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Il genocidio dove è nato il Salvatore

Il genocidio dove è nato il Salvatore

Genocidio, perché avete più paura delle parole che del loro significato?

Pensate sia solo un problema di numeri, diecimila in più, diecimila in meno, le fonti, sì le fonti. Vi fa comodo rinchiudere i macellai nello scontro di civiltà, dove esiste un noi e un loro. Ma noi chi siamo? Non parlate in nome mio, l’umanità è già morta e sepolta da decenni in quelle terre, dove voi buoni credenti ritenete sia nato il Salvatore. Genocidio, deportazione, pulizia etnica, vite indegne di essere vissute, i capi del mondo vi spiegano che cosa sta succedendo. Uno sterminio scientifico, legalizzato, dove si fa strame della vita umana. Primi ministri, presidenti, entrano nel dettaglio, vivisezionano il concetto di genocidio, il popolo di Dio, che mette in atto i precetti della bibbia, sterminare, perché occorre fare posto agli eletti. Le imbelli democrazie occidentali che stampano a fuoco sull’Europa il concetto di “aggredito e aggressore”, mentre lì in quella striscia le parole non hanno più lo stesso significato. Le vostre mani grondano sangue, i vostri dibattiti percolano odio, laggiù non ci sono terre rare, laggiù ci sono solo anime erranti come zombie in una terra non più vivibile. Dove i morti, forse, sono immensamente di più di quanto dicono le fonti ufficiali, non di meno come dicono i moderati che aggiungono i puntini sulle i di una carneficina, da quinto titolo sui telegiornali.

Parlate della sicurezza vostra? Qua vi do ragione, chi vi sterminò aveva in mente la soluzione finale adottata dal governo degli Stati Uniti nei confronti delle popolazioni native. Ed ora voi fate la stessa identica cosa, non utilizzate i forni, ma le bombe, rendete invivibile una terra che mille risoluzioni della defunta ONU aveva sancito essere per due popoli. Che poi neanche ve lo ricordate più, ma il Nazareno, quello a cui voi non credete, il figlio di Dio per i Cristiani e un profeta per i Mussulmani, non era biondo, non aveva gli occhi azzurri, la sua pelle non era candida come gli slavati del nord. Viviamo in un turbinio di controsensi, dove sotto le macerie povere anime gridano aiuto, ma nessuno li ascolta. Una terra dove non esistono più gli ospedali, rasi al suolo perché rifugio di terroristi, mentre erano rifugio per corpi disperati. Tutto ciò nel mutismo della maggioranza silente, che si aggrappa alle sottane di un occidente morto di fame d’intelletto, dove masse oscillanti fluttuano senza gravità in elezioni dove le differenze sono briciole nel mare magno del pensiero unico. Dove essere contro il capitale diviene reato di intenzione, dove ritenersi comunisti, anarchici o radicali ti pone in un angolo fuori dal dibattito, fuori dai tavoli dove si decidono quante armi dare e a quale stato. Genocidio viene perpetrato, questa parola se utilizzata ti marchia come negazionista, come deturpatore della storia. No, nessuno cancella l’aberrazione nazi-fascista, anzi io ritengo che questa mentalità criminale ha solo cambiato bandiera, ma ancora arma i grilletti degli assassini, apre i portelloni dei bombardieri, tiene in mano le penne stilografiche di chi ridefinisce gli equilibri, nell’adorazione dell’unico dio che mette tutti d’accordo. Il denaro, i dollari, il cobalto estratto da mani bambine, dove le fruste dei moderni schiavisti colpiscono, coperte dall’oscurità dell’ignoranza.

E allora ribelliamoci a questo mondo, diventiamo zucchero da versare nei serbatoi dei motori del capitalismo. Ritorniamo popolo e riprendiamoci la dignità, sepolta sotto le macerie delle bombe costruite col solo scopo di annientare un ideale mai morto.

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Presto di mattina /
Ritornare alla coscienza per ritrovare la speranza

Presto di mattina. Ritornare alla coscienza per ritrovare la speranza

La testimonianza della coscienza

Riportati al loro cuore smarrito dal Forestiero che si era incamminato con loro lungo la via, i discepoli di Emmaus hanno ritrovato la speranza. Ed anche se era notte, sono partiti per ridestarla negli altri rimasti a Gerusalemme.

Non diversamente, il cammino quaresimale ci fa pellegrini di speranza. Ci chiede cioè, come quello giubilare, di ritornare alla coscienza per ritrovare dentro di essa la nostra gloria: la speranza e il suo operare, l’armonia di un sapere in atto.

È questo l’invito di Agostino d’Ippona che in un’omelia afferma: «Ritorniamo dunque alla coscienza, della quale dice l’Apostolo: La nostra gloria è questa: la testimonianza della nostra coscienza (2 Cor 1, 12). Ritorniamo alla coscienza, della quale egli dice ancora: Ciascuno metta dunque alla prova le sue opere ed allora avrà la gloria in se stesso e non in un altro (Gal 6, 4).

Ognuno di noi dunque metta alla prova le sue opere, se provengono dalla sorgente della carità, se i rami delle buone opere fioriscono dalla radice dell’amore. Ognuno metta alla prova le sue opere ed allora avrà in se stesso occasione di gloriarsi e non in altri: non quando la lingua di altri dà testimonianza, ma quando la offre la propria coscienza» (Omelia 6,2).

La coscienza, «un silenzio parlante»

L’invito a ritornare coscienti a noi stessi ci viene pure da una lirica di Carlo Betocchi – le sue parole a me sempre sorprendenti di senso profondissimo, le mie inadeguate e pur a rincorrere le sue – per il quale la coscienza è «un silenzio parlante», quel muto scovare e ritrovare in se stessi, incombenti, l’Altro e gli altri.

Coscienza pure come voce di quell’esistere che parla «in nome di Lui e in nome di tutti»; luogo dunque d’alleanze e di azione, conoscendo insieme, per far ripartire la vita e il cammino riaprendolo alla speranza. Questa di Carlo Betocchi è una confessio in spe di povertà miserevole e tuttavia in essa si ritrova frammista e bisbigliante la parola poetica.

Od anche, come qui confesserai:
– Questa nuda parola, questo dire
che non può mai essere inutile,
questo equilibrio di pensiero ed atto
che si svela in pronunzia, e non è
che coscienza, un silenzio parlante,
questo muto snidare in se stesso
l’altrui, e l’Altro, che dal sé distinto
incombe, e promuove l’esistere
nel nome di Lui, e il parlare
nel nome di tutti, questo, mi pare,
nella mia miseria, il promiscuo
sentire che sussurra: – poesia.
(C. Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti Milano 1996, 367).

In me sempre latente, viva, irreparabile
è la coscienza della vita, l’erta
del suo dolore, e le contraddizioni
che l’angosciano: e insieme un non so quale
senso che l’esperienza che consuma
anche ripara i mali, anche s’addice
a far del nostro vivere una prova,
anzi un mistero necessario: e restino
in noi lottanti l’esperienze avverse
se poi, non già di là dal bene e dal male,
ma solo oltre il pagare di persona
esiste un premio di cui è parte il male
sofferto, e il suo dolore, così come
la croce al divino incarnarsi
(ivi, 290-291).

In quest’altra lirica, per Betocchi la testimonianza della coscienza è la stessa testimonianza del vivere nel suo misterioso divenire: «un passo, un altro passo» − è il nome della raccolta poetica − nel dolore di prove e contradizioni. In essa si consuma e si compie, lottando angosciati, un «mistero necessario», interrogante sempre e mai disciolto, quello del nostro patire e del suo oltre di cui pure è testimonianza la coscienza, testimone di un valico, di un vado oltre il patire, lo stesso identico mistero che fu «la croce al divino incarnarsi».

La coscienza: suo luogo il cuore

Non solo un corpo e il conoscere dei sensi, neppure solo una psiche con il suo intelligere o lo spirito nel sentire della coscienza ma, nell’antropologia spirituale ortodossa, è essenziale riferirsi alla trascendenza mistica del cuore.

Il cuore per la spiritualità ortodossa è l’uomo interiore paolino o, come dice Teofane, il Recluso «l’uomo profondo, lo spirito… Dove c’è il cuore, là c’è anche la coscienza». È nel cuore profondo che l’uomo viene a trovarsi faccia a faccia con il mistero dell’Altro e degli altri.

La coscienza allora ci pone davanti all’alterità che l’interpella sollecitando una risposta. Questa coscienza accorata − ricorda ancora Teofane − «è la leva più potente del meccanismo della vita spirituale»; essa si compie come esercizio di responsabilità d’altri. È la compassione che attira la coscienza verso il cuore, e quando la coscienza si raccoglie nel cuore, lì si fa presente anche l’altro: in essa vi si imprime indelebile il suo volto.

«Lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sono questi i segni di una coscienza che abita il cuore e tuttavia non rimane reclusa in esso, ma si fa pellegrina sulla terra, tra la gente, perché essa segue il movimento del cuore; il movimento stesso della persona che esce da se stessa e si volge verso qualcuno con lo sguardo, con l’ascolto, con il pensiero e l’azione.

«Cuore: rosa lacerata, punto d’infinito»

Si può parlare così letteralmente di una conversione del cuore. Questa poi ha i suoi verbi e le loro declinazioni che mutuano paradossalmente dalla sorgente del sentire stesso di Yahweh. Sono i verbi riportati nel racconto del roveto ardente nel libro dell’Esodo quando, mostrandosi a Mosè, Egli manifesta che il suo cuore si è rivolto verso il suo popolo in schiavitù:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».

La persona si conosce e ha coscienza di sé all’interno del “darsi”, nella relazione con l’altro ed essa ritrova il suo centro eccentrico, il suo cuore appunto, praticando i verbi della speranza che la risvegliano, la rendono consapevole di un futuro e di un esodo di popolo per realizzarlo.

Sarà allora necessario e sempre di nuovo: osservare, udire, conoscere, scendere e infine salire congiuntamente verso una meta, di cui il cuore ha sentito parlare, un’eco profondissima dentro di sé. La testimonianza della coscienza è così mossa, da dentro, da una trascendenza di amore in un cammino che fa uscire dalla schiavitù d’Egitto, il proprio io, e salire verso una terra promessa, comunione di vita, relazioni accorate, rese possibili perché abitate dall’amore.

Di salita del cuore, poi, parla anche Agostino: «Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme» (Confessioni, 13, 9.10).

Cuore, mia rosa lacera,
o punta d’infinito
che apparisce di là da ciò che sente
il senso: o voce
del mio credere: ecco
l’età che invecchio: abbi
pazienza: spera; vivi
nella speranza: o se pur erri sia
dans un adieu à jamais,
per ciò che sempre vive, e sempre è.

A discorde, intricata ed enigmatica vita corrisponde l’abbandonarsi della coscienza al sentire del cuore; coscienza fiduciosa, ma sempre in tumulto, altalenate tra due sponde del comprendere, sospira e teme, inquieta pur sapendo; il suo scorrere umile nel cuore è la fede, sostanza non debole di cose non viste, «come grido che tace» trovando «una speranza diversa» riconoscendo un volto e la sua pace.

E so quanto la vita sia discorde
con se stessa; il suo disegno
intricato; il suo discorso enigmatico.
La guardo e ne raccolgo la figura,
le credo e non le credo, anche il dolore
ha due volti, anche l’amore: resto
così, stordito, avvolto in questo slittare
della coscienza che quanto più sa,
meno è tranquilla. Ma non cedo:
dal sapere il comprendere deduco;
dal comprendere il gemere. Sospiro,
temo: e insieme sento di meritare,
dal patire, in esso inabissandomi,
una sostanza men fievole, un’unità
in cui spero nel mio dolore,
una speranza diversa, un volto
umiliato dal non conoscere più,
dall’aver fede, soltanto fede,
come grido che tace e ha la sua pace.
(Ivi, 289-290)

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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L'Europa in guerra nel Nuovo Disordine Mondiale

L’Europa in guerra nel Nuovo Disordine Mondiale

L’Europa in guerra nel Nuovo Disordine Mondiale

E’ senz’altro scontato, ma vale la pena ribadirlo e ripartire da qui. L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti segna una svolta storica, di grande profondità, paragonabile perlomeno a quella compiuta agli inizi degli anni ‘80 nel secolo scorso con l’elezione di Reagan. Quest’ultima può essere simbolizzata come l’affermazione del neoliberismo, del primato della finanza sulla politica, della nascita della globalizzazione.

