Skip to main content

SEGUI IL FILO ROSSO… IL VOLONTARIATO IN PIAZZA
Cosa sono, cosa fanno, a cosa servono Il CSV e la Casa del Volontariato di Ferrara

Cosa sono, cosa fanno, a cosa servono Il CSV e la Casa del Volontariato di Ferrara. Il racconto corale degli operatori di una istituzione vivace, attiva e operosa, il punto di riferimento e la sede di decine di gruppi di volontariato sociale. Ora però il futuro sembra incerto. 

“La nostra sede è al primo piano di una ex scuola, in via Ravenna 52, nello storico quartiere ed ex isola di San Giorgio. I locali sono stati concessi in comodato ad uso gratuito dal Comune di Ferrara nel 2013.  Il  31 dicembre scorso il comodato è scaduto e Il Comune di Ferrara (ora a guida Lega – Fratelli di Italia n,d.r.) non l’ha ancora rinnovato e l’assessore competente ha espresso la volontà di adibire i nostri uffici ad altro uso. Questo ci crea incertezza ed apprensione: il volontariato senza luoghi in cui riunirsi è come un’automobile senza carburante.”

I 400 metri quadri a disposizione in via Ravenna ospitano gli uffici del CSV ma anche una sessantina di associazioni con sede legale e/o operativa.
Per questo il primo piano di Via Ravenna 52 non è solo la sede del CSV ma la Casa del Volontariato. Questa struttura per noi è estremamente funzionale, accogliente, su misura dei bisogni del volontariato. La spaziosa sala riunioni attrezzata con videoproiettore, wi fi, lavagna a fogli mobili è utilizzata tutti i giorni dell’anno e quattro sale sono a disposizione delle associazioni della Casa per riunirsi, progettare, condividere spazi e ridurre le spese di gestione.
La condivisione che è alla base del volontariato la si esprime anche così.
Quello delle realtà che abitano la Casa è un mondo vivo 7 giorni su 7, ricchissimo, che abbiamo voluto raccontare in un dossier pubblicato proprio in questi giorni.

Ma il Centro Servizi per il Volontariato cos’è esattamente?

Molti ci conoscono ancora come Agire Sociale, che era il nome del CSV di Ferrara prima della fusione nel 2020 con ASVM di Modena. Ora siamo il Centro Servizi per il Volontariato Terre Estensi delle province di Ferrara e Modena. Abbiamo punti di accesso in tutti i distretti modenesi e a Ferrara, Argenta, Cento e Portomaggiore. Siamo una organizzazione di volontariato di secondo livello, ovvero una associazione di associazioni. I nostri soci non sono persone fisiche ma enti di terzo settore: 237 (120 della provincia di FE e 117 di MO), ma come per tutte le organizzazioni di volontariato, i nostri servizi sono offerti anche alle organizzazioni non socie.

Vediamo in particolare chi lavora in via Ravenna 52, ovvero la componente ferrarese del centro. Parliamo di 11 persone tra dipendenti e collaboratrici.
Inizio io raccontando un aneddoto. Quando ho iniziato a lavorare al CSV, ormai più di 20 anni fa, la prima difficoltà che ho incontrato, è stato spiegare ai miei genitori che lavoro facessi esattamente. Lavoro di comunità, servizi al volontariato, progetti di rete, dicevo.

Loro mi guardavano perplessi e mi chiedevano, un po’ preoccupati Ma ti pagano?

Ho avviato le prime collaborazioni con il CSV nel 1999 occupandomi inizialmente di formazione. Oggi, dopo tanti anni, coordiniamo l’Università del Volontariato, che forma più di un migliaio di volontari l’anno. Spesso mi sono chiesta cosa mi abbia tenuta qui così a lungo, proprio io che sono così amante dei cambiamenti.  Ecco credo sia stato proprio questo: al CSV si lavora sempre con creatività e passione a nuovi progetti. Difficile annoiarsi. Vediamo nascere i progetti, anzi spesso facciamo un po’ come le ostetriche, li aiutiamo a nascere. E durante le emergenze supportiamo il volontariato e le Istituzioni in prima linea, come per il terremoto, la pandemia, l’emergenza Ucraina e in questi giorni, ahimè, l’alluvione.

“Se devo usare una immagine per descrivere chi siamo – esordisce Enrico Ribon, corresponsabile amministrativo e al CSV dal primo giorno di apertura – ne userei una che racconta un po’ il nostro stile. La nostra prima piccola sede era situata all’uscita del parcheggio di piazzale Kennedy. Essendo alla base di due discese, era soggetta ad allagamenti praticamente ad ogni temporale, e non era quindi raro che il giorno successivo portassimo tutto quanto si era bagnato nel piazzalino antistante, al sole, nel tentativo di asciugare attrezzature e documenti. Ma nonostante tutto l’attività non si fermava, e ci trovavamo quindi con l’ufficio “en plein air” a fornire informazioni, consulenze, formazione a volontari e cittadini. Uno stile “naïf” dicevano i responsabili del Comitato di Gestione regionale che all’epoca finanziava e controllava i CSV.Uno stile che cerca sempre di mettere la sostanza davanti alla forma per raggiungere lo scopo, diremmo noi. E’ forse questo, in estrema sintesi, lo spirito dell’agire volontario?”

Entrando al CSV di via Ravenna, la prima persona che si incontra al front office  è Federica Celati: “Quando ho iniziato a lavorare per il CSV venivo da un precedente lavoro analogo di segreteria. Nonostante le mansioni fossero similari al mio lavoro precedente, nel contesto del volontariato sono diventate attività che hanno arricchito la mia esperienza non solo lavorativa ma anche personale. La cosa che mi piace di più del mio lavoro è stare a contatto con i volontari, ascoltare i loro bisogni, essere d’aiuto, aiutare le associazioni nella loro attività di promozione al servizio della società ferrarese. Poter orientare i cittadini nella ricerca delle attività di volontariato, prendermi cura nel mio piccolo della mia comunità, della mia città, tramite il mio lavoro”.

Francesca Gallini, giornalista, coordina l’ufficio stampa, curando la newsletter settimanale che voce alle associazioni e al terzo settore, pubblicando articoli e supportandole nella comunicazione. “La mia avventura al CSV è iniziata nel 1999 al Centro Documentazione Santa Francesca Romana a Ferrara, dove avevamo organizzato una biblioteca sul volontariato. Tirando un bilancio a distanza di più vent’anni, credo che il CSV sia stato un luogo di crescita personale dove ho maturato competenze di giornalista in ambito sociale. Mi considero fortunata a lavorare a favore di volontari e associazioni, persone a cui ho dato e da cui ho ricevuto tanto e che, negli anni, sono state uniche, capaci di valorizzarmi e di motivarmi a non mollare, pur nella precarietà di fondo di questo lavoro legata all’andamento dei fondi finanziari e alle conseguenti riorganizzazioni aziendali”.

Stefania Carati si occupa del punto di animazione territoriale di Argenta e Portomaggiore e a Ferrara coordina lo sportello Volontariato Volentieri, rivolto a cittadine e cittadini interessati a fare un’esperienza di volontariato. Qui, previo appuntamento, si può svolgere, senza impegno, un colloquio di orientamento. Stefania spesso incontra giovani cittadini e collabora con le scuole per progetti alternativi alla sospensione scolastica: “Faccio il lavoro più bello del mondo, me lo ripeto ogni giorno!! Entro in contatto con i volontari che per la maggior parte delle volte sono persone generose e disponibili, e vengo a contatto con i cittadini che vogliono mettere a disposizione il proprio tempo libero per gli altri, cosa non scontata ma che accade tutti i giorni: molte volte queste persone sono state toccate da dolori talmente grandi che il loro cuore si è aperto anche al dolore degli altri e il loro sentire diventa anche il tuo”.

Dobbiamo dire che il mondo del volontariato è stato messo alla prova negli ultimi anni dalla riforma del terzo settore. Le associazioni ne sono state, possiamo dire senza temere di esagerare, travolte. La nuova normativa esige adempimenti sempre più stringenti, come la revisione degli statuti, i nuovi schemi di bilancio e tanto altro. Rita Gallerani per molte associazioni è un angelo custode. Con la sua attività di consulenza, ha supportato centinaia di associazioni nella nostra provincia, nel complicatissimo processo di trasmigrazione al RUNTS, Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. “Lavoro al Csv da quasi 26 anni ed è stata la mia prima esperienza lavorativa. Inizialmente avevo accettato l’incarico con l’idea che sarebbe stato un lavoro temporaneo, pur con un contratto a tempo indeterminato, e che di lì a poco avrei certamente trovato qualcosa di più appagante e gratificante. Qui al Csv ho conosciuto il mondo delle associazioni e del volontariato, un mondo fatto di persone, basato su volontà e dedizione, ma anche grande fatica e a volte disillusione. Sembrerà assurdo ma, proprio in quei momenti in cui la fatica si fa sentire e mi chiedo chi me lo fa fare, mi ritrovo a confrontarmi con qualche volontario che sta pensando la stessa cosa e mi ritrovo a ricordargli che lo fa per amore, che il tempo che dedica all’associazione è un bene prezioso perché prima di tutto è relazione; così la risposta arriva da sé anche per me. Questo è per me il Csv: luogo di confronto, di amore e di reciprocità“.

Aracely Fernandez viene dal Messico dove già lavorava nell’ambito dell’associazionismo e dei progetti di comunità. Arrivata a Ferrara nel 2007, ha conosciuto il CSV ed iniziato le prime collaborazioni. “All’inizio sono rimasta stupita dal trovare un ente così organizzato nel supporto al mondo associativo. Ho un po’ alla volta conosciuto un ventaglio di realtà che davano sostegno a tante situazioni sociali e che potevano usufruire di una serie di servizi offerti dal CSV. Oggi, dopo 13 anni,  continuo a collaborare in diversi progetti di utilità sociale e ad occuparmi di grafica. Questo lavoro che amo profondamente ha contribuito alla mia crescita personale oltre che professionale. L’opportunità di poter fare un lavoro che conoscevo già nel mio paese di origine insieme ad un gruppo di persone che pensano come me, ovvero che la comunità può diventare migliore con le azioni quotidiane, è veramente straordinario”.

Esiste poi un team che, a vari livelli, lavora nell’ambito della animazione territoriale e progettazione sociale.

Silvia Peretto da più di 20 anni se ne occupa con tanto entusiasmo ed impegno, facilitando reti di associazioni, progetti e team di lavoro composti da volontari, istituzioni e soggetti che a vario titolo sono portatori di interesse. “In questi vent’anni sono stati centinaia i progetti attivati nella nostra comunità. Favorire la possibilità di incontrarsi, confrontarsi e riflettere insieme, tra organizzazioni, enti diversi è la cosa che mi piace di più di questo lavoro. Il fatto che noi siamo enti terzi, che entriamo più sul metodo che sul contenuto, attraverso la facilitazione e strumenti di lavoro capaci di favorire questo dialogo, confronto.  E’ una sorta di accompagnamento ai processi e alla tenuta delle reti, al supportarle nel fare sistema“. 

Del team fanno parte alcune collaboratrici. Silvia Dambrosio, si occupa in particolare di progetti nelle scuole. “Al CSV c’è passione in ciò che si fa! Ci interessa quello che facciamo e lavoriamo mettendocela tutta per fare cose di senso per la comunità. Si pone attenzione “veramente” alle persone: non solo a colleghi e collaboratori, facendo caso non solo al rendimento e ai risultati, ma attivandoci reciprocamente con tutte le competenze che abbiamo, facendo squadra tra di noi per obiettivi condivisi onestamente e con autenticità. Questo lavoro è un seme di speranza nella capacità di ciascuno di poter contribuire a migliorare le cose”.

Giulia Fiore ritiene di particolare interesse questo tipo di lavoro perchè  permette di approcciare e sperimentare tante metodologie del lavoro sociale, ma partendo sempre dalla valorizzazione di ciò che si è, più che di ciò che si fa. “Questo anteporre la sostanza alla forma è piuttosto in controtendenza con il resto della società. Non condividiamo solo valori nella teoria ma li incarniamo nella prassi. E’ una libera manifestazione del proprio essere, a servizio della comunità… si crea una magia nei rapporti umani che si stringono con chi si incontra. E questo è bello perché i legami umani sono alla base della società. Scusami, sono la solita romantica, ma è quello che sento. Se è troppo sdolcinato dimmelo che scrivo cose più professionali”. “No no Giulia, adoriamo il romanticismo!”

“Mi piace, attraverso il mio lavoro, poter accompagnare i processi di cambiamento, essere a mia volta anello di una trasformazione più grande, vedere le organizzazioni crescere e, insieme ad esse, le persone, che sono la grande risorsa delle nostre comunità” dice Barbara Arcari.  “Mi piace, con il mio lavoro, contribuire alla costruzione di nuove competenze, di sistemi di volontariato formali e informali del nostro territorio; contribuire a generare nuova forza per rispondere, insieme, alle crescenti emergenze sociali; poter aiutare le organizzazioni a riconoscere e cogliere opportunità spesso silenti o nascoste, metterle a fattor comune perché diventino progetti, azioni concrete che creano valore sociale. Mi piace il mio lavoro al CSV perché mi permette di sognare un mondo migliore e di lavorare concretamente alla sua realizzazione”.

Ecco un piccolo spaccato del nostro mondo. Ci sentiamo fortunati. Siamo sognatori concreti e possiamo testimoniare che ce ne sono tanti altri.
Persone capaci di sognare e trasformare le utopie in realtà.

Ferrara, mercoledì 24 maggio, ore 18.oo in piazza Municipale

insieme alle Associazioni della Casa del Volontariato di Ferrara, i Gruppi di Auto Mutuo Aiuto, ARCI Ferrara, CPS La Resistenza e altre realtà del territorio che vogliono partecipare desideriamo portare il nostro contributo di festa e di conoscenza... per un evento di piazza gioioso, con i tanti volti delle associazioni e dei cittadini attivi che si impegnano ogni giorno per il bene di tutti.

Segui il filo rosso del Volontariaro


I Centri Servizi per il Volontariato sono stati istituiti in Italia con la Legge quadro sul volontariato n. 266 del 1991, (oggi abrogata) e attualmente sono regolamentati dal Codice del Terzo Settore, emanato in seguito alla riforma del 2016. Per approfondire
: [Vedi Qui]

Premio Estense 2023 – I quattro finalisti

Premio Estense 2023. Dal 1965, l’eccellenza del giornalismo italiano. Presentata la quartina finalista

Il 28 aprile, è stato il termine ultimo per candidare un libro alla 59^ edizione del Premio Estense. Moltissime le candidature pervenute e oggi, presso Palazzo Calcagnini, sede di Confindustria Emilia Area Centro, è stata presentata, dalla Giuria Tecnica, la quartina finalista che concorrerà all’assegnazione del Premio da decretarsi, il 23 settembre, insieme alla giuria dei lettori.

Alberto Faustini, direttore del quotidiano Alto Adige, è il nuovo Presidente della giuria, il suo primo anno da Presidente, non da giurato, lo è dal 2009. Un successo. “Mai visti così tanti candidati in un’edizione del Premio, ben 69”, commenta Gian Luigi Zaina, Presidente della Fondazione Premio Estense.

“La discussione è stata accesa e vivace, ma è stata ed è una grande soddisfazione. Sono presenti quasi tutte le case editrici, molti giornalisti italiani, il Premio è cresciuto, non solo per numero di libri ma anche per le collaborazioni con Ansa e Radio Rai delle scorse edizioni; quest’anno entra anche Rai Cultura. E poi ci sono le relazioni con le terze pagine dei giornali per la parte cultura, oltre a una nuova collaborazione con il gruppo Azimut, multinazionale presente in 18 paesi”, continua.

Obiettivo ultimo è quello di rimettere al centro la cultura del dialogo, valorizzare la memoria e la storia, le nostre radici e le esperienze vissute.

“Questa edizione”, conclude, “sintetizza il vero significato del mestiere di giornalista che analizza questioni italiane ed estere, quelle legate al ricordo e all’immaginazione. Con questo racconto emerge lo stato di salute del mondo. E i quattro finalisti scelti rappresentano esattamente questa storia e questo filo”. Eccoli allora.

Ezio Mauro, L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma, Feltrinelli. Mauro tratteggia gli inizi fascismo, ne racconta la genesi, da vero cronista storico. Il cronista: l’essenza del mestiere di giornalista, un mestiere reinventato in chiave storica, l’abilità di raccontare vicende lontane ricostruendole con dettagli.

E qui Mauro ha un punto in comune con l’altro giornalista in quartina, Marcello Sorgi, che ha inventato un ruolo, quello di retroscenista.

Il libro con cui concorre, Mura. La scrittrice che sfidò Mussolini, Marsilio Specchi, è un ritorno al passato che, allo stesso tempo, insegna ai giovani come fare giornalismo.

Mura racconta la storia di una donna sconosciuta che seppe litigare con il fascismo, una popolare scrittrice di romanzi sentimentali ed erotici, rivale di Liala, che consegnava alle sue lettrici storie licenziose e smaliziate. Presa di mira da Mussolini in persona, su di lei si abbatte la censura fascista, consegnandola a un oblio che dura tutt’oggi.

Si tratta di una fetta di storia laterale alla grande storia del fascismo, un libro facile da leggere, utile anche per i giovani. Quasi una favola, in un certo senso.

C’è poi Gaia Tortora, con Testa alta, e avanti, Mondadori Strade Blu, il racconto di una vicenda personale che è anche racconto di una vicenda italiana, quella di un grande errore giudiziario che trasforma uno dei più noti personaggi della tv italiana in un “bersaglio”. “E’ la storia di un’Italia divisa in due”, commenta Tiziana Ferrario. “Una storia che racconta il dolore di una famiglia, ma anche di un caso di malagiustizia, un racconto del nostro paese e di un certo tipo di giornalismo, che, in certi momenti, non è cambiato.” È il 17 giugno 1983, quando Gaia, quattordici anni, esce di casa di primo mattino con lo zaino in spalla, il giorno del suo esame di terza media. Procede spedita verso la scuola e non sa che, poche ore prima, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione in una camera dell’Hotel Plaza e arrestato suo padre per associazione camorristica e traffico di droga. Un padre che finisce su tutte le tv con le manette e quell’aria incredula e stupita che molti ricordano.

Paolo Borrometi, infine, con Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italianaSolferino, ci accompagna in un viaggio nella storia d’Italia in cui denuncia i traditori, i criminali che mirano a creare confusione nel Paese per raggiungere i propri interessi illegittimi. A discapito della verità. Il giornalista, 40 anni, giovane generazione, oggi condirettore dell’Agenzia Giornalistica Italia (AGI), racconta l’Italia dei grandi misteri, delle grandi trame, da uomo oggi sotto scorta per quanto ha scritto sulla mafia siciliana.

Sono libri di scrittura di grande livello, con un filo conduttore: disegnare un racconto della storia degli ultimi anni (ma anche di cent’anni fa come nel libro di Ezio Mauro), far conoscere i misteri italiani. Perché il Premio arriva nelle case dei giurati e delle redazioni ma anche nelle aule delle scuole.

È stato anche assegnato il trentanovesimo “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione” al giornalista che nel corso dell’anno si è distinto per correttezza, impegno e professionalità. Va a Federico Rampini. Un professionista che parla di geopolitica, di cosa accadrà, nella fame d’informazione che ci circonda, un Premio alla carriera e allo stile. Ci ricordiamo della sua scrittura ma anche del suo stile inconfondibile.

In attesa del 23 settembre, dunque, quando la Giuria di 40 lettori, accenderà il dibattito. La forza del pubblico, concludono i commentatori. E noi ci saremo, come lo scorso anno. Fra quei 40 fortunati e curiosi.

 

Canale Youtube del Premio Estense.

Pagina Facebook 

PARLIAMONE ANCORA
Bruce Springsteen: bella musica, grande professionalità… e quel silenzio assordante

Tutti noi abbiamo dei miti, che sia un film che ha rappresentato un momento particolare della nostra vita, oppure un libro od, anche, un brano musicale o, meglio ancora, un musicista che ha percorso, al nostro fianco, parte delle nostre vite. Chi, come il sottoscritto, si è abbeverato dentro le fontane del rock’n roll, è cresciuto, si è accresciuto moralmente, con le note degli artisti preferiti, ne ha studiato attentamente i testi e si è riconosciuto in essi e nei protagonisti di quei brani.

Bruce Springsteen, questo ragazzotto nato nel settembre del 1949 in una piccola località balneare del New Jersey, da Douglas, di origine irlandese, e da Adele Ann  di origine italiana, cresciuto in un ambiente della tipica working class americana, ha saputo, con le sue canzoni, rappresentare e dare voce a quella parte di società che è sempre rimasta ai margini, ha raccontato, in quello che, personalmente, ritengo il migliore album, “Nebraska“, le tribolazioni ed i sogni dei giovani americani cresciuti in un sogno di finzione e spediti a combattere guerre senza senso e al servizio di un capitale a loro lontano e sconosciuto.

