aveva perso  la comunicazione con la torre di controllo e così navigavano, lui e la navicella, disordinatamente  con una traiettoria che illudeva entrambi sulla destinazione.

Credo di aver deciso di non aspettare che la sua astronave lo riportasse sul pianeta terra da dove io lanciavo  segnali per la strada di ritorno ma di tentare una sorta di allunaggio. Mi sono preparata.

La Torre di Controllo ha
cominciato  il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso  i motori,
ho controllato  l’accensione e

Mi sono lanciata nello spazio per agganciare astronave e pilota

 Torre di Controllo a Maggiore Tom,
Prendi le tue pillole di proteine e mettiti il casco
(…)
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque,
quattro, tre, due, uno,

Partenza!

Tom soffre di quello che in psichiatria viene definito Disturbo schizoaffettivo: una condizione psichiatrica per cui si vivono sia psicosi che disturbi dell’umore.
Senza scomodare l’OSM e il sistema di classificazione APA dobbiamo pensare ad una persona che  può manifestare, senza averne consapevolezza, allucinazioni e/o deliri,  entrambi  prove importanti di una realtà alterata che  non essendo riconosciuta come tale dal soggetto, fa vivere in un perenne stato di ansia.
Tutto ciò, se non fosse già di per sé una esperienza terrificante,  è accompagnata da un  “disturbo del pensiero formale” (cioè il pensiero disorganizzato che include illogicità, tangenzialità, perseverazione, neologismo, blocco del pensiero, deragliamento o una combinazione di tutti questi disturbi del pensiero)

Tom ne soffre dall’adolescenza, un disturbo causato in parte da life eventes traumatici: è stato testimone della morte del padre.

Da quel momento   ha cominciato ad avere alcuni comportamenti di evitamento sociale, di difficoltà scolastiche fino a giungere a manifestare sintomi deliranti e paranoidi. Il motivo del primo ricovero, primo di molti altri, era stato il suo rifiuto di bere e mangiare per paura di essere avvelenato, ma sono rimasti presenti, anche negli anni a seguire, ossessioni di persecuzione, rituali ossessivi, fobie di contaminazione. Nel tempo c’è stato un significativo peggioramento dei sintomi e del disadattamento sociale che lo ha costretto ad abbandonare la scuola.

Il  quadro clinico generale  negli anni è stato osservato  con minime variazioni.

Sono stata contattata dal  Primario di un Servizio Psichiatrico territoriale per adulti  che in quel periodo aveva preso in carico Tom,  che, ormai maggiorenne, era stato dimesso dal servizio di Neuropsichiatria infantile.  La sua richiesta era di tentare un percorso di psicoterapia individuale che non si fondasse esclusivamente su approcci verbali, che fosse in qualche modo alternativo ad altri modelli che fino ad allora erano risultati piuttosto inefficaci. Più volte mi ha ripetuto che “era un caso difficile”.

Pur avendo pensato (e sperato) di svolgere la Psicoterapia Espressiva con diversi materiali, per attivare percezioni e quindi contattare differenti dimensioni intrapsichiche, tenendo conto  delle fobie di contaminazione e della necessità di controllo  del paziente (alcuni  strumenti creano imprevisti e sono poco controllabili) quelli che ho proposto inizialmente sono stati pennarelli, matite colorate, pastelli a cera.

I pennarelli sono stati scelti e confermati come strumenti privilegiati in tutti i suoi lavori. Tra i supporti, presenti in diversi formati e colori, Tom ha scelto spontaneamente sempre lo stesso tipo: fogli bianchi, lisci,  A3.

Tom arriva sempre con la madre (ma trascuro di parlare di questa coppia speciale) e arrivano puntualissimi. La loro comparsa è anticipata da un rumore di tacchi alti e uno, inquietante, di conati. Tom non risponde ai miei saluti e ai miei inviti tranne quando è la madre a indicargli che fare. Spesso  di fronte a domande dirette ripropone i conati di vomito. La sua mimica facciale appare ridotta, anche i suoi movimenti sono pochi e meccanici, il suo contatto oculare è discontinuo.

Sono andata al primo incontro con diversi timori. In realtà i risultati sono stati migliori rispetto alle mie aspettative:  anche se la madre (impossibile all’inizio pensare che “me lo consegnasse”) ogni tanto annotava delle cose su una rubrica blu facendomi sentire decisamente sotto esame.

Tom è riuscito a stare nella stanza, ha usato i materiali, mi ha parlato seppur con poche e sintetiche frasi, mi ha guardato, si è sforzato di collaborare e tutto ciò mi è sembrato tanto. Anche se ero preparata a silenzi e inattività ho sentito un vero sollievo quando Tom disegnava. Le immagini sono state il veicolo per fare conoscenza: le ho utilizzate per rompere il ghiaccio e come tramite per farmi raccontare qualcosa in più della sua vita attuale rispetto alle sue laconiche descrizioni di sé: la scuola, i giochi, ecc.  Alla domanda come stai? Tom non è stato in grado di seguirmi (E non c’è niente che io possa fare) anche se poi mi ha regalato quel cielo  che mi è sembrato un modo piuttosto pregnante per descrivere l’impossibilità di tenere in contatto cielo e terra divisi da uno spazio bianco, un vuoto impercorribile che può fagocitarti.

 Il cielo e la terra

In questo primo periodo oltre ai conati si presentano delle specie di crisi respiratorie in concomitanza quasi sempre di stimoli spiacevoli (ad esempio l’ingresso di un operatore, la richiesta di prendere, toccare direttamente). Questo dolore fisico me lo mostrerà anche nei disegni.  Il primo livello del bambino per segnalare un disagio è  una comunicazione  in cui è il corpo che parla e in  cui all’inizio sono presenti solo: sto bene,  sto male. Ma io ho di fronte un adolescente.

  il nodo alla gola è qui che ho male

Al momento del commiato, se gli chiedevo come si era trovato, “bene”!  diceva senza incertezze, ma dopo i saluti non mi guardava più e lo sentivo già distante. 

Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?

La sua riluttanza a raccontare viene superata da un senso di dovere e di compiacenza che producono frasi sintetiche e perentorie che una volta scritte non vuole commentare. Ogni volta che lascia dei segni sul foglio,  parole,  foto, disegni, sente l’esigenza di prenderne le distanze e dice che “non ha più niente da dire”, “di mettere tutto nella cartellina”, “che è stanco”, “che vuole andarsene”. Per me è difficile dare un seguito a queste sue espressioni.

 Tento  un passaggio alle tempere, mi sembra che sia pronto a un materiale più fluido e questi sono i risultati: uno svelamento subito abbandonato. Una parola indicibile, una piccola parvenza di forma umana trasparente

 

Ed è qui che torniamo, grovigli impenetrabili ma che  proteggono. Siamo a prima del big bang che dal caos ha dato un ordine all’universo

Credo che Tom, a suo modo, mi abbia messo di fronte alla sua necessità di rimanere  protetto dietro le sue difese, mi ha reso partecipe della sua sofferenza: lo spazio bianco vuoto del disegno tra il cielo e la terra, che separa, che non è abitato; mi ha mostrato come il suo centro gravitazionale fosse la madre e come per incontrarlo anch’io dovevo attraversare questo circuito.

I suoi “non so”, ma di più  i suoi silenzi alle domande,  sottolineavano la sua impossibilità a definirsi: Tom è senza passato, senza presente e senza futuro. Però iniziava ogni seduta dicendo “io sono Tom”.

Sentivo ogni volta un elemento di ambivalenza:  non sapevo se i suoi lavori  riposti nella cartellina fossero lì per essere custoditi o per essere abbandonati.

Tom non ha nomi per le emozioni. L’unico affetto è per la madre verso la quale mostra un atteggiamento infantile fatto dal desiderio di compiacerla e di richieste di contatto fisico.

Verso la fine della nostra terapia Tom prima, di andarsene, prendendo uno stralcio di conversazione che aveva sentito tra me e la madre rispetto agli obiettivi e alle future valutazioni della terapia, mi dice guardandomi, “No. Non è stato un fallimento. “E qui che ho male” e si mette la mano sul petto all’altezza del cuore” forse scimmiottando quello che aveva visto fare dalla madre.

Tom dopo il primo anno di psicoterapia con l’arte ha ripreso a frequentare la scuola dove è arrivato progressivamente a tollerare  un orario pieno e dove, oltre al percorso con il suo insegnante di sostegno, si sono ampliate le interazioni con la classe.

Tom e la madre (quella strana coppia!) hanno accettato ed iniziato degli incontri quindicinali di psicoterapia famigliare.  Vanno in un’altra città in treno e Tom regge bene questa situazione promiscua e pubblica senza adottare nessuno dei suoi sintomi.

 Alcune considerazioni su Transfert e Controtransfert nella relazione terapeutica tra  Tom e me

Il transfert è la diversa posizione assunta dal paziente nei confronti dell’oggetto analitico; attraverso l’uso dell’analista come oggetto, il paziente trasferisce parti volute o non volute di sé, prova e sperimenta diversi stati di sé per trovare ciò che è giusto e accurato come espressione della sua realtà interna (Winnicott).

Il transfert presuppone una regressione, una riattivazione del passato. Rispetto al mio modello di riferimento  – indirizzo psicodinamico – lo specifico disturbo psico-patologico di cui soffre Tom  fa  capire che questa definizione classica non è percorribile. Infatti nella relazione con un paziente psicotico il transfert psicotico conduce il terapeuta ad una maggiore attività, lo induce ad un lavoro in cui  deve rafforzare l’Io del paziente e lo  consiglia di allearsi  più con la realtà che con l’inconscio del malato.

L’aspetto simbolico è un traguardo  lontano ma se siamo  anni luce dall’uso psicoanalitico del transfert  ho potuto però lavorare sul mio controtransfert.

Quello somatico: è nel corpo che risuonano per primi alcuni elementi importanti di ciò che sta avvenendo nella  relazione terapeutica.

Spesso, terminata la seduta  mi sono resa conto di avere un’emicrania che mi spaccava il cervello, come se la fatica di “tenere” mi fosse costata uno sforzo inconsapevole ma esagerato che adesso si manifestava con questa “esplosione”.

La mia sensazione era quella di resistere perché potevamo   avviare un processo: bisogna vincere la gravità terrestre per raggiungere lo spazio.

(…) La Torre di Controllo ha
cominciato  il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso  i motori (…)

Esiste poi un controtransfert più specifico della psicologia espressiva:  il terapeuta  esplora i contenuti della sua mente in particolare con l’aiuto dell’emisfero destro (quello della creatività, delle libere associazioni, dell’immaginazione) ed anche con la realizzazione dei propri prodotti  artistici, restituzione e veicolo per arrivare a contenuti ancora inconsci ma che da dentro vanno verso il fuori e, prendendo una forma e un senso, possono essere oggetti  di trasformazione.  (come esempio il collage di fig. 1, il brano musicale che mi ha fatto da risonanza).

Avevo la piena  consapevolezza della complessità e del grado di impegno di questo viaggio interplanetario. Tom per me è ancora un astronauta lanciato  nello spazio  in cerca di una comunicazione con “il pianeta terra che è blu” che è anche una speranza.

Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.

Negli  due anni di psicoterapia insieme non ci sono stati più ricoveri.

Nota importante: tutti gli articoli della rubrica sono tratti da casi clinici reali, romanzati ed adattati per rispettare la privacy. Le immagini dei pazienti sono autorizzate dalla liberatoria che mi è stata concessa solo a scopo di pubblicazioni a mio nome. Ne è vietata la riproduzione per altri usi.

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioli, clicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice. 

Parole a capo
Marta Casadei: “Attesa” e altre poesie

“La poesia è composta da gioia e dolore e meraviglia, con un pizzico di dizionario.”
(Khalil Gibran)

Attesa

Ha scandito la notte
Una pioggia feroce
Un martello di solitudine
A destare fantasmi.
E così mi sorprende
Questo giorno più chiaro
Questo azzurro lavato
Che una fila di nuvole
Solca sottile e docile:
È una promessa
O forse una minaccia…
Il cielo lo dirà.
Stiamo in attesa

 

Quasi una metafora

Lasciate andare al vento ad una ad una
l’ ultime foglie, o tristemente ai piedi
cadute come lacrime d’addio,
resta un cespuglio nudo rinsecchito
senza più niente per farsi guardare
senza promesse ormai
di primavere…
Poi d’improvviso un profumo ti avvolge
e ti fa ritornare sui tuoi passi
un profumo che dura e che consola
l’inverno che ti scorre nelle vene
e sa di casa e di memorie buone…
Come d’incanto sui rami stecchiti
irraggia un sole d’oro: il calicanto.

 

Il nostro tempo

Il nostro tempo corre e ci conduce
come formiche in fila
nere su strade grigie.
E sopra, il cielo inventa
giochi di forme e di colori
cavalieri e draghi
unicorni ippogrifi aquiloni
violetti rosa gialli azzurri e rossi
Uno stupore senza fine, nuovo
ad ogni istante,
uno spettacolo
senza intervallo, gratis
che non ha spettatori:
un amore sprecato.

 

La strada

Io non lo so per cosa ero fatta
se ho seguito una strada tracciata
dall’alto, per amore o per destino
o il cieco caso mi ha preso per mano…
So che gli inciampi sono stati tanti
e li ho raccolti tutti nel cammino…
Chissà se avrò spianato un po’ la strada
ai compagni di viaggio che ho incontrato…

 

 Festa

Nella piazzetta chiusa all’imbrunire
giocano i bimbi e volano gli uccelli
si confonde il vociare e lo stridio:
felicità di vivere e di esserci.
Io li guardo sedendo alla finestra…
Cosa darei a far parte della festa…
Ma il mio tempo è passato e piano imparo
a dirti grazie, vita, che mi hai dato
di contemplarti ancora in questo giorno.

Marta Casadei si descrive così:”Sono nata a Riccione moltissimi anni fa. Da oltre 50 anni vivo a Ferrara, una città che adoro. Qui mi sono dedicata alla famiglia maturando un grande amore per i bambini e la consapevolezza del diritto di tutti i piccoli ad avere una famiglia, per cui ho scelto di dedicarmi per molti anni all’affido familiare. Per questo ho abbandonato la passione giovanile dello scrivere per riprenderla adesso in età avanzata. Per me è una terapia alla solitudine e risponde al bisogno di mettere insieme dei ricordi da lasciare ai figli. Non ho velleità artistiche, il mio è uno stile datato però a volte si compie il miracolo di un incontro di anime e diventa senza tempo e bello”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
Paolo Bricco al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 1. parte

Vite di carta. Paolo Bricco al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 1. parte

Troppi libri da leggere, non sto tenendo il passo. Primo perché la beata età della pensione me lo deve questo ritmo più calmo, il piacere di leggere con tempi adeguati. Poi perché leggo spesso i libri scelti dai gruppi di lettura di cui faccio parte, e così facendo vado oltre i confini della narrativa contemporanea italiana su cui ho lavorato per anni insegnando al Liceo Ariosto.