I muscoli di Trump

Quella di Trump si segnala per almeno altrettanti punti di novità, che segnano una radicale rottura di continuità: la fine dello Stato di diritto negli Stati Uniti ( e non solo ), l’assoluto dominio della logica mercantile e finanziaria che non solo considera ancillare la politica, ma si sostituisce completamente ad essa, e il tentativo di instaurare un nuovo ordine imperiale nelle relazioni internazionali, basato unicamente sui rapporti di forza e che, dunque, considera il ricorso alla guerra come strumento normale per regolarle.

Come altro leggere l’utilizzo dei decreti presidenziali da parte di Trump, ad esempio, per dichiarare lo stato di emergenza ai confini con il Messico in relazione all’immigrazione oppure l’arresto e la detenzione dello studente palestinese Mahmoud Khalil, colpevole solo di aver organizzato manifestazioni pro-Palestina, se non come un chiaro tentativo di affermare che esiste solo il potere esecutivo, ispirato in questo dal mentore di Silicon Valley Peter Thiel, che dichiara tranquillamente che non credo più che la democrazia sia compatibile con la libertà ? In quanto alla sostituzione della politica da parte di un’impostazione puramente mercatista e finanziaria, basta vedere come Trump e Musk si stanno muovendo, l’uno come puro immobiliarista e l’altro come protagonista della privatizzazione dello spazio.

Allo stesso modo, sul piano delle relazioni internazionali, parla da solo l’atteggiamento di Trump rispetto a come risolvere la guerra in Ucraina, trattata come una questione commerciale, che si basa solo sul conteggio del dare/avere tra il costo degli aiuti forniti e quanto si può recuperare in termini di sfruttamento delle risorse naturali, a partire dalle terre rare.

Questo nuovo paradigma ha però aspetti ancora più inquietanti rispetto all’epoca precedente, ma non può funzionare e rischia di condurci puramente ad un “nuovo disordine mondiale”.
Forse Trump riuscirà a svolgere pienamente un ruolo da autocrate in patria, anche per la fragilità dei cosiddetti contrappesi del sistema americano, troppo sopravvalutati, per il ricorso ad un’ondata repressiva che può far impallidire il maccartismo e per l’inabissamento del Partito Democratico, che appare incapace di reagire e, soprattutto, non riesce a farlo perché dovrebbe rivoltare come un calzino le proprie politiche degli ultimi decenni. Ma non riuscirà certamente a ricostruire un mondo dominato da un’unica grande superpotenza, quella statunitense.

L’illusione americana

Il mondo multipolare è una realtà da cui non si può tornare indietro, e lo stesso dicasi per la forte interconnessione economica realizzata dalla globalizzazione.
Per dirla più banalmente,
oggi la catena del valore di un’automobile è un processo globale che coinvolge decine di paesi. Oggi, nessuna casa automobilistica produce un’auto interamente in un solo paese: la produzione è frammentata tra diverse nazioni per ottimizzare costi, specializzazioni tecnologiche e logistica. Hai voglia di mettere dazi e favorire il ritorno a casa delle produzioni, ma tutto ciò non sarà mai sufficiente a ricreare il “bel piccolo mondo antico”.

Analogamente, le scelte di politica economica, interna ed internazionale, prospettate da Trump non vanno da molte parti: come evidenziato da molti osservatori, ad esempio, la politica dei dazi, nella migliore delle ipotesi, riaccenderà l’inflazione negli Stati Uniti, danneggiando la gran parte della popolazione, costretta ad acquistare merce che costa di più, oppure, in quella peggiore, quella di una vera e propria guerra commerciale, con il proliferare di dazi e controdazi tra i vari Stati, rischia di innescare una vera e propria recessione su scala mondiale.

Non va meglio per quanto riguarda l’idea di guardare al rapporto tra gli Stati in termini di puri rapporti di forza: sia perché il mondo è costellato ormai non solo tra 2 o 3 grandi potenze globali, ma da tante medie potenze di carattere regionali, ma tutte dotate di forte identità e non disposte a subire passivamente la legge del più forte, sia perché, a partire da quest’assetto, il rischio di moltiplicare i focolai di vera e propria guerra, con la possibilità che si espandano in guerra globale, diventa assai realistico.

Il punto di fondo è che Trump non si rassegna ad uno scenario in cui gli Stati Uniti non sono più la più grande superpotenza, come è stato perlomeno negli ultimi 30 anni; ma quest’idea oggi viene riaffermata in un contesto in cui essi, a differenza del passato, non sono in una fase di ascesa, ma di declino (basti pensare al fatto che gli USA sono il Paese più indebitato con il resto del mondo e hanno un deficit pubblico interno tra i più alti nel mondo). Insomma, non sono più in grado di esercitare una reale egemonia nei confronti degli altri Paesi (intendendo con ciò che anche questi ultimi riconoscono la primazia del Paese più potente), ma devono ricorrere ad un’idea di dominio, con tutto quello che ne consegue in termini di conflitto e di ricorso alla guerra.

L’Europa confusa e subalterna

E’ in questo quadro che va valutato come si sta muovendo l’Europa e cosa sarebbe utile mettere in campo.
Dopo aver sbagliato praticamente tutto nella vicenda della guerra tra Russia ed Ucraina, stando completamente supina nei confronti delle scelte di Biden e ave
ndo sposato la malaugurata e del tutto priva di fondamento teoria che si trattava di andare avanti fino alla vittoria completa dell’Ucraina, condannandosi così al fatto di non aver voluto avanzare nessuna iniziativa diplomatica e tantomeno una proposta di pace possibile, oggi l’Europa perde completamente la bussola, decidendo di puntare tutto sul riarmo.

Si potrebbe obiettare a lungo e con diversi motivi sugli errori di quest’impostazione: dal fatto che il meccanismo degli 800 miliardi previsti , di cui 650 lasciati alle scelte nazionali, è basato sostanzialmente sul riarmo dei singoli Stati alla constatazione che un simile sforzo finanziario significa compromettere tutte le possibilità di mantenere le spese per lo Stato sociale, dall’istruzione alla sanità, facendo venire meno quel che restava del già appannato modello sociale europeo. Oppure, che la linea della Von der Leyen appare costruita appositamente per sostenere lo sforzo molto forte (fino a 1000 mld. di €) che sta facendo la Germania per il riarmo e il sostegno alle infrastrutture, favorendo ulteriormente i nazionalismi già troppo presenti in Europa, o che, semplicemente, è illusorio pensare di superare la crisi industriale tedesca riorentandola verso l’industria bellica.

Anche perché – ulteriore elemento di non poco conto – una volta prodotte le armi devono essere usate o vendute, e ciò significa alimentare le guerre.

Soprattutto, però, il piano REARM Europa, adesso ribattezzato con un po’ di pudore Readiness 2030, significa rassegnarsi a giocare un ruolo subalterno nello scenario mondiale. Anche spendendo di più in armi (e l’Europa già fa tanto, anzi troppo in questa direzione, visto che oggi le sue spese militari sono superiori a quelle della Russia) non si potrà evitare di fare la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro, se prevale la logica guerresca e dei rapporti di forza.

Un’Europa dei diritti e della pace

E’ questo ciò che va ribaltato. L’Europa deve puntare prima di tutto a un ruolo politico, al rilancio del modello sociale europeo, alla costruzione di un’iniziativa che rafforzi il multilateralismo, proponga una nuova stagione di cooperazione internazionale basata su relazioni commerciali paritarie e sulla ripresa di una stagione di disarmo globale. Insomma, una vera politica per la pace, che, in questo senso, modifica anche l’approccio al tema della difesa e della sicurezza, che non è più la difesa militare ed il riarmo per difendersi da un nemico o da una invasione, ma è il consolidamento di un sistema di relazioni tra stati che cooperano, regolato dal diritto internazionale, con un basso investimento negli eserciti e nelle armi, ed alto investimento nella difesa civile e nonviolenta.
E’ il solito pacifismo delle anime belle, che non si confrontano con la durezza dei fatti e della storia? In realtà, a me pare l’unica prospettiva credibile per evitare una deriva che scivola inevitabilmente verso un periodo prolungato di guerre e di disordine mondiale.

Certo, per realizzare tutto ciò, non possiamo avvalerci dei potenti del mondo, né di una classe dirigente europea che è accecata da se stessa e dai nuovi rivolgimenti del mondo. Serve mettere in campo una vera rivolta di popolo, tornare a far vivere quella mobilitazione che, agli inizi del secolo, in occasione della guerra nei confronti dell’Iraq, era stata definita dal New York Times la “seconda potenza mondiale”. Non so se il mio è solo ottimismo della volontà, ma vedo che sta crescendo la consapevolezza collettiva della necessità di reagire e di far sentire forte l’opposizione a quanto sta succedendo. Mi pare una buona partenza, intanto, quella proposta da diverse associazioni e movimenti europei e nazionali di organizzare un movimento europeo contro REARM Europ ( vedi il sito http://www.stoprearm.org/ ). Mi pare importante riportare il testo dell’appello lanciato che trovo, nella sua brevità, particolarmente efficace:

“Ci opponiamo al piano dell’UE di spendere 800 miliardi di euro in armi. Saranno 800 miliardi rubati. Rubati alle spese sociali, alla salute, all’educazione, al lavoro, alla costruzione della pace, alla cooperazione internazionale, alla transizione giusta e alla giustizia climatica. Saranno un beneficio solo per i produttori di armi in Europa, negli USA e in altri paesi.
Renderanno la guerra più probabile, e il futuro più insicuro per tutti e tutte. Genereranno più debito, più austerità, più confini. Approfondiranno il razzismo. Alimenteranno il cambiamento climatico.
Non abbiamo bisogno di più armi; non abbiamo bisogno di preparare altre guerre. Abbiamo bisogno di un piano totalmente differente: sicurezza reale, sociale, ecologica e comune per l’Europa e il mondo intero.
Organizziamo un movimento europeo contro ReArm Europe! Facciamolo insieme”.

Cover: Dalla favola dei vasi di Esopo,  immagine da letteralmente.net

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Hardeep Kaur: “Donne di tutti i Paesi, uniamoci per la Cittadinanza”

Hardeep Kaur: “Donne di tutti i Paesi, uniamoci per la Cittadinanza”.

Laura Hardeep Kaur, Flai Cgil

Parla Laura Hardeep Kaur, segretaria generale Flai Cgil Frosinone e Latina: “Il voto dell’8 e 9 giugno sarà un momento di svolta”
Le donne bianche dettano l’agenda politica delle donne di tutto il mondo. Scrivono la teoria che spiega le ragioni di quell’agenda, discriminano ciò che è femminista da ciò che non lo è, riconducono la violenza alle forme particolari che di essa vivono sulla loro pelle. Le donne bianche possiedono tuttora l’egemonia del femminismo, malgrado la voce del femminismo nero e decoloniale soffi sempre più forte sulle rive dell’Occidente. E malgrado la storia moltiplichi le prove che l’emancipazione delle donne bianche non procede parallela a quella di tutte le donne.

Una di queste prove è la legge sulla cittadinanza italiana. Il testo, entrato in vigore il 16 agosto 1992, sancì l’uguaglianza formale tra uomini e donne nella trasmissione della cittadinanza alla prole, ponendo rimedio alla pronuncia di incostituzionalità della legge precedente (555/1912) dichiarata dalla Corte costituzionale per via, appunto, della discriminazione di genere che riconosceva come “cittadino italiano per nascita chi era figlio di padre italiano”, ma non di madre. D’altronde, la stessa legge del 1992 innalzava da cinque a dieci gli anni di residenza richiesti ai fini della concessione della cittadinanza alle persone straniere non comunitarie.

La comunità di braccianti dell’Agro Pontino

Ripristinare il requisito dei cinque anni è l’obiettivo del referendum sulla cittadinanza per cui si voterà, insieme a quelli sul lavoro, l’8 e il 9 giugno prossimi. “Sarà un momento di svolta”: Laura Hardeep Kaursegretaria generale Flai Cgil di Frosinone e Latina, sorride mentre ce lo dice in un sabato plumbeo di marzo. Siamo nel salone della Camera del Lavoro territoriale e il suo telefono squilla. “Se hanno un padrone molto aggressivo, i braccianti della zona – racconta – mi inviano ogni giorno tramite Google la posizione del campo in cui lavorano. Temono che altrimenti, nel caso in cui dovesse succedergli qualcosa, nessuno riesca a recuperare il loro corpo”. È così che Kaur ha trovato il punto in cui lo scorso giugno era stato abbandonato Satnam Singh, accanto a lui una cassetta con il braccio tranciatogli da un macchinario agricolo.