In questo contesto, un giovane irrequieto che si credeva un rivoluzionario, non poteva non rimanere folgorato dai suoi brani, attardandosi per ore a consumare la puntina del giradischi assaporando la forza dei pezzi più rock ed emozionandosi dalla forza ed intensità morale delle sue ballate.

Molte generazioni sono cresciute e si sono formate musicalmente, ascoltando i dischi di quello che tutti chiamanothe boss”, pertanto l’occasione di poter assistere ad un concerto dell’amato proprio nella nostra Ferrara è sembrata un’occasione irripetibile, anche nell’ottica che, vista l’età di Bruce, avrebbe potuto rappresentare l’ultimo momento di poterlo vedere e sentire in Italia.

Come tanti, mi sono domandato il perché del parco urbano, non cedendo ai malinformati che parlavano di zona di nidificazione, ma, sopratutto, pensando ad un area che, per sua definizione, è alluvionale e, pertanto, in caso di pioggia avrebbe regalato ai partecipanti una sorta di acquitrino.

Come tanti mi sono domandato il fine di talune polemiche che poco avevano a che fare con l’area e con la musica del boss.

Poi è accaduto ciò che nessuno, nemmeno i più previdenti, avrebbe mai immaginato, ovverosia un mese di maggio con una quantità di precipitazioni tipiche di un anno, non di un mese, e, sopratutto, poco lontano da Ferrara, i notiziari ci informavano di una completa distruzione, di intere aree alluvionate, di città coperte dal fango, di tutta la Romagna che piangeva morti, distruzione e disperazione.

Allora mi sono domandato se il famoso concerto si sarebbe dovuto celebrare ugualmente, e mi sono risposto che, forse, era davvero molto difficile interrompere una macchina al lavoro da più di un anno, e ho concluso, con un semplice “ok vado al concerto, mi doterò di stivali ma, dopo anni tribolati, tra pandemia e la natura che si rivolta alla nostra arroganza di sapiens poco sapiens, si poteva passare una sera di musica in compagnia di uno dei miei miti e al fianco di tanti, che, come me, potevano condividere i suoi brani” tanto – mi sono ripetuto – con la sua sensibilità, Bruce” , noi appassionati lo chiamiamo come fossimo amici da sempre, “ sicuramente aprirà il concerto esprimendo cordoglio per le vittime, vicinanza per la popolazione colpita e, magari, dichiarerà che una parte del suo cachet verrà devoluta ai romagnoli”.

Ed allora, attorno alle 19,30, regolare come un orologio svizzero, dopo un paio di band gradevoli, eccolo che appare…………ed ecco la mia prima sorpresa, esordisce con un, banale e retorico “ciao Ferrara” ed inizia a con “No surrender”, che, al di là del testo che avrebbe potuto ricordare il popolo romagnolo, purtroppo è da tempo il brano con cui inizia i suoi concerti.

Ho continuato ad attendermi un pensiero, un brano dedicato, due parole, ma tutto invano, il concerto ha proseguito come sempre, con grande professionalità, evidenziando l’affiatamento della band, e di un Bruce, che, nonostante l’età e la voce a volte un po’ cadente, in grande forma.

Come detto, grande professionalità e tanto mestiere, ma non ho sentito il cuore battere tra le note dei brani, come non mi sono sentito nato per correre dentro l’anima.

L’Ente Delta Padano e i (bei) tempi che furono

L’Ente Delta Padano ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei nostri territori. A parlarcene è Denis Guerrini che del tenerne viva la memoria ne ha fatto una missione. 

Ci sono zone della memoria collettiva che vanno preservate, custodite come un bene di grande valore, come perle color avorio. Ci sono campagne del nostro paese e della nostra regione che vanno raccontate, ancora e poi ancora, consegnate ai nostri ragazzi con le loro tradizioni e le loro storie di vite di sacrificio che hanno contribuito alla costruzione della nostra realtà. Allora come ora. Tassello di un complicato e delicatissimo puzzle.

Le generazioni degli anni del dopoguerra hanno ricostruito un paese distrutto, hanno ridato la speranza e gettato semi che oggi rischiano di essere spazzati via dal vento. Un vento putrido e malsano, che, con il suo progresso che tale non è, illude che tutto vada bene.

Gli antenati, questi magnifici e umili sconosciuti. Eredi cercasi, avevamo scritto con Maupal, e oggi siamo qui anche per questo. Curiosamente pronti, siamo approdati a un angolo di un tempo che fu, insieme ad amici di tempi passati, non certo per la loro età, ma per i valori che ancora custodiscono nelle loro belle anime, aperte, disponibili, generose.

Un sabato mattina di sole, una pausa di buon auspicio in questi giorni di piove-a-catinelle, campagna rigogliosa, e orgogliosa, di Copparo. Passiamo per campi sterminati di grano, verde e ancora verde, in lontananza il maestoso e imponente viale alberato della tenuta di Zenzalino, oggi sito Unesco, che ospita anche un prestigioso allevamento di cavalli, quello di Varenne per intenderci. Filari e filari, siamo in zona quiete.

In auto, Valerio, Stefano ed io chiacchieriamo, di cinema, di arte, di fotografia, di passato. Con noi zainetti, una macchina fotografica e tanta curiosità. E ovviamente un taccuino.

Arriviamo a destinazione: la casa di Denis e Margherita Guerrini, a Brazzolo, nel Comune di Formignana. Non li conoscevo. Ma pochi minuti e mi parrà di conoscerli da sempre. E sarà per sempre, lo percepisco subito. L’empatia è una strana cosa, un’amica sfacciata che arriva improvvisamente senza neanche accorgersene o bussare e che resta senza chiedere il permesso, compagna del presente e del futuro.

Denis Guerrini

Intorno al tavolo del salotto iniziamo a parlare, tanta roba, direbbero i più giovani. Intorno a noi tantissimi oggetti curiosi, degni di un set (in effetti qui, e nella zona, sono state girate molte scene del corto in uscita, diretto da Mattia Bricalli, “Madre Terra”, che avevamo incontrato).

Denis ha una grande passione per le roulotte: le comprava, le sistemava e le vendeva alla fine degli anni 2000 quando al Lido di Spina nasceva e si sviluppava il campeggio che, un giorno, sarebbe stato frequentato da tanti turisti. Quelle roulotte che ha messo a disposizione, con grande cuore e generosità, durante i terremoti dell’Emilia nel 2012 e dell’Umbria nel 2015. Viaggi avanti e indietro, tanti chilometri, per compagni l’amore per il prossimo e qualche conoscenza che, anche grazie a Facebook, si univa nell’aiuto.

“Se allora quegli abitanti sfortunati avevano bisogno di qualcuno”, ci dice, “oggi ad avere bisogno sono la storia e la memoria dell’Ente Delta Padano, il bisogno di avere qualcuno che faccia riconoscere, o quantomeno ricordare, il peso che ha avuto negli anni Cinquanta”. L’intento dei suoi racconti, lasciati anche nel suo libro “Racconti. Il vitellino, i capponi di nonna Giuseppa e altre storie– reperibile contattando Denis sulla sua pagina Facebook – è quello di lasciare un ricordo a figli e nipoti. Ma non solo. Frammenti di vita che raccolgono sentimenti, stagioni, ricordi e speranze, un quotidiano fatto di cose semplici, umili e comuni, si legge in prefazione. Odori che portano alla mente teneri ricordi.

In Italia, a inizi del Novecento, l’attività bonificatrice dei terreni paludosi fu una forma d’intervento dello Stato imposta dalle necessità della difesa igienica. Solamente in seguito, l’opera di bonifica, oltre alla regolarizzazione degli scoli nei terreni palustri, cominciò a comprendere altre varianti. Le varie provvidenze per la bonifica integrale, armonizzanti con la politica demografica e rurale, vennero coordinate nella “legge Mussolini” del 24 dicembre 1928, n. 3134 e affidate per l’applicazione al Sottosegretariato del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.

Così scriveva, nel 1934, Arrigo Serpieri, Sottosegretario nel Ministero dell’Agricoltura nell’illustrare l’essenza della bonifica integrale: “… Non più solamente, come nella vecchia legislazione, opere di prosciugamento di terreni paludosi (bonifica idraulica), al fine essenzialmente igienico della difesa contro la malaria; ma ogni opera di ingegneria e di tecnica agraria e forestale, riconosciuta necessaria per instaurare una nuova economia agricola, a più densa popolazione rurale. Quindi opere di difesa igienica, formazione di nuovi centri di popolazione, costruzioni rurali, viabilità, difesa dalle acque e loro utilizzazione agricola, rimboschimento, sistemazioni agrarie del suolo, riordinamento dei fondi polverizzati o smembrati”. (…). “Bonifica integrale significa realizzare il rapporto fra l’uomo e la terra più adatto ai fini della migliore convivenza sociale; significa meglio dislocare gli uomini sulla terra, da regioni oggi congestionate ad altre spopolate, in forme sane di colonizzazioni. Ai valori economici si affiancano così i più alti valori spirituali. Si tratta non solo di una maggiore produzione, ma della sede della vita umana e dei suoi rapporti sociali; dei mezzi di comunicazione e di scambio non solo dei beni economici, ma anche spirituali”.

Zona bonificata e spianata

Se il regime fascista tentò di attuare, all’interno della battaglia del grano, una riforma detta “sbracciantizzazione”, avente come obiettivo la diminuzione del numero di braccianti giornalieri a favore di mezzadri, affittuari e coloni per sviluppare le piccole e medie proprietà terriere il cui fine ultimo era l’autosufficienza nazionale nella produzione di frumento, una prima vera e propria riforma agraria venne attuata con la Repubblica.

Nel 1951 venne, infatti, istituito l’Ente per la Colonizzazione del Delta Padano con D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 69 “Norme per l’applicazione della legge 841/1950 ai territori dell’Emilia e del Veneto e istituzione dell’Ente per la colonizzazione del Delta Padano”. La zona aveva ancora bisogno di interventi.

Anche Florestano Vancini, nel 1951, aveva ritratto personaggi e luoghi della bassa ferrarese e del Polesine nel suo documentario “Delta Padano”, restaurato nel 1998 presso gli stabilimenti di Cinecittà con il contributo della Camera del Lavoro di Ferrara e dei comuni del delta padano.

Con la consueta maestria, Vancini, aveva osservato questa zona sia da un punto di vista paesaggistico che umano, con un occhio di riguardo alla vita dei suoi abitanti. Il film inizia con il racconto della giornata di una famiglia, che si tramuta nella storia di un intero paese che vive di inazione forzata, nell’impossibilità di sfruttare la propria terra. È la storia di 300.000 italiani ai margini delle terre più fertili del nostro paese. La vicenda si apre con l’immagine di un bimbo che rientra con la madre, dalla quale ha appena imparato a raccogliere la legna. Nella povera casa, gli altri componenti della famiglia si svegliano: non hanno fretta perché non hanno nulla da fare. Le immagini riprendono le case grigie in fondo alla valle del Po, che reca acqua, ma non alle genti del delta; bambini che muoiono di tubercolosi, analfabetismo, la scuola come stanza comune dove è difficile andare, anche per gli insegnanti. Sembra un’altra era, ma parliamo solo di settant’anni fa. Non possiamo dimenticarcene.

Florestano Vancini, Delta Padano, 1951

Ecco allora arrivare la riforma del 1951, che proponeva, tramite l’esproprio coatto, la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli, rendendoli così piccoli imprenditori e non più sottomessi al grande latifondista. Pur riducendo la dimensione delle aziende agricole, la riforma ebbe il merito di far sorgere varie cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, riuscirono a conferire all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbero una migliore resa delle colture e un miglior sfruttamento delle superfici utilizzate, anche attraverso la diffusione della meccanizzazione. Vennero, infatti, istituiti numerosi organismi cooperativi: cooperative di assistenza e servizi, di trasformazione dei prodotti e commercializzazione: cantine, caseifici sociali, centrali del latte, mattatoi, zuccherifici, conservifici. Ricordiamo, tra le realtà cooperative della nostra zona, lo zuccherificio gestito dalla Cooperativa Produttori Agricoli di Ostellato, costruito nel 1960 e dismesso nel 2005; lo stabilimento Colombani per la trasformazione della frutta in succhi e marmellate, fondato nel 1924 a Portomaggiore e in seguito trasferito a Pomposa; la Cantina sociale Bosco Eliceo di Volania, nel comune di Comacchio, la cooperativa Lattestense di Chiesuol del Fosso. Arrivava, finalmente, un poco di benessere.

Grazie all’attività dell’Ente Delta Padano, si conclude la distribuzione delle terre ai contadini; la consegna dei certificati di proprietà viene fatta dal ministro Fanfani

Le assegnazioni iniziali”, ci spiega Denis, “avvenivano con piccoli appezzamenti. Per le difficoltà della zona, la scarsità di lavoro e le ristrettezze economiche di allora, tuttavia, molti se ne sono andati in cerca di fortuna nelle grandi città. Milano o Torino, ad esempio, dove la Fiat prometteva un futuro diverso. In zona era invece la Berco a proporre il grande risveglio e il miracolo economico”, ci dice. Una società fondata a inizio secolo e che negli anni Cinquanta diventa società per azioni.

“Negli anni Sessanta”, continua, “saranno gli stabilimenti del Latte Ala di Copparo, ai quali era diretto gran parte del latte prodotto dalle nostre mucche, a completare un quadro di benessere minimo raggiunto da quelle campagne rigogliose. Berco e Ala si sono aiutate a vicenda. In questo contesto, era nato l’Ente Delta Padano. Terra e case per tutti.

Podere San Callisto costruito dall’Ente Delta Padano, 1953

“Le case assegnate dall’ente erano diverse”, ci spiega Denis: “due, tre o quattro/cinque stanze a seconda della composizione del nucleo familiare. Per la stalla annessa e il numero di animali si seguivano gli stessi criteri”. “Pensa” e qui sorride, “che in famiglia si scherzava ricordando alla donna che voleva magari prendere parte a una decisione di casa, che il suo peso nel punteggio per l’assegnazione era 0,75, mentre l’uomo capo famiglia valeva 1, quindi non aveva che fa starmene zitta…. Erano gli stessi criteri del tempo del fascismo”. Ma l’idea di quel villaggio non era di Mussolini. Il nonno Ettore, dal nome di grande condottiero ma per tutti Secondo, glielo ricordava sempre.

“Mio nonno, la mia guida e continua fonte di ispirazione”, mi dice con orgoglio, “era alto, biondo e con gli occhi azzurri, probabilmente grazie all’insediamento degli Arimanni di Massafiscaglia. Aveva fatto il granatiere. Non era colto, ma mi diceva sempre che quell’idea non era stata del Duce, ma di un altro signore francese, un tale Le Corbusier”.

E il nonno aveva ragione. Le ricerche, infatti, portano subito alla “fattoria radiosa”, agli studi su “La Ferme radieuse et le Centre coopératif” che l’architetto svizzero, naturalizzato francese, aveva elaborato per il terzo Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM) del 1930 e riuniti nel 1940.

La pubblicazione italiana di questi studi è avvenuta solo nel 2015, grazie alla casa editrice Armillaria, “La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo”, a cura di Sante Simone.

Si può dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della più celebre Città Radiosa, probabilmente la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli e gli ampi spazi verdi, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quelli del cibo e dei beni primari, ovvero quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonavano. Essere felici in campagna, e tornarci, sarebbe stato allettante per i giovani solo se essa fosse divenuta efficiente, ordinata e pulita.

L’ispirazione programmatica era il “programma di ricostruzione agraria” che Norbert Bézard, osservatore del mondo contadino, aveva proposto a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni “strumenti di civiltà”. Bézard fondava su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che aboliva la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo era il silo comune. E questi principi si traducevano nelle idee di Le Corbusier che disegnava villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità era compiuta nelle sue parti, e integrava il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata. Pur centro moderno, restava, tuttavia, il modello di piccola comunità tradizionale, legata a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale, al valore dato ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria “stirpe”. Se cioè la visione architettonica proposta era figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospitava restava, in qualche modo, intrisa di quel romanticismo che tanto era avversato, dove la natura era espressione di poesia e i figli naturali prosecutori del lavoro dei padri. Una forma dell’abitare legata all’organizzazione della società. Un futuro visto con gli occhi del presente.

Il modello di Le Corbusier è stato molto analizzato e criticato. A noi qui basti ricordare, per coerenza storica, che in fondo, un po’ il fascismo c’entra. Contraddicendo, con il dovuto rispetto, un pochino Secondo. Se non altro per le vicinanze e i reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste “Plans” e “Prélude”. Volendo però vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l’opportunità per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Come in un alveare operoso, le persone saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato. Ne prenderemo gli aspetti positivi, avulsi da ogni ideologia.

Lavori di bonifica

Torniamo a noi, dunque. Denis continua il racconto: “mio nonno mi raccontava sempre di come un bel giorno il cavalier Bovolenta, funzionario del nascituro Ente Delta Padano, era venuto a cercarlo per proporgli un’assegnazione”. “Lei, signor Guerrini, potrebbe essere interessato, dato che ha una famiglia numerosa?”, si legge nel libro. “Si tratta di un sito di 7,30 ettari costituito da una casa con quattro stanze da letto e una stalla adiacente per otto mucche, contando anche fienile, pollaio e porcile. Tutto è ancora da costruire, ma è compresa anche l’acqua corrente, sia in cucina che in bagno, e pure l’impianto della luce, che sarà a suo tempo disponibile. La cucina ha un impianto che permette di scaldare l’acqua per ogni uso”. E il nonno decise.

Appoderamenti nel basso ferrarese, 1954

“Molti assegnatari chiederanno il riscatto delle proprietà già dopo i primi dieci anni, anziché dopo i trenta originari, e che con le somme incassate l’Ente Delta ha provveduto ad asfaltare le strade che da vicinali sono così diventate comunali (anche se formalmente ancora oggi restano alcune criticità su questo). Si è poi creato un grande pasticcio. La coesistenza di due sistemi paralleli, la proprietà privata e quella collettiva per la gestione del riso come quella di Jolanda di Savoia, ha creato contrasti e disparità. L’ente sarebbe stato disciolto. Ma noi siamo qui”, conclude.

Nel libro che raccoglie i suoi racconti, ci perdiamo fra gli allagamenti delle campagne, i capponi della nonna, le abbuffate, le mietiture, la pariglia e gli stivali, i cappotti e le sciarpe indossati per far fronte al freddo gelido di febbraio durante il tragitto fangoso che portava la famiglia al bar dove si poteva vedere, tutti insieme, il festival di Sanremo.

Con Denis, ci avventuriamo per le stradine illuminate da un sole che da tiepido diventa presto cocente. Ecco la via Zaffo (dal nome del tappo delle damigiane).

Inizialmente non c’era un criterio per denominare quelle nuove vie per cui molte presero il nome dell’ingegnere che aveva dato via al progetto, Bruno Rossi. Poi il nonno di Denis propose di chiamare le vie con il loro nome originario del podere. Così il podere Zaffo dava il nome alla via mentre il podere Mulinetto dava il nome ad un’altra trasversale. Ad ogni nuovo podere venne assegnato un numero e un nome: così nasceva, ad esempio, il podere n.71, S. Ettore, scritta color marrone. Sotto ad ogni finestra, al piano superiore, lo spazio per un portabandiera per le feste solenni.

Fra campi, trattori e stalle, arriviamo alla casetta, oggi disabitata, del custode della chiusa. Un sistema idraulico che rende orgogliosa la nostra regione, da sempre. Un canale artificiale che serviva sia allo scolo che all’irrigazione, composto anche di una diga che poteva fungere da chiusa per lasciar passare i barconi che trasportavano le barbabietole dirette allo zuccherificio di Codigoro (trasporti presso effettuati su gomma). Lì fianco, da ragazzini, si faceva anche il bagno.

Ma è ora di pranzo. Ci attendono piadina, focaccia, salame e lasagne. E il calore della spontaneità e dell’amicizia. Oggi sono felice.

Archivio fotografico dell’Ente Delta Padano
La Fototeca dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna conserva, tra le altre raccolte, l’archivio fotografico dell’Ente regionale di Sviluppo Agricolo, istituito con il nome di Ente per la Colonizzazione del Delta Padano nel 1951, ente statale dipendente dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, divenuto ente regionale nel 1977 e infine soppresso nel 1993 con trasmissione di funzioni residue, personale e patrimonio all’Assessorato regionale Agricoltura. L’archivio fotografico, ordinato, catalogato e digitalizzato dall’Istituto Beni Culturali, consiste in oltre 32.000 positivi in bianco e nero e a colori, circa 20.000 negativi, quasi 4.000 diapositive, pellicole cinematografiche e audionastri.

Immagini storiche dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano

Fotografie di oggi di Valerio Pazzi

Vite di carta /
Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone

Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone.

Entro la dozzina dei libri semifinalisti dello Strega ho scelto Dove non mi hai portata di Calandrone, dicevo nell’ultimo articolo, per via del cognome che fa il verso al celebre Calandrino del Boccaccio. Poi per il titolo che si rivolge a un tu e promette un dialogo: saremo almeno in tre, ho pensato, la voce che narra, il suo interlocutore o interlocutrice, e  la lettrice che sarei io.