La narrativa italiana però non lascia me. Gli scrittori continuano a venire a scuola a presentare i loro libri ultimi usciti, scelgono anche un’opera che li ha segnati nella loro carriera di lettori e dunque i ragazzi e le colleghe del gruppo Galeotto fu il libro lavorano su almeno due opere per preparare la conversazione con l’autore.

A ogni incontro, come quello di inizio marzo o a quest’ultimo di mercoledì 13 aprile, non resisto al loro invito e metto piede dentro il Liceo. So che vengo a imparare, a imparare dai ragazzi.

Il 10 marzo siedo in prima fila e ho a pochi metri sul palco Paolo Bricco, attualmente inviato speciale del Sole 24 ore, che porta il suo AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, uscito lo scorso anno presso Rizzoli e ultimo di una serie di studi dedicati all’industriale di Ivrea.

Le domande che i ragazzi pongono, alzandosi uno alla volta dalle loro poltrone, vedo bene che pungolano Bricco. Prende vistosamente fiato e comincia  a dare risposta: dice di cosa è fatta l’utopia di Olivetti, la perimetra con chiarezza punto per punto; richiama il fondale della storia che si agita alle spalle, i rapporti col Fascismo, i limiti del suo capitalismo di famiglia pur nella grandezza di idee con cui ha progettato la comunità della sua fabbrica e ci ha messo al centro la Persona.

La retribuzione che supera del 40% quella degli altri operai metalmeccanici ne è un esempio, come pure la apertura nel 1942 dell’asilo nido dentro la fabbrica di Ivrea, come le misure a sostegno delle lavoratrici madri con lo stipendio intero fino al settimo mese del bambino.

Non è un ritratto agiografico di Adriano Olivetti, ma una serie ragionata di considerazioni sulla sua visione della attività industriale, sul suo interesse per l’innovazione tecnologica, sui percorsi di crescita personale e lavorativa che ha realizzato per i dipendenti, sui motivi della crisi che dalla fine degli anni Cinquanta investe l’intero settore della elettronica italiana priva del supporto di una politica industriale che fosse al passo con i tempi.

Non è nemmeno una lezione quella che Bricco sta tenendo con le sue risposte, perché i ragazzi hanno trovato la giusta chiave da dare ai discorsi, da quando Chiara, aprendo l’incontro, ha letto la lettera che ha scritto a suo padre, metalmeccanico, e gli ha esposto le condizioni in cui hanno lavorato i dipendenti di Adriano Olivetti. Ha chiamato “umanesimo industriale” quello di cui è stato promotore, dando spunti per un confronto con l’oggi. E auspicando che ogni lavoratore possa, come accade a suo padre, provare passione nel lavoro che fa.

Il che consente a Bricco di raccontare anche degli stralci dalla propria storia personale: la nascita a Ivrea, un non-luogo che entra nella Storia con la fabbrica Olivetti, i genitori che ci lavorano come impiegati, con le cure dentistiche gratuite anche per i figli, lo sbarco all’Università di Torino e la scoperta della gerarchia sociale che nella Ivrea di Olivetti “non si respirava”.

Poi il discorso vira sulla letteratura che si muove attorno alla vita della fabbrica, sugli autori che ci hanno lavorato e scritto. Sfilano  figure come quella di Geno Pampaloni che fu per anni assistente di Adriano, di Paolo Volponi che pubblicò il suo Memoriale nel 1962 e intanto si occupava di pubblicità e delle relazioni commerciali dentro la fabbrica.

Di Ottiero Ottieri e della nascita nel secondo dopoguerra di un nuovo genere narrativo in Italia, un tassello importante di quella che potremmo chiamare la “letteratura industriale”, in cui si denuncia la alienazione dell’uomo e in cui trova posto il tassello del “romanzo olivettiano”, come costruzione di un immaginario sulla vita della fabbrica “a misura d’uomo”.

Ancora. Mentre ascolto mi viene in mente più volte Lessico famigliare, quando Natalia Ginzburg parla della sorella Paola Levi e della sua storia con Adriano, il “grande e famoso industriale” che conserva tuttavia “nell’aspetto qualcosa di randagio, come da ragazzo” con “gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre”. Natalia racconta l’incontro di Paola con Adriano e il fidanzamento, le nozze e la vita da sposata.

Oggi Paolo Bricco ne riprende la figura, la definisce come la prima amatissima moglie di Adriano e le riconosce di averlo “sprovincializzato”, di avere portato nella sua vita il vento della cultura torinese e non solo italiana, ma della Mitteleuropa e parigina e londinese. Resterà un’eco di tutto questo dentro la fabbrica a Ivrea, anche dopo il divorzio, anche negli anni del secondo matrimonio di Adriano con la giovane Grazia Galletti.

Mentre i ragazzi chiedono a Paolo Bricco per quali ragioni ha scelto come suo “libro galeotto” Memorie di Adriano della Yourcenar, per me è ora di lasciare l’incontro. Faccio in tempo ad avvertire un sottile senso di colpa per non avere ancora completato la lettura di tanto capolavoro, poi mi metto a elencare mentalmente le suggestioni che ho raccolto oggi, i libri da leggere che sono usciti dalla conversazione con Bricco e ci aggiungo questo altro Adriano Imperatore.

Percorro il lungo corridoio che porta dall’Atrio Bassani all’uscita dal Liceo e a chi mi incrocia e mi guarda con aria interrogativa dico la consueta frase “Sono qui per il Galeotto” e sorrido.

Tornerò presto, l’incontro con Marco Malvaldi di metà aprile è già nei miei programmi.

Nota bibliografica:

  • Paolo Bricco, AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, Rizzoli, 2022
  • Paolo Volponi, Memoriale, Garzanti, 1962
  • Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, 1963
  • Marguerite Yourcenar,  Memorie di Adriano, Einaudi, 1963 (traduzione di Lidia Storoni Mazzolani)

Immagini nel testo e cover di Chiara Flori.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Le Voci da Dentro:
Il carcere che vorrei (sognare non costa nulla)

Le voci “da dentro” sono quelle che provengono dalla nostra coscienza e che ci parlano direttamente, ma sono anche quelle voci che provengono da chi è “dentro” cioè da persone che stanno vivendo l’esperienza del carcere. A partire da oggi, Periscopio ospita questa nuova rubrica con lo scopo di provare ad offrire un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali affinché, ognuno nel proprio piccolo, combatta la sua battaglia contro gli stereotipi ed i pregiudizi che non aiutano il completo reinserimento di queste persone nella società. È un modo per dar voce alle persone ristrette e a chi opera nel carcere ma è anche per dare orecchio a chi, da dentro, sta parlando alle nostre coscienze. La rubrica è scritta in collaborazione con “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Il testo che segue è una proposta per c hi si occupa delle condizioni di vita di chi vive in carcere, sia per aver commesso un reato ma anche per lavoro. A qualcuno apparirà provocatoria, ma è opportuno sapere che chi l’ha scritta la considera seria e trova provocatorie ben altre cose.
(Mauro Presini)

 Il carcere che vorrei (sognare non costa nulla)

di D. G.

Voltaire diceva: “Non mostratemi i vostri palazzi ma le vostre carceri poiché da esse si evince il grado di civiltà di un paese”.

In verità non esiste un carcere che vorrei, va da sé che come tutti quanti vorrei non essere qui ma a casa mia, ma visto che temo di non poter avere scelta, almeno avvenga che io faccia tesoro di questa esperienza non solo per una mia personalissima presa di coscienza ma anche per scrivere qualche riflessione su come vorrei che fosse diversa l’espiazione carceraria in Italia, magari di pubblica utilità in base alla mia esperienza e alla mia sensibilità.

In primo luogo, vorrei che il carcere fosse premiativo. Vorrei che esistesse una sezione distaccata completamente diversa, riservata ai detenuti meritevoli che se la siano guadagnata, a prescindere dal loro reato o da qualsiasi beneficio pattuito con lo Stato.

Ovvero che semplicemente amino comportarsi civilmente, educatamente, come quelli tranquilli, ordinati, che leggono, dipingono o semplicemente abbiano un carattere mite ed educato.

Questa sezione dovrebbe avere porte e non sbarre, giardino a libera frequentazione, finestre normali, libertà di colloqui con parenti ed amici non pregiudicati, possibilità di arricchimento delle camere penitenziarie con elettrodomestici, strumenti musicali o angoli di cucina liberamente allestiti coi propri mezzi, chiave personale, computer. Ovvio che al primo sgarro si tornerebbe nella sezione “comuni” e si perderebbe il “paradiso” per almeno un anno.

Questa sezione dovrebbe avere un solo posto di guardia con soli due piantoni per le emergenze e costerebbe un decimo di una sezione normale poiché sarebbe quasi interamente autogestita. Concederai telefono e internet a proprio pagamento, ovviamente con registrazione dei siti e delle chiamate, magari escludendo chi potrebbe verosimilmente recare danno alla comunità o reiterare i reati. L’ho buttata giù così forse esagerando un po’ con le concessioni ma andrebbe studiata bene perché con un simile obiettivo magicamente le sezioni comuni diventerebbero collegi francescani con diminuzione di rischi e tensioni anche per tutti gli assistenti e gli addetti alla guardia.

Secondo: vorrei che ogni sezione avesse tre portavoce che rappresentassero i detenuti che, assieme a corrispettivi delle altre sezioni, formassero un piccolo sindacato interno che si interfacciasse con l’amministrazione penitenziaria per difendere i diritti e per valutare i problemi, le emergenze, i reclami e i riconoscimenti.

Non sto scrivendo nulla di nuovo, si chiama democrazia e gli uomini la praticano da 2.000 anni.

Ciò servirebbe alla direzione per avere rappresentanze di sezione ordinate, attendibili anziché il caos e ai detenuti per avere una valida alternativa alla legge della giungla per ogni controversia interna e particolare.

Imparare il meccanismo magico della democrazia ovvero la promozione della voce della maggioranza nel rispetto dei diritti della minoranza, sarebbe poi un eccezionale esperimento per una presa di coscienza collettiva del diritto e per una crescita sul campo di quel prezioso senso civico che manca a tanti, soprattutto a chi non ha avuto la possibilità di studiare o di incontrare nella vita dei buoni maestri.

I “fatti” anziché le “prediche”.

Terza idea: vorrei una legge che prevedesse, per ogni magistrato, ogni direttore di Penitenziario, ogni ufficiale di polizia penitenziaria da ispettore in su, tre settimane di carcere sotto copertura (di cui una in isolamento), come fosse un corso di aggiornamento obbligatorio.

Questo periodo detentivo formativo dovrebbe essere necessario senza eccezioni per concorsi, promozioni e nomine di cui sopra con possibilità in ogni momento di interruzione immediata in caso di rivelazione, anche casuale, della copertura o di mancata sopportazione dell’esame, con conseguente sospensione della nomina in ruolo per 5 anni.

Sarebbe d’obbligo comunque il rifacimento daccapo.

Nessun luogo di lavoro come una casa circondariale, io credo necessiti così tanto di esperienza da dentro da parte di chi dovrà gestirne l’amministrazione, il welfare e la sicurezza. Potrebbero bastare anche solo due giorni per capire tutto, ma gli altri giorni sono necessari per ricordare per sempre.

Quarto ed ultimo punto: vorrei che ogni carcere assumesse obbligatoriamente una percentuale dovuta di cittadini italiani di cultura araba come assistenti, in rapporto alla percentuale dei detenuti di medesima provenienza presenti all’interno di quel istituto. Vorrei che ogni regione indicesse relativi concorsi necessari a questa innovazione per favorire la comunicazione e la gestione diretta di una così larga parte di detenuti, spesso ignari da modi e diritti, affinché la legge possa essere un poco più uguale per tutti.

Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

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Natura sotto assedio e rinascita
In mostra alla Zanzara il Post Eden immaginato da DenisRiva/Zarattini

Un tuffo nella natura, dove il piacere di queste visioni di foreste e paesaggi marini variopinti accompagna il visitatore in un percorso di indagine coinvolgente, che in realtà affronta il tema della distruzione che l’essere umano sta infliggendo al mondo circostante. È questo che illustra con grande piacevolezza per gli occhi la mostra “Post Eden” con le opere di DenisRiva/Luca Zarattini alla galleria Zanzara arte contemporanea, in via Podestà, nel centro storico di Ferrara.

“La grande cloaca” con gli autori (foto zanzara)

La prima sala esibisce alberi trionfanti e, avvicinandosi meglio all’opera, un albero con miriadi di volatili d’ogni specie e materia che si possono intercettare tra le pennellate stratificate e aeree di Denis Riva.

“Nato spontaneamente” di Denis Riva

La seconda sala espone le opere di Luca Zarattini composte di carte strappate e macchie di colore che, a un’osservazione più attenta e ravvicinata, rivelano un tuffatore nell’atto di fendere la superficie acquatica.

Composizione di opere e Tuffatore di Zarattini

Il tragitto prosegue per arrivare fino a creature marine di ceramica smaltata e microrganismi curiosi che chiazzano le carte come formazioni fungine, collage e composizioni di creature fantastiche. “Abbiamo voluto mettere in scena una riflessione artistica sulla natura e sull’invasione che subisce da parte dell’uomo”, spiegano le curatrici Giulia Giliberti e Sara Ricci.

Le spettacolari realizzazioni degli artisti Denis Riva e Luca Zarattini alternano due fasi di questa riflessione.

Luca Zarattini (foto GioM)
Denis Riva (foto GioM)

Negli spazi della galleria (civico 11 di via del Podestà) le opere si concentrano sulla situazione attuale, nella quale l’uomo si è allontanato dalla natura e contamina con la sua presenza e i suoi scarti quello che era il suo giardino.

“Diventare qualcos’altro” di Denis Riva, 2021-2023

“Un post Eden – spiega la curatrice Sara Ricci – che culmina nella saletta dove è esposta l’opera firmata a quattro mani, la gigantesca Cloaca che ci seppellirà (l’opera scelta anche come immagine-manifesto della mostra, ndr), dove esplodono tutti i detriti che vanno depositarsi fin fuori dal quadro, su tutto il pavimento”. E che il visitatore è invitato a percorrere e calpestare.

“La grande cloaca” di DeRiva e Zarattini

Nello spazio della Scuderia (civico di fronte, al numero 14 di via Podestà) è esposta la seconda fase di questo processo, ovvero quello che viene prospettato come il seguito dell’Apocalisse: un nuovo mondo concepito dalla fantasia degli artisti con la presenza di esseri sconosciuti e rinnovate creature.

Post Eden
Particolari
Nuove creature
di Denis Riva

In questo antro della parte antica di Ferrara, nato per ospitare carrozze, campeggia un monumentale paravento, la “Riserva artificiale”, composto da 18 vecchie finestre recuperate e trasformate in grandi cornici.