Singh apparteneva alla comunità indiana, la più popolosa tra tutte quelle con background migratorio presenti nell’Agro Pontino. “Chi arriva in Italia dall’India – ci spiega Kaur – lo fa in modo regolare, attraverso il decreto flussi o le quote stagionali per lavoro subordinato. Una volta raggiunte condizioni economiche adeguate, chiedono il ricongiungimento familiare. Ecco perché quella indiana nacque trent’anni fa come un’immigrazione prettamente maschile, ma oggi la componente femminile è cospicua”.

L’intersezione di genere e razza

Tra le ripercussioni del mancato accesso alla cittadinanza, alcune gravano su entrambi i generi, altre esclusivamente sulle donne. Tra le prime, le difficoltà di trovare un alloggio e accedere ai servizi di base. “Sempre più spesso chi si rivolge a noi – prosegue Kaur – dichiara di aver avuto un diniego alla richiesta di affitto, o di aver ricevuto solo offerte di abitazioni fatiscenti. L’idoneità alloggiativa però è un aspetto fondamentale per chi è migrante, dato che uno dei requisiti per essere in regola – oltre a un contratto di lavoro registrato all’Agenzia delle Entrate – è vivere in un’abitazione a norma. In un Paese senza politiche abitative, una casa non troppo spaziosa è un elemento ostativo al permesso di soggiorno”. Comune a uomini e donne è inoltre l’asperità di piattaforme digitali in lingua italiana per scegliere il medico di base, abbonarsi al trasporto pubblicoiscrivere figli e figlie a scuola. Altrettanto condivisa è la pratica violenta dei caporali che sequestrano il passaporto per tenere la manodopera bracciantile sotto ricatto.

L’ articolo originale è apparso su Collettiva del 27.03.2025

Segui il sangue

Segui il sangue

Nel film Tutti gli Uomini del Presidente, diretto da Alan Pakula e basato sull’omonimo saggio scritto nel 1974 da Bob Woodward e Carl Bernstein, l’informatore segreto, denominato in codice “Gola profonda” (Deep throat), orienta le indagini dei giornalisti del Washington Post dicendo loro di “seguire i soldi” per ottenere le prove dello scandalo Watergate.

Nel 1982 Giovanni Falcone e il suo collega Giuliano Turone spiegarono ai colleghi magistrati la propria tecnica investigativa che si basava sullo stesso principio vincente “segui i soldi, troverai la mafia“.

Quello di seguire i soldi e i flussi di denaro è un buon consiglio anche quando si affronta la macroeconomia criminale delle guerre, senza nemmeno il bisogno di effettuare indagini scandalistiche, investigazioni patrimoniali o ricorrere a fonti segrete.
Per scoprire le origini, sviluppo e conseguenze dei contesti di conflitto in corso, basta osservare dati finanziari, quotazioni borsistiche e indici azionari.

Capovolgendo poi i termini della questione, ecco che il modo in cui si sviluppano i conflitti e le tattiche utilizzate sono determinati da tipologie di economie politiche delle guerre che poi modelleranno il tipo di “pace” conseguente.

Record dei Record e Top del Top dei profitti

Prendendo in considerazione il Medio Oriente, risulta innanzitutto che nessuna società nella regione è sfuggita a qualche forma di conflitto violento: guerra interstatale, rivoluzione e controrivoluzione, conflitto civile intra-statale, colpo di stato militare, così come occupazione, assedio, embargo e sanzioni.
Secondo un rapporto del progetto Costs of War della Brown University (Providence-Rhode Island), pubblicato in occasione del primo anniversario dell’attacco del 7 ottobre 2023, gli Stati Uniti hanno stanziato la cifra record di almeno 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo il rapporto, Israele, protetto dagli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1948, è il più grande beneficiario di aiuti militari statunitensi nella storia, con 251,2 miliardi di dollari, aggiornati all’inflazione, dal 1959 ad oggi.
I 17,9 miliardi di dollari beneficiati dal 7 ottobre 2023 al 7 ottobre 2024, rappresentano il record annuale di aiuti militari inviati dagli USA e il record annuale di profitti dell’industria bellica nordamericana.
Munizioni, proiettili di artiglieria, cannoni rompibunker, bombe guidate donate ad Israele e quotazioni alle stelle nei principali indici azionari statunitensi.

Secondo un proprio rapporto, il Quincy Institute for Responsible Statecraft, un think tank statunitense che si occupa di politica estera, ha rivelato che, grazie all’aumento delle forniture di armi a Israele, i produttori di armi statunitensi quest’anno hanno tutti avuto una performance da record.
Durante quest’anno chi ha investito nella difesa e nell’industria aerospaziale ha visto i propri profitti superare ogni più rosea aspettativa.
“Questa elargizione di fondi dei contribuenti a Israele, unita all’aumento della domanda di armi da parte di Israele e del mondo in un periodo di instabilità, è stata il carburante per i prezzi delle azioni”, ha aggiunto Responsible Statecraft.

I risultati hanno anche rivelato che Lockheed Martin, il produttore degli aerei F-35 utilizzati da Israele per bombardare continuamente Gaza, Libano, Siria e Yemen, ha registrato il massimo storico ottenendo un rendimento totale del 54,86% dal 7 ottobre 2023 alla stessa data del 2024.
RTX, il produttore di bombe bunker buster di 2000 libbre (900 kg) che hanno ridotto in macerie gran parte di Gaza e che attualmente vengono impiegate anche in Libano ein Siria, ha registrato il massimo storico ottenendo per gli investitori un rendimento totale dell’82,69% nell’ultimo anno.
Secondo la pubblicazione, L3Harris e Northrop Grumman hanno registrato il loro indice massimo dal 2022; General Dynamics, nota per la produzione di bombe bunker buster e bombe BLU-109 utilizzate da Israele per demolire diversi condomini nel sud di Beirut durante l’assassinio del segretario generale di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah, ha ottenuto un rendimento totale del 37%; il fondo iShares US Aerospace and Defense, gestito dalla BlackRock, la grande società di investimento, ha raggiunto un nuovo massimo storico, portando il suo guadagno su 12 mesi al 43%.

Mentre l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) riporta che dal 2019 al 2023 Israele ha rappresentato il 2,1% delle importazioni totali di armi a livello globale e che in questo arco di tempo, gli Stati Uniti hanno fornito il 69% delle importazioni di armi di Israele, mentre la Germania il 30%., MF Milano Finanza ha elaborato i guadagni in Borsa 2024 delle principali aziende europee produttrici di armi e munizioni, confermando che le guerre nel mondo sono un affare straordinario per le italiane Leonardo e Fincantieri, entrambe controllate dal Ministero dell’Economa e delle Finanze.

La Megamacchina della macro economia bellica è in moto sotto i nostri occhi. Per seguirne le produzioni, le vendite, i profitti e le conseguenze “segui il sangue”.

 

“Quel che resta del giorno: tra fragilità e autosufficienza”.
Incontro pubblico 31 marzo 2025

 

 

Il 31 Marzo 2025 ore 17.30 alla Proloco di Pontelagoscuro, presso la Sala Nemesio Orsatti di Via Risorgimento 4, si parlerà di senilità e patologie legate all’età.

L’autosufficienza ha un valore. La non autosufficienza non è solo un costo umano ed economico da affrontare, ma richiede protezione famigliare e sociale.

Ne parleremo con un geriatra (Lucio Tondi), una infermiera (Valentina Buzzoni), Paolo Bassi e Valeria Tinarelli di A.M.A – O.D.V Ferrara.

Verrà letto un brano da Diego Cesari tratto dal libro di Carlo Tassi “Pensieri e altre Carabattole – sogni, memorie e brevi racconti in ordine sparso” Este Edition 2023

Evento gratuito ed aperto al pubblico

 

Parole a capo
Massimo Teti: «Una farfalla» e altre poesie 

Massimo Teti: «Una farfalla» e altre poesie 

 

“La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra. Il poeta è simile a un rabdomante, trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare.”
(Alberto Moravia)

È l’alba

Nuvole bianche s’ accendono
di rosa nel cielo che a poco a poco
si schiara nel buio che diluisce
è l’alba che nasce dietro i palazzi
Lo sanno gli uccelli che aspettano
posati sui rami e le stelle e
la luna che si va a nascondere
lo sanno i fiori che piangono
stille di rugiada dai petali
Lo sanno i miei sensi più reconditi
che questa luce, questa pura luce
che mi invade gli occhi, che
squaderna il mondo intorno a me
Questa luce che ci svela per quello
che siamo, ombre sulla terra
nel tutto che si muove, che nasce e
che muore, il miracolo è quello
di sentirsi vivi, di essere vivi
qui e adesso, senza chiedere niente
nel tempo che ci scorre, nella storia
che ci investe, nella luce, questa luce
che ci avvolge, ci schiarisce la via
che ci riempie gli occhi, che ci irradia
il cuore e ci avvicina al cielo
Lo stesso cielo, la stessa luce che
sconfigge la notte e allontana
la morte ancora un altro po’
e ci fa dire davanti all’alba
all’aurora vestita di rosa
sono qui, sono ancora vivo.

 

*

 

Il cuore del mondo


Ho una stanchezza dell’anima e
gli occhi non riescono a guardare
non so cos’è che mi fa star male
forse quello che accade intorno a me
forse quello che accade dentro di me
il cuore è un lago profondo dove
annegano i ricordi e i pensieri
il presente è una terra desolata
di fiori secchi e d’erba bruciata
ci fosse un motivo per sperare
potrei provare anche ad amare
distrarmi da tutto questo dolore
da questa umanità che muore
da tutta questa morte intorno
e noi intenti a sopravvivere
spolpando l’ultimo brano di carne
a pagare l’ultima bolletta
della luce che si sta spegnendo
come gli occhi dei bambini in guerra
e quelli finiti in fondo al mare
che non sanno qual è la differenza
tra il bianco e il nero, tra la notte
e il giorno, tra noi e loro, ma hanno
imparato cos’è la guerra, hanno
imparato cos’è la fame e la sete
hanno imparato cos’è il dolore
hanno imparato cos’è la morte
Ho una stanchezza dell’anima e
gli occhi non riescono a guardare
ma so cosa mi fa star male
è quello che accade lontano da me
è quello che accade dentro di me
ma il cuore è un mare profondo
dove annega il presente
e a me fa male il cuore
a me fa male il cuore del mondo.

 

*

Datemi un sogno

 

Datemi un sogno, un amore o una
barca per attraversare il mare
datemi le stelle e la luna piena
sorridente, che io possa viaggiare
anche di notte, e porti sicuri
sono un uomo che vive male il suo
tempo, datemi parole nuove che
possano abbattere tutti i muri
Datemi una musica e una danza
e un fiume di gioia e di speranza
che queste lacrime diventino perle
di riso a risuonare nel cuore
Che le mani e gli occhi e la voce
perduti in fondo al mare possano
riemergere, avere un nome una croce
Datemi un posto nel mondo e una storia
da raccontare e pane da spezzare
che il sangue e il pianto sono fiume
di dolore e semi di memoria
Le luci laggiù sono lontane
troppo lontane, la notte è fredda
e la guerra non è ancora finita
il mare di sotto si muove e fa
paura e il cielo lassù ci guarda
silenzioso e indifferente
Datemi dunque parole nuove
datemi un sogno un amore una barca
e la luna e le stelle per viaggiare
anche di notte e poter arrivare
oltre l’orizzonte, oltre quel muro
in un paese chiamato futuro.