Così è stato e il dialogo ha accolto altre voci ed è stato fecondo, solo che dalla comicità di Calandrino la lettrice ha dovuto sgombrare il campo.

Perché il libro ricostruisce con rigore la storia di un abbandono, quello che l’autrice ha subito dai genitori biologici quando aveva soltanto otto mesi, nel giugno del 1965, ed è stata deposta su una coperta all’ingresso di Villa Borghese a Roma, nel verde di un prato.

Dove non mi hai portata resta tuttavia un libro equilibrato, pieno di autenticità, in cui la narratrice si mostra grata della vita che ha avuto. Apre un piccolo squarcio alla fine del racconto per nominare i genitori adottivi, Consolazione e Giacomo Calandrone, e li definisce “due giganti” dai quali ha avuto una vita bella, un “ristoro”.

Il resto del libro, tutto il libro è una investigazione implacabile piena di ardore verso la madre biologica, Lucia Galante, e verso il padre biologico Giuseppe Di Pietro, che di Lucia è l’amante.

Documenti scritti, interviste, articoli di giornale, cartelle cliniche e certificati d’archivio si sommano, portando informazioni  il cui totale cresce a ogni pagina: Maria Grazia li ha studiati e ora li descrive, scarta ciò che le sembra incoerente col quadro che si è fatta della storia, cerca conferme tra una fonte e un’altra come in una indagine filologica, di una filologia potrei dire esistenziale.

Ogni pagina è la rielaborazione di una assenza, che viene messa sotto gli occhi dei lettori come a chiederne l’ascolto a ogni momento. Ogni pagina è una parte del prezzo che va pagato per fare i conti con gli inizi di sé, definitivamente.

la cartolina anne berestEccomi di nuovo impigliata in una difficile storia famigliare, penso. Anche qui apprendo vicende di famiglia sofferte e al tempo stesso fortemente identitarie, come quelle che ho appena letto nel  romanzo di Anne Berest, La cartolina.

Solo che qui tutto richiede immedesimazione: l’autrice è nata nel 1964, scrive e vive in questi anni, in questi giorni e si racconta come figlia. Utilizza le parole per tessere il corpo e la mente di sua madre, che in un giorno afoso del giugno 1965 si è gettata nel Tevere insieme al compagno per consentire a lei bambina di essere adottata e di avere una buona vita.

Maria Grazia è tornata sui luoghi in cui la madre è nata e dove ha vissuto le poche fasi della sua esistenza, fino a quella morte a ventinove anni che l’ha inchiodata a una giovinezza senza fine.

Dico subito che la ricostruzione dell’autrice-narratrice-figlia è come una lunga poesia intrisa di amore, una lirica tuttavia lucidissima. L’io narrante  si interroga sulla madre e si dà risposte piene di solidarietà verso di lei, finisce per  comprenderne la scelta esiziale, quando non ha più avuto la linfa che la tenesse in vita. Non un lavoro per sé e per Giuseppe, non un aiuto dalla propria madre: solo il disdoro generale e le perfidie sociali dell’Italia uscita da poco dalla seconda guerra.

Ma andiamo con ordine. Al paese in provincia di Campobasso Lucia è stata costretta dalla famiglia a un matrimonio di convenienza e ha sopportato per anni le percosse e l’insipienza di un marito incapace. Quando ha conosciuto Giuseppe, di molti anni più grande di lei e già a capo di una famiglia, ha conosciuto l’amore: “la magnifica follia che ci fa giganteggiare sopra la nostra vita, che trasloca il nostro piccolo esistere dentro il corpo totale del mondo”.

Ha raccolto le sue poche cose e si è trasferita a casa di Giuseppe, mettendosi contro la legge e contro l’opinione di tutti i paesani.

Siamo nel 1964 e il secondo trasloco è per i due amanti una vera avventura di viaggio, oltre che un fenomeno sociale su vasta scala. Dice Maria Grazia: “Tra Palata e Milano esiste un varco spaziotemporale”, eppure Lucia e Giuseppe lo oltrepassano quando lei è al sesto mese di gravidanza e dopo un viaggio lungo, passando da una corriera all’altra, arrivano nella “Milano dell’immigrazione“, dove “gli emigranti che arrivano da Sud vengono sversati come scorie radioattive in discariche sociali ultraperiferiche, … isole di fango e impalcature, aree non comunicanti col resto del tessuto urbano”, città nella città.

Bastano pochi mesi per consumare il fallimento e prendere atto che, passato il primo boom edilizio che ha dato lavoro a Giuseppe come manovale, lui, Lucia e la piccola Maria Grazia sono senza mezzi di sostentamento.

I due preparano attentamente l’ultimo viaggio a Roma, dove lasceranno la bambina prima di lasciare andare sé stessi nell’acqua del Tevere. L’autrice ricostruisce ogni minuto dei due ultimi giorni di vita per i suoi genitori, il 24 e il 25 giugno 1965. Valuta ogni ipotesi di spiegazione per ognuno degli atti finali che hanno compiuto: l’abbandono di bagagli sotto i portici di piazza Esedra, la lettera spedita all’Unità in cui affidano la loro bambina “alla compassione di tutti”.

Con questo libro Maria Grazia raccoglie l’invito, per sé e per me lettrice che l’ho ascoltata fino a qui e mi accosto alle pagine finali. Sono scossa, devo riconoscerlo.

“Questa mia vita, con il gratuito e a volte immeritato bene che incontra, aderisce ogni giorno alla disperata speranza di Lucia e Giuseppe. Ci vuole un gran coraggio, per sperare. La storia dice che Lucia e Giuseppe sono morti sperando. Il mio bene, se non il proprio. E loro due, mettiamoli tra quelli che hanno vinto l’invincibile solitudine del morire, morendo insieme”.

Nota bibliografica:

  • Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi, 2022
  • Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure /
Rendiamo facile il difficile

Rendiamo facile il difficile. Che difficile! Quante volte lo abbiamo detto o sentito dire. Lo spagnolo Guridi tratta con delicatezza le difficoltà di comunicazione di un bambino. Leggere per credere

Per qualcuno trovare la forza di esprimersi, di fare sentire la propria voce può richiedere uno sforzo grande, immenso, a volte titanico.

La semplice routine di un giorno di scuola può rappresentare una vera e propria sfida con sé stessi. Il fatto che gli altri sappiano riconoscere e rispettare questa difficoltà può essere d’aiuto e ogni piccolo progresso può rappresentare una conquista.

A raccontarlo lo spagnolo Raul Nieto Guridi – abbiamo già parlato del suo bellissimo Parole – in Che difficile!, edito da Kite, appena uscito in libreria.

Quando esco di casa tutto mi è difficile. Sento un formicolio che non svanisce e ogni passo che faccio è una conquista”.

Il protagonista-bambino è piccolino, perso è un po’ confuso, tutto ciò che gli ruota intorno è grande. Guridi gioca abilmente con la prospettiva, il tratto è netto e deciso, i personaggi che intimoriscono o con i quali si vorrebbe dialogare sono tratteggiati in rosso.

Le persone che conoscono questo gentile bambino, però rendono facile il difficile. Toccante, commovente, sincero. Tanta empatia con chi ha difficoltà a comunicare o a inter-relazionarsi.

Voler dire ciao al panettiere, senza riuscirci, alla vicina Anna o alla signora Antonia. Magari fare un semplice complimento per il bel vestito indossato, ma esce solo un sorriso.

In tutto questo, contare rilassa. Uno due, tre… Anche quando si sale sul bus e si allunga il biglietto al conducente senza sapergli e potergli rispondere. È così difficile…

 

 

Meglio evitare di sedersi vicino a qualcuno che magari ti fa pure una domanda cortese. Sarebbe così difficile concentrarsi e poi rispondere.

Anche arrivare a scuola è un’impresa. Genitori che si salutano, scolari che chiacchierano ad alta voce. Conoscere i loro nomi ma non averli mai pronunciati. Perché è così difficile…

La mamma dice di non avere fretta. Le parole un giorno, prima o poi usciranno. Servono solo tempo e pazienza. Sottovoce qualcosa viene, piano piano, ma poi… È difficile.

Un albo dalle illustrazioni libere che racconta la storia di un bambino che non riesce ad esprimersi, a dire in società ciò che desidera e perciò a essere pienamente sé stesso.

Per qualcuno è un racconto sul tema dell’autismo, per qualcun altro una storia su una difficoltà più generica a dire ciò che si pensa in pubblico, una forma di grave timidezza che forse tutti abbiamo prima o poi provato nella nostra vita.

Timori, manie, trucchetti, stratagemmi, meccanismi di difesa. Tutto pur di non parlare.

Ma anche i grandi, in fondo, sono spesso incapaci di dire ciò che sentono o pensano. Tante persone preferiscono non parlare né sorridere. Non sfiorare. Forse è il rumore a rendere tutto tanto difficile?

 

È così difficile! di Raul Nieto Guridi, Kite, 2023, 40 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

La Marcia Perugia-Assisi di maggio 2023
Il discorso di Rafael de la Rubia. Le immagini dell’evento.

La 3ª Marcia Mondiale alla Marcia Perugia-Assisi

Il 21 giugno 2022 a Vienna abbiamo annunciato la 3ª Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza al primo incontro dei Paesi che hanno ratificato il TPAN – il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari.
In precedenza abbiamo effettuato due marce mondiali di massa nel 2009 e nel 2019. Lì abbiamo verificato che l’aspirazione della maggioranza delle persone era la Pace e che la Nonviolenza era sempre più accettata in tutto il mondo.

Questa 3ª MM inizierà in Costa Rica il 2 ottobre 2024 e, dopo aver fatto il giro del pianeta, terminerà nuovamente nella capitale del Costa Rica il 5 gennaio 2025. In essa mostreremo:

a) Come creare un’azione globale partendo da progetti locali e regionali.
b) Come evidenziare il valore delle piccole azioni per realizzare una campagna globale basata sul sostegno reciproco.
c) Il valore delle piccole azioni in un contesto più ampio.
d) La necessità che queste azioni siano esemplari.
e) Le connessioni tra le azioni a livello locale e regionale e quelle a livello globale.

Inoltre, attiveremo la Marcia via mare fino a quando non sarà dichiarato un “Mediterraneo, Mare di Pace e Libero da Armi Nucleari”. La prima esperienza in questo senso è stata fatta nel 2019 nel Mediterraneo occidentale.

Le risorse. Una questione non secondaria riguarda i mezzi con cui abbiamo realizzato le Marce Mondiali precedenti. La MM non ammette alcuno sponsor che condizioni il nostro messaggio e le nostre proposte! Ciascuno di noi ha pagato le proprie spese, in modo da non avere le mani legate e poter parlare liberamente.
In questa 3ª MM avanzeremo ancora di un passo nella costruzione del cammino che l’essere umano ha iniziato molto tempo fa verso la Pace e la Nonviolenza.

Invitiamo tutte le organizzazioni che lavorano per la Pace e la Nonviolenza a unirsi alla 3ª MM. Speriamo che ciascuna organizzazione possa portare e valorizzare i propri temi e portarli a livello internazionale. Una piccola organizzazione può trarre vantaggio dalla MM ed espandersi in altri paesi e regioni. L’idea è di riunirsi almeno una volta ogni 5 anni, in occasione delle prossime MM.

Oggi il mondo ha più che mai bisogno che chi è a favore della pace faccia sentire la sua voce e mostri il suo esempio.

Alcuni riferimenti della nonviolenza e della pace hanno affermato: “Non mi preoccupano i violenti, che NON sono tanti, ma piuttosto l’inerzia di coloro che si definiscono sostenitori della Pace.” Ci sarà almeno un 10% o un 20% di europei favorevoli alla pace… Se questa gente si esprimesse, se scendesse in piazza due o tre volte, se 50 o 100 milioni di europei manifestassero pacificamente, senza bandiere, senza slogan, in silenzio… le cose cambierebbero molto in Europa…

La Marcia Perugia – Assisi è un esempio e un riferimento in Europa per lavorare per la pace. Invito le organizzazioni e i Paesi a unirsi alla Marcia di Perugia affinché il prossimo anno si tenga una manifestazione unitaria in tutta Europa a sostegno della Pace, di cui abbiamo tanto bisogno.

Dopo aver sentito parlare i giovani delle diverse scuole, non ci resta che dire che li ascoltiamo e speriamo di poterli ascoltare e seguire le loro indicazioni.

Siete tutti invitati a partecipare alla 3a Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza.

Foto di Ileana Di Nitto

 

Rafael de la Rubia

Umanista spagnolo. Fondatore dell’associazione Mondo Senza Guerre e Senza Violenza. Ha lanciato, tra le tante iniziative, la campagna “2000 Senza Guerre” e la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. theworldmarch.org

Link:
https://www.famigliacristiana.it/articolo/marcia-perugia-assisi-con-il-cuore-rivolto-alla-romagna.aspx
https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/21/da-don-ciotti-allanpi-in-migliaia-alla-marcia-per-la-pace-perugia-assisi-ma-i-partiti-tranne-verdi-sinistra-non-ci-sono-parlano-solo-di-armi/7168491/

In 10mila all’edizione speciale della Marcia Perugia Assisi

In diecimila alla Marcia Perugia Assisi. I giovani rivendicano un mondo senza più guerre. Per Articolo 21 l’impegno su verità e giustizia


https://www.virgilio.it/italia/perugia/notizielocali/in_diecimila_alla_marcia_della_pace_perugia_assisi_2023_trasformiamo_il_futuro_-71189979.html
https://www.lindipendente.online/2023/05/21/oggi-torna-la-marcia-perugia-assisi-per-la-pace-in-ucraina/

Le immagini: Cover e reportage fotografico di Ileana Di Nitto.

EIRENEFEST: Tavola Rotonda ARTE PER LA PACE.
Roma, Quartiere San Lorenzo, sabato 27 maggio ore 18:00

 

Sabato 27 Maggio ore 18:00 – 20:00

                                                                                                                                                      Arte per la pace

Sala ENGIM
Via degli Etruschi n.9 – Roma

Il ruolo dei patrimoni culturali e delle arti in tutte le loro forme ed espressioni ai fini della prevenzione della violenza e della costruzione della pace: un dialogo a più voci con artisti/artiste, attivisti/attiviste, esperti/esperte nell’ambito della cultura, del patrimonio culturale e delle nuove forme ed espressioni artistiche.

A partire dal libro:
Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto dalla Jugoslavia al presente, Multimage, Firenze, 2022.
Intervengono:
– Dorotea Giorgi (operatrice culturale e interculturale),
– Mary Cinque (artista),
– Dale Zaccaria (poetessa),
– Gianluca Paciucci (poeta),
– Adriana Giacchetti (Coro Sociale di Trieste),
– Gianmarco Pisa (operatore di pace).

«Il nesso tra pace, giustizia e cultura è, senza dubbio, tra i più significativi nei percorsi di trasformazione del presente e nella lettura degli eventi del passato.
Attraverso i patrimoni culturali e i luoghi della memoria, mediate dalle memorie collettive e dalle pratiche sociali, le eredità del passato si stagliano sul presente e si proiettano verso il futuro, ridando densità a parole sempre attuali, solidarietà, fratellanza, unità.
In un’ampia esplorazione sul campo, tra etica ed estetica negli spazi del conflitto, la ricerca-azione «di terra e di pietra» si interroga, al tempo stesso, sui percorsi della democrazia e sulle condizioni della trasformazione, nella prospettiva della pace con giustizia».

Tutti i dettagli:
https://www.eirenefest.it/evento/arte-per-la-pace

EireneFest – Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza:

https://www.eirenefest.it

L’ULTIMA SPIAGGIA
Mentre inondazioni e mareggiate si mangiano le coste, il Comune di Comacchio progetta altro cemento

Se vi chiedessero di scegliere tra un bel cazzotto sui denti o un calcio negli stinchi, uomo o donna che foste, non credo proprio che accettereste il dilemma. Rifiutereste l’opzione, perché in ogni caso dovreste accettare qualcosa di distruttivo. Ebbene, quello che si sta profilando in queste settimane, sulla costa comacchiese, dopo un lungo iter amministrativo, non è altro che la scelta tra due mali.  E la tremenda tragedia umana e ambientale a cui stiamo assistendo in diretta in queste ore nei territori emiliano-romagnoli e marchigiani  ce lo ricorda con estrema chiarezza. Perché è proprio la lunga saga cementizia, fatta di innumerevoli scelte pubbliche e private, che si dipana senza soluzione di continuità dagli anni Sessanta ad essere sul banco degli imputati.

Oggi parliamo di uno dei quattro progetti inseriti in quello che tecnicamente è indicato come PROGETTO SPECIALE PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO PER LA RIGENERAZIONE TURISTICA E AMBIENTALE DELLA COSTA” , le cui radici affondano in uno degli ultimi atti della giunta di Marco Fabbri, nel 2015, in estrema sintesi recuperabili a questo link  di Estense.com.

Ma dove sta la “rigenerazione” invocata nel titolo di questa pianificazione? Secondo i fautori dell’operazione, [Vedi il sito del Comune di Comacchio] sta tutta in una semplice sottrazione: un bilancio negativo in termini di consumo di suolo pari a mq. – 148.358, derivante dalla differenza tra la superficie sottratta ad edificazione prevista dall’ultimo PRG (mq.  – 536.333) e la superficie territoriale agricola investita dagli interventi (mq. + 387.975).
Sottrazione che ricondotta alla sola superficie impermeabilizzata – certamente quella più impattante, anche se  i problemi alla fine sono tanti altri  – ci rivela tutta la sua pochezza. Utilizzando la stessa fonte, essa diventa: 156.346 -159.824 = – 3.478 mq.  Un risultato praticamente nullo. Provando a visualizzare questi numeri abbiamo quasi 24 campi di calcio di nuovo cemento, con una riduzione, rispetto alle cifre del vecchio PRG di mezzo campo da calcio. Viene quasi da ridere, tenuto conto che proprio questo dato, cioè nulla, viene sbandierato dai fautori del progetto, come  un grande successo dello strategico accordo tra pubblico e privato.  Prima dell’accordo era un cazzotto sui denti, adesso è sceso alle parti basse. Un bel successo, non c’è che dire.

Ironia della sorte, la Regione sta promuovendo da quasi due anni un grande processo partecipativo – sul modello Agenda 21, di una ventina di anni fa – dall’evocativo titolo “Che costa sarà ? “ .

Qui tutti i documenti elaborati ed adottati dall’inizio del percorso, nonché i prossimi appuntamenti

L’iniziativa, leggiamo nella presentazione, si inserisce nel “progetto europeo AdriaClim (finanziato dal programma Interregionale Italia-Croazia, Strategico, 2020-2022) che punta a migliorare la resilienza climatica dei territori costieri nel bacino adriatico attraverso lo sviluppo di piani di adattamento, strategie, azioni e buone pratiche per la mitigazione degli impatti sulle zone costiere, fornendo strumenti informativi e scenari di maggiore dettaglio e accuratezza rispetto a quelli attualmente disponibili.”

Perché dai documenti presenti nel portale che la Regione dedica alle tematiche connesse alla difesa della costa, la situazione ambientale appare piuttosto grave. [Qui]

Novembre 2022, erosione spiagge del litorale comacchiese (FE)

Gli indicatori principali di questo delicato ecosistema sono già fortemente stressati e le condizioni al contorno allarmanti: sistema dunoso assente in vasti tratti del litorale, alti livelli di antropizzazione, fortissima erosione costiera.  I dati sulle ultime mareggiate sono altrettanti campanelli d’allarme. Nell’ultima del novembre 2022, si legge in uno dei rapporti regionali:
Gli impatti sono stati particolarmente concentrati nel territorio ferrarese, dove si sono riscontrate tutte le tipologie di danno utilizzate nella classificazione regionale degli impatti da mareggiate (DB in_Storm), ovvero: erosione dei litorali, ingressioni marine, tracimazioni di canali, danni alle opere di difesa costiera e danni agli stabilimenti balneari. La ricorrenza degli impatti in questa porzione di territorio sta diventando piuttosto allarmante ed è da attribuire all’elevato grado di vulnerabilità morfologica della costa, ad una dinamica evolutiva sfavorevole e all’eccessiva antropizzazione”. 

Bene ! Anzi male. Cioè, malissimo.

Come afferma nelle proprie Osservazioni il Circolo Legambiente “Il delta del Po”, in vista della Conferenza dei Servizi che in questi giorni esaminerà questo specifico progetto:
La norma sul consumo di suolo (Legge Regionale N. 24 del  21 dicembre 2017) è chiara nelle sue finalità:  il limite di consumo di suolo è definito al 3% ,  ma sono presenti articoli che prevedono delle deroghe.  Queste deroghe producono un consumo di suolo di ben 186 ettari nell’area della costa nel Comune di Comacchio.
Vi  sono presenti valori ambientali e tutele disposte dall’Ente Parco Regionale E-R. Delta del Po (Piano di Stazione Centro storico Comacchio): boschetti; aree con presenza di specie vegetali tipiche delle dune e ambienti
retrodunali (vegetazione pioniera, Orchidee spontanee); corridoi ecologici composti da residui di vegetazione costiera (pungitopo, Ginepro, Rovo, pioppo bianco); presenza di frangivento a tutela di suddivisione di terreni agricoli che sono eredi di un’antica conformazione del territorio; presenza conclamata di residui dunosi e presenza di residui culturali locali (vigne e bosco eliceo).

