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In memoria di Pasolini

Comunque si pensi, l’influsso che i maestri hanno avuto sui loro allievi non va preso alla leggera. Soprattutto se il mestiere che ti sei scelto sarà quello di professore. Allora prendendo le mosse dalla compagine orchestrale si capisce come i musicisti siano ‘professori’ e il direttore ‘maestro’ colui che ti indirizza e ti provoca a tirar fuori il meglio che sai fare. Non è un’imposizione ma la possibilità di dare il meglio. Puoi anche non essere d’accordo con il maestro e avversarlo o prendere strade diverse. Quello che comunque resta indiscusso è che il maestro ti dà l’incipit: quello è il suo scopo e la sua missione (per favore, scrivetelo con la e finale invece dell’abusata e stupida ‘mission’). In un mondo dove tutti sono professori e dove mancano i maestri ripenso con nostalgia e con orgoglio alla mia educazione culturale quando, accanto a maestri sommi, un fervido clima di rinnovamenti sociali, politici, etici e culturali si compiva e nello stesso tempo si concludeva la grandissima stagione del rinnovamento che verrà segnata dalle stragi ma anche dalla speranza. E in questo clima e per queste ragioni che Pasolini viene assassinato,

Negli anni Sessanta un Maestro amatissimo come lo storico della lingua Giovanni Nencioni ci insegnava che se avessimo dovuto indicare i veri innovatori linguistici non ci dovevamo rivolgere solo al Gruppo ’63 o all’esperienza dei Novissimi ma rivolgerci a Pasolini e a don Milani che nel loro campo avevano saputo mescolare esperienze diverse e risolvere in modo assai originale il rapporto lingua-dialetto o la vecchia eredità di Verga – e ancor più di quella manzoniana – con il concetto che la scelta linguistica è dettata dall’uso.

Non sono mai stato un ammiratore acritico dei romanzi ma soprattutto della poesia pasoliniana. Eppure ne ho sempre riconosciuto l’impatto linguistico a cominciare dallo sdoganamento del romanesco come lingua comune. Le mie preferenze vanno al Pasolini critico e soprattutto al regista tra i sommi del secolo passato. Ma tutto questo fa parte del mestiere di critico.

Se i ricordi vengono trascelti non dalla memoria involontaria come ci ha abituato a pensare Proust, ma da una selezione individuale che costruisce la realtà così come tu pensi sia e debba essere, l’impatto che ha suscitato in me quella morte e quello strazio ricostruisce esattamente il luogo e il tempo. Stavo guidando e la notizia mi arriva esattamente dalla radio mentre stavo svoltando da piazza Ariostea per immettermi in corso Porta mare. Era il tramonto e le ombre degli alberi si allungavano sulla via che stavo percorrendo nel più perfetto clima del giorno dei morti.

Il poeta più vitale, più innamorato della vita ritorna alle Madri in un (forse) voluto richiamo e fascino al mondo dei morti. Come Orfeo si è voltato indietro e come Orfeo sarà straziato dalle Menadi. Si rileggano le pagine fondamentali di Cesare Segre a prefazione dei pasoliniani “Saggi sulla letteratura e sull’arte” nei Meridiani. Il titolo centra perfettamente la qualità e anche il limite di Pasolini: “Vitalità, passione, ideologia”.

Chi si ricorda nelle giovani generazioni del significato di un termine come ideologia? Spesso volontariamente confusa con alcune declinazione di questo termine ormai aborrito: ideologia del terrore, ideologia religiosa, ideologia nella e con la politica.

Eppure per Pasolini che denunciava questi modi d’intenderla sopravviveva il senso di un’ideologia naturalmente intrecciata alle nostre radici. Ecco allora la difesa dei poliziotti eredi della civiltà contadina contro la scelta per lui anarchico-borghese degli studenti in lotta. Difendere l’arcaicità di certe scelte era accostarsi al mito nella sorgente più pura e legata alla sua profonda conoscenza della letteratura e dell’arte antiche. Oppure seguire i suoi maestri si chiamassero Longhi o i surrealisti. Riuscire a combinare in maniera travolgente e unica le varie espressioni in cui si declina l’arte come specchio della realtà: prosa, poesia, critica, cinematografia, musica. Non importa poi quale sia il risultato ma invece importa il metodo. E nella vitalità come pienezza di vita, eccesso di vita, incontrare il suo opposto la morte nella pienezza della sua esistenza lui, ormai celebrato tra le figure più amate e ri-conosciute della cultura internazionale.

La visività di Pasolini per cui penso sia da accostare proprio ai grandi ‘visionari’ di ogni tempo hanno da sempre accompagnato un mio percorso personale tra poesia e arte figurativa: Ettore il figlio di Mamma Roma che muore per i maltrattamenti subiti nel letto di contenzione come il Cristo morto di Mantegna; il viso della madre di Pasolini come Maria nel Vangelo secondo Matteo L’episodio della ‘Ricotta’ con la deposizione dalla Croce, raffigurazione visiva della ‘Deposizione’ di qualche grande manierista fiorentino, ma soprattutto ‘Medea’ dove la grandezza del poeta riesce a cogliere due miti solo per forza di visioni ovvero d’immagini: quella di Medea l’arcaica e selvaggia regina del mito e quella della Callas il cui mito è affidato al suo canto. Ma in Medea la Callas pronuncia solo poche parole e noi nella mente le rielaboriamo.

Era il 1969. E le musiche sono scelte da Pasolini stesso e da Elsa Morante. La rivoluzione culturale del ’68 è ormai compiuta e trionfante. Pasolini è ucciso nel 1975. I delitti di Stato prendono il posto della rivoluzione culturale.

I misteri continuano come lui stesso aveva previsto nell’incompiuto ‘Petrolio’ uscito postumo.

La sua morte non può essere riscattata da alcuna commemorazione retorica perché chi uccide un poeta nega la realtà della vita.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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