 

*

Nel sentiero tracciato dal tempo

 

Sul sentiero tracciato dal tempo
raccolgo pezzi di me sparsi come
semi che non hanno dato frutti
un bambino tremante davanti alla vita
silenzi colmi di parole racchiuse
nel guscio duro del riserbo
dietro alla porta del mio io più nascosto
cresceva il mio mondo interiore
dialoghi interminabili tra me e me
mentre il mondo di fuori accadeva
la membrana si faceva più sottile
la realtà rompeva i miei sogni
la realtà rompeva il mio guscio
parole nuove parole da inventare
e una barca per non affondare
nel mare che continuava a crescere
e onde troppo grandi da affrontare
ma la notte del tempo inghiotte tutto
e rimangono solo i ricordi
quelli che c’erano e non ci sono più
in quale anfratto in quale piega
del tempo sono caduti tutti
i volti e i momenti vissuti?
Cosa resta di me del mio mondo?
Mentre il mondo di fuori continua
ad accadere e la realtà è lì
davanti a me e la posso toccare
il mio dolore è quello del mondo
sotto la pelle sempre più sottile
nelle notti sempre più scure
tra le onde sempre più grandi
aggrappato a quel che resta di un sogno
mentre la luna si fa più pallida
e le stelle si vanno spegnendo
il buio si scolora nell’alba
salutata dal canto dei merli
non svegliatemi, voglio dormire
voglio provare a sognare ancora.

 

*

 

Una farfalla

 

Con la tua leggera veste
di ali di velo rapita dal vento
nel tuo volo celeste
ubriaca di sole
ti sei posata un momento

Forse sei una fata venuta
da un bosco incantato
per estasiare i miei occhi
rallegrare i miei pensieri neri

Se non avessi paura
di strapparti le ali
ti prenderei con me
ti porterei nella mano

Ti proteggerei dalla pioggia
improvvisa, dalla furia
dei venti, ti darei riparo
nella notte fredda e buia

Ti guarderei a lungo
per farmi rapire i sensi
per farmi sfiorare la pelle
dalla tua polvere di stelle

Scoprirei il mistero
della tua felicità
della tua bellezza
della tua libertà

Ma sei già volata via
col tuo segreto con la gioia
del tuo volo a farti baciare
ancora dai raggi del sole

Raggiungerai un prato
insieme alle tue sorelle
farete una festa di colori
di profumi tra l’erba e i fiori

Ebbre di nettare danzerete
in volo ignare
del mondo che brucia
dell’uomo che muore.

 

Massimo Teti (Roma).  E’ sempre stato un grande lettore, tanti fumetti e poi libri che leggeva in solitudine voracemente. Da grande si è iscritto alla scuola serale per lavoratori per prendere un diploma. “Ho conosciuto una professoressa, quella di lettere e storia, che mi ha aiutato molto, facendomi scoprire e riscoprire molti autori e spingendomi a scrivere. Devo a lei se ho cominciato a scrivere, anche poesie, perché mi ha aiutato a credere in me stesso, nelle mie potenzialità, mi ha dato fiducia, e di questo gliene sarò sempre grato“. Pubblica spesso sue poesie su Facebook.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 277° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Il ricordo della terra
Albino Pierro, ritratto di un poeta

Il ricordo della terra. Albino Pierro, ritratto di un poeta

Il 23 marzo del 1995 moriva a Roma il poeta Albino Pierro nato a Tursi in Lucania il 19 Novembre del 1916.

Ancora oggi, a 30 anni esatti dalla sua morte, Pierro viene considerato un “poeta dialettale”, definizione che a lui non è mai piaciuta. In una delle sue rarissime testimonianze è lo stesso Pierro a ricordare l’avvio del suo poetare nel dialetto di Tursi che, in realtà, è una lingua arcaica pre-latina:

“Il 23 Settembre del 1959, a Roma, di ritorno dalla Lucania, avvertii il bisogno di esprimermi in tursitano. Ero partito da Tursi prima del previsto, e la partenza, ingenerando in me un senso quasi angoscioso del distacco, mi aveva turbato. Prima di lasciare la grande casa di famiglia, la casa della mia infanzia, u palazze, m’ero affacciato a uno dei balconi, e avevo contemplato con intensa commozione quella che sarebbe divenuta per me un’autentica «terra del ricordo»”.

Qui comincia quella identificazione della lingua poetica con il linguaggio dell’infanzia, proprio nel momento in cui quella “terra” di fronte casa sua – tutta quella “terra” – diventava terra di ricordi a partire da quelli lontanissimi, arcaici, preistorici e dunque trasmessi e tramandati da un “linguaggio” pre-scritto, vale a dire avvertito solo attraverso suoni, voci, sogni, segni e… «gridi dell’anima».

Un idioma, anzi un idioletto che Pierro avrebbe recuperato e riordinato in una fonetica, morfologia e sintassi rispondenti a quanto di misterioso e profondo poteva e doveva accompagnare con le sue litanie e i suoi riti.

Il suo effettivo “avvio al poetare” avviene grazie alla “sottomissione” della poesia a uno dei più arcaici dialetti di tutto il sistema neolatino, studiato, in quell’estrema lingua di terra (sic!) calabro-lucana, dal glottologo Gerard Rohlfs e dal suo maestro Heinrich Lausberg e che verrà, per questo, definita area Lausberg.

Prima di questa vera e propria epifania cosmologica, Pierro aveva pubblicato Liriche nel 1946 e successivamente, fino al 1960, altre cinque raccolte poetiche tutte in lingua italiana.

Poi nel 1960, a quarantatré anni, ci fu questa famosa “svolta dialettale” con ‘A terra d’u ricorde (La terra del ricordo).

Nel 1976 Pierro vinse il il Premio Carducci e negli anni ’80 fu candidato al premio Nobel che per quei soliti “pasticciacci brutti all’italiana” non riuscì mai a portare a casa: la storia è nota ed è stata accuratamente documentata da Rocco Brancati nel suo Ritratto di poeta. Albino Pierro: intrigo a Stoccolma (RCE Edizioni, 1999).

Dal mio punto di vista Albino Pierro rappresenta una di quelle figure mitiche al pari di un tempio greco con alcune colonne ancora erette e altre coricate a terra, mezze sepolte e per questo affascinanti.

Il poeta lucano è, cioè, un simbolo di civiltà sepolte ma non scomparse; un idolo che trasmette la memoria; il ricordo di una terra e di una lingua ma, soprattutto, Pierro è l’inconsapevole esemplare, del sopravvissuto alle catastrofi. Proprio come di fatto lo è un tempio greco.

A segnare l’esistenza di Pierro furono tre episodi traumatici: la morte dopo il parto della madre; una grave malattia agli occhi, che da bambino lo costrinse spesso a restare al buio e, infine, una serie di trasferimenti in altre località, fino alla definitiva emigrazione a Roma, vissuta come un vero e proprio esilio.

Per tutte queste ragioni la sua poesia può figurarsi psicoanalitica, dominata come è da archetipi, pulsioni oniriche e intuizioni ipnotiche, dove il futuro sembra risiedere nel passato e la verità è qualcosa che vada “scoperta” a ritroso piuttosto che qualcosa da “inventare” in avanti.

Stupiscono a volte le strane coincidenze che coinvolgono le vite di individui di “provenienze” così inequivocabilmente diverse! Proprio nel 1982, quando, più o meno, ebbe  inizio l’intrigo a Stoccolma che coinvolse Albino Pierro,  Gabriel Garcia Marquez, l’autore colombiano e padre del cosiddetto realismo magico, vinse il Premio Nobel  per la letteratura.

Ecco Macondo e Tursi sembrano essere i piccoli teatri sperduti della stessa intuizione lirica di portata universale, una intuizione che il colombiano sintetizzò mirabilmente nel seguente aforisma : “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

Tornando a Pierro questa stessa intuizione si ridusse ancora di più all’osso: la vita è  ‘a terra d’u ricorde

Questa inaspettata sovrapposizione o, meglio, incredibile coincidenza di mondi così distanti ci dispone nella condizione di cogliere un aspetto importante relativo alle acquisizione di conoscenze da parte della specie umana: le “semplici” azione di scrivere e leggere (e di riscrivere e rileggere) non corrispondo affatto a quella ingenua convinzione di stare raccontando o rievocando dei fatti, mettendoli semplicemente in ordine secondo il loro accadimento.

Scrivere per IL poeta non ha a che fare con il chronos, il tempo che scorre e dunque con una sequenza di fatti da mettere in fila,  ma con il kairòs, il tempo propizio che consente di cogliere segni (e sogni) epifanici della propria vicenda storico-biografica.

E questa specie di “illuminazione” rappresenta  due ben precisi aspetti primari e identificativi della specie Homo: ‘trasmettere’ e  ‘tramandare’.

Pierro quella sera del 1959 si accostò a una semplice – magico realistica – intuizione: l’italiano poteva bastare a trasmettere, ma non era sufficiente a tramandare.

Un tempio greco, così come è arrivato fino a noi, può “mostrare”  delle colonne ancora bene erette e conservate e alcune altre riverse a terra, ma tante, tante altre non sono visibili; rimangono ancora sepolte o sono andate distrutte, eppure…

Eppure, quasi fossero un ricordo della terra, quelle “cose” sepolte continuano a “tramandarci” .

Gli innamorati

Si guardavano zitti
e senza fiato
gli innamorati.
Avevan gli occhi fermi
e brillanti,
ma il tempo che passava vuoto
vi ammucchiava il buio
e i tremiti del pianto.

Ed ecco, una volta, come l’erba
che si trova incastrata dentro un muro,
nacque una parola,
poi un’altra, poi più assai:
solo che tutte le volte
la voce somigliava
a una cosa sognata
che la senti di notte e che poi torna
più debole durante la giornata.

Sempre che si lasciassero
sembravano come le ombre
che si allungano nelle magie;
se sentivano un rumore, aguzzavano
le orecchie e si vedevano;
e se lampeggiava la luce si trovavano
faccia a faccia nel rosso dei mattini.

Un giorno
– non saprei dirvi se nel mondo
facesse freddo o piovesse –
uscì tutt’a un tratto
la luce di mezzogiorno.

Senza che lo sapessero
gli innamorati si tenevano per mano
e nuotavano insieme nel sorriso
che le campane del paese spandono.
Non c’erano più angosce;
si sentivano più lievi di un santo,
facevano i sogni delle giovinette
coricate sull’erba e che vedono
il cielo e una colomba
che gli passa davanti.

Erano giunti proprio al punto giusto:
ora si potevano stringere
si potevan baciare
si potevano unir come nel fuoco
le vampe e come i pazzi
piangere ridere e sospirare;
ma non fecero niente:
se ne stavano assorti come la neve
rosata delle montagne
quando il sole tramonta e ad ogni cosa
strappa un lamento.

Chi lo sa!
Senza dubbio temevano
di sparire toccandosi col fiato:
eran l’uno per l’altro
la bolla di sapone colorata;
e forse lo sapevano
che dopo il fuoco scorrono torrenti
di cenere e che i pazzi
se gridano troppo
li chiudono per sempre dove nessuno
oserebbe entrar mai.

Ora non so dove sono,
se son vivi o son morti,
gli innamorati;
non so se camminano insieme
o se il demonio li abbia separati.
Non voglia Iddio
sian divenuti fango nella via.*

 * Dedico questa poesia di Don Albine a tutti I’nnamurète di Ucraina e Gaza.

L’originale in dialetto tursitano

I ‘nnammurète

Si guardaàine citte/e senza fiète/i ‘nnammurète./Avìne ll’occhie ferme/e brillante,/ma u tempe ca passàite vacante/
ci ammunzillàite u scure/e i trimuìzze d’u chiante.//E tècchete, na vota, come ll’erva/
ca tròvese ‘ncastrète nda nu mure,/nascìvite ‘a paròua,/po n’ata, po cchiù assèi:/
schitte ca tutt’i vote/assimigghiàite ‘a voce/a na cosa sunnèta/ca le sìntise ‘a notte e ca po tòrnete/chiù dèbbua nd’ ‘a iurnèta.//Sempe ca si lassàine/parìne come ll’ombre/ca ièssene allunghète nd’i mascìe;/si sintìne nu frusce, appizutàine/‘a ‘ricchia e si virìne;/
e si ‘ampiàite ‘a ‘ùcia si truvàine/faccia a faccia nd’u russe d’i matine.//Nu iurne/
– nun vi sapéra dice si nd’u munne/facì’ fridde o chiuvìte –/‘ssìvite nda na botta/
‘a ‘ùcia di menziurne.//Senza ca le sapìne/i ‘nnammurète se tinìne ‘a mèna/e aunìte ci natàine nd’ ‘a rise/ca spànnene i campène d’u paìse./Nun c’èrene cchiù i scannìje;/si sintìne cchiù llègge di nu sante,/facìne i sonne d’i vacantìje/cucchète supre ll’erva e ca le vìrene/u cée e na paùmma/casi pàssete ‘nnante.//Avìne arrivète a lu punte iuste:/mo si putìna stinge/si putìna vasè/si putìna ‘ntriccè come nd’u foche/i vampe e com’i pacce/putìna chiange rire e suspirè;/
ma nun fècere nente:/stavìne appapagghiète com’a ‘a niva/rusète d’i muntagne/quanne càlete u sòue e a tutt’i cose/ni scìppite nu lagne.//Chi le sàpete./Certe si ‘mpauràine/di si scriè tuccànnese cc’u fiète;/i’èrene une cchi ll’ate
‘a mbulla di sapone culurète;/e mbàreche le sapìne/ca dopp’u foche ièssene i lavìne/d’ ‘a cìnnere e ca i pacce/si grìrene tropp assèi/lle ‘nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune/ci trasèrete mèi.//Mo nun le sacce addù su’,/si su’vive o su’morte,/i ‘nnammurète;/nun sacce si camìnene aunìte/o si u diàue ll’è voste separète./Nun mbogghia Ddie/ca si fècere zang ‘nmenz’ ‘a via.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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L’Accademia degli Intrepidi in Ferrara: una integrazione

L’Accademia degli Intrepidi in Ferrara: una integrazione

29 gennaio 1598: il Cardinale Pietro Aldobrandini prende possesso di Ferrara in nome del Pontefice Clemente VIII il quale entrerà in città il 5 maggio 1598.