“Riserva artificiale” per Denis Riva (foto GioM)

Da un lato, sotto i vetri sono esposti i 18 lavori su carta di Denis Riva, alias Deriva. Le carte illustrano giganteschi animali a più teste e microrganismi volatili e ariosi, delineati da macchie di china colorata e di un composto che lui chiama ‘lievito madre’, realizzato con l’acqua di scarto della pittura, fermentata, seccata e rivivificata. Dall’altro lato ci sono i 18 collage colorati di Luca Zarattini, che alternano pittura e altri materiali cartacei, che Giulia Giliberti definisce “una ricerca di ordine nel caos”.

L’esposizione nelle scuderie

Passando nell’ultimo spazio, la sala-grotta sempre all’interno delle Scuderie, esplode l’universo delle creature rigenerate in un mondo nuovo, che riparte dai fondali oceanici. Molto belle le ceramiche realizzate da Zarattini, che plasmano sedimentazioni marine dalle forme e colorazioni diverse: ci sono quelle violacee come rocce incrostate di cozze, appuntiti ricci purpurei, colonne di varie tonalità che evocano formazioni calcaree di stalagmiti. Ai suoi lati campeggiano i due grandi lavori su carta di DeRiva, che recupera i suoi molteplici animali ritagliati e scartati nella realizzazione di altre opere, abbinandoli uno accanto all’altro come su una teca di un raccoglitore di farfalle o alla maniera di un puzzle che evoca gli incastri di animali del designer Enzo Mari.

Collage di Denis Riva
Zarattini e DeRiva
Ceramiche di Zarattini

“La maggior parte delle opere sono state create apposta per questa esposizione” spiegano le galleriste. E raccontano che tutto il progetto curatoriale ruota attorno a un’opera letteraria, “Il Giardino di Babilonia” di Bernard Charbonneau. È un testo del 1969, che descrive la devastazione delle campagne, la fine del paesaggio, la costruzione di un concetto umanizzato di natura e la sua artificializzazione.

DeRiva visto dalla sala-grotta (NQ)

Un tema forte e catastrofico, che la creatività dei due artisti riesce a far avvicinare in maniera appassionante e anche giocosa. Da una parte con l’immaginario impregnato delle carte di recupero e dei paesaggi marini del lagunare Luca Zarattini, classe 1984, originario di Codigoro; e dall’altro con quello del centese Denis Riva, classe 1979, dove prevale il legame con la terra e la particolare sensibilità per il riutilizzo e la trasformazione di pagine antiche, residui tessili e materiali abbandonati.

“Post Eden” alla galleria Zanzara arte contemporanea, via Podestà 11 e 14, Ferrara. Visitabile fino al 24 giugno 2023, nei giorni di giovedì ore 15-18, venerdì ore 11-13 e 15-18, sabato ore 15-18. Per prendere appuntamento, scrivere una mail a info@zanzaraartecontemporanea.it

SE LE BANCHE FALLISCONO
Credit Suisse e il fondo pensioni Alecta… Altro fallimento. Quale apprendimento?

Credit Suisse e il fondo pensioni svedese Alecta: altro fallimento. Quale apprendimento?

Al di là dei tecnicismi che usano i banchieri e gli economisti il fallimento di Credit Suisse è un caso paradigmatico di come è cambiato il ruolo delle banche negli ultimi 30 anni, che è una delle ragioni della crisi attuale dell’Occidente. Il valore di Credit Suisse è sceso in 15 anni da 80 franchi a 1,5. La sua crisi non è recente e negli ultimi tempi se ne sono andati alcuni grandi azionisti sostituiti da fondi arabi.

Fondata nel 1856 da Alfred Escher, politico e dirigente d’azienda, è vissuta per 130 anni come banca locale, per finanziare lo sviluppo delle ferrovie svizzere. C’era un legame diretto con la produzione e il paese. Dal 1990 si è trasformata in una banca globale con l’obiettivo di fare i massimi profitti anche a costo di riciclare denaro sporco e sostenere i peggiori affaristi nel mondo. Col 23% della raccolta dei risparmi era la più grande banca svizzera seguita da UBS (22%). Essendo considerata una banca “troppo grande per lasciarla fallire”, senza avere gravissimi effetti sull’intero sistema globale, è intervenuto lo Stato e poi UBS, la concorrente, ad acquistarla per 3 miliardi.

I soci principali erano la Saudi National Bank (9,9%), il fondo sovrano del Qatar (Holding 7%), il fondo americano Dodge & Cox, l’impresa multinazionale del saudita Suliman Saleh Olayan (Olayan Group), la società di investimento di Chicago Harris Associated, il colosso finanziario BlackRock e la società Silcehester International (Londra).

Negli ultimi anni Credit Suisse ha privilegiato le attività di investment banking e wealth management (anglicismi per dire di far fruttare al meglio i soldi dei ricchi) a scapito dei servizi e degli investimenti in vere imprese.  Si tratta di investimenti ad alto rischio – alcuni dei quali costati miliardi di euro ai clienti, come quelli nella società finanziaria britannica Greensill Capital e nella statunitense Archegos Capital Management, crollate nel 2021 – che nel corso di un decennio hanno minato il suo bilancio, fino al buco di 7,3 miliardi di franchi nel bilancio 2022.

Alcuni analisti hanno parlato di una «cultura del rischio autodistruttiva» che ha alla base la ricerca del massimo profitto ad ogni costo, non badando ai pericoli – più di cento secondo l’autorità di vigilanza elvetica – che già da alcuni anni giungevano al suo management. In mezzo, una serie di scandali che hanno pregiudicato la credibilità. Dallo spionaggio a danno di collaboratori, alla condanna in sede penale per riciclaggio di denaro da traffico di droga, fino all’inchiesta «Suisse Secrets», condotta da 160 giornalisti di 39 paesi, nella quale si parla di clienti accusati di violare i diritti umani, di un trafficante accusato nelle Filippine di commercio di esseri umani, i prestiti al Mozambico per comprare navi della guardia costiera e per la pesca del tonno, poi finiti in traffico d’armi. D’altra parte, parliamo della stessa banca dove trovarono «riparo» le ricchezze che i nazisti scappati in Argentina avevano sottratto agli ebrei.

Il fattore scatenante della crisi di Credit Suisse è stata la svalutazione dei titoli di Stato dovuta all’aumento dei tassi delle Banche centrali (Usa e UE, la più rapida storicamente) che preoccupa anche altre banche: le europee pare abbiano oltre 3mila miliardi di euro di titoli di stato, il cui valore è sceso per il rialzo dei tassi d’interesse, che potrebbe portare a perdite di bilancio preoccupanti e che la crisi di Credit Suisse potrebbe ingigantire (ecco perché la salvano). Ma la cosa incredibile è che per farlo hanno deciso di non far perdere gli azionisti ma gli obbligazionisti (per 15 miliardi), violando regole secolari. Ciò porterà a vertenze giudiziarie e mina la credibilità delle banche “svizzere” (ora globali).

Siamo ormai arrivati a quella «vertigine del capitale», come la chiamò per primo Marx, di voler «far denaro senza la mediazione del processo di produzione», che è il “cancro” della modernità. Da fenomeno limitato alle banche d’affari com’era sino al 1990, è diventato il modo di funzionare “standard” di quasi tutte le banche, da quando è stata abrogato lo Steagall Act che aveva introdotto nel 1933 Roosvelt, proprio per dividere le banche d’affari (che speculavano) da quelle tradizionali (che prestano a imprese e famiglie). Roosvelt le divise per evitare che il fallimento di una banca d’affari travolgesse l’economia reale. La “modernità” ha poi spinto centinaia di migliaia di cittadini a “giocare” e speculare su tutto via internet.

Lo stesso prezzo stratosferico del gas è il frutto di una speculazione di 50 banche d’affari e 150 fondi finanziari che in primavera 2021 (un anno prima dell’invasione russa), ben informati, hanno acquistato “tutto e di più” nel mercato Ttf di Amsterdam (gestito dagli Usa).

Questa finanziarizzazione dell’economia è alla base delle crisi (2008, 2023) che poi colpiscono occupazione, redditi, risparmi, pensioni. Se però le cose vanno male c’è sempre la possibilità (essendo troppo grandi per fallire) che lo Stato (in questo caso la Svizzera) ci metta una “pezza”, anche se oggi è una banca globale, con un profilo speculativo molto marcato, che di «svizzero» ha solo il nome.

Due altri  fallimenti  – la Silicon Valley Bank e la Signature Bank, entrambe Usa – hanno azzerato i conti invece degli azionisti, tra cui il fondo pensioni svedese Alecta che ha perso 1,15 miliardi e altri 728 milioni per la vendita della quota in First Republic Bank (altro fallimento Usa). Un danno enorme per i 2,6 milioni di pensionati svedesi per la pensione integrativa a quella pubblica.

Anche questa storia è significativa dello ‘spirito dei tempi’. Le pensioni in Occidente sono messe sempre più a rischio con il passaggio dalla previdenza pubblica ad una privata (per ora integrativa), dal desiderio di guadagnare a cui spinge la finanza.
Il fondo Alecta veniva da 4 anni di utili crescenti e l’ultimo consuntivo è zeppo di tutte le parole chiave della modernità: etica e integrità, sostenibilità, efficienza, più forti verso il futuro, più energie rinnovabili, minor inquinamento, inclusività, cibo sostenibile, maggior numero di donne, contro ogni razzismo e corruzione e per la diversità etnica. La tradizionale verniciatura di cui si fregiano quasi tutte le imprese multinazionali, i fondi finanziari, le banche (tanto nessuno può controllare oppure fanno anche questo tipo di investimenti ma sono una minoranza rispetto a quelli speculativi).
Ovviamente sono sempre certificati da un Istituto indipendente “prestigioso” (Ernst & Young AB). Leggere il consuntivo del fondo Alecta 2021  fa impressione e dimostra ormai l’impossibilità per un lavoratore, pensionato, cittadino di capire e fidarsi di quelle che una volta erano stimate “Istituzioni”. Il desiderio di guadagnare e la globalizzazione mettono a rischio tutti.

Il responsabile della gestione azionaria del fondo Magnus Billing è stato licenziato, sperando di mitigare le proteste degli imbufaliti pensionati svedesi che hanno perso 2 miliardi di dollari. Ma ovviamente il problema non è del Ceo (che può perdere o guadagnare), ma della logica che spinge anche le pensioni Occidentali ad un’ottica speculativa.
Per fortuna si tratta (per ora) del “pilastro” integrativo e privato della pensione (avviato nel 2000), perché quella pubblica (garantita dallo Stato sulla base dei contributi versati) dà un importo medio pari al 55-60% dell’ultimo salario. C’è poi un secondo “pilastro” formato dalla previdenza professionale, che viene coperta dai contributi versati dai datori di lavoro, sulla base di accordi che dipendono dai settori. Infine, la previdenza privata (tipo Alecta), che lo Stato incentiva con vantaggi fiscali, concepita come parte integrante del sistema pensionistico.

Per Credit Suisse è intervenuto lo Stato Svizzero ma se succede in Europa?
Possiamo continuare con banche e fondi il cui fine è il massimo profitto? Una volta c’era la coscienza che non si poteva generare denaro senza lavoro e il mestiere del bancario era prestare (a rischio) a imprese (vere) e famiglie nell’interesse dello sviluppo reale e del territorio. Ma oggi la modernità cosa vuol far diventare le banche… e noi?

ACCORDI
Il vintage rock degli anni ’20

Il vintage rock degli anni ’20

Tutina attillata, pantaloni a zampa d’elefante, trucco, sigaretta e un bel paio di zeppe. L’estetica anni ’70 c’è, la musica di quell’epoca pure. E stiamo parlando di due fratelli nati nel 1997 e nel 1999, ossia i newyorchesi Brian e Michael D’Addario.

Il nome d’arte è Lemon Twigs, e ce l’hanno scritto in fronte a chi e a cosa si ispirano: il gusto per la melodia di Elton John, il glam ammiccante di Bowie, la maestosità barocca dei Queen e l’istinto selvaggio di Iggy Pop. Aggiungete un po’ di sana sfrontatezza, qualche ruffianata qua e là, e il divertimento è dietro l’angolo.

L’imitazione di Dylan, Jagger e Springsteen in Hell On Wheels [Qui] è a dir poco irresistibile, così come lo è l’andamento scanzonato, e pure un po’ bluegrass, di Small Victories [Qui]. La mia preferita, però, è una piccola gemma pop-glam di appena due minuti e mezzo, in cui ogni pezzo del puzzle è al posto giusto: linee vocali, arrangiamenti e assoli di chitarra.

Il brano fila che è una meraviglia, ha un gran tiro e si poggia su una struttura semplice ed efficace. Ciò conferma che il più delle volte non c’è bisogno di inventarsi chissà che, né tantomeno di allungare il brodo con cambi di tonalità o lunghe code strumentali fini a se stesse. Se sfruttati a dovere, due minuti e mezzo sono più che sufficienti per far funzionare un pezzo rock’n’roll.

The One è la settima traccia del terzo album dei Lemon Twigs, Songs For The General Public, uscito nel 2020. Tra circa un mese uscirà il nuovo disco, e dall’ascolto dei primi singoli pare che i fratelli D’Addario siano saliti sul carro degli anni ’60, mettendosi un po’ in discussione e attingendo a piene mani dal cantautorato di Brian Wilson e Paul Simon.

Parole e figure
La finestra del re di polvere

Per togliere da polvere e oblio i bambini della Shoah: ce ne parla un albo illustrato, La finestra del re di polvere.

Nelle guerre e negli eventi tragici e bui della storia troppo spesso ci si dimentica di coloro che sarebbero stati il futuro. O, se se ne parla, come ai giorni nostri, diventa molte volte pura spettacolarizzazione. Gli ‘acchiappaclic’ sono in agguato perenne.

Oggi vogliamo togliere un po’ di polvere a tante storie rimaste chiuse in soffitte segrete o luoghi dove si cercava di salvare la vita dalle furie cieche di pazzie collettive.

Con un bellissimo recente albo illustrato di Pierdomenico Baccalario e Alice Barberini, La finestra del re di polvere, Orecchio Acerbo editore.

Nel ghetto di Lublino, in una soffitta, c’è il regno di Henio Zytomirski, il bambino più strano di tutti.

Non parla molto. Non ama giocare a pallone nè leggere.

Ma ha un segreto. È uno dei tanti bambini spaventati e minacciati. Questo grande segreto lo condivide con il suo migliore amico che ebreo non è, ma che è uno shegetz, un gentile.

“Mi portò al numero 29 di via Czwartek, sopra alla bottega di spezie di Löeb. La stessa in cui abitavano anche rabbi Symcha e Magen, l’accordatore di pianoforti”.

Un luogo sacro di cui l’amico ha le chiavi. Tavolino, poltrone, sgabelli, quadri, candelabri, scatoloni, spade, biglie, un manichino e pure un grammofono.

Un posto per dieci. Dieci ragazzi, quanti ne servono perché una preghiera arrivi a Dio.