E ancora.

Tale intervento risulta difforme a direttive dell’ONU e della UE (citate nel testo).   Difforme anche da quanto è stato acquisito dallo Stato Italiano circa le problematiche dovute ai cambiamenti climatici in aree delle coste Italiane, comprese aree demaniali.  Palesemente in contrasto con la politica  ambientale adottata dalla stessa  Regione  E-R, la quale sta spendendo soldi pubblici per mettere in sicurezza la costa del Comune di Comacchio. (…) Organi della Regione stanno producendo relazioni che sembrano non venire prese in considerazioni da chi questa Regione la governa.

Contraddizioni ben espresse oltre dieci anni fa dai Punkreas, nella loro ironica ballata “L’ultima spiaggia” .  Perché se non ci seppellirà una risata, lo farà presto il mare. Per ora, purtroppo, lo stanno già facendo i fiumi.

Sfoglio tristemente l’album dei ricordi
Primi del 2000 tra boschi e prati verdi
Surriscaldamento, si diceva un tempo
Roba di poco conto
Tormentone del momento

Invece poi
Noi non ci siam fidati dell’esperto
Che aveva garantito un deserto,
Dei cammelli su una duna
Che da Bergamo a Verona
Osservan la partenza della gente della zona
Pronti per sfidare il mare e andare verso

L’ultima spiaggia, meta selvaggia
Alla ricerca di un tesoro o forse
Di un po’ di pioggia
Sull’ultima spiaggia
Nella borraccia ho ancora qualche goccia

Viaggio su un barcone
Con un gruppo di padani
Che il sole del deserto
Ha trasformato in beduini
Dicon che in Islanda son sbocciati i fiori
Cercan manovali per raccoglier pomodori

Mentre noi se avessimo ascoltato quell’esperto
Non ci sarebbe traccia del deserto,
Dei cammelli su una duna
Che da Bergamo a Verona
Osservan la partenza della gente della zona
Pronti per sfidare il mare e andare verso

 

Cover: Novembre 2022, mareggiata, e conseguente inondazione ed erosione delle spiagge nel litorale ferrarese e ravennate (foto:  Protezione Civile dell’Emilia-Romagna).

 

When the levee breaks…
​Il concerto di Springsteen a Ferrara: bello senz’anima


When the levee breaks… (Quando l’argine si rompe…)

​Il concerto di Springsteen a Ferrara: bello senz’anima

Non è sempre facile essere persone coerenti di questi tempi; non so voi ma io confesso che, certe volte, non riesco ad esserlo.
Talvolta, soprattutto di fronte a scelte difficili, provo a vivere le mie contraddizioni anche se questo approccio mi risulta difficoltoso e travagliato; tendo poi a scendere a compromessi con me stesso, anche se è un’impresa molto ardua.
È naturale quindi che certe mie decisioni siano sofferte e tormentate: a volte le credo coraggiose ed intransigenti, altre volte sono ambigue e condiscendenti.

Un esempio al proposito riguarda il concerto di Bruce Springsteen a Ferrara.

Lui è un artista che conosco musicalmente da 50 anni, che stimo moltissimo, che ho già visto in concerto e che rivedrei a oltranza.
Sono stato fra i primi a comprare i biglietti anche se sono rimasto molto sorpreso rispetto alla scelta della location per il concerto perché il Parco Bassani di Ferrara non è certamente un’area appropriata.

Ho preso l’impegno, con me stesso, di andare al concerto ma di usare quei 12 mesi di tempo per lottare affinché la sede fosse spostata nella zona dell’aeroporto, già usata in passato per grandi eventi (vedi Festa Nazionale dell’Unita nel 1985).

Quello che è successo in questi mesi è sotto gli occhi di tutti: l’amministrazione locale, già poco trasparente sui dettagli economici riguardanti il concerto, ha deciso di mantenere la sede del Parco Urbano dimostrando di non saper accogliere le critiche, anche se costruttive, presentate da Save The Park.

Nonostante questo, ho deciso faticosamente di andare al concerto di Bruce Springsteen al Parco Urbano perché è legittimo immaginare che questo sia uno dei suoi ultimi tour mondiali.

Inoltre, quello che è successo in questi ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti: a pochi giorni dal concerto, la natura si è ribellata all’uomo e ha cominciato a farsi sentire in maniera molto violenta.

Ha demolito argini facendo esondare diversi fiumi, ha allagato intere città della vicinissima Romagna producendo disastri inimmaginabili.

Il territorio, trascurato da tempo e martoriato da asfalto e cemento, ha vomitato la sua rabbia creando inondazioni tremende e frane terribili; ha invaso e ha distrutto i luoghi dell’uomo. Città e paesi molto vicini a noi sono devastati; diverse persone sono morte.

In tanti abbiamo pensato che fosse giusto rinviare oppure annullare il concerto ma le risposte date dall’organizzazione si possono catalogare sotto la voce: “The show must go on” (Lo spettacolo deve andare avanti), insieme agli affari.

Se provo per un attimo a mettermi nei panni del sindaco di Ferrara, ammetto che non sarebbe stato facile annullare questo concerto pertanto posso capire le difficoltà che ci sarebbero state. Piuttosto contesto due cose: la modalità comunicativa scelta (assente quella istituzionale nei giorni precedenti e solo sui social network nel giorno stesso) e alcuni contenuti del post su Facebook: in particolare, la presunta difesa dei lavoratori dello spettacolo che hanno lavorato molto sodo ed in condizioni difficilissime nei giorni precedenti ma che sarebbero stati pagati comunque anche ad evento annullato e la scelta di destinare una cifra al comune di Faenza che mi sembra irrisoria.

Nonostante questo, seppur con l’animo tormentato, ho scelto di andare al concerto di Bruce Springsteen al Parco Urbano portando con me uno zaino pieno delle mie contraddizioni e del bisogno di sentire dal palco, insieme alle sue canzoni straordinarie, qualche parola di solidarietà sulla tragedia avvenuta a qualche decina di chilometri da Ferrara e, magari, rivolta anche a tutte quelle persone che sono state costrette a rinunciare al concerto.

Durante il percorso fangoso che ci ha portato al nostro settore, accompagnati dall’odore tipico della paglia bagnata messa per terra per rinforzare il terreno, pensavo al Parco e al suo attuale sfruttamento consumistico. Camminando in fila, cercando di evitare gli acquitrini più profondi, mi sono chiesto quale fosse l’albero piantato per mia figlia, nel 1992, dall’amministrazione di allora che aveva dimostrato di saper progettare il futuro mettendo a dimora una pianta per ogni bambino o bambina nati in quegli anni.

Procedendo, guardavo stupito il costo spropositato della merce ufficiale: 40 euro per un cappellino, 50 euro per una maglietta e 90 euro per una felpa; ho pensavo agli anni settanta quando, per molto meno, si contestavano alcuni cantautori per il prezzo dei loro concerti. Mi è venuto in mente il più “alternativo” dei miei compagni di classe di allora che definiva “industrialotti del rock” alcuni dei nostri miti musicali, demolendoceli in un attimo con uno slogan talmente efficace da essere ancora attuale.

Dopo una grandissima performance di Fantastic Negrito ed una buona esibizione di Sam Fenders, alle 19.30 è salito sul palco l’uomo che in tanti stavamo aspettando: il cantante, l’artista, il mito, l’idolo.

Mi aspettavo che Bruce Springsteen iniziasse il concerto parlando della tragedia che stava succedendo intorno a Ferrara; mi sembrava legittimo aspettarselo da uno che non si è mai risparmiato in quanto ad impegno sociale e ad iniziative di beneficienza.

Invece “Ciao Ferrara” e via con le canzoni.

Non è facile, quindi, raccontare questo concerto che è stato bellissimo; certo non all’altezza di quelli visti decine di anni fa ma 3 ore non sono poi così facili da reggere per un uomo di 73 anni che ha scelto una scaletta davvero intensa[1], eseguita con la sua inesauribile energia e la risaputa potenza della E Street Band.

Molti di questi brani sono stati resi unici dal canto all’unisono di tutto il pubblico (“Because the night” in particolare). Segnalo, fra tutte le altre canzoni memorabili, la straordinaria cover di “Nightshift” che i Commodores dedicarono a Marvin Gaye e Jackie Wilson, due immensi cantanti della musica soul; Bruce l’ha interpretata con rispetto e delicatezza lasciando a due suoi coristi un finale davvero da brividi.

In tutto questo alternarsi di pezzi storici, nemmeno una parola sul dramma che ha sconvolto la Romagna.

Conoscendolo come persona sensibile che sa raccontare in modo unico i tormenti della povera gente, quel suo silenzio iniziale è stato straordinariamente significativo; qualche giornalista ha scritto che “No surrender” (Nessuna resa), brano d’apertura del concerto di Ferrara, era un messaggio di incoraggiamento alle popolazioni colpite. Non è così perché la grandissima parte dei concerti di apertura di questo tour iniziano tutti con questa canzone.

Ho sperato che trovasse un momento, durante il concerto, per far sentire la sua vicinanza e che portasse la sua solidarietà, magari introducendo uno dei suoi tanti brani adatti in scaletta. Ho sorriso immaginandomi come Nanni Moretti nel film “Aprile” quando, di fronte alla televisione, pregava D’Alema di dire una cosa di sinistra; io invece lì a sperare che Springsteen dicesse almeno “una cosa di civiltà”. Ho addirittura fantasticato che annunciasse umilmente di destinare una parte dell’incasso alle popolazioni colpite.

Invece mi è toccato restare stupito di fronte all’assenza di uno degli elementi fondamentali presenti nei concerti di Springsteen: l’anima.

Lo show di Ferrara è stato grande, potente, bello, però di un bello senz’anima; tutto l’insieme mi è sembrato un baraccone gigante, portato in giro da un abile imprenditore, pronto ad essere presentato su qualsiasi pubblica piazza ma indifferente a ciò che succede al di fuori.

Anche i suoi due discorsi toccanti prima di “Last man standing” e di “I’ll see you in my dreams”, erano accompagnati da sottotitoli proiettati sul maxischermo a testimoniare la non spontaneità di quelle belle parole.
Non è una cosa che ci si aspetta da un personaggio mitico come Bruce Springsteen; il mio vecchio compagno di classe direbbe che è una cosa da “industrialotto del rock”.

Sono uscito lentamente verso casa riconoscendo che l’organizzazione è stata buona e la città ha retto bene ad un afflusso così notevole di spettatori.

Il Parco Bassani calpestato, fisicamente e simbolicamente, ha subito un colpo durissimo: penso che ci vorrà un bel po’ di tempo per rimetterlo in sesto anche se, di farlo, non credo interessi molto all’amministrazione e a Barley Arts visto che già per il prossimo 2 luglio hanno organizzato un altro evento al Parco Bassani, con addirittura due palchi su cui si esibiranno diversi artisti molto conosciuti.

Anche io mi sono sentito un po’ calpestato, non solo fisicamente sui piedi, ed ora ho bisogno di uscire dall’immobilismo del fango dell’altra sera e di darmi una mossa.

Mentre scrivo ascolto:When the levee breaks (Quando l’argine si rompe), composta ed interpretata da Memphis Minnie nel 1929: parla degli sconvolgimenti dovuti all’alluvione del Mississippi nel 1927. Lo stesso brano è stato reso molto famoso dai Led Zeppelin nel 1971.

Nel testo dice che “quando l’argine si rompe, bisogna darsi una mossa” (When the levee breaks, mama, you got to move).

Nel mio piccolo, ho fatto una prima piccolissima mossa: una donazione alla Protezione civile dell’Emilia-Romagna  (trovate tutti i riferimenti in primissimo piano su Periscopio) per l’alluvione in Emilia Romagna dello stesso importo del biglietto pagato profumatamente per il concerto di Bruce Springsteen.

D’altronde ognuno vive le sue contraddizioni come può, le accoglie se e come vuole e le affronta per come è.

La scaletta del concerto: No Surrender, Ghosts, Prove It All Night, Letter to You, The Promised Land, Out in the Street, Candy’s Room, Kitty’s Back, Nightshift, Mary’s Place, The E Street Shuffle, Johnny 99, Last Man Standing, Backstreets, Because the Night, She’s the One, Wrecking Ball, The Rising, Badlands, Thunder Road.

Questi sono stati i brani eseguiti come bis: Born in the U.S.A., Born to Run, Bobby Jean, Glory Days, Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze-Out e I’ll See You in My Dreams.

Bruce Springsteen al Parco Urbano
Senso del limite, ipocrisia e “solidarietà” nella società dello spettacolo

 

Il senso del limite

Ripeto ciò che dissi appena la notizia fu confermata, oltre un anno fa: il concerto di Bruce Springsteen a Ferrara avrebbe dovuto essere organizzato in un luogo diverso dal Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani. Ho firmato l’appello, abbiamo intervistato i protagonisti della campagna “Save the Park”, come giornale siamo stati “al loro fianco”(leggi qui solo uno dei numerosi articoli dedicati al tema su Periscopio). Non era solo una questione di decibel: quel parco in passato ha ospitato spettacoli pirotecnici che salutavano l’inizio dell’estate con fragori, scoppi e botti che non avranno fatto bene alla fauna del luogo tanto quanto gli amplificatori del Boss. Non era nemmeno una questione di organizzazione, che sembra invece avere funzionato al meglio, in una situazione resa ancora più complicata dal clima alluvionale che ha accompagnato l’evento. Era ed è, credo, una questione di senso del limite. Esiste un luogo per ogni cosa. Un luogo, per il solo fatto di essere bello e suggestivo – ma spesso, proprio per questo, delicato – non può essere adatto per ogni cosa. Questo limite fu varcato in modo eclatante la prima volta nel 1989, con i Pink Floyd su una chiatta di 90 metri per 30, di fronte a Palazzo Ducale a Venezia. La città fragile per antonomasia, invasa da circa 200.000 persone intruppate in un posto non adatto per quell’assalto.

Per restare in Italia, il limite è stato poi programmaticamente varcato da Lorenzo Cherubini con il suo Jova Beach Party, che ha voluto radunare decine di migliaia di persone su spiagge e litorali destinati, per natura, ad un utilizzo antropico decisamente meno invasivo – e non voglio utilizzare termini come “distruzione di aree marine protette”, che lascio ad associazioni con maggiori competenze delle mie per poter parlare a nome del fratino, della tartaruga e del giglio di mare.

Per ultimo, in termini cronologici e di risonanza mediatica, è toccato infine a Ferrara varcare il limite, per diventare il centro di una polemica che, naturalmente, si è fatta subito politica oltre che “ambientale”. Del resto chi patrocina questi spettacoli, com’è naturale, intende trarne un grande vantaggio d’immagine, così come chi li osteggia intende sporcare l’immagine del patrocinatore, che spesso è un sindaco.

 

La contrapposizione tra fazioni

E’ apparso subito chiaro che questa contrapposizione tra fazioni non incontrava l’interesse degli appassionati accorsi da ogni dove (e quello si può comprendere), ma nemmeno lo spirito di molti ferraresi. Il motivo è semplice: la passione per il musicista del cuore superava nettamente ogni sovrastruttura “ideologica”. Il Boss arriva nella mia piccola città, ergo io compro il biglietto e lo vado a vedere, anche se il luogo del concerto è “politicamente scorretto”, anzitutto per la mia sensibilità civile. La passione o l’idolatria sono più forti del “dover essere” coerenti con le proprie idee, civili, “progressisti”. Vale anche il contrario: un sacco di gente ama Springsteen, il cantore degli ultimi, il narratore in musica della fallacia del sogno americano (che in realtà incarna alla perfezione), ma non ha mai votato né mai voterà per un partito di sinistra.

Un po’ di questa trasversalità è attribuibile all’autorevolezza dell’artista. Già la musica di per sè è un grande aggregatore, e quando un musicista oltrepassa una determinata stargate, diventa credibile non per le cose che dice ma per il fatto di essere se stesso. La sua credibilità – o la credibilità che riesce comunque a rappresentare al pubblico – gli fa acquisire una popolarità transpolitica, che sorvola tranquillamente le barriere ideologiche (e questa è una scommessa vinta dall’attuale amministrazione). Nel caso di The Boss, oltre alla produzione discografica, sono proprio i concerti che lo hanno consacrato, al punto da far diventare luogo comune la frase “il mondo si divide in due: chi ama Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo”.

Il resto della trasversalità lo fa la psicologia delle masse. Quando un artista tocca determinate corde, l’ emozione che suscita in noi si pone su un piano diverso e parallelo rispetto alle nostre idee. Le passioni e le emozioni prevalgono sulle convinzioni. Poi accade un fenomeno affascinante e sinistro:  quando l’artista diventa una star, l’identificazione collettiva acquista una potenza inquietante allorché ogni persona facente parte della collettività si sente chiamata in causa singolarmente, come se quella frase o quel giro armonico fossero dedicati proprio a lei, anzi parlassero di lei. Cosa volete che pesi un parco calpestato rispetto all’emozione di sentire il Boss che ti fa ritornare live a quel momento della tua vita in cui stavi male e quella canzone “ti ha salvato la vita”? Quella, proprio quella che sta cantando adesso davanti a te, anzi per te.

 

Ipocrisia e solidarietà

Mi tengo per ultimo il temibile effetto che la “società dello spettacolo”, della quale tutti vogliamo fare parte, sta producendo sulla nostra psiche. Intanto, per la precisione: se Ferrara fosse sott’acqua, il GP di Imola si sarebbe svolto regolarmente. Questo lo sanno tutti. Quindi lo scandalo per la conferma “immorale” dello spettacolo ferrarese appare, ai miei occhi, ammantato da uno spesso velo di ipocrisia.

Inoltre. Adesso vanno di moda queste manifestazioni collettive di solidarietà gratuita. Un attentato fa mattanza di una redazione di giornale, il giorno dopo “siamo tutti Charlie Hebdo”. Dopo la caduta delle Torri Gemelle siamo stati tutti newyorkesi, per un mese. Dopo il terremoto eravamo tutti di Amatrice. Adesso siamo tutti emiliano-romagnoli. Ognuno a casa sua, naturalmente, davanti al pc o allo smartphone – e ci mancherebbe anche che ci si muovesse in massa percorrendo strade allagate, franate o inghiottite dalla melma. Tuttavia quello che fa indignare è la mancata dichiarazione. Attenzione: non la mancata azione, ma la mancata dichiarazione di solidarietà, compresa l’omissione di Springsteen dal quale tutti si aspettavano una “parola di conforto”, una “manifestazione di vicinanza”. La solidarietà nella società dello spettacolo vale in funzione di due parametri di misura: la pubblicizzazione della stessa e la sua gratuità. Facendo una dichiarazione sul palco, Springsteen avrebbe catturato entrambi i piccioni con una fava: avrebbe confermato la sua fama di artista “vicino agli ultimi” e avrebbe potuto permettersi di non versare un euro. Personalmente gli riconoscerei la fama di cui gode se facesse una robusta donazione e non lo venisse a sapere nessuno.

 

Per certi versi /
La ballata di Toro Seduto

La ballata di Toro Seduto

Toro Seduto
In realtà eri bisonte seduto
Ma Toro fa più figo
Tanto eri lento
E acuto
A
Mettere le tue scelte
In frigo
Per sempre
Resta il little big horn
Ai bianchi facesti la  festa
La violenza non ti apparteneva
Fu necessaria
Per non dimenticare
Non estinguersi
Continuare
Ti hanno ucciso a tradimento
Poi il successo postumo
La leggenda
Senza tempo
Cinema
Letteratura
Persino il Lego
Con una scultura
Ma in fondo alla storia
Che dà fastidio
C’è il grumo
Della riserva
Sulla soglia
Del genocidio

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Avanti, avanti

Presto di mattina. Avanti, avanti

Il Diritto di avere diritti

Questa istanza, il diritto di avere diritti, costituisce l’appello insistito e pressante, di più, implacabile contro la mancanza o la negazione di un diritto che va oltre quei diritti umani e di cittadinanza circoscritti entro i territori degli stati e delle nazioni.

Si continua a discriminare e a respingere ai confini e nelle zone di transito le persone in movimento: le periferie diventano così bolle di umanità in sospensione o come acque mortificate, relegate in una pozzanghera, una «schiuma della terra» che si accresce e fluttua attorno ai confini trasformati in arginature di uomini.

L’imporsi degli stati nazionali attraverso il radicamento sulla terra e l’uniformità della popolazione crea barriere di esclusione, dove i diritti particolari propri ad ogni nazione e ai singoli prendono il sopravvento sui diritti umani, di tutti.

La suddivisione dell’umanità in famiglie di nazioni lascia scoperti, senza diritti, coloro che, valicando frontiere ed essendo in transito, non dispongono più di cittadinanza e dunque di protezione. Uomini senza nazione, senza stato, apolidi senza polis, restano privi di ogni tutela in balia delle ideologie nazionaliste che li considera intrusi, sgraditi, «superflui».