In questa guisa accompagnato il Cardinale a piedi fino alla porta di esso Castello Thedaldo, che più non si vede, trovò quivi la Chinea Armellina, che gli era stata ordinata dal Giudice de’ Savi fornita di bianchissima tela d’Argento su la quale salì; si come, su i loro cavalli salirono il Giudice, et Magistrato de’ Savi, con il rimanente della Nobiltà, che quivi si ritrovava. Andavano avanti come dicemmo li soldati di esso Cardinale, dopo le quali vennero l’Arti della Città, et loro Palij, o Confaloni, et dopo queste seguirono le Regole de Frati con le loro Croci avanti, poscia il Clero, co ‘l Vescovo Fontana sotto la Croce di esso Cardinale, il quale dopo questi veniva sotto il Baldacchino cavalcando; alla cui destra era il Conte Camillo, Giudice de’ Savi; et alla sinistra il Conte Alfonso Turco. Seguiva il Magistrato; poscia il Collegio de’ Giuristi, dopo questi gli Artisti, et ultimamente poi molti Vescovi, et Prelati, che erano venuti con esso Cardinale.[1]

La restituzione di Ferrara alla Santa Sede era faticosamente avvenuta; il nuovo governo si giustificava come naturale proseguimento di quello estense decaduto per assenza di discendenza diretta. Numerose furono le misure deliberate al fine di costruire consenso ed adesione; nello stesso tempo furono riorganizzati gli strumenti di gestione del potere, alcuni specificamente costruiti. In tale contesto va considerata la fondazione della Accademia degli Intrepidi.

Nel 1600, consenziente, meglio promotore, il governo legatizio viene istituita l’Accademia. degli Intrepidi. Protettore sarà il Cardinale Bonifacio Bevilacqua (1571-1627), primo principe Carlo Cibo Malaspina (1581-1662). Entrambi ferraresi, vicini al potere pontificio, rappresentativi della aristocrazia ferrarese e della sua accettazione del nuovo ordine. Stupisce che i molti studi dedicati alla ‘devoluzione’ non si siano posti il problema della presenza della Accademia, del suo ruolo, della sua attività, delle scelte sostenute e diffuse.

In assenza di specifica attenzione si è obbligati a fare riferimento al molto posteriore libretto di Girolamo Baruffaldi il quale, quasi due secoli dopo la fondazione, ne fa schematico cenno.

Francesco Saraceni Ferrarese, Cittadino altrettanto facoltoso quanto del Genio portato a coltivare le belle arti fu il primo, che meditò, e con l’aiuto d’altri Concittadini eseguì il vasto disegno d’istituire l’Accademia verso la fine dell’anno 1600, e sul cominciare dell’anno seguente. L’impresa, o stemma dell’Accademia (che fu invenzione di Giulio Recalchi, uno de’ gran promotori) si è il Torcolo da stampa col motto: Premat dum imprimat, ed in progresso di tempo vi si aggiunse altro motto: Litteris armata, et armis erudita. Il primo solenne aprimento di essa accadde il giorno ventisei Agosto 1601, e vi recitò l’Orazione il Conte Guidubaldo Bonarelli Anconitano, la quale poi fu stampata l’anno seguente 1602 per il Baldini.[2]

Immediata preoccupazione è quella di rendere riconoscibili sia i singoli accademici che la nuova presenza la quale, in sostituzione di quelle attive in epoca estense, si propone come luogo di formazione e di diffusione del consenso. Non a caso il riferimento esclusivo è non al Maestrato ma al Cardinale Legato, rappresentante del governo romano. I Legati saranno sempre ‘protettori’ della Accademia: questa ne illustrerà il buon governo e la capacità di fare rivivere la gloria estense, quella fama letteraria che aveva dato nome e considerazione a Ferrara.  Si potrà e vorrà scrivere: «Che se l’Aquila bianca altrove è gita, / A difender il lauro Ferrarese, / l’Aquila nera è da Pistoia uscita»[3]

L’Accademia oltre ad essere letteraria si caratterizza per l’organizzazione di spettacoli teatrali e musicali, per essere luogo di formazione nelle scienze cavalleresche ad educazione dei figli della classe politica locale. Vi saranno insegnamenti, con maestri stipendiati, di musica, ballo, scherma.

Il Bonarelli, nella orazione inaugurale indicherà le qualità che gli accademici porteranno nel loro operare all’interno della società.

L’Accademia dunque per quel, ch’io ne credo, altro non è, ch’una raccolta di più nobili ingegni, i quali quinci cacciati dall’aborrimento della vita volgare, quindi tratti dall’amor dell’immortalità; dall’altra gente ad ora, ad ora si ritraggono, e chi con libri, e chi con armi, e tutti all’azioni della virtù più singolari unitamente si danno; acciocchè in questa guisa se stessi con l’opera, ed altrui con l’essemplo eccitando, vengano ad inalzar la Repubblica quanto più si può di in somma quaggiuso, alla divina simiglianza, ove la pubblica, e la privata felicità si ripone, or vedete per ispiegar con tutt’e quattro le sue ragioni la natura dell’Accademia a quante cose, e tutte grandi, tutte eccellenti è convenuto di metter mano, nobiltà d’ingegno, azion di virtù, desiderio di gloria, privata felicità, ben pubblico, divina simiglianza, può egli dunque il Mondo aver cosa altra bella a pareggio dell’Accademia, che ‘n se aduna tante bellezze?[4]

Vittorio Landrini aggiunge «L’officio dell’Intrepido virtuoso è, di postporre ogni cosa, et anco la vita stessa alla virtù, et all’onore, et patire non una, ma mille morti, se tante possibili, et necessarie fossero, per amor di essa Virtù.»[5]

L’Accademia viene soppressa nel 1797; nei quasi due secoli di vita, -non è questa la sede per ripercorrerli- promuove sedute ed edita volumi in onore dei Cardinali Legati, dei predicatori che si sono succeduti in Cattedrale, dei matrimoni e delle monacazioni che toccano le famiglie ferraresi, di eventi come le inondazioni e, in particolare, la canonizzazione di Caterina Vegri. A questi si intrecciano temi più propriamente accademici; faccio qualche esempio: Ercole Bonacossi, Discorsi Accademici (1675); Giulio Cesare Grazzini, Della poetica di Orazio Flacco (1698); Girolamo Baruffaldi, Annotazioni di un Accademico Intrepido alle ‘Osservazioni della lingua italiana’ o sia trattato dei Verbi del Cimonio, accademico Filergita (1709);Girolamo Baruffaldi, Del vincere per fortuna (1710); Gianandrea Barotti, Dell’indole di Ferrara (1735); Francesco Maria Ricci, Lezione intorno al Diluvio Universale (1740); Luigi Campi, L’Accademia (post 1786).

Le leggi prescrivono «che non si discuti di cosa niuna repugnante alla Fede né alla Fede sospetta»[6].

Tento, spero utile, qualche considerazione sul numero e la qualità degli associati. Dispersi o ancora non rintracciati sono i registri delle sedute e il materiale d’archivio affidato, al momento della soppressione, ad Jacopo Agnelli, segretario in carica. Per fortuna non si parte da zero; esiste una significativa documentazione che consente qualche riflessione. A Ferrara, presso la civica Biblioteca Ariostea, sono custoditi: Girolamo Baruffaldi, Catalogo degli Accademici Intrepidi di Ferrara come forestieri viventi nel 1719 (ms. Antonelli 21); Ristretto istorico della Fondazione e progresso dell’Accademia degl’Intrepidi … dall’anno 1600 al 1761 (ms. Antonelli 248); Giuseppe Faustini, Catalogo degli Accademici Intrepidi di Ferrara (ms. Cl. I 311. Ora, a integrazione, si aggiunge, conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, carte Varano, Elenco degli Accademici Intrepidi di Ferrara nell’anno 1781.

Dodici sono, nel 1600, i soci fondatori dell’Accademia, non sfugge che il numero è quello prescritto per la nascita delle colonie arcadiche. Vale la pena di ricordarne i nomi, tutti esponenti della nobiltà ferrarese: Carlo Cibo Malespina, Ottavio Tieni di Scandiana, Agostino Mosti, Enzo Bentivoglio, Galeazzo Gualengui, Cesare Turco, Vincenzo Rondinelli, Ercole I Calto, Carlo Strozzi, Giulio Tassoni, Guido Ubaldo Bonarelli, Galeazzo Estense Tassoni. Questi aggregheranno poi alcuni letterati.

Da una verifica degli elenchi citati riscontro che nei primi anni le adesioni sono assai contenute. Dal 1605 al 1654 sono sedici i nuovi accademici, per molti anni non vi sono ingressi. Ad esempio nessuno dal 1617 al 1636, solo due nel 1622; ancora se ne segnano solamente nel 1639 (2), nel 1643 (1), nel 1650 (1), nel 1654 (2).  Questi primi anni vedono una scarsa presenza dell’Accademia; la situazione muta profondamente negli anni 1655, 1656 e 1657 che vedono, rispettivamente 16, 83, 14 ingressi. Complessivamente 113 nuovi accademici.

Nel 1640 all’ex vicelegato di Ferrara Fabio Chigi, il futuro Papa Alessandro VII, viene richiesta una relazione sullo stato di Ferrara da consegnare al Legato Cardinale Marzio Ginetti. L’autore non dimentica “l’Accademia degli Intrepidi, che fa per impresa il torchio da imprimere col motto: Premit dum imprimit, non si raguna più, et era piena di gran personaggi con esercitarvisi tutte le funzioni sì letterarie come cavalleresche.[7]

È mancato il ruolo civile-politico previsto; si tenta una correzione con la massiccia immissione di nuovi accademici: organizzatore fu il Cardinale Carlo Pio di Savoia, arcivescovo di Ferrara dal 1655 al 1663.

Riunironsi però alcuni di questi Vecchi, e i nuovi Dotti Ferraresi aggregati alla medesima sotto auspici dell’Eruditissimo Cardinale Carlo II Pio consacrato Vescovo di questa Chiesa, il quale concorse con tutto il suo impegno a farla maggiormente risorgere: Onde nella Vigilia di S. Andrea Apostolo l’anno 1655 nel Palazzo vecchio di Casa Pia si fece sontuosa Accademia, di cui era stato eletto Principe il Signor Marchese Ercole Trotti, ed acclamarono il suddetto Cardinale Pio[8].

Vengono coinvolti esponenti dell’aristocrazia e della borghesia delle professioni i quali fanno così atto di pubblica adesione. Compaiono esponenti delle famiglie Bentivoglio, Bevilacqua, Bonacossi, Fiaschi, Montecuccoli, Riminaldi, Sacrati, Trotti, Villa e molti altri. Cito i medici Giovanni Bascarini, Maurizio Cabani; i dottori in legge Carlo Festini, Girolamo Rossetti, Florio Tori. Uno spaccato rappresentativo delle componenti della società ferrarese che potevano sedere nel primo e secondo ordine del Consiglio Centumvirale.

Insostituibile per il riconoscimento degli accademici è il Catalogo redatto da Giuseppe Faustini. Le poche righe dedicate ad ogni intrepido danno notizia della professione, dell’anno di adesione, della partecipazione ad altre accademie, della ferraresità oppure no, della morte e sepoltura. Non sempre sono complete perché il Faustini ha potuto solo parzialmente utilizzare i registri dell’accademia, in parte già smarriti.