Dietro i vetri impolverati di una delle finestre si nasconde una meraviglia, l’ombelico dei tetti: un mondo diverso, un rifugio, forse un luogo di pace, diverso dall’orrore della guerra che si vede dall’altra finestra.

Quella guerra che si è accanita verso i più deboli, come sempre accade, quei rastrellamenti impietosi, in nome della razza, che saranno un marchio indelebile della storia dell’umanità, quella peggiore, quella più bieca, quella più incredibile, quella più inaccettabile e incomprensibile. Quella cieca e ottusa.
Per chi è ebreo arriva il tempo di fuggire. Non ci sono alternative, si deve tentare.

Così, la notte del 16 marzo, Henio corre dal suo amico per convincerlo a fuggire insieme, ma lui ha troppa paura e resta. Statico, impietrito, incredulo.

La mattina del rastrellamento Henio è sparito. Volatilizzato. Fra le stradine di fango.

“Si presero Symchae e Süss, la vedova Ceymach e i gemelli Kierszenbaum. Quando li sentii arrivare, e gridare, corsi subito a casa degli Zytomirski. I vicini mi dissero che avevano preso i genitori di Henio, ma nessuno aveva visto lui. Mancavano altri nove bambini”.

Spaventato, il suo amico lo cerca ovunque, anche in quella soffitta misteriosa dove lo aspetta una sorpresa: sul vetro della finestra impronte di bambini e un nome che è un saluto. Una traccia sullo sporco, una scritta che lascia un messaggio potente.

Un racconto originale commovente e toccante per rimuovere la polvere dalla Storia del ghetto di Lublino e immaginare un diverso epilogo, anche per Henio Zytomirski.

“Ciò che ancora restava del ghetto della mia città venne raso al suolo nel 1944, quando arrivarono i Russi. (…) Delle quarantamila persone che ci abitavano, ne erano rimaste in vita meno di trecento. Non ho mai saputo su quale altro tetto di quale città siano scappati Henio e i nove bambini che sono andati con lui. Crescendo, sono diventato un collezionista di cartoline di tetti e camini. Le guardo tutte, cercandone una che assomigli a ciò che il mio amico speciale mi fece vedere, quel giorno dalla finestra della soffitta della casa al numero 29 di via Czwartek”.

Podcast di Raiplaysound

Pierdomenico Baccalario ha iniziato a scrivere al liceo classico: in certe ore particolarmente noiose fingeva di prendere appunti, ma in realtà inventava racconti. Nato nel 1974 ad Acqui Terme, si è laureato in giurisprudenza e per un periodo ha affiancato la pratica legale all’attività di scrittore per ragazzi e giornalista freelance. A 24 anni vince il suo primo premio letterario con “La strada del guerriero” e nel 2012 vince il Bancarellino con “Lo spacciatore di fumetti” (Einaudi). Nel 2014 ha fondato l’agenzia letteraria Book On a Tree, con sede a Londra, e si è stabilito con la famiglia nel Regno Unito. Fra i suoi ultimi libri “Hoopdriver” e “La rivincita dei matti” entrambi pubblicati da Mondadori nel 2022.

Alice Barberini, nata a Cesena nel 1977, ha studiato arte a Ravenna e dopo essersi diplomata, l’interesse per il restauro l’ha portata a Firenze dove, per alcuni anni, ha lavorato come restauratrice. Nel 2007, ha scoperto il mondo dell’illustrazione e da quel momento ha deciso di cambiare ‘mestiere’. Lungo questo suo secondo percorso formativo ha incontrato maestri come Mauro Evangelista, Carll Cneut, Gek Tessaro, Dusan Kallay, Camila Stancolvà, Luigi Raffaelli e Giovanna Zoboli. Dal 2012 lavora nel Collettivo Nie Wiem: otto illustratrici determinate a diffondere l’arte e l’illustrazione di qualità in giro per il paese.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

“No ai rigassificatori. Contro l’economia del fossile. Per la transizione ecologica e le fonti alternative. Incontro pubblico”. Giovedì 20 aprile ore 18,00

Giovedì 20 aprile alle ore 18 la Rete Giustizia Climatica di Ferrara organizza un incontro pubblico presso la Sala civica del Grattacielo (viale Cavour 189) dal titolo No ai rigassificatori. Contro l’economia del fossile – Per la transizione ecologica e le fonti alternative”.

Discuteremo di questi temi con Pippo Tadolini, coordinatore della campagna Per il Clima- Fuori dal fossile di Ravenna, e con Massimo Serafini, ambientalista storico ed esperto di politiche energetiche.

  • Rilanciare la politica energetica con i rigassificatori, quindi basata ancora sulle fonti fossili è sbagliato, antieconomico e miope: dove è finita la transizione ecologica? Da quelle idee malate di falso green, nasce la pericolosa opzione di fare dell’Italia “l’hub del gas”, proposta dal governo e condivisa dalla regione Emilia Romagna, strumentalizzando la guerra in Ucraina.
  • Non si ricorda mai che l’Ucraina martoriata è da sempre un hub del gas e che la distruzione del metanodotto nel Mar Baltico conferma che le guerre sono alimentate dalla necessità di controllare e rapinare fonti energetiche: vogliamo che l’Italia diventi un futuro oggetto di contesa militare?
  • La transizione energetica si genera investendo sulla autonomia energetica delle famiglie con fonti rinnovabili: le abitazioni, gli uffici e le automobili sommano la quota più consistente del consumo energetico nazionale. Le tecnologie della produzione energetica rinnovabile, dei sistemi di accumulo e di coibentazione degli edifici consentono ormai un alto livello di autonomia che la rete elettrica deve solo smistare con intelligenza. Si riservi il gas all’industria e all’artigianato.
  • Anche il nostro territorio cittadino e provinciale sono in pericolo: a causa dell’aumento esagerato di impianti industriali di biogas e di biometano, delle trivellazioni in mare e in terra contro le quali hanno alzato di recente la voce i Vescovi di Ferrara, Rovigo e Chioggia, l’abuso tariffario spregiudicato della componente dell’incenerimento di rifiuti nel sistema di teleriscaldamento.

L’incontro del 20 aprile promuove e sostiene la manifestazione nazionale che si terrà a Ravenna su questi temi il prossimo 6 maggio.

Rete Giustizia Climatica di Ferrara

Geografie incerte… Certissime collaborazioni:
nel Convegno Franco Argento il ricordo di Alberto Melandri

Convegno Franco Argento: 24-25 marzo 2023

Mi piace iniziare dal fondo questo reportage, vale a dire dalle parole con cui gli ospiti del Convegno Franco Argento del 24 e 25 marzo ci hanno ringraziati e gratificati:

“Ringrazio gli amici del CIES per la bella accoglienza ricevuta, e i colleghi intervenuti nei dibattiti per lo stimolante confronto che ne è nato: sono stati due giorni intensi e per me da ricordare. / Grazie a tutti i partecipanti. Ho imparato molto e conosciuto persone di valore. / Grazie per la accoglienza, siete stati grandiosi. Per me è stato molto bello conoscere altri ospiti e i loro lavori, meravigliosi!! Sono tornato a casa con nuove idee e curiosità. / È raro sentirsi rispettati nella quotidianità in un convegno di due giorni. Raro che nessuno trasmetta la tensione dell’organizzazione trasformandola in pressione. È raro poter trattare l’argomento di un convegno potendo essere se stessi, trattare di diritti umani restando umani, respirare l’affetto per osmosi.

Credo che i messaggi che ho riportato facciano annusare, a chi non c’era, l’aria pura, fresca e calda allo stesso tempo, che tutti noi (e, ci auguriamo, anche gli studenti e le studentesse) abbiamo respirato nelle due giornate.

Il Convegno Culture e Letteratura dei Mondi, organizzato dalle Associazioni CIES (Centro Informazione ed Educazione allo Sviluppo) e CITTADINI DEL MONDO di Ferrara, è giunto quest’anno alla ventunesima edizione, per noi molto speciale perché si è tornati a svolgerlo in presenza, dopo due edizioni che la pandemia ci ha costretti a realizzare online.

Hanno fatto da cornice preziosa agli interventi degli studiosi, degli scrittori ed esperti e alle ‘esibizioni’ di allievi ed allieve i due eleganti auditorium degli istituti superiori ITE Bachelet e Liceo Carducci nelle due mattinate e la Sala Polivalente abbinata alla Biblioteca Popolare Giardino nel pomeriggio di venerdì.

Il Convegno è nato nel 2002 per iniziativa di Francesco Argento, docente ed intellettuale dallo sguardo lungo, che ha coinvolto nell’avventura un gruppo di amici e amiche insegnanti, con l’intento di accompagnare un fenomeno molto interessante dal punto di vista culturale: la nascita anche in Italia di una letteratura detta ‘della migrazione’, i cui protagonisti sono stati, a partire dagli anni Novanta, scrittori che sceglievano di comporre non nella loro lingua madre, ma in quella del paese di adozione, in questo caso l’italiano.

Essendo tutti noi persone di scuola abbiamo voluto cogliere in quel fenomeno una straordinaria opportunità culturale, ma anche educativa, perché far incontrare gli studenti con le storie di altri mondi poteva rappresentare una ricchezza culturale preziosa, in quanto fatta di intrecci di culture, linguaggi ed esperienze.

Venendo a mancare poco prima che riprendessimo ad incontrarci per organizzare la seconda edizione, Francesco ci ha lasciato una eredità di cui ci sentiamo portatori ancora dopo molti anni, eredità rafforzata dall’importante messaggio che ci ha lasciato un altro grande ispiratore, animatore  e motivatore delle nostre iniziative: Alberto Melandri, morto quattro anni fa e ricordato in modo particolare e con una intensa rievocazione nella fase conclusiva della sessione del Convegno svolta al Liceo Carducci la mattina di sabato 25 marzo.

Mi sembra opportuno inserire a questo punto stralci della presentazione di quest’anno, sulla base della quale alcuni docenti delle scuole superiori di Ferrara hanno aderito all’iniziativa, proponendo alle loro classi di occuparsi dei temi proposti e di leggere i testi degli autori invitati, nonché di partecipare in presenza, ove possibile, agli incontri.

Il tema del convegno

Nel 2005 avevamo dedicato la quarta edizione del Convegno al tema della città. Tra gli ospiti, il geografo Franco Farinelli avvertiva di come “I processi di produzione e la stessa esistenza nelle città si svolgono sempre più in una dimensione invisibile, che è quella dei flussi elettronici. Nessuna cartografia rispecchia più il mondo come è adesso. Non ci sono più modelli per rappresentare il mondo.

Il mondo oggi comincia a smaterializzarsi: agli atomi si sostituiscono i bit, e ciò comporta la distruzione dello spazio: non c’è più distanza, quindi unità di misura del mondo. Ci mancano le parole perché non sappiamo più vedere. Ci servono descrizioni letterarie, non spiegazioni scientifiche. Ecco perché abbiamo bisogno degli scrittori” (Atti 4° Convegno Franco Argento, Ferrara, 2005).

L’edizione 2023 del Convegno intende proseguire su quelle piste di ricerca, prendendo spunto ancora una volta dalle riflessioni di un geografo, Alessandro Ricci, autore di La geografia dell’incertezza, in cui il fenomeno della globalizzazione viene letto attraverso la lente dell’incertezza geografica di fronte alla crisi generalizzata del mondo contemporaneo.

Alessandro Ricci intende con «geografia dell’incertezza» una differente interpretazione dell’idea stessa di globalizzazione, che prese avvio – inequivocabilmente – con la cognizione della globalità del mondo stesso, avviatasi proprio a partire dal compimento del folle volo di Colombo e degli altri grandi esploratori d’età moderna, che seppero superare ogni vincolo certo, dogmatico, metafisico e allegorico”.

Quell’incertezza che si determinò nel declino delle strutture e delle certezze medievali, a causa dell’affermazione di una forma mentis globale, si riscontra oggi “nell’idea di crisi generalizzata […] nelle dinamiche geopolitiche, economiche e sociali della post modernità”.

Quando la letteratura orienta la propria attenzione verso la realtà contemporanea, non può non toccare significati esistenziali attraverso lo sguardo sulla condizione dell’individuo nella dimensione globale della postmodernità. Così come l’incertezza sembra essere la cifra attraverso cui declinare l’esperienza quotidiana, lo “spaesamento” sembra essere la lente attraverso cui tanta letteratura tenta di rappresentare quell’esperienza.

Ed è una cifra che si può cogliere, per non andare troppo lontano o troppo indietro nel tempo, in alcuni fra i libri usciti recentemente che hanno fermato la nostra attenzione.

Storie di incontri e di spaesamenti

Su tutto questo abbiamo chiesto ai relatori di esprimere il loro pensiero e di illustrare le loro ricerche ed esperienze di scrittori e studiosi.

Nel corso delle due giornate si sono intrecciate “storie di incontri e spaesamenti” (come indica il sottotitolo del Convegno) e si sono alternate differenti modalità di esposizione. Tutti gli interventi sono stati trasmessi in streaming e sono visibili su YouTube ai link riportati in calce al presente articolo.

Il pubblico (studenti, docenti e addetti ai lavori) ha ascoltato con interesse le relazioni degli ospiti nelle due mattinate: Valentina Avoledo, in una sorta di dialogo con una classe del Bachelet con interventi musicali, Wajhat Abbas Kazmi, Tahar Lamri, Nader Gazvinizadeh, Margherita Cennamo, Occhioaimedia, Alessandro Ricci, Guido Barbujani, video-intervistato in precedenza da studenti dell’Ariosto.  Particolarmente stimolante si è rivelata la successione dei brevi ma incalzanti e sapientemente interconnessi interventi dei medesimi autori, nel corso dell’evento del venerdì pomeriggio.

In ricordo di Alberto Melandri

Nella seconda parte della mattinata di sabato è stato ricordato Alberto Melandri: episodi curiosi, aneddoti affettuosi, momenti carichi di emozione sono stati raccontati da Paolo Trabucco del Cies, da Carola Peverati di Cittadini del Mondo e dagli amici Nader Gazvinizadeh e Daniele Lugli.

Mi sembra che in modo efficace ed intenso si possa chiudere questo articolo riportando integralmente il prezioso ricordo che hanno elaborato alcuni docenti del Liceo Carducci, letto da Giuliana Amarandi.

Alberto lo ricordiamo tutti seduto in questo auditorium, nelle file in alto, sempre pronto a prendere la parola durante il collegio docenti o scendere velocemente questi gradini per presentare una nuova mozione di voto, pensata in modo fulmineo e scritta con chiarezza e rigore.

Questo auditorium, che sarà dedicato alla sua memoria, è stato a lungo teatro della sua partecipazione alla vita della scuola, delle instancabili battaglie in difesa dei diritti umani, dell’impegno di educatore pronto in ogni momento a dialogare con gli studenti sugli eventi della realtà contemporanea.