«Il diritto di avere diritti»: è questo in sintesi l’appello di Hannah Arendt espresso in un testo scritto di getto nel 1943 due anni prima del suo arrivo a New York. Testimonianza del suo migrare, come apolide, di nazione in nazione, a partire da quando era internata in Francia nel campo di Gurs nei Pirenei come “straniera nemica”.

Raggiunta l’America quello scritto, We Refugees diviene un libretto, come un manifesto politico duro, ironico e amaro sulla condizione degli stranieri anche in una nazione “amica”. Ora ritorna per noi in una nuova edizione: Noi rifugiati, a cura di Donatella Di Cesare, Einaudi Torino, 2022.

Una memoria capace di rinnovare temi fondamentali, come il concetto di umanità e responsabilità umana. Una memoria che ferisce e mortifica ma, al tempo stesso, illumina e dischiude la coscienza che continua a interrogarsi.

Di dirompente attualità, il libro suona come un reiterato invito, a ripartire dalla esperienza della Arendt durante la fuga dalla Germania, per riflettere anche oggi sui diritti umani dei rifugiati, sulle migrazioni di interi popoli:

«Sembra che nessuno voglia sapere che la storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani – quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici» (ivi, 6).

Manca un diritto che oltrepassi le frontiere nazionali, che alzi la voce su tutte le altre voci e non si fermi ai diritti riconosciuti solo dall’interno degli stati. «Manca un diritto cosmopolitico che assicuri i diritti umani» (Donatella Di Cesare, ivi, 83), soprattutto oggi che i nazionalismi e le ideologie totalitarie sembrano prendere il sopravvento sullo stato costituzionale, rendendolo impotente di fronte al superiore senso di umanità.

Scrive la Arendt in un altro testo Le origini del totalitarismo: «Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo» (ivi, 410-411).

E inizia questo scritto dicendo: «Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”. Fra noi ci chiamiamo piuttosto “nuovi arrivati” oppure “immigrati”».

Si è oggi di fronte ad un nuovo popolo mondiale, popolo di popoli: «contro questo popolo si erge lo Stato, l’ultimo baluardo del vecchio assetto politico, dell’obsoleto nomos della terra. Scaturisce da qui il conflitto acuto tra la sovranità statuale e il diritto di migrare, tra una cittadinanza ristretta ai confini e una nuova cittadinanza in cui sia inscritta l’ospitalità…

Già alla sua radice etimologica il verbo “migrare”, che non è un sinonimo di muoversi, indica il cambio, o meglio, lo scambio complesso di luogo, e rinvia al paesaggio in cui si incontra l’altro, un incontro che, per via del luogo, potrebbe sempre precipitare in uno scontro. Migrare è un atto esistenziale e politico.» (Donatella di Cesare, ivi 34-35).

Fare spazio a coloro che non possono più tornare indietro e non trovano una nuova casa diventa così e primariamente una questione di ospitalità, come accogliere e fare posto, dare diritto a persone che altrimenti resterebbero confinati ai bordi, nelle zone di transito e in campi di internamento senza via di uscita, prigionieri di un diritto nazionale che prevale sul diritto di vita e di umanità.

«In mancanza di un “diritto ad avere diritti”, coloro che più dovrebbero essere protetti, ricevuto lo stigma della superfluità, (I “superflui” li chiama la Arendt) vengono consegnati alle polizie di tutto il mondo per essere respinti, deportati, internati. La loro condizione è peggiore persino di quella in cui si trova chi abbia commesso un reato. Perché a quest’ultimo, che gode di uno statuto giuridico, nessuno può negare un processo. Al contrario, lo straniero può venire arbitrariamente arrestato e recluso, può essere confinato in un campo di internamento» (Donatella Di Cesare, ivi, 47).

La schiuma della terra

«Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, la schiuma della terra. A niente di quanto avvenne dopo la prima guerra mondiale si poté porre rimedio; e, per quanto prevista, nessuna sciagura, neppure lo scoppio di un secondo conflitto mondiale, poté essere impedita» (Hannah Harendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, 362).

Anche i giornali francesi chiamavano quei profughi, uomini e donne venuti da tutte le parti di Europa e ammassati nei campi di internamento costruiti nel sud dei Pirenei, “la schiuma della terra”.

Hannah Arendt passò cinque settimane a Gurs il più grande di questi campi e riuscì poi ad evadere durante l’avanzata tedesca con determinazione coraggiosa, spericolata, evitando così la deportazione nei campi di concentramento e di sterminio.

Dopo essere stato un campo per esuli spagnoli, Gurs divenne dal 1940 un campo femminile, una vasta distesa di terra divisa in tredici settori chiusi da filo spinato che poteva ospitare fino a 20 mila persone; un campo composto da più di trecento baracche che potevano contenere circa 60-70 individui in uno spazio ristrettissimo.

Scrive la Arendt che: «quando alcune di noi osservarono che eravamo state deportate lì “pour crever”, per crepare in ogni caso, l’umore generale si mutò di colpo in un feroce coraggio di vivere» (Noi Rifugiati, 13).

Schiuma della terra Arthur KoestlerLa schiuma della terra è pure il titolo di un libro autobiografico di Arthur Koestler in cui narra le vicende degli esuli, in fuga dai totalitarismi. “Straniero indesiderabile”, ebreo e antifascista, fu rinchiuso nel campo di internamento di Vernet sempre nei Pirenei, da cui evase con l’aiuto inglese per recarsi come clandestino in Francia, ove si arruolò nella Legione straniera e riuscì alla fine a raggiungere l’Inghilterra.

Così Koestler descrive coloro che non si rendevano conto del dramma disumano che stava per travolgere tutta l’Europa dopo il 1940: erano come «passeri che cinguettano sui fili telegrafici mentre il filo trasmette telegrammi con l’ordine di uccidere tutti i passeri» (il Mulino, Bologna 1989, 161).

Hannah Arendt pioniera di “un diritto ad avere diritti” prende posizione sul quel diritto che è fermato e respinto alle frontiere e così conclude il suo manifesto: «I rifugiati, scacciati di terra in terra, rappresentano l’avanguardia dei loro popoli – purché mantengano la propria identità. Per la prima volta la storia ebraica non è separata da quella di tutte le altre nazioni; al contrario, è strettamente connessa. Il consesso dei popoli europei è andato in frantumi quando si è consentito che i membri più deboli venissero esclusi e perseguitati» (Noi Rifugiati, 30).

Un mondo di pietra

Il mondo di pietra è una raccolta di venti brevi racconti di Tadeusz Borowski ora confluiti in una nuova raccolta: Da noi, ad Auschwitz, Mondadori, Milano 2023, a cura di Luca Bernardini che di lui scrive: «è difficile scrivere di Tadeusz Borowski, perché la sua opera è disuguale, frammentaria, incompiuta e insieme tragica, grandissima e dolorosa. Un’opera che riflette alla perfezione il suo autore, un uomo contrassegnato dalla tragedia, pieno di contraddizioni, scrittore di purissima razza, di cui rimangono un pugno di racconti e un gran numero di aspirazioni infrante, di desideri delusi» (ivi, VII)

Il mondo è di pietra, incapace nel profondo di umanità; ci si può illudere in tempo di pace del contrario ma questa è solo una patina che squarciandosi rivela la sua essenza di disumanità; come se quella disumanità radicale, quell’eccesso indicibile di male ad Auschwitz continuasse ad esondare nel mondo anche dopo la fine di quel campo di concentramento:

«La prospettiva di Borowski è esclusivamente immanente, talmente interna al lager che nei suoi racconti non appare un solo commento, una sola riflessione autoriale. E nella immanenza del lager Borowski scopre che l’uomo può assuefarsi a tutto, anche al male. Anche al male più inimmaginabile… Quella del lager non è un’esperienza contingente e circoscritta, ma proietta la sua ombra all’indietro e in avanti.» (ivi, VII e XXI)

Tenebra: come pioggia putrefatta

Come il volto di un cadavere livida si fece la tenebra
fendette gli occhi con pioggia putrefatta
fetente come un morbo era la notte
trascinata fin qui d’oltre oceano.

Io nella notte enfia di pioggia
nel buio denso e nero di pece
per il campo e gli zuppi sentieri
erravo come un cane, senza requie.
Dal Block di grida strozzato
mi avvicinai al filo spinato,
ove frugava nella terra silente
il compagno del compagno morente.
Io in quella notte gonfia di pioggia
campo e mondo daccapo ho rifatto.
Io nella notte la patria cercavo
e dei compagni infine ho trovato.
(Notte d’oltre oceano, ivi, 281-282)

Accusato dagli intellettuali cattolici polacchi di cinismo e nichilismo e dall’intelligencija comunista, di pessimismo borghese, ritenuto autore di testi privi di coscienza di classe, gli fu chiesto di abiurare ai suoi racconti del campo di concentramento perché distopici, mancanti di utopia.

E tuttavia sopravvivono nei suoi racconti elementi umanistici, in cui egli cerca di mettere in salvo qualcosa in quel mondo di pietra: l’arte, l’amicizia, sì l’amicizia, l’amore, l’istruzione anche attraverso un esercizio poetico che egli trasmette con la sua prosa narrante. In lui, sopravvissuto ad Auschwitz, sopravvive una poesia spoglia di poesia.

In una pagina terribile racconta dell’amico Andrzej Trzebinski a Varsavia. «Tra le macerie di via Nowy Swiat a Varsavia, chiusa a sud dalle rovine della chiesa di Sant’Alessandro e a nord dai resti della chiesa di Santa Croce e dal monumento a Copernico, ricostruito con i frammenti e con il globo infranto dai proiettili nella mano sforacchiata, quel tragico pezzo di muro scolorito non si distingueva più alcunché di particolare.

Sotto la lapide nera, sulle pietre del marciapiede, giacciono fiori appassiti, foglie secche che frusciano sotto i piedi dei passanti e i nastri sporchi e sgualciti delle corone. Le persone passano oltre, senza farci troppo caso. Qualcuno meccanicamente si porta la mano al cappello o al berretto. Qualche pia donna abbozza un segno della croce e mormora parole indistinte…

Ogni volta che passo accanto a questo tragico muro e sento il fruscio delle foglie e dei nastri smossi dai piedi dei passanti, penso ad Andrzej. È morto qui, durante un’esecuzione sommaria. È una delle centinaia di migliaia di persone fucilate ai muri delle case, sul marciapiede di una normale strada cittadina. Della sua morte venni a sapere da un nostro comune amico, redattore della rivista letteraria clandestina Droga

[Mi disse] “Andrzej lo hanno fucilato qui. Togliti il cappello. Lo sai che quando ti hanno arrestato, Andrzej cercò di ottenere dalla Delegazione del governo in esilio una dotazione per i pacchi? È stato uno dei primi a prendersi cura di te.» Purtroppo non si era preso cura di se stesso. Chi lo aveva visto anche una sola volta, se lo ricordava per tutta la vita. Se ne andava in giro con gli zoccoli, alto, non rasato, un lampo ironico negli occhi”…

“Sai, quei ragazzi – continuò il redattore quando superammo la chiesa di Santa Croce, dal cui portico il Cristo con la croce sulla spalla indicava la strada ai passanti – quei ragazzi maturavano in modo strano, prima della morte. Prendi Andrzej! Aveva rinnegato ogni angusta tendenza nazionalista. Sentiva in sé una vocazione d’artista. Ed era pur sempre il fondatore di un movimento culturale, di una formazione di artisti apartitici … strano ragazzo, strano davvero!

Fu portato al Pawiak. Era di buonumore. ‘Chi lo sa, magari adesso in questa cella avrò un po’ di tempo e riuscirò finalmente a scrivere la mia tesi di laurea?’. Non la scrisse. I condannati alla fucilazione levavano grida antitedesche, invocavano a gran voce la libertà. Nel cortile del Pawiak, per risparmiare, vennero privati degli indumenti e sui corpi nudi fecero indossare loro delle camicie di carta. E iniettarono loro qualcosa affinché non si dibattessero una volta legati.

Si trattava di un’esecuzione pubblica, non sarebbe stato un bello spettacolo. La sua bocca, la sua bocca di poeta, fu riempita di gesso e lo assassinarono in pieno giorno, sull’arteria principale della capitale, sotto lo sguardo dei passanti accalcati nei portoni. Ogni volta che passo accanto a quel muro rossastro e sgretolato ho l’impressione di essere colpevole: colpevole io e colpevoli tutti noi che siamo in vita» (Ritratto di un amico, ivi, 23).

Annota ancora Bernardini: «E a rendere il mondo migliore, per Borowski, c’è sicuramente l’amicizia, quella vera, che supera le barriere dottrinali, le incomprensioni filosofiche, le incertezze esistenziali… Ma così come l’amore, anche l’amicizia (e la rivalità politico-intellettuale), dopo Auschwitz, è menomata, corrosa, piagata dall’ecatombe:

[ …] “ne vedo i volti, oltre la soglia dell’altro mondo, e penso a loro, ai ragazzi della mia generazione, e avverto sempre più grande il vuoto intorno a noi. Se ne sono andati così indicibilmente vivi, dal nucleo stesso dell’opera che stavano creando. Se ne sono andati pur appartenendo così tanto, ancora, a questo mondo. Li saluto, amici su un’altra barricata. Che all’altro mondo possano trovare la verità e l’amore che qui non hanno incontrato!”», (XXIX; 109-110).

Su di noi la notte. Ardono le stelle,
cadaverico viola soffoca il cielo.
Di noi resteranno rottami di ferro
e sordo il riso beffardo delle generazioni
(ivi, 25).

Avanti, avanti

E tuttavia, mi sembra di sentire in quest’altre insistite parole, poesia spogliata di poesia, una breccia oltre la notte disumana alla follia, un invito a continuare, cercando un varco nel filo spinato respingente, nel muro rossastro in oblio una breccia, un approdo ancora non visto, ancora lontano in un mare pietrificato.

Lo sento pure un invito anche per me a fare quotidiane come il pane quelle parole, “Avanti, avanti”, pronunciate trepidando ogni volta che qualcuno busserà alla porta: “Avanti, avanti” e forse entrerà una di queste volte, sì entrerà quella “schiuma della terra”, ospite segreto che ad occhi fatti più umani di fronte al soffrire d’altri, sentito come nostro, apparirà come la stessa “avanguardia dei popoli”.

I poeti morti

Morti, bruciati, fucilati,
per voi scrivo, amici di gioventù.
Su di voi ora la corrente della terra si spinge avanti
e fruscia del fruscio delle piante.

Presi nei rizomi della felce,
nelle radici delle betulle, nei rovi di lampone
scivoliamo silenti, dove e perché?
Avanti, avanti ——
(ivi, 503-504).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

La Nuova e Vecchia Unità. Un po’ e un po’.

 

Un giornale sicuramente diverso dagli altri.
Come definire sennò un quotidiano che non riporta per tre numeri il disastro causato dall’alluvione in Emilia-Romagna, salvo poi ospitare nel quarto (oggi,19 maggio, ndr) un veemente fondo del direttore contro chi specula politicamente sulle sciagure?

Il richiamo in prima pagina all’intervista a Mélenchon, l’Unità n.2, 17 maggio 2023

E che nei suoi primi quattro numeri dedica ampio spazio a quattro personaggi della sinistra – Massimo d’Alema, Jean-Luc Mélenchon (leader di La France Insoumise), Achille Occhetto e Mario Tronti – per dirci (o insegnarci?) quali sono le strade per far rivincere la sinistra?

Che difende  senza mezzi termini papa Francesco e la sua iniziativa di pace per far cessare il conflitto tra Russia e Ucraina?

Che esordisce nel primo numero con una poesia di Pier Paolo Pasolini in prima pagina che parla di bandiera rossa come vessillo del povero?

Che in ultima mette una foto famosa di Enrico Berlinguer con l’invito ad abbonarsi?

Questa è la nuova Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci quasi 100 anni fa, tornato in edicola per la terza volta il 16 maggio scorso dopo un valzer di date che ne annunciavano l’uscita. Diretta da Piero Sansonetti (71 anni, ex direttore del Riformista, ex vice direttore e condirettore della “vecchia” Unità, direttore di Liberazione e de Il Dubbio, opinionista politico e molto altro), 12 pagine, grafica un po’ retrò, 100 mila copie dichiarate.

Il primo numero de l’Unità tornata in edicola,16 maggio 2023

Il giornale, la cui testata è stata comprata all’asta fallimentare dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo per 910 mila euro, sarà, come ha scritto Sansonetti nell’editoriale del primo numero, “socialista, garantista e cristiano. Che cercherà di tenere insieme Gramsci, Rosa Parks (la donna di colore di Montgomery, Alabama, che nel 1955 rifiutò di cedere il suo posto in autobus ad un passeggero bianco, divenuta un simbolo nella lotta per i diritti dei neri, ndr), Roncalli Mandela e Pannella”.

“Vaste programme”, direbbe De Gaulle. Noi non lo diciamo: tutte le voci e i tentativi di fare informazione sono leciti e hanno diritto di cittadinanza.
Ma c’è da chiedersi se il Pantheon evocato da Sansonetti regga alla sfida di questi tempi: cioè quella di far parlare una sinistra nuova rivolgendosi a molti, moltissimi, attraverso la carta stampata, che è una frazione (purtroppo ad importanza calante) dell’universo odierno dei media. Un tentativo si percepisce: quello di trattare le “grandi questioni” politiche da un punto di vista “alternativo”.

“Saremo dalla parte dei più deboli – ha affermato Sansonetti – per fare un giornale “sintesi del grande spirito del passato dell’Unità – la cultura, la saggezza, la responsabilità, il conflitto – e la ricerca della modernità. Nella certezza che la modernità sia uguaglianza. E libertà. E disarticolazione del potere”.

Cosa significhino queste affermazioni lo scopriremo solo vivendo, e leggendo il giornale.

Intanto, per guardare ai fatti, nessun giornalista o poligrafico della vecchia testata licenziato dopo l’ultimo fallimento è stato riassunto. E prossimamente andrà all’asta l’archivio storico del giornale, un patrimonio di grande valore. Vedremo in che mani finirà.

In copertina: L’Unità (nuova) numero 2,  17 maggio 20233, particolare

 

Storie in pellicola /
Air, il grande salto

Nike e Air Jordan, la straordinaria ascesa di un marchio che credeva di non farcela. Un contratto che cambierà per sempre il mondo dello sport e le sue regole di marketing.

Correva il 1984, Reagan alla Casa Bianca, le Adidas, le Converse, il primo Macintosh e la Nike. Molti di noi, vedendo le immagini di Air – La storia del grande salto, per la regia di Ben Affleck (qui anche attore), ricordano i tempi del liceo e quando la marca Nike, a chi frequentava il classico, portava senza dubbio alla “vittoria”. Ma poi come si pronunciava?

Qualcuno indossava timidamente le scarpe con la riga azzurra, con quel moderno logo Swoosh (la mia cara compagna di banco le aveva, una delle prime, ci giocava a tennis e quanto gliele invidiavo…), altri preferivano le Adidas o le Converse (o le italiche Superga, molto più nazional popolari). Si giocava sui colori, ma le si collegava ai grandi campioni.

Swoosh, onomatopea che in lingua inglese indica la velocità e il fruscio del vento. Un logo che, nella mente della sua creatrice Carolyn Davidson, rappresentava una stilizzazione delle ali della dea unita all’idea di velocità e di movimento. Eravamo pochi a saperlo.

Con esso, gli esordi di un giovanissimo Michael Jordan, per chi seguiva il basket, guardia della squadra collegiale di North Carolina che nel 1982 vinceva il titolo NCAA da protagonista (scelto poi nel draft NBA del 1984 dai Chicago Bulls con la scelta numero 3).

Un talento emergente conteso. Con quali scarpe avrebbe esordito agli NBA?

L’assalto al talento, conteso da Adidas e Converse e che di Nike non ne vuole sapere, viene sferrato da Sonny Vaccaro (Matt Damon), dirigente della divisione basket all’inizio degli anni Ottanta della Nike allora guidata dal visionario co-fondatore e amministratore delegato Phil Knight (Ben Affleck). Runner al college e nell’anima.

Vaccaro, grandissimo esperto di basket giovanile, ha l’intuizione di puntare tutto il budget a sua disposizione su un solo atleta, astro nascente: Michael Jordan, MJ.

Perché diventi la punta di diamante dell’azienda. Vaccaro, per spuntarla sulla concorrenza, cerca di convincere la famiglia Jordan ad accettare il contratto, facendo leva soprattutto sulla madre dell’atleta, Deloris (Viola Davis), la vera guida dietro il successo del figlio, la capofamiglia che ha fiuto per gli affari e grande intuizione. Lungimirante.

Il film-biopic racconta, con dialoghi brillanti e colpi di scena (e qualche parolaccia di troppo), la funambolica e avvincente opera di convincimento nei confronti di MJ e la creazione del famoso marchio Air Jordan, la scarpa che vola, fatta su di lui e per lui, una scarpa che si adatta al campione.

Una partnership leggendaria che rivoluzionerà per sempre il mondo dello sport professionistico e delle sue regole di marketing.

