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Pasolini, 40 anni di ombre su un delitto utile

La notte fra il 1 e il 2 novembre 1975 moriva a Ostia, vicino Roma, Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista, studioso della società italiana, intellettuale. Pasolini fu ucciso deliberatamente, prima ridotto ad un “grumo di sangue” (come definì lo stato del cadavere un medico legale) e poi finito con un passaggio della sua stessa auto sul corpo agonizzante. Il 26 aprile 1976 ad essere condannato per l’omicidio di Pasolini fu Pino Pelosi, detto Pino la Rana, 17 anni e qualche precedente per furto. Reo confesso. Il giovane, processato al Tribunale dei minori perché non ancora diciottenne, sconterà nove anni, sette mesi e dieci giorni “Per per atti osceni, furto aggravato e omicidio volontario nella persona di Pasolini Pier Paolo – lesse il giudice Carlo Moro, fratello del presidente della Democrazia cristiana Aldo -. Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’idroscalo il Pelosi non era solo”. Ma nessun altro fu identificabile, quindi il processo di primo grado si chiuse e la difesa ricorse in appello e in Cassazione. Qui ‘la Rana’ venne sollevato dalla condanna di atti osceni e furto aggravato, mentre gli fu confermata la condanna per omicidio. Venne inoltre decretato che quella notte all’Idroscalo di Ostia ci fosse solo lui in compagnia di Pasolini. La vicenda passò sotto le forche caudine dell’opinione pubblica come un delitto maturato nell’ambiente della prostituzione omosessuale.

A 40 anni da quell’omicidio molte restano le zone d’ombra. Più di qualcosa è stato omesso, manomesso, manipolato, il sospetto nacque immediatamente negli amici di Pasolini, in chi lo conosceva bene e nei giornalisti, che riscontrarono incongruenze nelle indagini, nelle modalità stesse di investigazione.
I perché, i dubbi si rincorsero per anni, le ipotesi avanzate furono diverse, le richieste di riaprire il caso molteplici e circostanziate ma non portarono luce sulla vicenda. Fino al maggio del 2005, quando Pelosi ormai adulto e libero, si lasciò intervistare dalla giornalista di Rai3, Franca Leusini. Nel programma Ombre sul Giallo l’uomo rivelò di non essere lui l’assassino di Pasolini, ma che ad ucciderlo erano stati tre uomini, che avevano aggredito anche lui, lasciandolo poi andare via minacciandolo di morte e ripercussioni sulla famiglia se avesse aperto bocca. A prescindere dalle contraddizioni nelle parole dello stesso Pelosi, la sua dichiarazione cambiò la prospettiva di quell’efferato omicidio, le ipotesi diverse su quello che era stato ripresero forma e si avvicinarono sempre di più ad una fanghiglia di politica, potere, interessi dalle quali però non saranno mai portate alla luce, per diventare fatti. Nel maggio 2014, dopo l’ennesima richiesta di riaprire il caso per indagare sulla provenienza delle macchie di sangue trovate sul maglione rinvenuto nell’auto di Pasolini, il gip di Roma, Maria Agrimi, ha archiviato l’ultima inchiesta sulla morte dello scrittore e regista, accogliendo la richiesta sollecitata dalla Procura.

Ma se non è stato Pino Pelosi a uccidere Pasolini, chi è stato? Perché? Per chi e cosa tutte le ipotesi alternative sono state via via fatte sfumare?
Se volessimo credere all’ipotesi del delitto politico verso il “frocio Pasolini” cosa potrebbe rivelarci l’assassino misterioso? Erano gli anni Settanta e la politica era quella delle stragi, del terrorismo, della violenza che insanguinava le strade. L’odio verso Pasolini, l’intellettuale di sinistra, si realizzò con una strategia minima: lo seguirono, lo tirarono fuori dall’auto e lo massacrarono di botte. Peluso era uno della borgata, fece da gancio e si assunse la colpa.
Ma esiste anche una pista politica che inquadra l’omicidio Pasolini in un quadro più ampio e complesso, che apre la porta a ipotesi diverse. Un secondo ipotetico assassino/mandante potrebbe rivelare che nello scenario delle stragi, del terrorismo, della violenza diffusa che insanguinava le strade degli anni Settanta,  Pasolini era una mina vagante, un’intellettuale acuto: nel corso delle ricerche per i suoi romanzi andava a scavare in questioni nelle quali non si sarebbe dovuto immischiare. Sapeva dove guardare e a chi chiedere. Nello scrivere il romanzo ‘Petrolio’, uscito postumo nel 1992, molti anni dopo la sua morte, Pasolini raccontava delle relazioni fra la politica democristiana, aziende e capi d’azienda che non si sarebbero dovuti toccare e invece lui aveva messo le mani su appunti, relazioni, testi che aprivano le porte ad interpretazioni scottanti al ruolo del successore di Mattei, il rapimento del giornalista Mauro De Mauro fino al progetto di costruzione del metanodotto fra l’Africa e la Sicilia. Come avesse fatto a rimettere in fila tutte le informazioni intuendo la portata delle tessere mancanti del puzzle lo capisce solo chi va a visitare il Gabinetto scientifico e letterario Viesseux di Firenze, dove sono conservati i documenti e gli appunti che gli sarebbero serviti alla stesura di Petrolio e i materiali che Pasolini andava consultando, incluso – ora – il manoscritto originale del romanzo. Pasolini era scomodo, nel giro di poche ore gli fu tolta la parola, nel giro di pochi giorni – con il caso chiuso come omicidio a sfondo sessuale e lui denigrato e ridotto a caricatura – smise anche di essere scomodo.