Il Carducci è stato per 32 anni “la sua scuola”, quella in cui ha scelto di rimanere dall’entrata in ruolo fino alla pensione, al servizio delle studentesse e degli studenti forse meno privilegiati rispetto a quelli dei licei della città, ma nel contempo curiosi di conoscere e talvolta ancor più desiderosi di riscatto sociale e culturale. Intere generazioni di ragazzi, ma soprattutto di ragazze che ricordano con affetto e riconoscenza il loro professore con lo zaino in spalla, i capelli lunghi, dall’immensa cultura e dal sorriso contagioso.

E con amore e riconoscenza lo ricordano oggi qui i colleghi e tutti coloro che lo hanno incontrato, dentro e fuori la scuola, e che hanno avuto la fortuna di condividere con lui una parte del loro percorso umano e professionale. Gli studenti rimanevano colpiti dalla sua memoria prodigiosa e dicono di lui che si ricordava tutto, che “sapeva tutto”.

Si racconta che, nel momento in cui entrava in classe, riuscisse a memorizzare immediatamente tutti i nomi dei nuovi alunni. Un’amica e collega ci ha svelato che prima di iniziare le lezioni in una nuova classe si procurava l’elenco degli studenti in segreteria e lo imparava a memoria. Questi effetti speciali producevano grande stupore nei nuovi alunni, che da subito gli giuravano fedeltà eterna!

Entrava in classe col suo passo saltellante e l’inseparabile zaino, che pesava il doppio di lui, lo lanciava sulla cattedra e apriva tutte le lezioni con il classico saluto melandresco, un “ciaoooooo” prolungato e confidenziale. Alby, come lo chiamavano segretamente alcune studentesse, sapeva coinvolgere nelle sue passioni e riusciva ad incantare con il suo sapere, l’amore per i classici e la dialettica chiara e trascinante. 

Non mancavano i momenti in cui anche lui perdeva la pazienza con gli studenti, tanto che ad una classe particolarmente indisciplinata disse: ” Io questo lavoro ve lo butto nel cesso!”. Gli studenti ammutolirono e da quel momento cominciarono a lavorare a testa bassa, con serietà e impegno.

Nella nostra scuola, in cui giunse al termine degli anni Settanta, si distinse come innovatore. A metà degli anni Novanta, partecipò alla sperimentazione didattica che portò il corso di studi magistrale a cinque anni, aggiornandone i contenuti e promuovendo l’apertura alle Scienze Sociali.

Si fece inoltre promotore della didattica breve del latino, che assegnava maggiore importanza alla comprensione del testo e alla cultura latina, dando all’insegnamento di questa lingua antica una dimensione personale e giocosa, che portò anche in forma laboratoriale nelle scuole medie durante le giornate di orientamento.

E forse fu proprio la lunga consuetudine con i classici a fargli acquisire il rigore e la chiarezza nello scrivere, che tutti ricordiamo come suo fondamentale tratto caratteristico, unito alla grande capacità di sintesi e all’abilità di arrivare subito al cuore del problema, quando interveniva in un dibattito o quando doveva difendere un’idea o una persona.

Volle introdurre in ogni aula le nuove carte geografiche di Arno Peters che proponevano una visione del mondo più corrispondente a quella reale, eliminando la visione eurocentrica proposta dal modello di Mercatore.

Appoggiò con forza l’integrazione nella scuola dei primi ragazzi portatori di handicap, anche molto gravi, portando le sue competenze professionali e la sua grande sensibilità nella relazione educativa e aprendo così la strada alla vocazione all’inclusività, che rappresenta ancor oggi una cifra distintiva del nostro istituto.

Portò ai suoi studenti i temi della transizione ecologica e della salvaguardia dell’ambiente, per cui si batté con grande impegno anche nella realtà cittadina, anticipando percorsi didattici che sono entrati solo ora nella progettazione scolastica, e che vent’anni fa erano pure innovazioni.

Fu tra i primi docenti a comprendere l’importanza per gli studenti della partecipazione ad eventi collettivi, conducendoli fuori dalle aule e promuovendo il rapporto con il territorio e la realtà socio-culturale.

Una delle tante iniziative da lui volute, che ci piace ricordare, è la celebrazione al Palasport di Casalecchio della giornata della memoria oltre vent’anni fa, quando alcune classi della nostra scuola poterono assistere alle testimonianze sulla Shoah di Nedo Fiano e Liliana Segre, che all’epoca non era ancora conosciuta e per la prima volta parlava ai ragazzi delle scuole

Alberto ha saputo portare il suo impegno sociale, civile e politico nella scuola, educando intere generazioni al rispetto dei diritti umani, alla democrazia, al dialogo tra le culture.

Lo ricordiamo fuori e dentro la scuola come infaticabile sostenitore dell’integrazione e della tutela dei diritti degli immigrati e per la sua attività di formatore dei mediatori linguistico culturali.

Si è dedicato con grande passione all’educazione interculturale, promuovendo in veste di coordinatore del CIES la partecipazione degli studenti delle scuole ferraresi ai lavori del Convegno che ci vede oggi qui riuniti.

Alberto è stato un “uomo di pace”, sempre in prima fila a sostegno dei popoli oppressi. A metà degli anni Ottanta, con il CIES, si è battuto in particolare per i diritti dei perseguitati di Timor Est, una realtà lontana, sconosciuta ai più, che però ha fatto sentire vicina ai suoi studenti, coinvolgendo e sensibilizzando le classi.

Ha organizzato con i suoi alunni le prime manifestazioni pacifiste a scuola, come il Sit-in per Tienanmen nel 1989. Per chi aveva vissuto il ‘68 il sit-in era una modalità frequente di protesta, ma nelle scuole ferraresi di fine anni ottanta era piuttosto inusuale.

Ma Alberto non poteva certo rimanere inerte, mentre venivano calpestati i diritti umani di studenti, intellettuali e operai e soprattutto di fronte alla violenta repressione che sfociò in un massacro di piazza. Così interruppe le lezioni e insieme ai suoi ragazzi realizzò all’interno dell’istituto una protesta pacifica, che il preside dell’epoca non gradì affatto, tanto da distruggere i cartelloni realizzati dagli studenti e appesi lungo i corridoi della scuola.

Nel 1991, allo scoppio della Guerra del Golfo, Alberto portò i suoi alunni nuovamente fuori dalle aule per farli partecipare alla diretta televisiva del conflitto, proprio qui, in questo Auditorium, che è stato al centro di molte delle sue esperienze scolastiche e umane.

Sempre pronto a sostenere con fermezza le sue idee, si è battuto per esse, usando le parole con garbo, chiarezza e rigore e rispettando il proprio interlocutore. Sapeva essere però davvero determinato, deciso e persino tagliente quando venivano lesi i diritti degli studenti, fino ad intervenire con severità e senza timore dell’autorità, anche a costo di procurarsi critiche e talvolta inimicizie.

È stato un insegnante empatico e insieme autorevole, di grande umanità e lungimiranza, sempre col sorriso sulle labbra… un sorriso che nasceva dalla consapevolezza che il mondo si può migliorare, che dialogando si possono abbattere insieme barriere ed ostacoli.

Molti lo ricordano come un amico divertente, gioioso, ironico, come un amabile conversatore, con cui passare il tempo era piacevole. Non era necessario chiedergli aiuto, si accorgeva da solo se qualcosa non andava e sapeva ascoltare, senza giudicare, cosa rara.

Parlando di lui una collega ha scritto che il ricordo di Alberto è per lei un punto luminoso. Una bella metafora di quello che rappresenta per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, di lavorare con lui, ma soprattutto di essere stato suo studente.

Pensare ad Alberto riporta alla mente il motto impresso all’ingresso della Scuola di Barbiana “I care”. A lui infatti stavano a cuore i suoi studenti, tutti, e ha saputo prendersi cura di loro.

Qui di seguito i link per visionare le registrazioni delle due mattinate del Convegno:

https://youtube.com/live/5N78XnGc_7I?feature=share

https://youtube.com/live/6oKc6g7AyOo?feature=share

Bibliografia di riferimento

  • Alessandro Ricci, La geografia dell’incertezza, Exorma, 2018
  • Valentina Avoledo, Combo, Calibano editore, 2022
  • Guido Barbujani, Soggetti smarriti. Storie di incontri e spaesamenti, Einaudi, 2022
  • Margherita Cennamo e Nader Ghazvinizadeh, La Borda. Storia di una migrazione, spettacolo di burattini – Burattinificio Mangiafuoco, 2017
  • Margherita Cennamo e Nader Ghazvinizadeh, La maggior parte, spettacolo di burattini – Idem
  • Nader Gazvinizadeh, Metropoli, Edizioni CFR, 2011
  • Nader Gazvinizadeh, I cosmonauti, Pendragon, 2015
  • Nader Gazvinizadeh, Addio Vint, Bebert edizioni, 2019
  • Tahar Lamri, “Il pellegrinaggio della voce” e “Ma dove andiamo? Da nessuna parte solo più lontano” in Parole di sabbia (a cura di F. Argento, A. Melandri, P. Trabucco), Edizioni Il Grappolo, 2002
  • Tahar Lamri, I sessanta nomi dell’amore, Fara Editore, 2006
  • Occhioaimedia (a cura di), Nel mio paese nessuno è straniero, edizioni Il razzismo è una brutta storia, 2012
  • Wajahat Abbas Kazmi, Allah loves equality (docufilm)

In copertina: un momento del Convegno nell’auditorium del Liceo Carducci intitolato ad Alberto Melandri (foto Maria Calabrese)

120 veicoli storici militari con figuranti: non è “La colonna della libertà” ma una sfilata militarista, antistorica e inopportuna

Nella giornata di domenica 23 aprile alle ore 16:15, nell’ambito delle celebrazioni per la Liberazione è previsto il passaggio a Mezzogoro (FE) di una colonna di 120 veicoli storici militari risalenti alla Seconda guerra mondiale con i loro figuranti. E in precedenza transiteranno per Bondeno,  Vigarano, Ferrara e Copparo. L’evento è chiamato “La Colonna della Libertà” e a nostro avviso è un’esibizione militarista, antistorica e inopportuna che  non condividiamo perché non è questo il modo di celebrare la Festa della Liberazione, anzi è un modo per manipolare la storia.
Presentata come Rievocazione storica la sfilata di mezzi militari, compresi carri armati ed automezzi tedeschi con comparse abbigliate con divise da soldato che richiamano eserciti alleati e si auspica non divise tedesche,  riteniamo sia  una  iniziativa  antistorica e inopportuna.

Antistorica
in quanto si concentra solo sul ruolo che ebbero i militari nella Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, distorcendo la storia e tralasciando la complessità della lotta portata avanti dal popolo italiano e dalle formazioni partigiane che a livello anche locale hanno dato un grande tributo di sangue. I tedeschi, i nazisti ed i fascisti sono stati coloro che hanno portato Italia alla guerra, alla distruzione, al dolore ed è stata la Resistenza a liberarci da tanta oppressione!   Ed il  25 aprile si celebra la  festa  della Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista, la festa della ripartenza democratica e antifascista, del ripudio di ogni guerra, che sono i valori fondanti sanciti dalla nostra Carta costituzionale.

Esibire armi, soldati e mezzi militari non è il modo per affermare i valori della democrazia e della pace
. È una rappresentazione muscolosa che senz’altro piacerà alle destre che la giustificano spacciandola per attrazione e promozione turistica delle città attraversate da questa inquietante messa in scena mentre si dovrebbe  investire denaro per promuovere iniziative sulla storia della Liberazione, quella frutto di rigorosi criteri storici e scientifici, contrastando ogni forma di  revisionismo.

Inopportuna
,  in quanto le amministrazioni locali dovrebbero contrastare la drammatica tendenza ad accettare e giustificare il confronto armato, che purtroppo domina la quasi totalità dell’informazione  con l’effetto di rafforzare spinte autoritarie e antidemocratiche, di incrementare i conflitti armati che provocano vittime, profughi, danni all’ambiente e alla salute di ogni essere vivente, aumenti dei costi energetici, aumento delle spese militari a danno degli investimenti in sanità, scuola, servizi sociali e tutela dell’ambiente.
Facciamo appello ai singoli, alle associazioni, alle forze politiche e sindacali, affinché si oppongano a questo tipo di rappresentazioni.
Daniela Fuschini, Dipartimento Antifascista PRC Federazione di Ferrara
Stefania Soriani, segretaria di PRC  Federazione di Ferrara
In copertina: 2 Giugno 1951: sfilata di carri armati davanti alla tribuna delle autorità, in via dei Fori Imperiali, durante la parata militare del 2 giugno (Archivio Luce)

Nella Protezione Civile il mio piccolo contributo al cambiamento sociale

Ho passato poco più dei miei sessant’anni a rincorrere quella chimera che è l’equità sociale, ho frequentato la politica attiva, dapprima come semplice simpatizzante, e poi come militante attivo, ho letto migliaia di pagine per la mia fame di conoscere.

Ho frequentato ambienti di estrema sinistra per poi accorgermi che le utopie sono, si, affascinanti da teorizzare, ma si scontrano, quasi sempre, con la realtà, che ci procura bruschi risvegli.

Come tutti i romantici, però, gli anni di militanza e un’analisi spietata della mia personalità, mi hanno fatto comprendere che quella non era la strada giusta per provare, non dico a cambiare il mondo, ma, quantomeno, a dare il mio, seppur minimo, contributo al cambiamento.

Non pretendevo di essere un protagonista della vita pubblica, non ho né il fisico, né le propensioni a mettere in mostra il mio ego, ma mi sarei accontentato di accorgermi che le ore passate a leggere e ad occuparsi degli altri, potessero darmi il segno di essere stato utile.

Tutto ciò, le mie delusioni, le mie illusioni crollate di fronte alla vita reale, hanno avuto una vera svolta, il giorno in cui mi sono approcciato con il mondo della protezione civile.

Confesso che, forse, mi ci sono avvicinato in un momento difficile della mia vita professionale, forse per noia o, forse, per mera curiosità, ma, anche solo la minuscola opportunità di rendere il mio operato utile alle persone, mi ha fatto decidere di iscrivermi ad un’associazione di Protezione Civile (PC).

Come in ogni cosa che ha camminato al mio fianco, ci ho messo tutto l’impegno, dapprima leggendo le leggi che regolamentano la PC, e poi intervenendo attivamente con le mie idee all’interno delle riunioni o delle assemblee. Ciò mi ha dato l’opportunità di mettere in gioco tutto quello che, per una vita, è stata la mia filosofia, la mia, prepotente, voglia di provare nuove strade e di tentare di percorrerle per dire a me stesso, il giorno in cui dovrò abbandonare la vita terrena, che essa non è stata inutile e che ha aiutato buone pratiche di cambiamento.