La leggenda di MJ parte proprio da quel contratto, che lo ha reso uno degli sportivi più iconici e ricchi di tutti i tempi, con un patrimonio personale di 2 miliardi di dollari.

 

Una storia di successo figlia del grande sogno americano.

Air – La Storia del Grande Salto, di Ben Affleck, con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, USA, 2023, 112 mn.

 

Aperta a Milano la mostra “Amazonia”, la più grande mai allestita in Italia.
L’abbiamo visitata senza pubblico, in compagnia di Sebastião e Lélia Salgado.

“L’ Amazzonia la si deve sentire dentro” queste le parole di Lélia e Sebastiao Salgado alla conferenza stampa per l’inaugurazione della mostra Amazonia che si tiene alla Fabbrica del Vapore a Milano dal 12 maggio al 19 novembre 2023 presso la Fabbrica del Vapore. Si tratta della esposizione di 200 opere del grande fotografo brasiliano, la più ampia mai allestita in Italia. 

Avevamo incontrato e dialogato con  Sebastião Salgado e Lélia Wanik Salgado ai primi di marzo nella conferenza stampa di presentazione della mostra [vedi il mio articolo su Periscopio], ora abbiamo avuto il privilegio di visitare  “Amazonia” appena prima dell’apertura, senza pubblico, insieme a Leila e Sebastião, per un un ultimo controllo dell’allestimento.

L’incipit della mostra  “Amazonia” – ph. Anna Pitscheider

Varcando la soglia della mostra si ha la sensazione di entrare nel ventre primigenio del nostro pianeta,  e si capisce come quel “sentire dentro”  fa riferimento a tutti i nostri sensi, non solo quelli visivi, ma quelli uditivi, olfattivi, tattili, gustativi; quei sensi biologici che si formano nell’utero e che legano il corpo umano alla sua dimensione spirituale e alla dimensione spirituale del nostro pianeta.
Si, perché c’è un dialogo continuo tra le nostre cellule  e l’ambiente circostante che informa il cervello e il cuore, esattamente come la cellula uomo/donna dialoga costantemente con la natura che lo circonda e con l’universo. Siamo interconnessi e lo sappiamo. Ma perché tutto ciò diventi consapevolezza c’è bisogno del Tempo, il tempo dell’attesa, che noi occidentali spesso consideriamo un tempo inutile, inefficiente, sprecato. Uno dei meriti di questa mostra è anche rimettere al centro questa dimensione del tempo.   

Lélia Wanik, curatrice de0la mostra e del catalogo, durante la nostra visita – ph. Anna Pitscheider

Le 200 foto che Lélia ha accuratamente scelto per la mostra sono il frutto di un lavoro sul campo lungo (7 anni) e appassionato del fotografo ed esploratore Salgado. E in questi 7 anni, 58 lunghi viaggi che lui stesso definisce come “una traversata transatlantica”, per il senso di vastità e dell’ignoto che si deve abbracciare. 

“Bisogna saperci stare in questa dimensione del tempo, si apprende solo con l’esperienza e la determinazione a portare a termine una missione. Le donne la conoscono bene! “, Sebastião Salgado lo racconta grazie ad una domanda acuta della mia compagna di visita, la fotografa Anna Pitscheider, sulle difficoltà tecniche a lavorare in Amazzonia.

Per fotografare ha sorvolato la foresta con l’elicottero dell’esercito brasiliano, da lì ha potuto documentare non solo la vastità ma anche la varietà del paesaggio amazzonico che si snoda anche sul massiccio più alto del Brasile. “Erroneamente  pensiamo spesso alla foresta amazzonica come piatta su cui si snodano grandi e lunghissimi fiumi” ha puntualizzato lo stesso Salgado, che rivendica nuove scoperte scientifiche,  grazie al suo lavoro.

Una volta è salito su una barca e per 38 giorni non ha mai messo piede sulla terra ferma. “Quando si fa un lavoro del genere – piega Salgado – che richiede anni di vita, ci vuole un concetto creativo, non si può semplicemente andare in Amazzonia così per andarci, e dunque abbiamo fatto una scelta precisa: non troverete  foto  degli incendi, delle fattorie, di quello che di brutto succede in Amazonia. Abbiamo voluto proprio che ci fosse la purezza di quella che l’Amazzonia è sempre stata, perché li vive il concetto culturale più importante del mondo: 200 tribù che parlano 186 lingue  diverse che convivono in modo che non esiterei a definire assai raffinato!”  

Quando poi andava nelle comunità indigene, vi si recava sapendo quando partiva ma non quando sarebbe ritornato. Portava con se un grande studio fotografico portatile, 6 metri di larghezza e 9 di lunghezza , srotolabile a seconda delle condizioni meteo.

La sfida fotografica del ritratto o dei ritratti di gruppo è quella di sapere dare al soggetto l’ importanza che merita, è la costruzione di una sincera relazione tra chi fotografa e chi si fa riprendere e le relazioni hanno bisogno di cura e di conoscenza reciproca. “Quando si ha a che fare con una comunità indigena bisogna aspettare che siano loro  a volere venire a farsi fotografare e quindi c’erano giorni in cui non veniva nessuno e giorni in cui arrivavano a decine” racconta Salgado.

Lo sfondo scuro su cui si stagliano volti decorati e interi gruppi di indigeni  (fino a 30 40 persone) è stata una scelta precisa. Gli indigeni sono fieramente decorati e magnificamente tatuati  in tutto il corpo, un decorazione che parla della loro anima, che collega anima a corpo e natura e all’universo, e “se ritratti nel mezzo della foresta sono talmente ben camuffati da rendere molto difficile dissociarli dall’ambiente circostante, e invece se fotografati con uno sfondo neutro si mostra tutta la loro potenza, tutta l’importanza della loro cultura che ovviamente si portano dietro nel loro corpo”  continua Salgado.  

foto da non usare
Gruppo di indigeni – © Sebastião SALGADO

C’è bisogno dunque dell’attesa rispettosa. Un tempo che noi donne conosciamo bene, i 9 mesi di gravidanza. Quello stesso tempo che ci richiede “la natura quando fa il suo corso e trasporta l’immensa produzione di umidità della foresta amazzonica  (ulteriore scoperta scientifica fatta durante questo lavoro fotografico) fin qui da voi in Italia”, continua Salgado. Infatti la foresta amazzonica è l’unico luogo al mondo in cui il sistema di umidità dell’aria non dipende dall’evaporazione degli oceani. Ogni albero disperde centinaia di litri d’acqua al giorno, creando fiumi aerei anche più grandi del Rio delle Amazzoni.

Noi visitatori abbiamo dunque il privilegio di assaporare il tempo lungo della scoperta, condensato nell’essenziale grazie alla sapiente curatela di Lélia, compagna di  vita di Sebastião, che tesse la narrazione in una regia magistrale. Le foto in grandi dimensioni occupano lo spazio della Cattedrale di Fabbrica del Vapore, fluttuando sospese in modo da creare uno spazio immersivo, i suoni dei compositori brasiliani con le tre installazioni a forma di “ocas” (la case comuni indigene),  nelle quali si ascoltano le voci dei capi indigeni.

La grande sala di Fabbrica del Vapore, chiamata Cattedrale, dove è allestita la mostra “amazonia” –ph Anna Pitscheider

Un sapere ancestrale emerge con forza:  i suoni delle gocce della pioggia ci accarezzano la pelle, il fruscio delle foglie ci ricordano i primi passi sulla terra nuda, il canto degli uccelli –  tutte arrangiate da Jean Michel Jarre – la beatitudine della musica e  le composizioni di Heitor Villa-Lobos e Rodolfo Stroeter, i suoni primordiali dell’utero, e poi la vastità degli spazi dei cieli e delle acque, e l’altezza smisurata degli alberi ci lasciano attoniti per la loro prorompente bellezza.
Ma l’Amazzonia “si deve sentire dentro” e a Milano , per la prima volta, ci sarà anche una sezione Touch per gli ipovedenti e i non vedenti e il primo  libro fotografico Touch a ricordarci che non basta vedere con gli occhi: l’invisibile si mostra in tanti modi, basta darsi  il tempo, il tempo dell’attesa.

È un paradigma che sposta radicalmente la prospettiva occidentale da un esasperato  antropocentrismo alla relazione sacra tra esseri umani /natura /universo, tra  sacro e scienza, e di cui i popoli indigeni sono gli ultimi testimoni.
Conclude
Sebastião Salgado: “Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra 50 anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto. L’Amazzonia deve continuare a vivere e, avere sempre nel suo cuore, i suoi abitanti indigeni.”

AVVERTENZA
Le 2 foto di Sebastião Salgado, di cui una in copertina, sono state concesse in esclusiva a Periscopio per questo articolo, non possono essere riprodotte e stampate altrove della mostra. Anche gli altri scatti che illustrano questo testo, realizzate dalla fotografa della fotografa professionista Anna Pitscheider, sono sotto copyright.

UN AIUTO PER L’EMILIA ROMAGNA

L’aiuto e l’autoaiuto sono cose belle tra le tante cose brutte che ci stanno intorno. A Periscopio non abbiamo nulla nemmeno contro la Beneficenza: il nome è un po’ vecchiotto ma l’etimo ci tranquillizza. Abbiamo solo una sana diffidenza, che condividiamo con tanti; che poi è una semplice domanda: dove vanno a finire i soldi? Chi li usa? Come li spende?
Così, anche quando il Covid 19 faceva strage a occhi chiusi, quando a Bergamo e altrove, nelle case, negli ospedali, nelle residenze per anziani si moriva come mosche, non abbiamo aderito all’appello  del Ministero dell’Interno, e non abbiamo pubblicato Numero Verde e IBAN per versare un obolo a un corpo centrale dello Stato. Crediamo riusciate a capire il perché.
Questa volta è diverso. Conosciamo bene la Protezione Civile dell’Emilia Romagna, nelle sue file ci sono decine di amici/che, volontari/rie impegnati in queste ore a prestare soccorso,  conosciamo le loro facce, il loro impegno, la prontezza e l’efficienza con cui intervengono in Italia e in Europa,  ovunque ci sia bisogno di aiuto. Di loro ci fidiamo e pubblichiamo il loro appello e il loro conto corrente.
Un terzo della nostra Regione è ancora sott’acqua. In decine di migliaia hanno dovuto lasciare le loro case e tutte le loro cose, alcuni hanno perso la vita.
Diamo un piccolo aiuto a chi sta aiutando.

(Francesco Monini)

🔴 In queste ore così drammatiche in tanti ci avete scritto per poter dare una mano, anche per fare donazioni.

Per questo abbiamo deciso di aprire una raccolta fondi a favore delle persone e delle comunità colpite dalla drammatica alluvione. E come sempre abbiamo fatto, resoconteremo tutto fino all’ultimo euro: quanto raccolto e il suo utilizzo.

Iban:        👉🏻 IT69G0200802435000104428964
intestato a: Agenzia per la sicurezza territoriale e la protezione civile dell’Emilia Romagna

Grazie a chiunque deciderà di donare, condividiamo il più possibile.

 

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE
Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE. Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

Ieri, 16 maggio, un’altra giornata di passione. Piove piove piove, In tutta la Romagna è emergenza rossa. Faenza, Forlì, Ravenna sott’acqua, spiagge mangiate dal mare, fiumi esondati, gente sui tetti, 2 morti . Pochi giorni fa, la stessa scena, ed altri 2 morti in Emilia, 100 chilometri più a Ovest. Sempre Ieri,  a leggere il Resto del Carlino, in mezzo c’è un’isola felice, una terra mezza Emilia e mezza Romagna, una città chiamata Ferrara.
Naturalmente non è vero, anche qui piove con brevi interruzioni da più di una settimana, la città è nel caos ma il “grande cantiere” al Parco Urbano Bassani non si ferma. Ci lavorano giorno e notte più di mille persone: italiani e americani , a pestare l’erba verde diventata fango, a montare un palco mastodontico e pali, torri di 30 metri per dare luce, strutture al coperto per distribuire magliette, birra e panini. Passando dalla via che separa le Mura rinascimentali dall’oasi verde del parco, si vede un viavai di camion e mezzi pesanti. In mezzo, altissima troneggia una gru.

A Ferrara, l’alluvione (morti compresi) diventa un semplice maltempo. Ecco l’incipit dell’articolo osannante del Carlino. Un reperto che vi invito a stampare e conservare, un caso esemplare di giornalismo  non solo codino (quel che fa un sindaco di destra è sempre buono e giusto), ma cieco, cinico, vergognoso.

Eccolo:
” Sembra di vedere un’orchestra nel pieno dell’esecuzione di un’ouverture. Ognuno ha la sua partitura. Tutto procede armonicamente, nulla si sovrappone. Nulla è di più, nulla è di meno. L’allestimento del parco Urbano per il concerto di giovedì si presenta più o meno così.  La macchina organizzativa procede a ritmi serrati, nonostante il maltempo. Il palco sta via via prendendo forma. Un lungo braccio di una gru giganteggia sull’area. Il lavoro per la realizzazione dello show di Bruce Springsteen ha una portata mastodontica. Il maltempo? Poco male. Le pompe sono in azione e l’area in cui si terrà il concerto, ieri mattina, si presentava percorribile. Certo, il maltempo previsto nella giornata di oggi potrebbe essere di impiccio, ma i messaggi che arrivano anche dalle maestranze sono rassicuranti.
Ieri mattina ai primi raggi di sole si percepiva entusiasmo. Molti dei lavoratori hanno lavorato fino a tarda sera, l’altro giorno, per garantire lo svolgimento del tutto. “Ma la soddisfazione di vedere tutto procedere in questo modo è tantissima”, ci dice uno di loro.”

E via di questo passo e con questo tono.

Oggi, 17 maggio, c’è un cielo nero. Ha piovuto per tutta la notte, ora la pioggia si è fermata, ma si sentono i tuoni, è solo una pausa: le previsioni danno piogge intense fino alla fine del mese.

Il Resto del Carlino pubblica una complicata mappa (la chiama proprio così, “mappa”) a beneficio  dei cittadini ferraresi, che devono districarsi  in una città piena zeppa di cartelli di divieto e di transenne, zone off limits, linee di autobus soppresse, scuole semichiuse, mega parcheggi improvvisati, strade chiuse al traffico…

La Nuova Ferrara, l’altro giornale locale – nato come contro altare del Carlino e ora fotocopia dello stesso – partecipa alla grande attesa e informa i lettori che, pioggia o non pioggia, il concerto si farà.  Tranquilli: Bruce Springsteen è già atterrato in Italia (dove dorme? nessuno lo sa), ma arriverà puntuale e proprio a Ferrara inaugurerà il tour europeo.

Da anni i presidenti di regione sono stati promossi a governatori, proprio come i governatori dei 51 Stati della grande America. Governatore anche perché, eletto direttamente, ha molti poteri. Può fare tante cose.  Stefano Bonaccini, ad esempio, ha chiesto a gran voce al Governo lo stato di calamità nazionale per la “sua” Emilia Romagna.

Ma il governatore Bonaccini poteva e doveva fare altro. Prima di tutto, e ha avuto un anno di tempo per farlo, convincere (con le buone o con le cattive) un sindaco cocciuto e in cerca di gloria (il leghista Alan Fabbri, Primo cittadino di Ferrara) a desistere dalla sua idea folle. E a spostare un maxi evento super impattante, da un parco stupendo, ma con un fragile equilibrio ambientale, ad un’altra zona più periferica e meno problematica. Insomma: fare il concerto, ma farlo da un’altra parte. Spostare la location, come gli chiedevano decine di associazioni ambientaliste e culturali nella petizione online Salviamo il parco ‘Giorgio Bassani’ di Ferrara #Save the Park , che ha raccolto più di 55.000 firme.

Oggi, anzi ieri, il governatore, davanti a una Regione sconvolta dall’alluvione, con 4 morti e migliaia di sfollati, doveva proclamare 3 giorni di lutto regionale. Non si è mai visto un “lutto regionale”? Lo decida lui per la prima volta, è o non è il governatore?

Perché la musica è una cosa meravigliosa, e dal vivo è ancora meglio, ed è sacrosanto divertirsi, ma non se sei dentro ad una tragedia (mentre scrivo il bilancio è salito a 9 morti)  e hai davanti altri dieci giorni di allarme rosso. Anche per questo il concerto di Bruce Springsteen non si doveva fare. E sono convinto che anche lui avrebbe capito. E anche tanti suoi appassionati fans.

Domani, 18 maggio, il concerto si farà. Costi quello che costi. Come vuole la legge (planetaria) del business. Come ha voluto e vuole un sindaco sordo ad ogni ragione. Dopo ci saranno da contare i danni e raccogliere i cocci.

Il Comitato Save the Park, dopo essersi impegnato per mesi e fino ad oggi per “salvare il parco” dallo scempio, ha formato una commissione di osservatori che verificherà tutti i guasti subiti dal Parco Urbano. Già l’impatto delle megastrutture, milioni di decibel e di 50.000 persone ammassate faceva prevedere danni ingenti al parco e alle decine di specie di uccelli che lo abitano. Pioggia e fango aggraveranno di molto il bilancio.

Per il Sindaco Alan Fabbri e la sua Giunta doveva essere il coronamento di 4 anni di un governo all’insegna della festa: fiere, festival, spettacoli, specchietti e luci tutti i giorni. Il gran botto del Boss a Ferrara avrebbe fatto da traino alla campagna elettorale per le amministrative della primavera del 2024. Probabilmente non andrà in questa maniera: invece di Austerlitz sarà una Waterloo.

Purtroppo, finita la battaglia nel parco, non ci sarà nessun vincitore.

Per leggere su Periscopio tutti gli articoli del direttore Francesco Monini, clicca sul nome autore.

Parole a capo
Emilio Napolitano: “L’indirizzo sbagliato” e altre poesie

Un breve pensiero sulla raccolta “La ballata del verso sbagliato” di Emilio Napolitano.
Come scrive Italo Calvino: “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”.  L’autore nel “suo bicchiere” versa la passione di uno sguardo fatto di paesaggi mai finiti di esplorare, la ricerca disperata di un’armonia, che sembra un vezzo nell’attuale emergenza, ma che è invece un’esigenza vitale per chi non vuole arrendersi e cerca bellezza e pace nelle parole di una poesia.

 

Piccoli inganni

Conoscevo un uomo
che raccontava bugie meravigliose.
Diceva che la verità non è mai una sola.
La realtà dipende dal tuo sguardo
che può trasformare tutto.
Gli piaceva camminare controvento
pensieri spettinati, passo lento
perché non si sa dove il destino
decide di darti appuntamento.
Diceva che
il sole la luna
il giorno la notte
erano biglietti da visita dell’universo
ormai sgualciti dal tempo.
Piccoli inganni
per occhi stanchi
di vedere lontano.
Amava i libri antichi
l’odore delle pagine sfogliate
la polvere posata su storie
ormai dimenticate.
Da una tasca bucata
perse il suo ultimo sorriso.
Al vento sussurrò
tutto quello che aveva imparato
gli bastò un passo di tango
per raccontare
la storia
di un amore.

 

L’indirizzo sbagliato

 

Non dirmi di avere fretta
amo le tartarughe
e le barche a vela, sospinte dal vento.
Non parlarmi dei cacciatori
perché il volo lento degli uccelli
verso l’orizzonte al tramonto
è poesia in movimento.
Non parlarmi di giustizia
in un mondo ferito a morte
da chi ha troppo e chi troppo poco.
Non parlarmi per ore
ammiro chi usa poche parole
quelle giuste.
Non giudicarmi per quello
che sarei potuto essere
per i sogni che non ho realizzato.
Non farlo
invieresti i tuoi pensieri
all’indirizzo sbagliato.

 

Dove sorride oggi il tuo sorriso

 

Dove sorride oggi il tuo sorriso
Quali strade calpesta il tuo piede
Quali mani stringe la tua mano
Quante parole hai detto a chi non voleva ascoltare
Quanti occhi hai incontrato
che hanno guardato altrove
Quali libri dovrai leggere per capire
Ma in un tempo segnato da un orologio rotto
basta anche un giorno di nebbia
per ritrovarsi
uno sguardo per parlarsi
un passo indietro per guardare avanti

 

Poesia del non senso

 

Un vecchio bambino recitava
poesie senza senso
ma solo per chi non voleva capire.
Per una giornata di sole
metteva il cappotto
Per vento e tempesta
girava in mutande
Regalava un fiore a un uomo
un cacciavite a una donna
per risistemare cuori malati
di amori lontani.
Ai bambini regalava mappe
di territori sconosciuti
per non perdersi nella vita
alle persone anziane
regalava un giorno di gioventù
ai ragazzi un giorno di vecchiaia
perché tutti capissero
come i folli già sanno
che non c’è nulla da capire
dalle montagne al più profondo del mare
ma solo vivere e amare.