Sono presenti spazi bianchi, in genere riferiti al luogo di sepoltura, lasciati in previsione di un aggiornamento che non vi è stato. Ad esempio per Vitaliano Trotti o Lucrezio Pepoli.

Il manoscritto non porta l’indicazione della data di stesura. È possibile una ipotesi. Nel Catalogo la data di morte più avanzata è il 1773, vale per Girolamo Agnelli, Alfonso Bevilacqua, Ascanio Bonacossi. Amadeo Coatti muore nel 1775 ma, al momento della compilazione, non compaiono né data né spazio bianco. A quella data l’intrepido è ancora vivo. Si può ragionevolmente proporre una redazione fra il 1773 e il 1775.

Faustini è molto più di un « previdente bidello »[9] Ha ambizione di studioso e di storico; fra i suoi manoscritti conservati presso la Biblioteca Ariostea vanno ricordati il Cl. I 560 ove sono note sulla famiglia Marchesella, notizie sulle edizioni ariostesche del 1516, 1521 e 1532, notizie sul paese di Vigarano; e il Cl. I 565 ove ha raccolto in due volumi poesie del secolo XVIII e XIX.

Studia presso i gesuiti, compie l’apprendistato presso l’editore Pomatelli, entra in Biblioteca grazie a Gianandrea Barotti; fra le altre cose si adopera per il trasferimento della tomba di Ariosto in palazzo Paradiso.

“Stanziando in Ferrara nel 1801 il generale Miollis caddegli in pensiero [al Faustini] di far trasportare in luogo più cospicuo le ossa di Ludovico Ariosto primo ornamento della ferrarese letteratura anzi dell’italica poesia, quindi insieme al commissario straordinario di governo invitò la municipalità centrale a prestarsi al trasporto del sarcofago dal Tempio di S. Benedetto ove giaceva all’università.” [10].

Complessivamente i nomi registrati, sino al 1773, sono 1678.

Nel XVII secolo risultano 881 aderenti, il 54% sul totale; un dato che corrisponde ad un periodo di più intensa attività, soprattutto sul piano teatrale. Nel settecento saranno 535, il 32%. La presenza di religiosi è, più o meno, paritaria a quella dei rappresentanti delle professioni liberali, in maggioranza medici e legisti: 344 i primi, 347 i secondi, ambedue al 21%. La componente ferrarese è pari al 66%, 1081; mentre i forestieri sono 464, il 28%.

Ricordo qualche nome. Il poeta bolognese Claudio Achillini; il letterato e politico Traiano Boccalini; gli esponenti della cultura pesarese di metà settecento Carlo Mosca e Giovan Battista Passeri; i letterati veronesi Marco Antonio e Luigi Pindemonte; il fiorentino Orazio Renna; l’autore del Canocchiale aristotelico Emanuele Tesauro; il bolognese Giovan Pietro Cavazzoni Zanotti e il frate olivetano Marco Antonio Zucchi, famoso per la sua capacità di improvvisatore.

Importante, ma limitata quasi esclusivamente al seicento, è la presenza di rappresentanti delle case regnanti negli stati italiani. Cito il vicerè di Sicilia Don Francesco De Castro, i duchi di Urbino Francesco e Federico Della Rovere, i duchi di Parma Odoardo e Ranuccio Farnese, quelli di Mantova Vincenzo, Giovanni e Carlo Gonzaga, Cosimo II dei Medici duca di Toscana.

Per gli ecclesiastici. Mi limito a registrare quella dei cardinali legati e degli arcivescovi della città; di molti cardinali importanti o per essere di famiglia ferrarese come i ‘protettori’ Bonifacio Bevilacqua Aldobrandini, Carlo Emanuele Pio di Savoia,e Cornelio Bentivoglio d’Aragona, o  per i ruoli ricoperti nella Curia romana quali Roberto Bellarmino, Federigo Borromeo, Pier Luigi Caraffa, Fabrizio Savelli. Alcuni diverranno pontefici come Ippolito Aldobrandini che sarà papa Clemente VIII, Maffeo Barberini che prenderà il nome di Urbano VIII, Camillo Borghese papa Paolo V, Fabio Chigi papa Alessandro VII, Alessandro Lodovisi Papa Gregorio XV.

I ferraresi ci sono tutti; cito quasi a caso: Fulvio Testi, Giovan Battista Aleotti, Daniello Bartoli, Niccolò Cabeo, Ferrante Borsetti, Girolamo Baruffaldi, Gianandrea Barotti, Onofrio Minzoni, Agostino Novara, Giuseppe Antenore Scalabrini, Francesco Saraceni, Antonio Frizzi, Girolamo Frescobaldi, Cesare Cittadella, Giuseppe Lanzoni, Claudio Todeschi, Alfonso Varano, compreso il fondatore Francesco Saraceni ‘amantissimo delle lettere e de’ letterati, e gran promotore delle belle arti’[11].

Il Catalogo Baruffaldi (1719) e l’Elenco 1781 testimoniano, per i rispettivi tempi, che ogni anno sono attivi in città circa 150 accademici; nel 1719: 161, nel 1781: 158. Fanno opinione.

L’indicazione dell’Elenco 1781, ignoto agli studi, consente di integrare la documentazione. Appare una decina di anni dopo il Catalogo del Faustini.

Una parte dei 158 nomi coincide con quelli indicati dal Faustini; cinquantotto si aggiungono testimoniando nuove adesioni e continua vitalità.

Si tratta di un foglio volante, conservato fra le carte Varano nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, di presentazione dell’Accademia in occasione di una pubblica manifestazione che non sono riuscito ad individuare.

La cornice è opera dell’incisore Giovanni Davide (Cabella Ligure 1743 – Genova 1790) attivo a Venezia ove è pittore scenografo del Teatro La Fenice. È eseguita per l’occasione come dimostrano i “Dell’Eridano voi Cigni canori; ” [12] Tale raffigurazione identitaria appare spesso, riproduco dal volume in memoria del Cardinale Acciaioli.

I nuovi sono nomi di prestigiosi autori non ferraresi che partecipano dell’accademia; ricordo letterati ed arcadi Francesca Roberto Franco, Clemente Bondi, Angelo Tinelli, Marcantonio Trissino, Domenico Dionigi, Maria Maddalena Morelli Corilla Olimpica, Fortunata Sulgher Fantastici

Significano almeno due cose: che l’Accademia era ancora forte e rinomata se personaggi famosi ritenevano utile e proficuo aderirvi; che l’Accademia con questi ingressi dimostrava non solo a Ferrara ma alla intera repubblica letteraria la sua qualità e la sua importanza.

Note:

[1]FAUSTINI 1646 pp. 144-145.

[2] BARUFFALDI 1787 pp. 25-26; il Maylender parafrasa il testo del Baruffaldi..

[3] BANCHIERI 1758 p. XXX.

[4] BONARELLI 1602 p. 3.

[5] LANDRINI 1603 pp. 41-42.

[6] LOMBARDI 1977 pp. 201-208

[7] La relazione è custodita presso la Biblioteca Apostolica Vaticana ms. Chigi Q. II. 46: Descrizione della Città e Stato di Ferrara fatta da mons Chigi in Colonia al card. Ginetti destinato ivi Legato. Il testo è stato trascritto e pubblicato in PALIOTTO 2006 p. 340.

[8] RISTRETTO p. 24.

[9] CHIAPPINI 1993 p. 132.

[10] FAUSTINI 1841 p. 7.

[11] UGHI ad vocem.

[12]  Gennaro Pascali, Sonetto in ACCIAIOLI 1719 p. 62.

Bibliografia finale

ACCIAIOLI 1719 – Funerale celebrato dall’Accademia degl’Intrepidi di Ferrara all’E.mo, e Rev.mo Sig. Cardinale Niccolò Acciajoli suo Protettore l’anno MDCCXIX sotto il Principato dell’Ill.mo Sig. Conte Ercole Antonio Riminaldo, in Ferrara, eredi di Bernardino Pomatelli 1719

BANCHIERI 1758 – A Sua Eminenza il Signor Cardinale Giovanfrancesco Banchieri Legato di Ferrara acclamato Protettore della Accademia degli Intrepidi, in Ferrara, presso Bernardino Pomatelli Stampatore Arcivescovile 1758

BARUFFALDI 1719 – Girolamo Baruffaldi, Catalogo degli Accademici Intrepidi di Ferrara così Ferraresi come forestieri viventi nel 1719, Ferrara, Civica Biblioteca Ariostea ms. Antonelli 21

BARUFFALDI 1787 – Girolamo Baruffaldi Secondo, Notizie istoriche delle Accademie Ferraresi, in Ferrara, per gli eredi di Giuseppe Rinaldi 1787

BONARELLI 1602 – Guidubaldo Bonarelli, Orazione recitata nell’aprire dell’Accademia degli Intrepidi, in Ferrara, appresso Vittorio Baldini Stampatore dell’Accademia 1602

CHIAPPINI 1993 – Alessandra Chiappini, Dalla ‘Libreria dell’Almo Studio’ alla Biblioteca della Città in Palazzo Paradiso e la Biblioteca Ariostea a c. di Alessandra Chiappini , Roma, Editalia 1993

FAUSTINI 1646 – Libro delle Historie Ferraresi del Sig. Gasparo Sardi con una nuova aggiunta del medesimo autore aggiuntivi di più quattro Libri del Sig. Dottore Faustini sino alla Devolutione del Ducato di Ferrara alla Santa Sede. Con le Tavole di tutti gli due Libri. All’Eminentissimo, e Reverendissimo Signore il Signor Cardinale Giulio Sacchetti, in Ferrara, per Giuseppe Gironi Stamp. Episc. 1646

FAUSTINI 1841 – Vincenzo Faustini, Elogio di Giuseppe Faustini, Bologna 1841.

 

In copertina: incisione di Giovanni Davide per l’Accademia degli Intrepidi

Per leggere gli altri interventi di Ranieri Varese su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

 

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 “voci e suoni da un’avventura leggendaria”: uno spettacolo di teatro ragazzi alla casa circondariale di Venezia

Teatro – Carcere – Scuola:
 “voci e suoni da un’avventura leggendaria”
Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia
63° giornata mondiale del teatro – 12° giornata nazionale di teatro e danza in carcere

Progetto teatrale “Passi Sospesi”, voci e suoni da un’avventura leggendariauno spettacolo di Teatro Ragazzi alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, Venezia

 Giovedì 27 Marzo 2025, ore 16.00, ingresso riservato agli autorizzati

In occasione della 63a Giornata Mondiale del Teatro e della 12a Giornata Nazionale di Teatro e Danza in CarcereBalamòs Teatro in collaborazione con la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, organizza un’iniziativa sul teatro in carcere con la presentazione dello spettacolo di Teatro Ragazzi voci e suoni da un’avventura leggendaria.

Questa iniziativa è promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e il  Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha istituito la data del 27 Marzo come 12a Giornata Nazionale del Teatro e Danza in Carcere in concomitanza con la 63a Giornata Mondiale del Teatro, promossa dall’International Theatre Institute, Unesco (il messaggio della Giornata Mondiale del Teatro per il 2025 è stato affidato al regista Theodoros Terzopoulos).

Lo spettacolo di Teatro Ragazzi voci e suoni da un’avventura leggendaria è tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi. Eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontate con leggerezza e ironia dagli alunni delle scuole secondarie di I° Grado “T. Tasso” di Ferrara: Gabriela Chiriac, Daria Cusato, Giacomo Ferrara, Emanuele Ferraretti, Yosef Hamdaoui, Ginevra Magnani, Maria Amelia Ronchi, Ginevra Tartaglia, Chen Zixin Kevine e alcuni detenuti dal progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia.

Lo spettacolo è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti Penitenziari di Venezia, e “Sguardi Diversi” alla scuola “T. Tasso” di Ferrara. Collaborazione artistica Patrizia Ninu, foto Andrea Casari, video Marco Valentini.

Sarà un’occasione per fare una riflessione sul ruolo del teatro in carcere e confrontarsi sul rapporto tra il carcere e il territorio per capire se, e come, la società possa contribuire nel percorso rieducativo della pena. In questa circostanza la scuola e il carcere si incontrano attraverso il teatro in una straordinaria occasione di formazione teatrale e umana. Alla presentazione dello spettacolo saranno presenti alcuni detenuti, operatori interni, e un gruppo di spettatori esterni (ingresso riservato agli autorizzati).