Durante questi anni in PC, tutti noi abbiamo avuto l’opportunità di scontrarci con una problematica di natura sociale molto pesante, che la pandemia ha solo messo in forte evidenza, ovverosia la solitudine, il senso di abbandono di una parte della società che fatica a fare le faccende più semplici ed ovvie, quali recarsi dal medico, all’ospedale per una visita od anche, semplicemente andare in farmacia o a fare la spesa.

Ed eccola, quindi, l’occasione di aprire la mia propensione al cambiamento e alle innovazioni, coadiuvato da un bel gruppo di volontari che, come me, volevano rendersi utili alle persone meno fortunate, abbiamo organizzato un servizio di trasporto sociale, servizio che non avviene attraverso un listino, che non sarebbe né equo né, tanto meno, solidale, ma attraverso le donazioni volontarie delle persone che trasportiamo.

Ecco, quindi e finalmente, che mi si è aperta l’alba dei miei sogni, finalmente ho avuto, netta, l’impressione che se ci si crede, se ci si lavora con impegno e devozione, si può, davvero cambiare i paradigmi che regolano le convivenze civili, si può vedere l’altro con il nostro stesso sguardo e non da altezze diverse, si può tendere la mano a chi, anche solo temporaneamente, vive in solitudine ed in difficoltà.

Non è facile, scrivendolo, raccontare le emozioni che si possono provare nello svolgimento delle attività sociali e di protezione civile, le parole possono sembrare vuote e fredde, ma il sorriso, i piccoli gesti di ringraziamento delle persone sono in grado di riempire, nel profondo, il cuore di chi ha deciso, come me, come noi, di dedicare un po’ del proprio tempo libero per occuparsi delle persone.
Per semplicità posso provare a raccontare una giornata tipo del volontario che, come me, si dedica a quelli che mi sento di definire bisogni primari delle persone.

Prima di tutto perché li definisco bisogni primari?
Perché in caso di qualsiasi emergenza, soprattutto ambientale, il sistema di protezione civile interviene per soccorrere chi ha subito danni personali o alle proprie cose, ma, poi, chi si occuperà dei loro bisogni, quali reperire le medicine o il vestiario, irrimediabilmente perso nell’emergenza, chi ascolterà i bisogni, che possono sembrare, di poca importanza, ma fondamentali per la sopravvivenza di chi subisce l’emergenza, se non i volontari?

Allora ci si affianca a coloro che stanno, materialmente, occupandosi di rimettere il sistema in attuazione, e si ascoltano le esigenze, cercando di trovare la giusta strada per risolverle.
Lo so, sono consapevole che quanto siamo facendo, io ed i volontari della nostra associazione di PC, è una piccola goccia che rischia di perdersi in mezzo ad un mare fatto di egoismi, personalismi e conflitti sociali, ma le risposte morali, i gesti di affetto e di riconoscimento delle persone che trasportiamo, sono l’evidenza che, ancora una volta, attraverso le piccole cose ed i piccoli gesti di solidarietà, si possono interpretare grandi rivoluzioni pacifiche, che, davvero possono dare l’abbrivio al cambiamento del mondo.

Le storie di Costanza
Aprile 2062 – La cattiveria dei Robot

Le storie di Costanza. Aprile 2062 – La cattiveria dei Robot

A volte questo strano mondo del 2062 mi fa impressione. Tutto cambia molto velocemente, tutto si trasforma e ricicla, tutto comincia e finisce secondo delle modalità e dei tempi che non hanno nulla a che vedere con quelli usuali negli anni 2000, quando io ero giovane. L’inizio del nuovo secolo è ormai lontano e i miei pronipoti Axilla e Gianblu studiano cosa è successo in quel periodo sui libri di storia.

Avendo 90 anni, sono anch’io un archivio storico e ogni tanto i ragazzi mi interrogano: “Zia Costanza sui nostri libri c’è scritto che l’11 settembre del 2001 un gruppo di terroristi islamici affiliati ad al-Qāʿida (Al Qaeda) fece schiantare due aerei civili contro le Torri Gemelle di New York, che crolleranno nell’arco di 102 minuti per i danni causati dagli impatti e dai conseguenti incendi. Tu c’eri? Cosa ricordi?”

Così cerco di trovare nella mia memoria qualcosa di interessante da raccontare loro che non sia direttamente fruibile dai libri. Mi metto a ripetere i commenti dei miei colleghi di fronte alle immagini in tempo reale di quella tragedia, descrivo loro che condizioni metereologiche c’erano, o dov’ero e cosa stavo facendo mentre succedeva che un aereo perforasse una torre come se fosse burro.

Oppure provo a ricordare i commenti dei primi giornalisti che diedero la notizia in TV. Attualmente pochi ricordano che il primo giornalista che diede l’annuncio dell’attacco aereo dell’11 settembre si chiamava Emilio Fede. Il giornalista era nella redazione di una delle TV Mediaset per condurre il TG del pomeriggio e si trovò, praticamente in diretta, a commentare quell’attacco terroristico.

Da quel giorno è passato molto tempo, molti altri attacchi terroristici, guerre, massacri, pandemie si sono succedute davanti ai nostri occhi, così come tanti avvenimenti belli e inaspettati. Ad esempio, nel 2030 si è chiuso il buco dell’ozono, un problema atmosferico che ha preoccupato i meteorologi e gli astrofisici per diversi decenni.

Il tempo attuale è molto diverso e le insidie che nasconde sono in parte le stesse di sempre (si può ancora parlare di attacchi terroristici) e in parte sono nuove. Ci sono alcune azioni foriere di eventi nefasti, che non esistevano nel 2000 e nemmeno nel 2030. Sono veicolate da sentimenti umani che utilizzano come tramite per l’emersione la memoria artificiale.

Il mondo dei mezzani (robot-111 e -121) era nel 2000 agli albori e questo impediva il manifestarsi di alcune insidie contemporanee.  Un dramma molto attuale si concretizza quando i Robot-111 diventano cattivi e bisogna scomporli e riassembrarli. In questo processo di frammentazione e ricomposizione le loro catene neuronali vengono interrotte ed è come se non fossero mai esistite.

Il robot riassemblato prende un nuovo nome e diventa un altro robot. Viene venduto a un nuovo proprietario e ricomincia un processo di imitazione con il nuovo umano di riferimento, che porterà il mezzano a definire il suo modo di fare, le sue cognizioni, le sue lacune e alcune sue strane preferenze.

Se partiamo dal presupposto, coerente con quanto la scienza ci insegna, che i sentimenti mezzani sono etero-riflessi, in quanto sono imitazioni di quelli umani, allora la cattiveria dei robot spaventa in quanto non è altro che l’imitazione di quella umana.

Se invece abbracciamo una teoria eterodossa secondo cui anche nei Robot si verificano processi di autogenesi riflessiva, allora la cattiveria dei Robot terrorizza perché non sono chiari i processi neuronali attraverso i quali si genera e i meccanismi elettromeccanici attraverso i quali si manifesta.
Sta di fatto che la cattiveria dei mezzani fa paura e ogni umano prova un senso di colpa se il suo robot comincia a dare segnali che vanno in tale direzione.

Tra le cose che i mezzani cattivi fanno c’è invertire il giorno con la notte. Quando fa buio, invece di riposare con i feltrini di mollan che riparano le telecamere, iniziano a cantare, roteare la testa, fare strani sibili che svegliano tutti gli abitanti di casa e, soprattutto, si mettono a fare le pulizie. Caricano e accendono la lavatrice e la lavastoviglie, spargono la cera sui pavimenti, aprono le finestre e azionano l’aspirapolvere. Sembrerebbe che abbiano invertito il giorno con la notte in maniera accidentale, ma di fatto non è così.

Oltre all’insonnia notturna, dicono parolacce inaudite e se ti avvicini provano a farti lo sgambetto, oppure a spingerti per farti cadere rovinosamente a terra. Se ci riescono, ridono facendo strani sibili metallici, come se si accartocciasse la latta di cui sono costituiti.  Se in casa c’è un animale domestico provano a buttarlo dalla finestra e se ci sono dei canarini tentano di arrostirli.

Dopo manifestazioni ripetute di questo tipo, la situazione in famiglia diventa incandescente e aumenta il nervosismo e la conseguente propensione al litigio.  I vari componenti della famiglia cominciano ad incolparsi a vicenda e ad attribuire la responsabilità del comportamento del robot al parente meno simpatico, c’è sempre in una famiglia qualcuno che per carattere o per vicende personali è meno amato e considerato, proprio lui diventa la cavia designata.

I bambini se la prendono coi genitori e i genitori si azzuffano tra loro. La responsabilità dell’incattivimento mezzano è grande e nessuno la vuole. Non è nemmeno facile accettare l’idea che il proprio robot sia definitivamente incattivito e così iniziano strane manovre giustificative e tendenze a minimizzare il comportamento deviante, fino a quando l’evidenza supera ogni ragionevole dubbio e bisogna rassegnarsi alla nuova situazione. Quando questo succede, iniziano sospiri contriti e lacrime di umani grandi e piccoli.

È giunto il momento di riportare il mezzano a Trescia-111 per farlo scomporre. Lo si mette in macchina con i feltrini sugli occhi e si parte per quell’ultimo viaggio, tanto triste quanto definitivo, che tutti ricorderanno per sempre. Non ci si comporta così quando si cambia il pc o l’elimobile, in quel caso i nuovi macchinari sono già pronti, colorati, luccicanti e più efficienti dei precedenti. Basta sceglierne uno nuovo e le prestazioni e l’attuale design sono sufficienti per far dimenticare l’imminente rottamazione del precedente.

Con i mezzani è diverso. Le loro catene neuronali sono cresciute grazie alle loro esperienze e alle loro relazioni; quindi, un robot uguale al precedente non ci sarà, non ci sarà mai più. Questo genera sgomento e senso di abbandono. È così per gli adulti, figuriamoci per i bambini, che sono gli umani più empatici che esistano. La loro giovane età li rende più sensibili e più propensi ad affezionarsi senza remore, questo porta ad un dolore sordo per il mezzano cattivo che se ne va.

È compito dei genitori accompagnare i bambini ad accettare il cambiamento, facendo intravvedere loro l’incredibile soddisfazione di portare a casa un nuovo giovane robot, che avrà molto da imparare e che sicuramente diventerà un amico efficiente e simpatico.

Grave errore da parte di un adulto sarebbe comportarsi in maniera contraria, cioè indulgere nella sofferenza dell’abbandono, rimarcando i pregi del mezzano prima dell’incattivimento. Questo stagnare nella sofferenza è un sentimento depressivo, che peggiora il distacco e inchioda il ricordo nel dolore.

Nessun adulto dovrebbe fare questo, men che meno nei confronti di un bambino, ma non sempre gli adulti si rendono conto della responsabilità che hanno nel gestire tale passaggio e non sempre hanno loro stessi le risorse cognitive ed emotive per affrontarlo.

Finora non è mai successo che dei robot incattiviti si siano uniti in un clan, creando un gruppo di mezzani cattivi. Un clan di mezzani cattivi sarebbe una vera preoccupazione e un grande pericolo, non a caso i romanzi distopici non fanno altro che descrivere, con dovizia di particolari e di corollari barocchi, questa nefasta eventualità.

Non credo che ci sia effettivamente la possibilità che un gruppo di robot costituisca un clan. Almeno per ora, nessuno di noi ha visto dei segnali che ne rappresentano la genesi. Ciò non toglie che, nel nostro pensare il futuro, questo scenario sia uno dei più nefasti. Un gruppo di robot cattivi, che unisce le sue capacità cognitive e fisiche per fare danni, può fare molta paura e creare molta apprensione.

Io che sono vecchia, mi sforzo sempre di non pensare a tutto questo, anche se la mia lunga esperienza di vita non riesce ad eludere a priori questo accadimento inquietante. Col tempo ho però imparato che gli eccessi di preoccupazione rovinano la quotidianità, frapponendo fra te e il mondo attuale l’immagine prospettica di una tragedia possibile. E allora mi sforzo di non pensarci. Penso che sia meglio così per la mia serenità e per quella dei miei famigliari.

Marlon, il primo bambino di mio nipote Enrico che ha dieci anni, un giorno mi ha chiesto se è vero che esistono i robot cattivi.
– Si, esistono – gli ho risposto
Ma tu ne hai visti?
Sigli dico
Deve essere molto brutto – ha commentato lui.

– Già, ma non esageriamo. Ci sono robot riassemblati che sono molto in gamba e che non ci sarebbero mai stati se i robot da cui sono state prese le loro parti costituenti non fossero diventati cattivi. Piccolo mio, bisogna sforzarsi di vedere ciò che c’è di positivo in ogni cosa che succede. In questo ci giochiamo la possibilità di essere felici in quanto esseri umani.

Marlon mi ha sorriso, la mia risposta gli ha alleviato tristi pensieri.
Nell’idea che tutto può essere riutilizzato e che non esiste una distruzione definitiva, ma un processo di genesi e ri-genesi, vi è parte delle nostre speranze per il futuro. Speranze molto umane che non hanno bisogno di fare i conti con l’aldilà.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

PNRR A FERRARA: PIÙ DIRITTI PER LE DONNE?
Seminario di FareDiritti, 18 aprile al CNA

PNRR A FERRARA: più diritti per le donne?

L’obiettivo dell’equità di genere nei progetti del PNRR

Seminario 18 aprile 2023, dalle 16.45 alle 19.15 in CNA a Ferrara

E’ la domanda a cui vuole rispondere il seminario che si svolgera martedi 18 aprile dalle 16.45 alle 19.15 in CNA a Ferrara.

L’iniziativa è organizzata da FareDiritti.it, gruppo di mobilitazione civica nato due anni fa con l’intento di monitorare i progetti ferraresi del PNRR per verificarne le ricadute sull’obiettivo della parità di genere, che rappresenta uno dei vincoli trasversali a tutte le missioni del Piano.

L’obiettivo del seminario è informare la cittadinanza, in questa fase iniziale della realizzazione dei progetti già finanziati, sulle direzioni di marcia intraprese, in particolare dal Comune di Ferrara e, più in generale in provincia, in ordine all’obiettivo della riduzione del divario di genere.

Il Seminario vede la partecipazione, accanto alle fondatrici di FareDiritti, del Comune e dell’Università di Ferrara.

Per il Comune interverranno Dorota Kusiak, assessora alle Pari Opportunità, Istruzione e Politiche familiari e Andrea Maggi, assessore al Recovery fund, ai LL.PP., allo Sport.

Per l’Università interverrà il prof. Enrico Deidda Gagliardo, prorettore  alla Programmazione, al Bilancio, alla creazione di Valore Pubblico.

Nel corso del seminario saranno presentati due progetti “campione” da sottoporre ad una prima valutazione nell’ottica della creazione di “valore pubblico”, come misura  delle performance della Pubblica Amministrazione.

FareDiritti Ferrara
wwwfarediritti.it

Elisa, esploratrice di suoni

“Mi chiamo Elisa, sono un’esploratrice di suoni. Porto alla luce le armonie nascoste dell’anima per trasformarle in un ritratto musicale in cui puoi sentirti. Con il mio lavoro ti aiuto a esprimere l’essenza di ciò che ti rende speciale. Insieme, musichiamo il tuo silenzio”.  

