Skip to main content

Eravamo tutti lì per lo stesso motivo. Almeno ci sembrava: rendere la nostra comunità più coesa, più democratica, partecipata ed eco-sostenibile. E così abbiamo iniziato a riunirci in gruppo.

Le prime volte eravamo una decina. Giorno dopo giorno hanno iniziato ad aggregarsi sempre più persone… Sembrava contagioso.

Si respirava un che di elettrizzante: ci sentivamo “carichi”, pieni di entusiasmo e voglia di fare, motivati, impegnati. Il nostro tempo sembrava finalmente assumere un senso più corposo, più elevato, più esteso, come i cerchi concentrici che si formano quando si lancia un sasso in un fiume. Parte di qualcosa di più grande. Una tribù.

Le prime riunioni le ricordo per la particolare gentilezza che caratterizzava gli scambi, i sorrisi, le risate, le premure… Sguardi carezzevoli e benevoli. Sembrava di essere stati rapiti da un generale innamoramento collettivo. Le differenti idee che delineavano a volte diverse visioni non sembravano costituire un problema.
Vi era molta apertura e ascolto. Dialogo. Spesso dopo le riunioni ci si fermava a bere una birra o a fare due chiacchiere. Sono nate simpatie, amicizie a anche amori.

Durante le riunioni parecchie persone intervenivano e tante erano le proposte, talmente tante che leggendo i verbali, si potevano rintracciare dei veri e propri elenchi puntati:
1. creare un comitato di quartiere, con il compito di curare e tutelare le aree verdi, mantenerle pulite dai rifiuti
2. piantumare delle forest food
3. tenere ampie zone incolte per favorire gli impollinatori
4. flash mob itineranti nei quartieri, con volantini in ogni buchetta in cui spiegare i nostri progetti e cercare nuove idee dai cittadini
5. organizzare eventi settimanali di socializzazione: ognuno porta qualcosa, per condividere, così, per stare insieme in leggerezza, non si può parlare sempre di cose pesanti insomma, poi la gente si stanca e non partecipa più.

6, 7, 8, 9, 10…
La volta successiva si era capaci di iniziare tutto daccapo, con lo stesso entusiasmo e completamente resettando quanto detto le volte prima. Come se ci fosse una sorta di amnesia collettiva e fosse sempre tutto nuovo!

La lista delle proposte e delle cose da fare si allungava, riunione dopo riunione. Si passava il tempo a dibattere su quello che si sarebbe potuto fare. Hanno iniziato le prime discussioni animate e le prime defezioni.

Qualcuno ha iniziato ad invocare un metodo. Qui bisogna darsi delle priorità! Metodo, ci vuole metodo!
Ma cosa vuole dire darsi un metodo? Boh… I più non ne avevano idea o ne avevano una idea approssimativa.
Darsi delle regole forse. Ma no ma no, le regole rovinano la spontaneità. Chissenefrega del metodo. E poi non c’è tempo. Contenuti, stiamo sui contenuti.

Al contempo, o su mandato dell’assemblea o spontaneamente, qualche gruppetto si attivava autonomamente per provare a dare gambe ad uno dei programmi. Ma il problema è che, mentre era facile fare gli elenchi puntati, pareva più complicato intendersi sul perché era importante fare quello e non quell’altro e ancora più difficile concretizzare.

Uno dei primi problemi da affrontare era il tempo. Ce ne voleva davvero tanto tanto per attuare le proposte! E come era difficile mantenere tutto insieme, all’interno di un sistema e possibilmente di una direzione. Pareva più che altro di procedere a zig zag o come i gamberi, che fanno un passo indietro per farne due avanti. Ma forse qui se ne faceva uno avanti e due indietro. Un po’ un caos.

E qui iniziò forse la prima divisione: tra chi aveva più e meno tempo. Chi ne aveva di più era presente molte più volte e spesso chi era più presente finiva per avere più influenza e ad essere circondato da una sorta di timore reverenziale. Chi partecipava di meno, si sentiva un po’ intimidito, entrava alle riunioni con meno scioltezza di un tempo, quasi entrando in punta di piedi chiedendo permesso.

Ma perché? Qui non ci sono capi. Semmai coordinatori, portavoce… Eppure pareva proprio che qualche capo o capa, o a qualcuno piaceva più dire leader, ci fosse.

Dopo un po’ di tempo, oltre alle discussioni accese iniziarono le lamentele, soprattutto nei corridoi… Le riunioni si fecero sempre più scarne di persone e di proposte. Persero di freschezza. Quei bei colori accesi sbiadivano mano a  mano.

E nei corridoi cresceva la zizzania. Ma perché il tale non partecipa più? Oh vedi che non era mica poi tanto motivato. C’è tanta gente che parla parla ma non conclude. I bla bla blaMeglio che si sia tolto dalle balle. Ma qualcuno ha provato a chiamarlo e chiedergli perché? Magari ci sono altri motivi. Sarebbe importante capire meglio.
Silenzio.

Insomma quello che inizialmente a molti era sembrato un sogno, nel giro di pochi mesi si è trasformato in un contenitore avvizzito, acido e puzzolente. Ma cosa era successo? Cos’era andato storto?

Lo vedremo, se vi va, nelle prossime puntate…

 

“L’intelligenza non è non commettere errori, ma scoprire il modo di trarne profitto”
B. Brecht

tag:

Anna Zonari

Le parole che preferisco sono relazione, ascolto, gruppo, comunità. Ma amo molto anche il silenzio, il canto degli uccelli, camminare in solitaria nelle foreste dell’appennino romagnolo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it