L’anima dello spettacolo proposto è il desiderio di stare insieme attraverso un fare insieme, adolescenti e uomini detenuti, nel tentativo di raccontare e raccontarsi, di mettersi alla prova, di navigare insieme per scoprirsi e scoprire altri orizzonti possibili, di affrontare insieme paure, giudizi, conflitti.

Con una metodologia che tende, attraverso stimoli precisi, a rendere ciascuno protagonista del proprio percorso, dei propri personaggi e delle proprie interpretazioni. Con il regista che si propone come pedagogo teatrale, accompagnatore, facilitatore, disponibile a navigare con gli adolescenti e gli uomini detenuti tra i moti calmi e ondosi del lavoro teatrale, tra scoperte e frustrazioni, tra le bonacce e tempeste della crescita.

Il teatro ha come obiettivo contribuire ad attivare un lavoro di riflessione, di introspezione e di cambiamento che, pur con difficoltà e fatica, le persone recluse sono chiamate a fare su loro stesse, sui pregiudizi, sugli stereotipi, sul come ritrovare un nuovo modo di essere, sull’elaborare la gioia e la rabbia senza maschere, e per restituirli attraverso la pratica teatrale.

C’è una linea che Michalis Traitsis, sociologo, regista, pedagogo teatrale e direttore artistico di Balamòs Teatro (membro fondatore del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere e del gruppo di progettazione della rassegna nazionale di teatro in carcere Destini Incrociati) e responsabile del progetto “Passi Sospesi” negli Istituti Penitenziari di Venezia, ha scelto di percorrere, dalla prevenzione alla detenzione, ed è quella di guardare ad una prospettiva culturale, attraverso lo strumento dell’arte teatrale, nell’approccio alle tematiche della reclusione e dell’esclusione. Cultura come testimonianza, come confronto, memoria, rete nei e dei territori, tutela delle fasce più deboli della società. Cultura della diversità e dell’inclusione sociale.

Evento promosso da: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Regione del VenetoComune di Venezia, Università IUAV di Venezia, Centro Teatro Universitario di Ferrara, Associazione Nazionale Critici di Teatro, International Theatre Institute – UnescoIntegrate Project – Creative Europe.
Locandina voci e suoni da un’avventura leggendaria – C.C SMM, Venezia – Marzo 2025
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DAP – XII GIORNATA NAZIONALE TEATRO IN CARCERE  

Vite di carta /
“Avevamo studiato per l’aldilà…” di Eugenio Montale e altri segnali

Vite di carta. “Avevamo studiato per l’aldilà…” di Eugenio Montale e altri segnali

Stamattina mi trovo all’ufficio anagrafe, primo di una nutrita serie di altri uffici a cui rivolgermi, perché ho smarrito documento di identità e tessera sanitaria. In testa ho i pochi straordinari versi che Eugenio Montale ha dedicato alla moglie Drusilla, scomparsa qualche tempo prima, in una poesia della raccolta Xenia (1964 – 1966):“”Pregava?” “Sì, pregava Sant’Antonio/perché fa ritrovare/gli ombrelli smarriti e altri oggetti/del guardaroba di Sant’Ermete”./Per questo solo?” “Anche per i suoi morti/e per me”./”È sufficiente” disse il prete”.

Cara Drusilla Tanzi, dove sarà finita la piccola busta con i miei documenti. Eccomi qui a subire la trafila delle procedure che mi restituiranno i duplicati, grata tuttavia di poterli ottenere, veri ombrelli della identità sociale di cui ho necessità di riappropriarmi.

Sono con Montale in questo chiamare in causa l’aldilà di fronte ai momenti della vita di ogni giorno in cui occorre un supporto alla nostra sensibilità, una piccola spinta alla forza d’animo che abbiamo, ma che può vacillare nei continui labirinti della quotidianità.

Lo faccio anche oggi, sempre più convinta che le connessioni con l’aldiqua non vadano escluse. Da molti anni le sento e le legittimo.

Il 19 febbraio scorso assisto presso la sede della Fondazione ADO di Ferrara alla presentazione di Sordo “Muta”, il libro intenso che Roberta Marrelli ha scritto in ricordo della sorella Paola scomparsa in giovane età e a beneficio dei lettori che vogliano condividere la sua particolarissima esperienza comunicativa e la fiducia che la vita esiste anche nel dopo. Siamo al terzo incontro della Rassegna ADOttiamo un autore, alla sua prima promettente edizione presso il salotto accogliente della sede di Via Oriana fallaci. Mi emoziono, rifletto, parlo con l’autrice nel corso della conversazione del gruppo intervenuto all’incontro. Torno a casa con una sensazione di pace totale.

Mi ritorna in mente ora un altro testo da Xenia, in cui Montale esprime la reciprocità della comunicazione tra il qui e l’oltre: non rivolgiamoci solo noi ai nostri morti, concordiamo con loro una modalità per continuare a parlarci, contaminiamoci dell’altra dimensione.  “Avevamo studiato per l’aldilà/un fischio, un segno di riconoscimento./Mi provo a modularlo nella speranza/che tutti siamo già morti senza saperlo”. Quante volte ho lanciato e avvertito quel fischio verso e da un altrove che non riesco a sentire lontano. Sono i miei cari a condurmici.

Ho avvertito segnali, e li racconto a Roberta Marrelli dopo che lei ha aperto a noi la sua storia: suscitata dalle domande di Matteo Tosi che le è amico e attore come lei, ci ha appena detto del legame profondo con la sorella affetta da sordità ma forte di carattere e felice della vita. Arresa a un tumore che gliel’ha tolta a quarantacinque anni, ma capace di fare avvertire la sua presenza amorevole in più occasioni, dopo la sua scomparsa.

La reciprocità nel mandarsi segnali d’amore fa parte della storia che ha legato le due sorelle, un capitolo di questa storia viene semplicemente scritto dopo il 29 maggio 1995, giorno del funerale di Paola. La reciprocità si traduce, poi, narrativamente nell’alternarsi delle voci narranti: il corsivo restituisce le parole di Paola: sono racconti di vita, ricordi degli stretti legami familiari, rinforzi affettivi verso Romy-Roberta che nella pagina seguente prende di nuovo la parola per ricordare il vissuto che hanno condiviso. Una citazione per tutte da Paola: “Io ho avuto la fortuna di poter contare su di te per tutta la mia vita”.

Lo stesso che Montale riconosce a Drusilla quando scrive del “radar di pipistrello” con cui la moglie poteva riconoscere anche al buio gli imbecilli col loro “bla bla”, altro che miopia. Lei sì ci vedeva e si faceva bussola per il poeta nell’incedere dentro la vita.

Nei giorni e nei mesi che seguono la scomparsa di Paola accadono fatti che la razionalità spiega a modo suo, ma che per la sensibilità di Roberta Marrelli conducono a sentire la vicinanza della sorella e a crederci. Lo comprendo. Torno a casa sentendomi in cordata con lei e con chi ha modo di staccarsi dal logos per lasciar entrare dentro al proprio spazio-tempo i segnali di un oltre che non va escluso.

Nota bibliografica:

  • Roberta Marrelli, Sordo “muta”, Al.Ce.Editore, 2017
  • Eugenio Montale, Xenia (ultima sezione della raccolta Satura), in Montale. Tutte le poesie, Mondadori, 1990

Cover: tomba di Eugenio Montale e Drusilla Tanzi presso il cimitero di San Felice a Ema, su licenza wikimedia commons

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

IL SOFFUSO SILENZIO DI HAMMERSHØI . Rovigo, Palazzo Roverella, fino al 29 giugno

IL SOFFUSO SILENZIO DI HAMMERSHØI.
Rovigo, Palazzo Roverella, fino al 29 giugno

IL SOFFUSO SILENZIO DI HAMMERSHØI.
Rovigo, Palazzo Roverella, fino al 29 giugno

Nella penombra delle sale espositive di Palazzo Roverella (Rovigo), lo sguardo si posa pacato sulle opere di Vilhelm Hammershøi, pittore danese famoso in Europa all’epoca in cui dipingeva, a cavallo tra l’800 e il ‘900, e attualmente riscoperto, tanto da rendere non facilmente reperibili i suoi quadri, qui raccolti a cura di Paolo Bolpagni, e presentati assieme ad altri artisti suoi ispiratori o vicini alla sua sensibilità.

Vilhelm Hammershøi , autoritratto 1895

Lo sguardo riposa nella calma delle raffigurazioni di interni fermi, lineari, essenziali, dove la luce arriva sempre filtrata dall’esterno, attraversando vetrate, finestre, corridoi, per giungere morbida sulle cose, discreta e, appunto, silenziosa. Un’atmosfera nelle sobrie stanze dove il respiro di luce dell’esterno accompagna al raccoglimento degli interni, dove si avverte il vuoto dello spazio più della consistenza degli arredi: un ‘clima’ che oserei accostare alla dimensione meditativa dello zen. (“La porta bianca” V. Hammershoi))

L’immobilità cela però qualcosa che, a suo modo, è movimento, o meglio vibrazione, anche inquietudine. Una caffettiera sulla stufa che svapora (Georges Le Brun “Caffettiera sul fuoco”), presenze umane a volte evanescenti come fantasmi (“Serata in salotto” V.Hammershoi), i numerosi interni abitati (o meglio dis-abitati) da figure sfuggenti, che appaiono tra le porte, accennano ad atti quotidiani emergendo solo un poco dalle ombre, restano fissate nell’incedere immerse nella lettura (“La luce nel salotto III”), vivono nel riflesso degli specchi, che rivela forse meglio la tonalità emotiva e relazionale dei personaggi raffigurati.

Incorniciato nell’ovale di uno specchio l’artista ci guarda, mentre la moglie è raffigurata sullo sfondo di spalle: così egli ci racconta con equilibrata malinconia l’inconoscibilità (dovuta credo alla malattia mentale di lei) e l’incomunicabilità che abita le stanze di casa; tema ispiratore, in anni successivi, del film che riprende i gesti ripetitivi di una coppia incapace di vera intesa in angusti spazi domestici (“Gertrud” di C.T. Dreyer, 1964) e a me ricorda le opere di Ingmar Bergman. Finestre, porte, specchi come diaframmi tra diverse realtà, schermi forse da oltrepassare per ‘rompere’ le barriere della monotonia che ricalca modalità pacate ma un po’ ossessive nel trascorrere di un tempo fermo, senza prospettiva.

Vilhelm Hammershøi, porte bianche, porte aperte, 1906 Vilhelm Hammershøi, porte bianche, p0orte aperte, 1906 – Collezione Davids,

La scelta emblematica di Hammershoi di raffigurare la moglie di spalle (“Riposo”), oltre alla difficoltà comunicativa, mi parla di un’attenzione al lato nascosto, che è meno sotto il nostro controllo e meno artefatto (non con quello ci presentiamo al mondo) ed è quindi più vulnerabile.
Lo sguardo del pittore non è condizionato da quello del soggetto, forse così coglie meglio aspetti diversi della persona e della relazione con lei. Nella linea morbida della nuca, scoperta dai capelli raccolti, si avverte dolcezza e quasi l’attesa di qualcosa che resta sospeso, nell’atteggiamento abbandonato e un po’ sognante della ragazza.

In generale, la sua è una visione un po’ cupa che però restituisce un senso di mistero e insieme di limpidezza. Proprio uno dei ritratti della moglie chiamò l’attenzione del poeta R. M. Rilke, che volle incontrare Hammershoi e lo apprezzò.

Nel corso dell’esposizione, gli fanno eco le opere di vari pittori italiani ed europei che raffigurano interni spogli, dimessi, o paesaggi solitari, ombrosi, immersi nel silenzio e in un’aura mistica, poetica, spesso notturni e suggestivi (M.Reviglione “Notturno metafisico”, “Il lago dei poeti”), d’ispirazione simbolista e crepuscolare, con accenni anche al divisionismo.

Da ultimo apprezzo il lavoro attuale del fotografo spagnolo A. Gallego, che nei suoi scatti ricrea gli interni delle opere di Hammershoi evocandone l’atmosfera intimista ed enigmatica, con gradevoli esiti.