 

Appartengo alla neve

Appartengo alla neve
al suo silenzio
al modo dolce in cui cade sulla terra
come una carezza.
Appartengo al sospiro dei bambini
che guardano i fiocchi
dietro un vetro della finestra
e sognano di costruire mondi di cristallo.
Appartengo al passo
che porta su una vetta
senza l’ansia di raggiungerla,
a quello sguardo
che cerca di posarsi più lontano possibile
all’orizzonte.
Appartengo a chi apre una porta
e lascia passare
perché non ha fretta,
a chi chiede scusa
guardandoti negli occhi.
Appartengo a chi lotta
anche senza speranza
perché lo ritiene giusto,
a chi si perde nelle pagine di un libro.
Appartengo a chi legge poesie
e ne regala una
alla persona amata.

(Poesie tratte da “La ballata del verso sbagliato” di Emilio Napolitano)

Emilio Napolitano ha pubblicato nel 2014, con la casa editrice Giovane Holden, il romanzo “E se poi un giorno”; nel 2017 casa editrice Eretica edizioni racconti brevi: “ Nel verso giusto”; nel 2019 casa editrice Eretica edizioni la raccolta di poesie: “ Il suono del mondo”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

CON LA “STATALE 16” LUNGO LA STATALE 16
Cercando Paesaggi partigiani e resistenti

CON LA STATALE 16 LUNGO LA STATALE 16. Cercando Paesaggi partigiani e resistenti

Una band a me molto cara, formata da amici con le mie stesse passioni culturali e musicali, si chiama come quella che mi piace definire “la mia strada”: STATALE 16, lunga quasi quanto la penisola, visto che va dal Veneto alla Puglia e ritorno, ovviamente). E vi risparmio le notazioni autobiografiche, abbastanza intuibili…

È un nome che porta con sé un desiderio, da tempo coltivato tra i componenti del gruppo: provare a organizzare e realizzare una tournée “lungo la Statale 16”, appunto. Impegni di lavoro e altri impedimenti hanno fatto sì che questo rimanesse un desiderio irrealizzato per diversi anni.

Ma, quasi inaspettatamente, ad aprile del 2023, seppure in forma minima (pochi giorni a disposizione, quindi due soli appuntamenti), il desiderio si fa realtà e lo si fa coincidere con la scelta di portare in giro un programma particolare sperimentato lo scorso anno, il 25 aprile, che si intitola Paesaggi partigiani, modificato, per scelta degli organizzatori locali, in Paesaggi resistenti nella prima delle due tappe.

Grande attesa, impegnative sedute di prove e studio, preparativi non semplici, perché non siamo né tour operator né organizzatori di tournée artistiche, ma un tassello alla volta il puzzle si completa e definisce: ci sono le due date e le due location dei concerti, le prenotazioni alberghiere, le auto necessarie per gli spostamenti; si prenota un pulmino per la batteria e gli altri strumenti e si concordano le partenze, con anche due mogli e due amiche al seguito, disposte a fare da ‘clac’!

I componenti della band sono: Claudia Belardi, voce; Antonio Catozzi, tastiera e chitarra; Marco De Giorgio, basso; Fabiano Minni, percussioni e voce; Alberto Poggi, chitarra e voce; Rocco Sorrentino, batteria; Paolo Trabucco, chitarra e narrazione.

Prima tappa: Fano, dove un incontro casuale dell’anno precedente tra Paolo, in vacanza d’aprile con la sua compagna, e Lia, vulcanica attivista di movimenti e associazioni, ha portato ad individuare la possibilità di una esibizione nel centro culturale denominato Officina Amaranta.

Il gruppetto degli “esploratori”, giunto in loco il giorno prima della esibizione, decide di cercare il luogo, un po’ per curiosità, un po’ per un eccesso di premura, che si rivelerà azzeccatissimo. Abbiamo l’indirizzo, siamo dei buoni cercatori e uno di noi attaccatissimo al navigatore satellitare, ma ci perdiamo in giri e giri che ci conducono sempre nello stesso punto.

Sappiamo che c’è, deve esserci, anche il satellite sa che c’è, questa Officina, ma ce la colloca praticamente sui binari (in questo punto impossibili da attraversare) che dividono la SS 16 (qui col nome di Viale Piceno) dal mare.

Dobbiamo assolutamente trovarla e decidiamo di provarci a piedi: parcheggiamo in uno spiazzo tra ex fabbriche e officine e carrozzerie in corrispondenza dell’ipotetico numero civico in nostro possesso, ci sguinzagliamo nelle diverse direzioni possibili e finalmente scopriamo che l’Officina Amaranta si trova sul retro di un vecchio capannone che dà sulla strada e ha i binari di fronte.

La mattina dopo ci concediamo una passeggiata sulla spiaggia (esattamente quella che nei miei spostamenti in treno lungo la linea adriatica per tornare, ahimè sempre più sporadicamente, in Puglia mi tiene attaccata al finestrino) fino alla foce del fiume Metauro e poi un giro in centro, che ci colpisce per l’eleganza e raffinatezza dei palazzi.

L’evento, spiegherà Lia l’indomani sera, introducendo il concerto, si colloca all’interno dell’iniziativa dell’ANPI “Una mattina mi son svegliato” e si svolge in questo “non luogo, in una zona industriale, spazio importante per generazioni di Fanesi nato con lo scopo di fare musica e altro all’insegna della libertà.”

Le parole chiave che Lia sottolinea nella sua presentazione sono ‘Anarchia, Resistenza, Libertà, Rete, Connessioni’, termini e concetti che l’hanno guidata nella non facile operazione di mettere insieme realtà differenti, ma tutte collegate negli intenti e negli obiettivi; annuncia poi che la serata comprenderà anche un momento di ‘apericena’ di finanziamento a favore della Mezzaluna Rossa Curda.

Ospite locale, prima del concerto della Statale 16, si esibisce Fabrizio, che compone e canta in inglese con il nome d’arte The Pilgrim e, accompagnandosi con la chitarra, esegue canzoni tratte dai suoi primi album Pocket songs voll. 1 e 2.

A conclusione della serata, mi faccio raccontare da Alessandro, il ‘padrone di casa’, la storia di Officina Amaranta: un progetto utopico collocato in questo capannone industriale con l’intento di raccogliere diverse realtà di creativi, a partire da un laboratorio artigianale dedito alla lavorazione degli scarti e ora centro culturale che fa ‘concerti a porte aperte‘ e numerose altre attività.

Seconda tappa: Bitonto, dove Antonio e sua moglie Anna hanno preso contatto col circolo ARCI Resilienza. Anche questo centro, mi raccontano gli operatori, si pone come obiettivo prioritario quello di attingere alle risorse del territorio e promuoverle, attraverso laboratori, corsi e collaborazioni significative, come quella con la Libreria del Teatro nella organizzazione e promozione di concerti, mostre, cinema.

La cittadina (detta così confidenzialmente, ma abitata da ben 60.000 persone) pugliese ci accoglie con il biancore della bella cattedrale e con i sapori e profumi dell’ottimo pane, dei taralli e dei dolcetti di pasta di mandorle; con la pittoresca processione di San Francesco da Paola e i festeggiamenti per la vittoria in campionato della squadra di calcio femminile a 5.

E veniamo al punto: i Paesaggi Partigiani e Resistenti che gli amici della Statale 16 ci hanno fatto esplorare. Il ricco programma presentato nelle due serate è costituito da diciassette brani musicali con relative introduzioni, a formare una sorta di recital musicato con un filo conduttore ben connotato, ispirato e dedicato al 25 aprile.

Vorrei ovviamente evitare di elencare i brani, perciò cerco di parlare di quelli a me più cari, ricavando, dagli appunti presi mentre Paolo li presentava, gli aspetti più salienti e qualificanti.

Il racconto della Resistenza, dice Paolo, costituisce una narrazione che si avvicina al mito e diventa geografia: i luoghi divengono tutt’uno con i personaggi e i fatti. Una sorta di rito iniziatico, per chi decideva di aderire alla lotta partigiana, era la scelta del nome, come nel verso “…e io ero Sandokan…” del brano omonimo composto nel 1974 da Armando Trovajoli ed inserito nella colonna sonora del film C’eravamo tanto amati.

“Erano alberi rami e foglie che non si volevano piegare e ogni anno il 13 aprile si parla di un temporale” comincia così il brano uscito nel 2004 per ricordare la strage nazifascista (109 vittime) del 13 aprile 1944 nel Casentino.

“…cento volte l’hanno ucciso ma tu lo puoi vedere, gira per la città Dante di Nanni…” cantano nel 1975 gli Stormy Six, raccontando del giovane partigiano inseguito e poi assediato dai fascisti, perché protagonista di numerose azioni di combattimento e sabotaggio e ucciso dopo una strenua resistenza, da solo in un appartamento in Borgo San Paolo a Torino, in cui si era rifugiato.

Nel 1999 Lalli (Marinella Ollino), esponente della musica alternativa, dedica a suo padre ex partigiano Brigata partigiana Alphaville “…canta la mia canzone preferita, ti prego cantala…”

Paolo usa il riferimento a questa dedica e a padri e figli e fratelli per introdurre il brano seguente, Sette fratelli, notissima canzone composta nel 2004 dai Mercanti di liquore e Marco Paolini su testo di Gianni Rodari… Gelindo Antenore Aldo Ferdinando Agostino Ovidio Ettore, tutti nati tra il 1901 e il 1921 a Campegine (Reggio Emilia), fucilati il 23 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia “…. vecchio tenero padre / olmo dai sette rami / nella vuota prigione / per nome ancora lì chiami”.

Il cuore mi batte più forte quando la band esegue Oltre il ponte, scritta nel 1941 da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici “Avevano vent’anni oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore.”

Una storia che mi riempie di angoscia è quella di Cinzio Belletti, giovane ferroviere che, secondo la versione più nota, rientrando dal lavoro all’alba del 15 novembre 1943 (la Notte del ‘43 del racconto di Giorgio Bassani reso noto al grande pubblico con la versione cinematografica di Florestano Vancini), passò casualmente nei pressi del Castello di Ferrara, mentre era in corso la strage. Venne inseguito per non essersi fermato all’alt e assassinato in via Boldini. Paolo gli ha dedicato una canzone Cinzio 1943 “È una notte nera…quando torni cambia via…me l’avevano detto: Cinzio, mettiti al riparo…”

E per concludere, augurandomi che per molti altri 25 Aprile ancora la band Statale 16 ci dia l’opportunità di ascoltare questo significativo ed entusiasmante programma, metto in fila gli altri titoli: Lungo la strada Da Ursi Grãndola vila morena El ejercito del Ebro Ma mi Se non ci ammazza i crucchi Su in collina Dal fronte non è più tornato Cesare La ballata dell’ex.

Tutte le foto, comprese quella di copertina, sono di Maria Calabrese.

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul suo nome.

RIDISEGNARE VOLANO. COSTRUIRE SCENARI, PROPORRE AZIONI.
Seminario promosso dal Dipartimento di Architettura Unife, lunedì 22 maggio 2023

RIDISEGNARE VOLANO. COSTRUIRE SCENARI, PROPORRE AZIONI

Hotel Rurale Cannevié, Strada per Volano 45 , Codigoro (FE)
Lunedì 22 maggio, dalle 9,30 alle  13,00

Primo Seminario  sul lavoro di ricerca del Dipartimento di Architettura di Unife
sulla salvaguardia del tratto di costa del Lido di Volano

 

Introduzione di Romeo Farinella 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo seminario costituisce il primo momento ufficiale di presentazione del DISSLab_Delta and Coastal International Sustainable Strategies, un raggruppamento di ricerca avviato dal Dipartimento di Architettura, che coinvolge più competenze e settori scientifici dei vari Dipartimenti di UNIFE che lavorano insieme sui temi posti dai territori costieri e fluviali.

L’approccio è pertanto intedisciplinare, e in questo primo seminario incontreremo il “territorio” per verificare insieme alcune linee di lavoro che stiamo sperimentando a Volano, un tratto di costa che presenta alti valori ambientali e paesaggistici, particolarmente colpito dalle recenti mareggiate.

Un ringraziamento particolare alla Associazione “Volano Borgo Antico” con la quale l’evento è organizzato.

Massimo Pedullà: un elettricista poeta nella difficile terra della Locride

Massimo Pedullà: un elettricista poeta nella difficile terra della Locride

“Frammenti e riflessi” è il titolo della pubblicazione che racchiude 68 componimenti, che sono eco di chissà quante e quali letture cercate e conquistate per dare forma, nella lingua che non ha potuto imparare a scuola, a un mondo di sensibilità, sentimenti e talento, che ha sentito di non poter tenere inespresso.

Dalle letture allo scrivere, per Massimo Pedullà, è come quel “grido in cerca di una bocca” che canta Giorgio Gaber nella canzone Il grido.

Prima ancora di scomodare il registro poetico ed estetico è il caso di soffermarsi su quello civile, per l’uso cercato, voluto e sudato della parola come via di “crescita e formazione”, come scrive Antonella Dieni, specie in una terra – la Locride – che troppo spesso fa parlare di sé.

È di questi giorni la notizia dell’operazione Eureka, la “più grande operazione mai realizzata contro la mafia calabrese in Europa”, ha scritto l’Ansa lo scorso 3 maggio.

Persone come Massimo Pedullà sono la testimonianza che è ancora possibile schierarsi dalla parte della parola, codice impotente e indifeso eppure capace, se diventa fiumara, di travolgere le radici della barbarie.
La sua poetica è come il canto di dolore di un uomo e la sua terra è metafora privilegiata e ricorrente per dare voce a un groviglio di ricordi, di sentimenti, di perché senza risposta.

È parola di una Calabria storia di miseria e fatiche, terra selvaggia e aspra, luogo di abbandoni, strappi e vuoti di tanti che, purtroppo, sono costretti ad andarsene. Borghi e contrade che si spopolano e anche scempio di “case e strade prima di pietre e poi in cemento e di nero bitume”, come scrive nella poesia Profumi e riflessioni.

Considerazione

La nostra è una costa illusoria,
avvinta da quell’aspro
che tanta magnificenza offusca;
un agrodolce che ti confonde,
sino ad oscurarti
i confini del giusto.
Soffro del tardo capir mio,
di tanto allontanamento;
non fu torpore,
bensì adattamento,
a quel qualcosa
che boccheggia nell’aria.

Dal suo scrivere affiorano i tratti di un’esistenza segnata dalla salita. Nel suo incessante domandarsi si chiede “Il perché di un padre alcolista” (Il perché delle cose), tema che ricorre nello “spettro dell’alcol e dalla miseria dell’uomo perso” (Julien a ferragosto), in relazione alla casa e al ricordo della madre: “In quel catoio (…) il volto di mia madre (…) che dentro alle tue mura tanto patisti, urla nel vuoto urlasti (…). Un’amara crescenza, la mia, in quell’umile casa (…) a quei tramonti sbiaditi e per te privi di colori e tutti uguali” (A mia Madre).

Ma la forza poetica di Massimo Pedullà ha la capacità di dilatare la sofferenza intima di un uomo in quella, quasi leopardiana, come scrive la Dieni, dell’uomo.

Un esempio è il suo ascolto delle cicale (La massa e il canto delle cicale): “In cerca dell’identità mia che non trovo; (…) forse è nel canto delle cicale (…) in quel pensare ciò che a loro ci accomuna. La fermezza in un punto, la precarietà e il cicalare”.
La precarietà, oltre alla sofferenza, accompagna questo viaggio interiore sulla condizione umana in un altro suo meditare sul paesaggio (Fragile forza).

Fragile forza

La radice del fico spacca
l’anima alla roccia viva;
basta la fragilità
della foglia dell’edera
per farlo appassire.

E poi l’immagine sontuosa delle querce in La quercia nel vento, sentinelle verdi che punteggiano il paesaggio calabro con esiti che sembrano sculture: “Guardiola d’infinita bellezza (…) tra aspre montagne e mare. Di forza radicata e ferma; come a voler fermare venti e tempeste”.

La quercia del vento

Quercia che sei e fosti
e di grandezza espandi,
su quell’altura, dove l’inverno
batte i tuoi rami svestiti,
e l’estate adombra
la tua stessa curva,
che sentiero è per la montagna.
Guardiola d’infinita bellezza,
quella sommità in cui t’affacci,
e punta Stilo e lo Zeffirio vedi;
colori nuovi bisognerebbe inventarsi,
talmente essi si fondono l’un con gli altri,
col mutar delle stagioni
e delle ore.
E ti par di volare,
tra quelle magnitudini celesti,
che in un attimo ammiri,
tra aspre montagne e mare.
Di forza radicata e ferma;
come a voler fermare venti
e tempeste.
Ti curvi, ti spogli, ma poi ti rivesti,
sotto quel sole che vedi spuntare;
ora pallido per poi infuocarsi,
per poi riposare.

Un paesaggio di cui Pedullà arriva a cogliere l’intima ambivalenza, tra mare e terra, in una tensione irrisolta tutta esistenziale: “La nostra è una costa illusoria, avvinta da quell’aspro che tanta magnificenza offusca; un agrodolce che ti confonde, sino ad oscurarti i confini del giusto”.

Forse c’entra la psicoanalisi, ma il fatto che Pedullà di mestiere faccia l’elettricista può essere non casuale, nel suo inesausto tentativo di portare la luce dove si stendono tante ombre, dentro e fuori, in quell’angolo della Locride che è Sant’Agata del Bianco.

Per questo, credo, meritino un rispettoso e grato inchino persone come Massimo Pedullà, come lo merita il giovane sindaco del Comune, Domenico Stranieri, laureato in filosofia e vicino alla seconda laurea in filologia su Saverio Strati, altro scrittore nato a Sant’Agata (1924-2014). Anche Stranieri, dal 2016 (anno della sua elezione), ce la sta mettendo tutta per portare un po’ di luce.

E lo meritano persone come Silvana Scarfone, figlia di un muratore di Sant’Agata che scriveva poesie e maestra per vent’anni nella scuola elementare di San Luca, cuore della Locride. Una scelta di vita per portare anche lei la luce dell’istruzione, dell’educazione e del bello, in una scuola intitolata allo scrittore Corrado Alvaro (1891-1956), che in Quasi una vita scrisse:

Dai greci i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”.

Massimo Pedullà
Classe 1962, vive da sempre a Sant’Agata del Bianco, un borgo della Locride in provincia di Reggio Calabria di circa 500 anime che fa Comune.
Di mestiere fa l’elettricista ed è l’autore di una raccolta di poesie presentata da Antonella Dieni, pubblicata nel 2020 da De Paoli edizioni d’arte (Fiesole).

Per leggere gli articoli di Francesco Lavezzi su Periscopio [vedi qui]

Life coach: psicologo professionista o guru-imprenditore?

Life coach: psciologo professionista o guru-imprenditore?

Viviamo un’epoca in cui emergono sempre più spesso figure di riferimento discutibili, che si impongono come risolutori della sofferenza umana, dei fallimenti, delle incertezze, dei dubbi, dei tentennamenti e disorientamenti che inevitabilmente possono raggiungere ciascuno di noi in momenti particolari della nostra vita, inaspettati, a volte persistenti, impattanti e scoraggianti.

Accanto a professionisti seri e preparati dopo lunghi anni di studio approfondito sulla mente umana, le relazioni interpersonali, la conoscenza del sè, troviamo i “venditori di felicità”: appaiono su TikTok, assumendo mille smorfie e manfrine, sorrisini che dovrebbero essere accattivanti, allusivi, invitanti, su uno sfondo di pseudo studi sulle cui pareti campeggiano attestati e qualifiche acquisite da qualche parte.

Usano espressioni verbali studiate a tavolino, parola per parola, che suonano immediatamente di poco spontaneo, roboanti emissioni di promesse improbabili. Impazzano nel web catapultandoci addosso la loro smania di protagonismo, la loro presenza stereotipata costruita ad hoc, che dovrebbe ricordarci “quanto poco valiamo” senza di loro.

Uno stuolo di guru-imprenditori di se stessi si propongono per assaltare il colossale business del disagio, la sofferenza, il dolore, il bisogno di cambiamento, la ricerca di risposte per affrontare il futuro, l’elaborazione del passato, la perdita, il vuoto interiore. Perché tutto ciò può trasformarsi in fatturato, se di fatture regolari si può parlare

Aiutare gli altri non è più una propensione, ma diventa un mestiere retribuito – troppo spesso improvvisato o affrontato dopo una manciata di ore in “corsi di preparazione” – con introiti non da poco, e questo fa gola.

Una jungla di life-coach, tra cui gente seria e attendibile, ma anche personaggi senza scrupoli o ignoranti, che mancano effettivamente di cultura di base e conoscenze solide in campo umanistico e scientifico, con la presunzione di poter dare una svolta alle vite degli altri (o della propria!?!).

Alcuni si scagliano contro gli psicologi, quasi fosse un incontro paritario tra gladiatori, in cui il coach dovrebbe avere la meglio per meriti e competenze indefiniti, quando sarebbe assolutamente necessario riconoscere nello psicologo una figura professionale completa e competente negli ambiti patologici ed esistenziali, può aiutare a crescere, cambiare, raggiungere obiettivi.

Perché un mental coach dovrebbe saperne di più elargendo felicità e successo? Il nome coaching trae origine da Kochs, un villaggio ungherese a una decina di chilometri da Budapest, rinomato per la produzione di carrozze. L’accostamento semantico tra “carrozza” e quello veicolato dalla parola “coach” è evidente.