Ma non è tutto, le ipotesi si possono accavallare, a volte combaciano in alcuni angoli. Come anticipato, dopo pochi giorni dalla sua morte gli amici di Pasolini cominciarono a raccogliere testimonianze e informazioni per capire cosa fosse successo. Sergio Citti, fra i più legati al regista e suo aiuto in alcuni film, andò all’idroscalo dove raccolse testimonianze e girò filmati sul luogo del delitto. Nel 1975 però il materiale da lui prodotto non fu messo agli atti dalla magistratura, né Citti fu mai sentito. Avrebbe potuto raccontare che pochi giorni prima dell’omicidio erano state rubate le pizze del film ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’ dagli stabilimenti della Technicolor, assieme ad altro materiale video. Pasolini rimediò, utilizzando in montaggio altre sequenze e la cosa sembrò finire lì. Invece Citti viene contattato da Sergio Placidi, suo conoscente, che gli spiegò che a rubare le bobine era stato un gruppo di ragazzi che frequentavano un bar nella zona di via Lanciani, che si rivelerà essere il bar frequentato da Pino Pelosi, e che questi chiedevano un riscatto cospicuo per la restituzione del filmato. Il produttore del film, Alberto Grimaldi non volle versare la cifra milionaria richiesta e quindi la trattativa si chiuse senza scambio, salvo che pochi giorni prima del 2 novembre Pasolini fu contattato perché i ladruncoli, a loro dire, avevano capito che fra le pellicole rubate c’erano le sue e volevano restituirgliele. Ecco che ricomparve ‘la Rana’, che incontrò Pasolini per restituirgli il materiale. A questo punto, possiamo ipotizzare un terzo scenario: quando giunse all’appuntamento Pasolini era diffidente, non voleva far salire i ragazzi in auto, qualcuno gli si voleva anche proporre come attore nel suo prossimo film. Fece salire Pino Pelosi, che però disse di non avere lui le pizze rubate e quindi dovette chiamare al telefono per avvisare qualcuno che sarebbero andati a recuperarle, ed ebbe istruzioni di recarsi dopo mezzanotte ad Acilia (o anche a Dragona o Vitinia, località vicine). Siccome era presto, Pasolini portò il ragazzo che non aveva ancora cenato al ‘Biondo Tevere’, dove il regista non mangiò niente perché aveva già cenato con l’amico attore Ninetto Davoli. Finita la cena, lui e Pino presero la via Ostiense (e non la via del Mare come si sarebbe dovuto fare per andare a Ostia). Quando arrivarono al luogo dell’appuntamento furono raggiunti dai complici, Pasolini venne sequestrato e lo portato fino all’idroscalo. La fine è nota. Perché? Ordini dall’alto, hanno pensato in tanti, eseguiti da un gruppo di sbandati per compiacere qualcuno.

Ipotesi, sospetti, dubbi, misteri: l’omicidio Pasolini resta una pagina oscura della storia contemporanea del Paese. Ci troviamo invischiati in una melma di reticenza anche a 40 anni dal suo omicidio.
Resta alta la testimonianza di Pier Paolo Pasolini: la sua arte non conosce i limiti della cronaca, è quanto mai attuale. Grida della condizione umana di chi vive ai margini del potere, di chi ne è sopraffatto, anche di chi lo vorrebbe sovvertire e invece magari inconsapevolmente ne asseconda il gioco. Con la sua intensa, cruda poetica delle immagini e dei suoi testi, Pasolini racconta i vizi della società italiana, le sue pochezze, la corruttibilità di tutta l’umana carne; e resta sempre baluardo nel presente di una società che si definisce moderna e progressista ma non sa fare i conti con la propria storia.

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Ingrid Veneroso


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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