Giornata dall’aria ancora frizzantina, direzione via Cisterna del Follo 33. Elisa mi aspetta all’angolo della via, mi è venuta incontro. Non è cosa abituale una simile attenzione e già questo gesto gentile mi fa entrare in forte empatia con una persona che, fino a quel momento, avevo sentito per telefono ed e-mail.

Sulla porta di entrata il cartello “Piffany, scuola di musica: da subito mi era piaciuto quel connubio sbarazzino fra il cognome di Elisa (Piffanelli) e quella meraviglia che è Tiffany, pensando ovviamente al mio film preferito con Audrey Hepburn. Da settimane cercavamo di incontrarci, lei vive fra Ferrara e Città di Castello, io fra Ferrara e Roma. Ma eccoci qui, finalmente. La sua scuola. E non solo. C’è molto altro. Elisa è musicista, pianista diplomata e perfezionata con maestri della scuola russa e italiana, con un amore per il pianoforte che risale all’età di sette anni. Da tempo si occupa di didattica musicale in relazione al movimento. Ha un metodo originale.

Appena entrata mi accoglie, maglione dai colori dell’arcobaleno, nella stanza che ospita un meraviglioso pianoforte a coda nero, uno di quelli che sanno di antico, dai tasti di avorio consumati da dita che scorrono veloci e sicure, tracciando sogni di note che si disperdono nel vapore tiepido dei raggi del sole che, timidamente, fanno capolino dalle finestre.

Fotografie di fiori alle pareti, la magnolia fiorita del vicino di casa, in primis. Piante verdi, un violino. E poi tanti libri, attentamente catalogati come in una biblioteca rigorosamente ordinata. Volumi di famiglia, ricordi cui Elisa tiene molto. La memoria per lei è tutto.

In questa stanza si entra per recuperare l’ascolto di sé stessi, quello che si sta perdendo. Quindi si entra in relazione con sé stessi e gli altri, “perché la relazione muove tutto, ci credo fermamente e tutto il mio percorso di ricerca parte da qui”, sorride Elisa.

“Ho iniziato con un’utenza di bambini dai 5 ai 10 anni ma poi la platea si è allargata agli adulti”, ci dice. “Ho sviluppato un mio metodo fatto di disegni musicali per insegnare ai bambini: il pianoforte, ad esempio, è un personaggio, un amico, i due tasti neri gli occhi. Il bambino vede sé stesso in relazione allo strumento, partendo dall’altezza del corpo rispetto ad esso, dalla grandezza della sua mano sulla tastiera”, continua. Ci si gira intorno, si guarda quante gambe ha, ci si piega per guardare come è fatto sotto. Picchiettando su di esso, sempre insieme al piccolo allievo, ci si accorge che esso è avvolto da un legno massiccio con un suono più sordo che ricopre la sua struttura e che ne ha poi un altro più sottile, ma dal suono più generoso, flessibile ed elastico, che si trova al suo interno. Questa è l’anima del pianoforte. Si esplora poi l’interno, a forma di arpa.

Arriva quindi il momento del giovane allievo, si cerca di capire quale personaggio vorrebbe essere in relazione a questo strumento, se è molto più grande o molto più piccolo di lui, si appoggiano le mani sulla tastiera… l’esplorazione inizia.

I tasti profumano? Sanno di vaniglia o cioccolato? Suono sia. Inizialmente non esistono i nomi delle note, i tasti bianchi sono biscottini alla vaniglia, quelli neri al cioccolato, o liquirizie. Si cercano occhi, ovvero i due tasti neri, e naso, in mezzo ad essi, di un personaggio. Tutti sorridono. Fino al bruco, al cane, all’ape, alla rana e al coccodrillo, agli intervalli musicali, al pentagramma, al ritmo e ai valori delle note e delle pause. Sempre giocando, con fantasia: il brano musicale, ad esempio, è un treno e le battute sono i suoi vagoni. Geniale. Non vi sveliamo oltre…

Un metodo pensato come strumento per indagare sé stessi in relazione alla musica, cui viene tolta la tipica finalità del saggio, delle performance a tuti i costi, l’incardinamento rigido nei generi. Un potente aggancio con creatività e immaginazione.

Ad un tratto parte, e allora, capisco tutto meglio: suona “Per Elisa”, non solo è bravissima – questo già lo avevamo capito, visto il pedigree – ma ci trascina in uno spazio e tempo lontani e che sanno di magia. Il contesto è qui legato al sentire: nelle note che scorrono, prima c’è una dolcezza che viene dalla semplicità e dalla melodia poi ci sono momenti di rabbia e di rifiuto. La mano sinistra ritma, la musica racconta tutto in due pagine, così come la letteratura. Il linguaggio interiore qui non è solo emozione ma è la storia di un amore fra un uomo e una donna. La delusione di Beethoven il brano la racconta: gentilezza, tenerezza, romanticismo, ricordo e spensieratezza fino a momenti di rabbia. L’uomo, in fondo, è impotente, c’è una reazione nel riconoscere come l’amore imprigiona. Dalla tecnica si passa al guardarsi dentro.

“Mi fido della pagina scritta”, riprende, “sono i modi per esprimere me stessa, il mio sentire porta alla luce la musica. La musica è movimento e meditazione, le dita sono come il corpo di un ballerino. Il danzatore esprime la danza perché parte dalla musica, il gesto invece è esso stesso importante per la musica. Lo strumento permette di fare fotografie del mio sentire. Ora voglio, infatti, fare dei ‘ritratti musicali’. Per fare un esempio, immagino due frammenti realizzati con le mani che ruotano capovolte. In essi, c’è il movimento suadente, sensuale ed enigmatico, e questa è la mia impressione musicale, la foto di un momento, per dare voce al sentire”.

Con immenso interesse e fede nella relazione, Elisa va verso le persone che ha di fronte e le accoglie per come sono, senza mettere barriere o strutture. Con i suoi collaboratori, oggi quattro e insegnanti di vari strumenti, oltre al canto, organizza dieci lezioni, due di ogni strumento per dare un orientamento su cosa scegliere puntando sempre sull’empatia.

“Mi interessa dare un’identità a livello sociale del musicista”, sottolinea, “dargli un ruolo per me è importante, fondamentale farne capire l’utilità sociale. Per questo ho anche creato un gruppo vocale che accompagna le cerimonie, anche funebri, dove la musica può avere uno spazio importantissimo. È un tema generale della cultura, quello di farsi riconoscere”.

Alleviare l’anima è per lei una missione. Anche pensando a questo, oggi è impegnata in un’esperienza in ospedale, nel reparto di neuropsichiatria, per essere vicina soprattutto alle famiglie che si chiedono perché e alla sua allieva Alice che ha avuto un terribile incidente. Creare un sentire comune è per lei ormai un’esigenza vitale, cerca un modo per essere in relazione. Slegati dai contesti veloci. “Unisco musica, gesto e creatività per dare voce a chiunque voglia raccontarsi attraverso il suono”, ci dice.

Elisa crede nella gentilezza, nell’empatia, nell’accoglienza, nelle scelte di coraggio, nella capacità di rinnovarsi giorno dopo giorno e crescere con consapevolezza, anche e soprattutto attraverso la musica. Per lei è fondamentale dare voce al silenzio. “Io sono suono” è, per lei, un concetto cardine, una sorta di mantra, insieme a essenzialità, semplicità, coralità, meditazione. Un essere un tutt’uno con il mondo. “Per questo donerò un ciliegio a palazzo Roverella, che ospita da tempo suoi pomeriggi musicali, simbolo della famiglia che è la sua scuola: un ciliegio è un albero vivo che resta, è un segno”, conclude.

L’amore per la natura lo si vede, peraltro, anche dal suo giardino colorato e fiorito.

Intanto c’è un nuovo progetto che prende forma: scherma e musica a Città di Castello, nella verde e verace Umbria. Ma questa sarà una nuova puntata.

MALEDETTI PACIFISTI : incontro con il giornalista Nico Piro
Erasmo: «La guerra è dolce per chi non l’ha provata»

“MALEDETTI PACIFISTI: Come difendersi dal marketing della Guerra”. Emergency, in collaborazione con Mediterranea Ferrara,  ha invitato il giornalista scomodo” Nico Piro a presentare il suo ultimo libro. L’autore dialogherà con Girolamo De Michele. Presentiamo sotto un contributo dello stesso De Michele.

 

Nico Piro è un giornalista con una lunga esperienza di inviato sul campo: non un’opinionista con l’elmetto griffato, per intenderci.

È stato, ad esempio, in Afghanistan, ma anche nel Donbass; ha ricevuto numerosi riconoscimenti: premi giornalistici nei quali risuonano i nomi di Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Giancarlo Siani. Collabora con Emergency dai tempi in cui Gino Strada non era una sorta di santo laico – ora che è morto e non può più parlare –, ma una voce scomoda per quello che diceva, per quello che faceva, e anche per chi gli era accanto.
Una voce che continua a risuonare nelle pratiche cui ha dato il via, e anche in questo prezioso libretto, Maledetti pacifisti: che è, a dispetto delle poche pagine, un libro importante.

Ho scritto “un” libro, ma sono almeno due- Il secondo, come annunciato dal titolo, è una vibrante difesa dell’idea di pacifismo e del valore della pace.
il primo, è una narrazione puntuale di come si è creato un ambiente nel quale la guerra può essere venduta “come una partita di calcio dove se accade un infortunio si tira fuori il cartellino rosso”. Nel quale, a partire dal fabbisogno di combustibili fossili, l’etica è diventata un optional (qualcuno ricorda I tre giorni del Condor?).

Piro si inserisce di fatto all’interno di una narrazione, avviata da Italo Calvino con le sue Lezioni americane, sulla “peste del linguaggio” che si manifesta da tempo “come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
Non per caso Calvino, che proseguiva una riflessione avviata da Pasolini e Sciascia, chiamava in causa anche la nuova (negli anni Ottanta) comunicazione audiovisuale, dunque il mezzo della televisione, all’epoca non ancora sottomessa alla dittatura dell’audience e delle entrate pubblicitarie. Oggi, scrive Piro, l’emorragia di pubblico dai media generali, incapaci di rinnovamento e innovazione genera una concorrenza diffusa aggravata da una classe dirigente “di un paio di generazioni, perennemente al comando, in onda o in prima pagina”, poco incline e ancor meno interessata al cambiamento.

La soluzione per combattere a basso costo la guerra dell’audience è opinionizzare l’informazione”, sulla strada inaugurata dall’emittente americana Fox News, mentre sulla carta stampata si moltiplicano le collaborazioni a basso costo, i contratti di solidarietà, il pensionamento dei cronisti di lungo corso e la riduzione degli spazi di approfondimento. Il risultato, dai canali televisivi ai quotidiani, è “il circo dei talk show”, basato su una elementare catena del valore: “si fanno affermazioni divisive, gli articoli vengono condivisi sui social, ci si spacca tra favorevoli e contrari, tra je suis… e indignati un tanto al chilo”.
In questa situazione, allo scoppio del conflitto, seguendo dinamiche già sperimentate, la tv si rifugia nella formula della par condicio, alla quale segue la formula “uno di destra e uno di sinistra”, che nel caso del conflitto russo-ucraino significa “uno contro la Russia e uno a favore della Russia”. Tutto questo non serve a riflettere criticamente sulla guerra, ma a creare una polarizzazione necessaria, perché l’informazione è come un detersivo: deve lavare più bianco; e poco importa se lo slogan corrisponda o meno alla realtà: l’importante è che venda.

Polarizzata l’opinione pubblica, la guerra può essere venduta come un valore condiviso, poiché in un mondo polarizzato bisogna necessariamente schierarsi da una parte: lo slogan “c’è un aggressore e un aggredito” (variante: Davide contro Golia, e poco importa se Davide abbia in questo momento uno degli eserciti pià armati del mondo), nella sua elementare ovvietà, serve a questo. Ovvero, a reiterare che le questioni sono semplici – con buona pace di chi cerca di ricordare che non ci sono tutti i cattivi da una parte e tutti i buoni dall’altra: lo stesso Nico Piro, avendo la colpa di aver fatto un servizio giornalistico nel Donbass filorusso, dal 2019 non ha il permesso di entrare in Ucraina.
La stesa guerra viene “normalizzata”: collocata “a debita distanza”, affinché lo spettatore sia libero di distrarsi; raccontata da esperti che non rendono mai pubbliche le fonti cui attingono, rendendo indistinguibile il confine fra leak (diffusione non voluta di informazioni riservate), fonte personale e campagna di PsyOp, cioè la propaganda di guerra. Il tutto all’interno di frame definiti da slogan o frasi ad effetto; ad esempio, prospettando un nuovo scenario dove “non è il momento di smettere” (slogan già usato nella “guerra alla droga” degli anni Ottanta: e sappiamo come non è andata a  finire), senza porsi il problema del “dopo” e delle conseguenze: l’importante è rinnovare il messaggio “che la guerra è tutto sommato un male gestibile e sopportabile“.

L’emergenzialità della guerra diventa la normalità: “chi chiede pace viene apostrofato come qualcuno che vuole la resa degli ucraini e la vittoria dei russi”.
La pace può essere pensata solo come conseguenza della guerra, come un suo sottoprodotto: è una delle molte modalità della cultura dello scarto.
La pace cessa di avere un valore autonomo, con una propria dignità: anche per generazioni che ieri sfilavano con le bandiere della pace, o che prima ancora avevano manifestato per il Cile. Schierarsi diventa una scelta di valori: “l’atlantismo come categoria superiore che ingloba tutti i princìpi fondativi dell’Italia”, con la stessa acriticità con la quale sul finire del secolo scorso si è accettata la globalizzazione, e prima ancora, negli anni Trenta, l’avvenuta unificazione del mondo senza mettere a critica il fatto che queste visioni unificanti del globo erano il prodotto di un modello politico e culturale (occidentale e capitalistico) sulle restanti aree del globo.

Diventa allora importante recuperare strumenti, allestire casematte, per combattere la battaglia culturale della controinformazione: considerare il racconto che ci viene offerto per quello che è, ovvero un prodotto, e distinguere la sostanza dal suo rivestimento. Forse dovremmo tutti riguardare Blow up di Antonioni, anche per ricordarci di quando il grande cinema che non era solo una sequenza di effetti speciali nei quali niente ci sorprende e nulla ci fa pensare: “fare un passo indietro rispetto alla valanga di informazioni che ci piove addosso, prendere un respiro profondo e provare a identificare la trama della narrazione come si fa per una serie tv, identificarla come tal e e smontarla, chiederci dove porta la storia, dove il regista vuole che i nostri occhi guardino, dove gli sceneggiatori vogliono indirizzare le nostre emozioni”.

E ricordarci ogni giorno le parole di Gino Strada: “come le malattie più gravi, anche la guerra deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente”.