Le origini del coaching risalgono alla fine degli Anni Settanta, da un’intuizione del maestro di tennis Timothy Gallwey. L’istruttore voleva dimostrare come i giocatori di tennis riuscissero ad autocorreggersi e dare il meglio di sé quando, ai consigli, inviti, suggerimenti esterni, si sostituivano domande aperte con un approccio più rilassante legato al vissuto, orientato sul “fare”, sospendere il giudizio e formulare obiettivi concreti e formati.

Negli Anni Ottanta il coaching si divulgò in Europa e da allora è diventato pratica diffusa, a proposito e a sproposito. Oggi il rischio di affidare le nostre risorse interiori a venditori di fuffa è reale e la cronaca se ne occupa frequentemente segnalando casi.

Il rischio maggiore è quello però di assuefarci alle promesse di aiuto facile da parte di affabulatori, spesso individui la cui pochezza è palpabile, che promettono la “felicità in 120 ore”, l’elisir che risolverebbe i nostri fardelli, dimenticandoci o rinunciando ad indagare in noi stessi per trovare le risorse necessarie a rialzarci e trovare la barra delle nostre esistenze.

La credulità densa di superstizione medievale è superata oggi dall’informazione, dai dati accessibili a tutti, la possibilità di ricercare e verificare per trovare conferme o smentite senza farci abbindolare. Perché di guru prodigiosi, grandi esperti della mente e dell’anima, tronfi di un’autostima che non trova riscontro nei fatti, finti profeti che vantano un link privilegiato con forze soprannaturali se non con Dio, elevandosi a emissari diretti del Cielo, ne facciamo a meno.

Per leggere gli articoli di Liliana Cerqueni su Periscopio [vedi qui]

Parole oltre lo sguardo: scrivere l’immagine e immaginare la scrittura.
La mostra fino a venerdì 19 maggio al Circolo Bolognesi di Ferrara.
Poi comincerà il suo viaggio nelle biblioteche e nelle scuole dell’Emilia Romagna

La mostra  “Parole oltre lo sguardo”  ideata e organizzata dall’Associazione Culturale Ultimo Rosso e dal gruppo fotografico Norsisti – è stata inaugurata con grande successo il 12 maggio al Circolo Arci Bolognesi di Ferrara. Ha voluto sondare relazioni, effetti e conseguenze del connubio tra due arti: la Poesia e la Fotografia, che abitano il mondo infinito  e tutte le possibili atmosfere dell’umano.

Il dialogo tra parola poetica e immagine fotografica si è rivelato un incontro emozionante. Lo si è visto  proprio nella serata inaugurale, dove i poeti e i fotografi protagonisti dell’evento, e con loro i numerosi spettatori/ascoltatori intervenuti, hanno dato vita ad un gioioso reading, commentando le opere esposte.

Ovviamente. non solo le poesie possono essere lette, ma anche le fotografie, le immagini. Foto e testi poetici ci inviano sensazioni, rimandi nella memoria personale che possono favorire un viaggio oltre la superficie delle cose. Le immagini anticipano storie. La scrittura poetica raccoglie il testimone e ne amplifica le vie espressive d’uscita. E’ una strada a due sensi, da percorrere avanti e indietro, facendo ogni volta nuove scoperte.

La scrittura poetica e l’immagine fotografica propongono ipotesi per “sceneggiature” che probabilmente resteranno “in nuce”. Da sempre la poesia ha amplificato uno strumento espressivo per mettere a fuoco la realtà, o quello che a noi sembra tale, all’interno e all’esterno di noi. Leopardi teorizzava l’esistenza di una “doppia vista”, come di una facoltà della pupilla e parallelamente dell’anima di conoscere meglio e in profondità, ciò che ci circonda. Da tempo le neuroscienze ci dicono con certezza scientifica che per costruire la nostra visione del mondo  (meglio sarebbe parlare di elementi di visioni, tasselli non sempre conciliabili tra loro) ci “serviamo” delle tantissime immagini che abbiamo accumulato nel tempo.

Viviamo  immersi nella Società dell’immagine: onnipresente, ossessiva, dominante: un simulacro che sembra sostituire la realtà stessa. La fotografia, l’immagine come arte ci chiede invece una pausa, un tempo che ci rimanda ad altro, alla memoria dentro e fuori noi stessi,  al sogno, al nostro desiderio più segreto.  Esattamente come avviene in poesia, che non descrive, ma crea scenari, mondi, una lingua causale e non casuale.

L’occhio esteriore del fotografo,  come l’occhio segreto del poeta, hanno la capacità di leggere dentro le oscurità, dentro i colori, le forme, le ipotesi di un’azione, o nel movimento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di immagini e parole.
Scrivere l’immagine e immaginare la scrittura sono, quindi, i due poli che questa mostra  restituisce allo spettatore, chiamandolo a partecipare a questo caleidoscopio della mente.

 

Dal prossimo mese di giugno la mostra Parole oltre lo sguardo  comincerà il suo viaggio presso Sale Pubbliche, Biblioteche, Scuole e Centri Culturali dell’Emilia Romagna e fuori Regione. Per prenotare la mostra, contattare l’Associazione Ultimo Rosso: email lultimorosso.ferrara@gmail.comTel. 347 9000845 

 

Di seguito, gli scatti del servizio fotografico realizzato da Valerio Pazzi il 12 maggio 2023 durante la serata inaugurale della mostra.

In Copertina:  la poeta bolognese Rita Bonetti racconta una sua poesia e la foto associata alla stessa (foto di Valerio Pazzi)

Parole e figure /
Evoluzione: non una storia qualsiasi

L’evoluzione, questa storia meravigliosa di una grande e unica famiglia. Curiosità e coraggio. Darwin sia!

Viaggiare, scoprire, osservare, toccare, assaggiare, narrare, il bello della vita.

Per e con queste direzioni, ecco a voi un libro per persone curiose, quello del filosofo della scienza Santiago Ginnobili, In continua evoluzione, illustrazioni di Guido Ferro, di Kalandraka edizioni, un’ennesima scoperta di questa interessate casa editrice.

Per essere noi stessi provetti ricercatori, nella vita e della vita. E per la vita.

Un libro, per tutti, che racconta la storia della vita sulla terra, questo dono meraviglioso che necessita e chiede rispetto, e che spiega le coraggiose ricerche e il lascito del naturalista Charles Darwin, che ci hanno aiutato a capire meglio chi siamo e da dove veniamo. Considerando, sempre, la bellezza, la complessità e la diversità del mondo che abitiamo.

I curiosi si fanno domande che pochi o nessuno ha mai fatto prima, per definizione, e noi lo siamo, con l’autore. Bisogna scavare, arrampicarsi, mettersi al lavoro. Quante dita hanno gli animali che abbiamo in casa? Perché noi ne abbiamo cinque in una mano? Perché non possiamo volare o respirare sott’acqua?  Perché i membri della stessa famiglia si somigliano? Qui le risposte, o almeno quelle che abbiamo finora, non definitive (perché tutto scorre e cambia), ma quelle più belle e interessanti.

Allora, c’era una volta un ragazzo come noi, Charles, che aveva uno sguardo simile al nostro, quello di un furetto veloce, curioso e intelligente, mai soddisfatto. Passava giornate intere a osservare animali e piante, e, desideroso di viaggiare e conoscere, s’imbarcò su una nave, la HMS Beagle, per una spedizione intorno al mondo che aveva lo scopo di migliorare le mappe dell’epoca. Per cinque anni viaggiò ed ebbe modo di imparare molte cose e di convincersi dell’evoluzione degli esseri viventi. I suoi esperimenti continuarono al rientro a casa. La sua insaziabile voglia di conoscenza non si placava. Sempre indagava, si faceva domande, si interrogava.

Per esplorare le idee di quest’uomo eccezionale, immagineremo, di essere in un parco, dove, seduti comodamente all’ombra di statue, lampioni ed alberi secolari, vedremo piante, pietre, animali vestiti… Similitudini e differenze. Un viaggio unico con parole e disegni incantevoli. E il suo fil rouge.

Questo bel libro mette in risalto il legame indissolubile tra tutti gli organismi viventi del pianeta, rappresentato nell’immenso albero della vita. Un albero al quale scienziati e scienziate hanno aggiunto un ramo dopo l’altro, da allora.

Alla fine, noi esseri umani siamo soltanto un altro ramo di questa grande famiglia che continua a crescere e a evolversi. Famiglia. Questa grande invenzione, questa immensa parola e vocazione. Perché la conoscenza si costruisce collettivamente.

“Chissà se Darwin, nella piccola serra di casa sua, circondato da piante carnivore e orchidee, immaginava che le sue idee avrebbero cambiato il mondo, che avrebbero cambiato il nostro modo di pensare agli altri animali e al nostro posto nella natura… Sarebbe bello raccontarglielo, ma è impossibile. Non possiamo parlare con i nostri antenati, solo leggerli e immaginare come si sentivano. E prendere esempio da loro modo di pensare, con coraggio e originalità”.

Santiago Ginnobili (autore), Guido Ferro (illustrazioni), In continua evoluzione, Kalandraka, 2023.

Se parlate spagnolo…

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

ACCORDI
Trent’anni di Wild Wood, l’album più raffinato di Paul Weller

A volte basta una chitarra e un buon giro di accordi per fare centro. Se poi ti chiami Paul Weller e ci infili pure un andamento cadenzato e quasi ipnotico, il risultato non può che essere un instant classic del pop d’autore britannico.

I 3 minuti e 27 secondi di Wild Wood (1993) hanno ispirato un sacco di connazionali dello stesso Weller (Stereophonics, Oasis e Richard Ashcroft su tutti), dando maggiore respiro alle sonorità perlopiù elettriche dell’allora neonato Britpop. D’altronde, è difficile non subire il fascino di una ballata folk che sembra uscita da Harvest di Neil Young.

Il cantato è a tratti languido e mellifluo, a tratti rauco e dirompente, ed esprime senza troppi giri di parole una riflessione da vecchio saggio che potremmo riassumere così: “prendi una direzione chiara e decisa nella vita, sii deciso, fidati delle tue capacità, continua a provarci e vedrai che troverai un modo per uscire da questa giungla”.

L’album omonimo è uno dei più eleganti e raffinati dell’immenso catalogo di Paul Weller, che all’inizio degli anni ’90 intraprese una carriera solista a metà strada tra il punk-rock degli esordi e il soul-pop degli Style Council. Dentro Wild Wood ci sono almeno altri due brani acustici di rara bellezza (All The Pictures On The Wall e Foot Of The Mountain) che alimentano quell’atmosfera rilassata e ammaliante introdotta dalla suddetta title track. Un’atmosfera che ha lo stesso effetto di una carezza o di un bacio gentile in un pomeriggio soleggiato al parco.

Perché sì, in fin dei conti Wild Wood è un disco dal sapore bucolico: dalla copertina al video, passando per gli arrangiamenti. Sedici tracce che sono in controtendenza con tutto ciò che stava accadendo, o stava per accadere, nell’industria musicale del 1993.

Piove in montagna … alluvione in pianura.
L’Appennino è un territorio fragile e gli impianti eolici industriali moltiplicano il rischio

Dopo mesi di Allarme Siccità, l’’alluvione dei primi di maggio in Emilia Romagna, a seguito delle ingenti piogge concentrate in poche ore, che hanno causato l’esondazione di fiumi come il Montone, il Lamone, il Santerno e il Senio, dovrebbe far riflettere tutti,  e in particolar modo le amministrazioni regionali dell’Emilia Romagna e della Toscana, sulla fragilità del territorio dell’Appennino tosco-emiliano-romagnolo.

Insieme all’alluvione si sono verificate tutta una serie di frane che hanno causato disagi enormi e anche terribili tragedie. Sono morte delle persone e in centinaia sono dovuti sfollare dalle proprie case inagibili. Tra il 2 e il 3 maggio è caduta la stessa quantità di pioggia che normalmente cade in 3 mesi: da 150 a- 200 mm a seconda delle zone.

Uno dei fattori principali che influenza negativamente la corsa della pioggia dalla montagna verso la pianura accelerandola, è la diminuzione della capacità d’infiltrazione dell’acqua nel terreno che a sua volta è favorita invece dalla presenza della copertura vegetale, che trattiene l’acqua delle precipitazioni con la sua parte aerea, e con le radici ne facilita la penetrazione nel terreno. In particolare, nelle aree appenniniche soggette a frane e smottamenti, la copertura vegetale rappresenta una difesa importantissima e imprescindibile per la salvaguardia del territorio.

L’aumento del consumo di suolo che lo rende impermeabile all’acqua e la riduzione delle superfici boscate per lasciare posto a siti turistico-commerciali e/o industriali, come gli impianti eolici, cementificati e impermeabilizzati, rappresenta un grande pericolo per la stabilità dei territori sia quelli montani che quelli delle pianure confinanti.

Come ci insegnano i geologi e gli idraulici l’onda di piena di un bacino idrografico antropizzato è grande tre volte quella di un bacino naturale, e quella di un bacino impermeabilizzato addirittura sette volte. Questi dati dovrebbero far riflettere sull’opportunità di realizzare grandi opere di cementificazione nelle aree di montagna e di collina, di effettuare abbattimenti indiscriminati di aree boscate senza pensare a quelle che sono le conseguenze negative per tutto il territorio circostante e anche più lontano, ma che così lontano non è.

Tra le osservazioni che sono state inviate nei primi giorni di gennaio del 2022 da Italia Nostra sul Provvedimento autorizzatorio della Regione Toscana in relazione all’iter di approvazione dell’impianto industriale eolico sul monte Giogo di Villore, voglio ricordare quelle che riportavano le valutazioni dal punto di vista idrogeologico dei rischi ambientali per il territorio che derivano dall’impermeabilizzazione di ettari di suolo sia nella fase di realizzazione (impatto dei cantieri) sia durante il normale funzionamento delle pale eoliche, che funzioneranno da ostacolo per il movimento delle nubi che transitano sul crinale aumentando la concentrazione della pioggia nelle cosidette ‘bombe d’acqua’. 

L’interessante studio riporta come il solo basamento di un torre eolica, può portare in 15 minuti può portare ad un aumento di  6 metri cubi di acqua raccolta e non infiltrata e che si riverserà a valle lungo il pendio. Ancora un estratto dallo stesso studio: A seguito della costruzione dell’impianto eolico è stimato un incremento di 456 metri cubi delle portate totali che si riverseranno nei fossi dai crinali di Giogo di Villore in solo 15 minuti che, tradotto in peso, equivale a 456 tonnellate di acqua che verranno scaricate in soli 15 minuti e che si muoveranno con una velocità crescente, da una altezza sul livello medio mare di oltre 1.000 metri e quindi carica di una considerevole energia distruttiva esponendo così a rischio alluvioni tutte le zone a valle.”

Lo studio scientifico commissionato da Italia Nostra enumera con precisione i rischi di dissesto idrogeologico che correrà il territorio a causa della realizzazione  dell’impianto eolico industriale di Giogo di Villore: ,  cosi come vengono elencati dallo studio commissionato da Italia Nostra: 

Alterazione del sistema di smaltimento delle acque;

Aumento dell’erosione;

Aumento dell’esposizione a rischio inondazioni, frane e smottamenti dei territori a valle;

Aumento di rischio di dissesto idrogeologico;

Aumento delle portate idriche da smaltire, per ogni singolo impluvio del crinale del Giogo di Villore.

Per non parlare dei possibili inquinamenti delle acque piovane ad opera degli idrocarburi e degli olii minerali e di tutti le sostanze inquinanti che vengono usate nei cantieri per gli scavi  e che si disperderanno facilmente e velocemente ad opera delle acque meteoriche fino a valle.

Per questi motivi è sorto nel Mugello un movimento di cittadini e montanari che si sta battendo da tempo contro questo pericoloso progetto e per la tutela del patrimonio naturale e ambientale del nostro appennino. Il  Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano  sta organizzando nuovi eventi per dire NO all’eolico industriale sul giogo di Villore e Corella!.  

Per contatti:
Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano:  libericrinali@gmail.com 

“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli
: un romanzo per scoprire e affrontare la fragilità che è in ognuno di noi.

Incipit

Una mano sulla spalla, mi scrolla sempre più violentemente.
«Mencarelli, ’nnamo ’n po’.»
È l’infermiere, sta tentando di svegliarmi.
«Daje, so’ le undici passate, tra ’n quarto d’ora te deve vede’ er medico.» Mi prende per le spalle e mi tira su.
«Buongiorno principino, te sei fatto ’na bella dormita. E te credo, co’ quello che t’hanno sparato ’n vena, ce la fai a dimme come te chiami? Provece ’n po’?»
Ho la bocca secca. La testa rimbomba.
«Daniele. Daniele Mencarelli.»
L’infermiere si cimenta in una specie di sorriso. Avrà una cinquantina d’anni, forse qualcosa in più, il viso segnato profondamente dall’acne degli anni che furono.
«E bravo Daniele. Io so’ Pino invece, e Pino ama mette subbito le cose in chiaro: se tu stai bòno io so’ bòno, se tu fai er matto cattivo io divento più cattivo de te, chiaro? E credeme, i sani sanno esse più cattivi dei matti, capito?»
La faccia di Pino si è indurita, mi sforzo di rispondere, malgrado l’intorpidimento generale:
«Ho capito.»
«Altra cosa fondamentale, è vietato anda’ in giro, tu puoi sta’ qui o nella saletta della televisione che sta affianco. Mai e poi mai anda’ nelle stanze che stanno dopo la saletta della televisione. Lì dentro non so’ come voi, ce stanno quelli cattivi, chiaro?»
«Chiaro.»

“Tutto chiede salvezza“, da cui è stata tratta la serie TV su Netflix, è il romanzo di sapore autobiografico, vincitore del Premio Strega Giovani nel 2020, di Daniele Mencarelli. Di Mancarelli poeta, forse dove riesce ad esprimersi fino in fondo, ha già parlato su questo quotidiano Andrea Zerbini, riportando una sua bella poesiaIl romanzo è centrato sul racconto dell’esperienza di una settimana di ricovero in ospedale per il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) e dell’incontro con cinque compagni naviganti nella tempesta, ognuno con la sua particolarità.

E’ una lettura che  non può lasciare indifferenti. Mi viene da dire: indispensabile. Commovente. Una prosa parente stretta della poesia.  Mencarelli ci fa vedere un’umanità vera, quella che vive in ognuno di noi, la fragilità che ci accomuna. La forza di quella fragilità quando è condivisa.  La forza che ogni fragilità rivela quando è accolta.
È un indispensabile generoso dono, questo romanzo, per conoscere una realtà che solo apparentemente non ci appartiene. Una realtà che teniamo solitamente ben distante da noi perché ci inquieta.

Difficilmente tolleriamo il pensiero della nostra fragilità, soprattutto di quella che sembra sottrarci al contatto con la realtà, che sembra toglierci il controllo. Scopriamo allora quanto sia doloroso vivere quella percezione esaltata e sottile delle proprie emozioni rimanendone in balia. E scopriamo quanto la stessa sensibilità sia condivisa dal protagonista con i suoi fratelli nella tempesta, con cui la verità si manifesta direttamente dall’anima, profondamente, senza barriere, come attraverso la pelle.

Non sappiamo nulla della malattia mentale e di come incide sulla vita delle persone, fino a quando non ci incappiamo improvvisamente e tutto sembra crollare. Mencarelli ci dona il suo sguardo empatico e profondo sulle persone che incontra nella sua esperienza di TSO, e le rivela come particolarmente sensibili dalla malattia, oppure ammalate a causa di questa sensibilità. Non sono persone carenti, da ‘aggiustare’, anzi, la loro umanità, consapevolezza, saggezza, bontà, altruismo, ne risultano arricchite da questa terribile esperienza.

Tutto chiede salvezza: i malati e i sani, forse più i sani che i malati. Abbiamo paura della follia, ma ci chiediamo veramente cosa sia?
Mi sono convinta che follia abbia un significato diverso da quello di far qualcosa che non vogliamo o di cui ci vergogneremmo. Follia – la vera follia – vuol dire fare consapevolmente e con coerenza illogica, con motivi contrari alla ragionevolezza, quello che ci disconnette dagli altri. Qualcosa come la guerra o la sopraffazione, qualcosa come contrapporsi, dividersi, alienarsi dalla comune umanità.

Scrive Daniele Mencarelli:Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.”

“La mia malattia si chiama salvezza, tutto chiede salvezza”, dice il protagonista, guidato da  una nostalgia di assoluto, di purezza, incompatibile con la quotidianità del nostro vivere.  Non c’è salvezza qui, ma nemmeno la cerchiamo. Non la trova però neanche colui che la cerca perché è la sua malattia. Non c’è nel mondo reale, non c’è nella razionalità, ma c’è nel mondo della condivisione umana più profonda. al di là del ruolo o del prestigio,  quando cadono tutte le difese, come nella estrema fragilità in cui si ritrovano quei cinque eroi accomunati dalla rivelazione che la malattia mentale concede.

Daniele Mencarelli,  Tutto chiede Salvezza, Milano, Mondadori, Anche in formato Kindle