Cover: Nico Piro con Gino Strada, Sierra Leone, 2015

Dal Brasile al Guatemala, dal Messico alla Colombia: cresce il fondamentalismo religioso in America Latina

Dal Brasile al Guatemala, dal Messico alla Colombia: cresce il fondamentalismo religioso in America Latina.

di David Lifodi
articolo originale su Peacelink

Cresce il fondamentalismo religioso in America latina, soprattutto a seguito del proliferare delle comunità evangeliche e all’utilizzo della fede cristiana in chiave ultraconservatrice da parte delle destre. Ad evidenziarlo uno speciale della testata online nodal.am diretta da Pedro Brieger

L’avanzata del fondamentalismo religioso in tutto il continente latinoamericano è trainata dal Brasile, dove c’è stata una vera e propria esplosione di gruppi neopentecostali, spesso legati alla destra bolsonarista. Ad esserne influenzata è stata tutta la politica del più grande paese sudamericano.

A questo proposito, l’Instituto Tricontinental de Investigación Social ricorda che, in occasione del colpo di stato del 2016 volto a far cadere Dilma Rousseff, allora presidenta del Brasile, Eduardo Cunha, all’epoca presidente della Camera dei deputati, ma soprattutto esponente di primo piano del gruppo pentecostale Assemblea di Dio ( Assembleias de Deus) aprì la sessione che poi avrebbe portato all’estromissione di Rousseff dal Planalto con la frase: “Si apra la seduta. Sotto la protezione di Dio”.

Accomunati da un forte sentimento antiscientifico, soprattutto in merito al Covid-19, e da un enorme odio contro le comunità indigene, tanto da definire i loro riti, usi e costumi come “satanici”, le comunità evangeliche hanno preso piede anche in Cile, Perù, Guatemala, Messico, Colombia e Bolivia. Proprio in Bolivia, la presidenta de facto Jeanine Áñez, installatasi di forza a Palacio Quemado a seguito del colpo di stato del 2019 contro Evo Morales, effettuò il giuramento con una gigantesca Bibbia tra le mani.

L’ideologia di genere e il sostegno alla famiglia cosiddetta “ideale”, che individuano come unico ruolo della donna quello di procreare e prendersi cura della famiglia, insieme al desiderio di perpetuare i valori di una società patriarcale, rappresentano le principali bandiere del fondamentalismo religioso.

In Brasile, sotto il governo Bolsonaro, ad essersi distinti per propagandare queste idee, sono stati soprattutto la pastora Damares Alves, ministra della Donna, della Famiglia e dei Diritti umani, e l’ex ministro dell’istruzione Milton Ribeiro, che ha cercato di imporre ad ogni costo un’educazione neutra, fedele allo slogan dello stesso Bolsonaro “Scuole senza partito”, il cui scopo era fermare i valori progressisti all’interno degli istituti scolastici.

Del resto non c’è da stupirsi, basti pensare che lo stesso Bolsonaro è stato battezzato in Israele, sulle acque del fiume Giordano, dal pastore Everaldo Pereira, anch’esso dell’Assemblea di Dio.

Più in generale, in tutti i paesi latinoamericani, il fondamentalismo religioso è servito per affermare non solo i valori del capitalismo, ma quelli del neofascismo, nel tentativo di guadagnarsi il sostegno delle classi popolari.

A sperimentare cosa significhi coniugare politiche reazionarie e fondamentalismo evangelico è stato anche il Guatemala. A partire dal Congreso Iberoamericano por la Familia y la Vida dello scorso anno il paese è stato catapultato dal presidente Giammattei, il prossimo giugno in scadenza di mandato, in un incubo denominato identità di genere, caratterizzato da due vere e proprie crociate: vietare ogni forma di aborto e combattere ad ogni costo l’omosessualità (e di conseguenza ostacolare il cosiddetto matrimonio igualitario).

Da quel 9 marzo 2022, giornata del Congreso Iberoamericano por la Familia y la Vida, qualcuno ha paragonato il Guatemala ad alcuni stati islamici dove la donna è schiava dell’uomo, tanto che la battuta ricorrente era: ¡Hay que preparar la burka!

Non è migliore la situazione del Messico, dove la stella di Verástegui, legato agli spagnoli di Vox, sembra tutt’altro che in fase discendente. Legato al cardinale ultraconservatore Raymond Leo Burke, tra i maggiori oppositori di Bergoglio e su posizioni negazioniste in merito alla pandemia, non a caso Verástegui è portatore dei valori legati alla destra cattolica. Tra i suoi nemici principali vi è il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador.

Anche in Colombia, dalla presidenza Duque, antecedente a quella di Gustavo Petro, il fondamentalismo religioso è cresciuto. Sono molte le chiese cristiane che hanno appoggiato l’uribista Duque nelle precedenti presidenziali e adesso cercano di ostacolare il percorso di Petro, sempre all’insegna delle posizioni contro aborto, eutanasia, diritti delle comunità Lgbt e, ovviamente, gli accordi di pace. In qualità di presidente, in occasione del Día Nacional de Libertad Religiosa y de Cultos, Duque trovò l’occasione per promuovere las Escuelas de Padres, molti simili alle scuole senza partito del Brasile bolsonarista allo scopo di promuovere i valori della famiglia tradizionale.

Infine, sul proliferare del fondamentalismo religioso in America latina pesa, manco a dirlo, l’influenza dell’Osa (Organizzazione degli stati americani), che ha aderito al Foro continental por la vida y la familia e all’organizzazione statunitense Alliance Defending Freedom, il cui fondatore è James Dobson, influente membro dell’Officina della Fede della Casa Bianca e sostenitore di Trump della prima ora.
L’Osa ha finito per trasformarsi a sua volta in un’organizzazione che vuole imporre i valori della famiglia tradizionale, oltre che governi graditi agli Usa, in tutta l’America latina.

In bicicletta per proteggere il Parco Bassani … e tutti gli uccelli residenti.
Appuntamento sabato 15 aprile alle 16,30 per una biciclettata nella natura

ll Comitato Save the Park invita tutta la cittadinanza sabato 15 aprile alle 16:30 alla biciclettata dal titolo:
“Cultura e Ambiente al PARCO urbano”

ll comitato Save the Park organizza per il giorno15 aprile alle 16:30 una biciclettata dal titolo “cultura e ambiente al PARCO urbano”.
Il ritrovo è presso il bar della piscina Bacchelli e saranno presenti guide turistiche professioniste e un campione mondiale di birdwatching. L’iniziativa è volta a fare conoscere alla cittadinanza le bellezze della Parco Bassani,.
Ecco le ultime azioni legali portate avanti con caparbietà e costanza dai volontari e attivisti:
–  un ricorso pendente davanti al TAR,
–  tre lettere di diffida,
– due esposti alla corte dei conti e alle forze dell’ordine,
– una lettera alla Provincia di Ferrara,
– una serie infinita di richieste accesso agli atti al Comune di Ferrara e sempre inevase,
. una istanza presso il difensore civico dell’Emilia Romagna. Quest’ultima istanza è andata a buon fine: il magistrato ha inviato una lettera chiedendo che il sindaco scriva le motivazioni in base alle quali è stato preferito questo luogo rispetto ad altri, che sono stati proposti.

Il comitato Save the Park vi aspetta tutti
Sabato 15 aprile alle ore 16:30 presso la piscina

Comitato Save The Park

Basta morti sul lavoro ed altre nuove. L’ultimo postcast di Collettiva.it

da Redazione di Collettiva.it

Mercoledì 12 aprile due operai sono morti i provincia di Milano durante operazioni di potatura. Dopo essere precipitati da un’altezza di 15 metri, sono stati schiacciati dal carrello elevatore. Sul lavoro si continua a morire come 50 anni fa senza che la politica affronti seriamente questo tema.

Ascolta il podcast di Collettiva

Fermiamo la strage 

In un golf club, Le Rovedine di Noverasco di Opera, provincia di Milano, due operai sono morti e un terzo è rimasto ferito in seguito a una caduta durante operazioni di potatura. Le vittime sono Angelo Zanin, titolare della Zanin Vivai, 69 anni, e Dario Beira, dipendente della stessa azienda, 51 anni. Il terzo lavoratore, trasportato in codice rosso all’ospedale Niguarda, è un 25enne. Secondo i Vigili del fuoco intervenuti sul posto, i tre sarebbero precipitati da un’altezza di circa 15 metri. Da una primissima ricostruzione del 118, successivamente i lavoratori sarebbero rimasti schiacciati dal cestello. Sul lavoro si continua a morire come 50 anni fa senza che la politica affronti seriamente questo tema.

Approvato il Def, moderati i salari, ci resterà solo l’inflazione

Il governo punta sulla “moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. Così i prezzi continueranno a salire – forse più lentamente rispetto ai ritmi dell’ultimo periodo -, in compenso, tranquilli, i salari resteranno al palo. E se si escludono i 3 miliardi di euro in deficit da investire sul taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso già da quest’anno – magro bottino – la spinta propulsiva dell’esecutivo si ferma qui. Scelte, quelle del governo, che rafforzano la decisione di Cgil Cisl e Uil di mobilitarsi. Appuntamento in piazza a Bologna il 6 maggio, a Milano il 13 maggio e a Napoli il 20 maggio.

Un mare di propaganda

Sbarchi triplicati da quando il governo ha assicurato di azzerare gli arrivi. E ora si gioca pure la carta dello stato di emergenza. Il sassolino del direttore di Collettiva Stefano Milani: “In principio era il blocco navale. Urlato, ringhiato, sbraitato alle folle di mezza Italia. Una volta al governo neanche i pedalò sulla riviera romagnola avrebbero fatto sbarcare se sprovvisti di regolare documento. Poi un bel giorno al governo ci sono arrivati per davvero e le promesse sono diventate quelle tipiche da marinaio. Come può uno scoglio arginare il mare? Canticchia pensierosa dal 25 settembre la nostra premier. Non si capacita che da quando è al timone del Titanic gli arrivi sono più che triplicati. “Scarti residuali” approdano da ogni dove e l’emorragia non si arresta neanche intimando alle ong di scaricarli in Val d’Aosta. L’ultimo consiglio dei ministri ha perfino deliberato lo stato d’emergenza nazionale, come se da gestire fosse un terremoto o una pandemia invece che un’ordinaria umanità. Più onesto decretare lo stato confusionale in cui versa questo esecutivo.”.

Se la media del 9 vale 100 euro

Questa ci mancava, ci ha pensato l’istituto superiore Scalcerle di Padova, prevedendo una ricompensa di 100 euro agli alunni che raggiungeranno la media del 9. Una sintesi azzeccata del sistema teorizzato dal ministro Valditara, si scrive merito, si legge competizione. Si scrive scuola, si legge “gioco a premi”. E a chi resta indietro? Niente mancia. Così va la scuola pubblica nel primo anno dell’era Meloni.

La lotta paga 

E così al sindacato riesce l‘impossibile: rallentare i ritmi di Amazon. Dai 5 turni incompatibili con una normale organizzazione familiare a un nuovo sistema con tre fasce orarie che consentono di conciliare i tempi di vita e di lavoro, con buoni margini di flessibilità. La conquista è stata ottenuta dai lavoratori del sito di Amazon Torrazza, in provincia di Torino, e dalle categorie regionali Filt Cgil e Fit Cisl, dopo che gli addetti avevano denunciato la fatica a stare dietro agli impegni professionali e alla routine quotidiana. Per approfondire collettiva.it.

Storie in pellicola
Madre e figlia. E un cane, Marcel!

“Una bambina ama sua madre, ma sua madre ama Marcel, il suo cane”. Esordio al lungometraggio di Jasmine Trinca.

Candidato al David di Donatello 2023 come miglior esordio alla regia, dopo il corto di dodici minuti Being My Mom del 2020, Marcel! di Jasmine Trinca è un altro viaggio madre-figlia, quasi onirico,  dolorosamente autobiografico.

Atmosfere felliniane per un percorso tortuoso e complesso dove la Madre (Alba Rohrwacher) crede che “all’arte si deve la vita”, sempre e ad ogni costo.

Maayane Conti, Foto di Fabio Zayed

Oltre alla madre, ci sono la Figlia (Maayane Conti), il Nonno di poche parole (Umberto Orsini) e la Nonna più espansiva (Giovanna Ralli), Dario Cantarelli (lo Spasimante della madre), Valentina Cervi (la Cugina), Valeria Golino (l’Analista), Giuseppe Cederna (l’Amico elegante) e un cameo televisivo di Paola Cortellesi. Ma ognuno si identifica solo grazie al suo ruolo, nessuno ha un nome, se non il cane artista, Marcel.

Alba Rohrwacher e Maayane Conti, Foto di Fabio Zayed

E c’è il destino vagabondo dei performer di strada, i ricordi, il marito perduto, la malinconia, i colori sbiaditi. I ruoli sono maschere imprigionate in una scenografia che poco muta e che si ripete, quasi sempre uguale. Un po’ come avviene nello spettacolo “Toujours Marcel”, che la madre, artista di strada, replica ogni volta come un rito. Lei, che di definisce un insieme di Pina Bausch e Marcel Marceau, il famoso mimo (stesso nome del cane…), peraltro richiamato dal trucco.

Marcel!, Foto di Fabio Zayed

Le donne sono il motore, le vere protagoniste, i personaggi maschili sono ai margini, relegati al silenzio, come il Nonno, o al ricordo, come il Marito/Padre pittore. A corollario del trinomio madre-cane-figlia. Una madre pur presente nell’assenza, un po’strana, con le sue idee, un cane che c’è sempre, c’era, non c’è più ma ci sarà sempre. E il dolore di una figlia che non comprende. Una figlia che, in tate notti insonni e agitate, cerca attenzioni e complicità. E che per averle farà di tutto, compreso l’inimmaginabile.

Alba Rohrwacher, Foto di Fabio Zayed

Anche lo spettatore fatica a capire, fino alla frase illuminante del nonno-Orsini che ci apre un mondo, quel mondo. Una delle poche che pronuncia, nel suo eterno giocare a carte in solitaria, ma che dischiude tutto il mistero.

Il film si muove in una dimensione sospesa, vuota come i pomeriggi d’estate tra le strade di Testaccio e di Ostiense dove è girato. Non c’è spazio per il cambiamento e la libertà, tutto è segnato e disegnato. I rapporti sono faticosi, si trascinano.

Eppure, il racconto è punteggiato in capitoli, secondo gli esagrammi dell’I Ching, che, invece, delineano un percorso di trasformazione e di evoluzione. Quindi qualcosa deve accadere, qualcosa che rimetta in moto le cose. Così sarà.

 

Marcel! di Jasmine Trinca, con Alba Rohrwacher, Maayane Conti, Giovanna Ralli, Umberto Orsini, Dario Cantarelli, Valentina Cervi, Valeria Golino, Giuseppe Cederna, Italia-Francia 2022, 93 mn.