Esco come avvolta da un’aria rarefatta e vaporosa, immersa nelle sfumature ovattate dei non-colori amati da Hammershoi, toni neutri di grigi, beige, marrone, in gradazioni scure o più chiare; resto nel mistero delle numerose porte bianche che si aprono ripetutamente su altri spazi, di sommessa luce, in un calmo soffuso silenzio.

—————————————-

HAMMERSHØI e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia

21 febbraio / 29 giugno 2025

Palazzo Roverella, Rovigo

0425 460093

info@palazzoroverella.com

 

In copertina: Vilhelm Hammershøi,  Sole nel salotto,   Museo Nazionale di Stoccolma

Per leggere li altri articoli di Anna Rita Boccafogli clicca sul nome dell’autrice

 

No all’accordo tra Amministrazione Comunale e Hera sull’inceneritore

No all’accordo tra Amministrazione Comunale e Hera sull’inceneritore, che monetizza la salute dei cittadini.
Dimezzare l’incenerimento e ripubblicizzare il servizio dei rifiuti: una strada alternativa e possibile.

Apprendiamo dalla stampa che è stato realizzato un accordo tra l’Amministrazione comunale e Hera come compensazione per il disagio ambientale derivante dall’innalzamento della capacità produttiva dell’inceneritore e della quota di rifiuti speciali non pericolosi lì bruciati. L’accordo prevederebbe un riconoscimento di circa 600.000 € annui, iniziando da una somma di circa 2,6 milioni di € per gli anni pregressi 2021-2025, per continuare negli anni a venire.

Riteniamo tale scelta sbagliata e controproducente.

Intanto, con quest’accordo l’Amministrazione comunale smentisce se stessa. Infatti, nel 2021, quando si decise di aumentare la capacità produttiva dell’inceneritore da 130.000 a  142.000 tonn/anno, il Comune di Ferrara si dichiarò contrario. Annunciò di adire le vie legali con un ricorso al TAR, ricorso di cui si sono perse le tracce e della cui fine l’Amministrazione comunale dovrebbe rendere conto alla cittadinanza. Soprattutto, però, con quest’accordo, si legittima il fatto che dovremo tenerci l’inceneritore con l’attuale capacità produttiva perlomeno fino al 2029, con la quasi certezza di proseguire anche successivamente. Si decide così di monetizzare la salute dei cittadini: per un po’ di soldi in più, si continua ad alimentare l’inceneritore che, notoriamente, procura problemi seri dovuti all’emissione di sostanze inquinanti nell’ambiente.

L’Amministrazione comunale di Ferrara sposa una linea assolutamente contraria agli interessi dei cittadini, passando da un finto contrasto dell’aumento dell’incenerimento ad una sua piena accettazione.

Tutto ciò è ancora più grave alla luce del fatto che, invece, è possibile imboccare una strada diversa e alternativa. Infatti, nel 2023 – ultimo anno in cui sono disponibili i dati- l’inceneritore di Ferrara ha bruciato più rifiuti speciali non pericolosi che rifiuti urbani; circa 85.000 tonn. i primi e circa 61.000 i secondi, con una tendenza che, nel corso degli anni, ha sempre visto crescere il trattamento dei rifiuti speciali rispetto a quelli urbani. Ebbene, su questa base sarebbe possibile iniziare un percorso per dimezzare l’inceneritore, passando dalle attuali 2 linee ad una sola. Altro che proseguire all’infinito con tale assetto! Allo stesso modo, come proponiamo da tempo, si può ripubblicizzare il servizio dei rifiuti urbani a Ferrara. Lo ricordiamo perché non ci vuole molto a realizzare che l’accordo raggiunto ieri diventa una premessa per mettere a gara anche il servizio dei rifiuti, con la pressochè inevitabile conclusione che se lo aggiudicherà Hera.

Insomma, inizia a svelarsi la strategia dell’Amministrazione comunale di Ferrara: lasciare che Hera gestisca tutto il ciclo dei rifiuti sulla base degli interessi dell’azienda, che continuerà a fare lauti profitti, e non certo di quelli dei cittadini!

Noi abbiamo un’idea completamente diversa: la esporremo in modo ancora più approfondito con il convegno che abbiamo organizzato per giovedì 27 marzo alle 17,30 c/o Grisù in via Poledrelli 21 con Natale Belosi, del Comitato scientifico della Rete Rifiuti Zero Emilia-Romagna e Andrea Bertozzi, responsabile dell’area tecnica di ALEA, l’azienda pubblica che gestisce il servizio dei rifiuti urbani a Forlì e in altri 12 Comuni limitrofi.

FORUM FERRARA PARTECIPATA
RETE GIUSTIZIA CLIMATICA FERRARA

#liberiamoFerraraDaHera

Cover:  L’inceneritore Hera di Ferrara

ReArm, come riportare la guerra nel cuore dell’Europa

ReArm, come riportare la guerra nel cuore dell’Europa

Perché l’Europa ha deciso solo ora il ReARm? Perché una emergenza che invoca l’art.122 per bypssare il Parlamento? La guerra in Ucraina è in corso da tre anni, sarebbe stato più razionale deciderlo prima, subito dopo l’invasione della Russia nel febbraio 2022 o, al più tardi, in aprile, come arma di pressione sul negoziato in corso. Qual è quindi l’urgenza di questa decisione che arriva proprio nel momento in cui si stanno avviando i negoziati per la pace?

Il progetto da 800 miliardi di ReArm dell’Unione Europea è un tentativo, tardivo e disperato, di riportare l’Europa al tavolo della Nuova Yalta che stanno confezionando Trump e Putin; avendo però presente che esiste un altro convitato di pietra chiamato Cina.

Ciò che è in ballo è molto più della pace tra Russia e Ucraina, del Donbass o della neutralità dell’Ucraina. In ballo ci sono le nuove sfere di influenza dei prossimi decenni e un sacco di relativi affari che porteranno vantaggi solo a chi si siede a quel tavolo. Non è la prima volta che acerrimi nemici dopo decenni di guerra si alleano, creando scompiglio tra i vecchi alleati nei rispettivi campi. Successe nel 421 a.C. con l’”inaudita alleanza” tra Atene e Sparta che si facevano guerra da 50 anni e altre volte nella storia.

Trump non ha mai celato che avrebbe radicalmente cambiato la politica estera americana, abbandonando l’idea di un governo unilaterale del mondo e scendendo a patti con Cina e Russia, pur di fare affari per la sua America. Del resto Cina, Russia (e i Brics) avevano deciso da tempo (formalmente dal 2009) che erano mature le condizioni (economiche, tecnologiche, di materie prime contro finanza occidentale) per imporre agli Stati Uniti una Nuova Yalta.

Qualcosa si era percepito già con Obama, dopo la crisi del 2008 dei subprime (e della globalizzazione) come “economia incantatrice”. Obama aveva cominciato a distanziarsi dall’impostazione dei “geopolitici-gerontocratici di Washington” (formatisi al tempo della guerra fredda), facendo entrare la Russia nel WTO nel 2012 e rifiutandosi di armare l’Ucraina dopo l’inizio delle guerra civile in Donbass nel 2014. Lo stesso Biden, che pure aveva ripreso la strategia neocon del dominio unilaterale e dello smembramento della Russia, aveva proposto a Zelensky di fuggire in elicottero nei primi giorni dell’invasione russa, ma poi, come spesso accade nella storia, essa ha preso (con l’inaspettata resistenza ucraina) un’altra piega.

Europa e Inghilterra, seguendo da sonnambuli la via della guerra dell’amministrazione Biden (incluso il sabotaggio al tavolo di Istanbul in aprile 2022), si sono trovate fuori dai giochi con il cambio di strategia di Trump. Se non è certo che questa strategia di Trump sarà efficace, è invece certo che chi siederà al tavolo della Nuova Yalta incasserà vantaggi economici concreti per i propri cittadini. E’ quindi comprensibile il panico e l’isteria delle élite europee (e inglesi) che si vedono escluse, per la prima volta negli ultimi 110 anni, dal tavolo dei “vincitori” e sostituiti con russi e cinesi, proprio dagli Stati Uniti.

Ben altrimenti sarebbe stato se l’Europa, costruitasi con una propria statualità federale, avesse avviato una propria forza armata e relativa politica estera già 20 anni fa e fosse intervenuta, a quel punto, in Ucraina con la propria voce tonante sia con le armi che con la diplomazia. Ma in questo caso non ci sarebbe forse stato neppure l’allargamento ad est della Nato, neppure il cambio di regime a Kiev nel 2014 (voluto dagli americani), neppure l’invasione russa nel 2022, perché si sarebbe (probabilmente) affermata quell’Ostpolitik (che la stessa Merkel ha coltivato per anni con discrezione) e quel dialogo con la Russia che metteva Europa e Russia in sicurezza con un’Ucraina neutrale.

Oggi fa impressione che sia proprio l’Inghilterra post Brexit a porsi a capo dei volenterosi europei per una forza di garanzia per l’Ucraina (all’interno di accordi di pace) che è improbabile venga accettata da Trump-Putin. Un’armata Brancaleone come disperato tentativo di sedersi con uno ”strapuntino” al tavolo della Nuova Yalta. A questo serve il ReArm, per questo è urgente: far capire che ci siamo anche noi europei (e inglesi) al fine di avere una fetta della “torta”, al grido di democrazia e libertà.

ReArm prevede che i singoli paesi possano aumentare il loro debito in spesa militare nei prossimi 7 anni (fino al 2031) dell’1,5% del PIL. In direzione opposta alla missione spirituale dell’Europa dei popoli, già indicata dal Manifesto di Ventotene da Spinelli e Rossi nel 1941, come forza armata comune (indipendente dagli Usa). Se fosse nata agli albori della UE o anche 10 anni fa, avremmo avuto il tempo per uniformare eserciti e armi creando quelle economie di scala e quella forza armata comune che sarebbe costata molto meno della somma delle attuali spese dei 27 membri (315 miliardi). E con le economie si sarebbe potuto avviare un welfare europeo che è ciò che interessa ai cittadini, mentre i capi cercano di accumulare vantaggi con le guerre e le logiche di potenza.

Ora è tardi, e giunge paradossalmente quando sono in corso i negoziati per la pace tra USA, Russia e Ucraina, già sabotati in aprile 2022 dagli inglesi che ora guidano il ReArm. La Russia potrebbe non accettare, in pochi giorni, la tregua dei 30 giorni sia perché punta ad una pace duratura, sia perché l’accordo con gli Stati Uniti va ben oltre l’Ucraina e dovrà vedere coinvolta (seppure nessuno credo ne farà cenno) quella Cina che siede al tavolo come un convitato di pietra.

Nella storia non è la prima volta che chi si batte per una tregua non riesce subito nel suo intento: la Germania prese questa iniziativa nel 1916, Papa Benedetto XV nel 1917, ma le potenze anglosassoni “democratiche” lo respinsero perché volevano una vittoria piena. Non sarebbe quindi strano che la Russia, in vantaggio sul campo (come allora i vincitori della prima guerra mondiale), non avesse fretta di chiudere una guerra se non porta ad una pace duratura e ad una Nuova Yalta, sfruttando gli enormi errori di valutazione delle élite americane pre Trump e di quelle europee.

Se l’intero spazio fiscale in deroga al Patto di Stabilità UE (che in 20 anni non è mai stato concesso per spese pubbliche sociali, facendo cadere anche governi) fosse usato dall’Italia, secondo le stime fatte da Carlo Cottarelli, il nostro debito pubblico (del 135,3% e previsto in calo al 132% nel 2031, nella strategia del governo Meloni) salirebbe al 136,9%. Il solo annuncio dell’indebitamento ha fatto salire i tassi di interesse di tutti i titoli europei di 50 punti base. Per l’Italia significa in 7 anni pagare dai 12 ai 20 miliardi in più di interessi sul debito pubblico.

Se la nostra spesa militare nazionale salisse dal 1,6% del PIL al 3,1%, passeremmo in ragione d’anno da circa 35 miliardi a 65-70 miliardi. Soprattutto nei primi anni (ma anche dopo) il moltiplicatore keynesiano di una spesa pubblica militare sarebbe molto modesto per non dire nullo sulla nostra occupazione e rilancio delle produzioni nazionali (stime Cottarelli), in quanto l’80% della spesa militare negli ultimi anni se ne è andata in importazioni per armamenti e tecnologie all’estero (e per 2/3 negli Stati Uniti). Sarebbe l’ideale per Trump che vedrebbe l’export USA crescere. Se poi, come si può ragionevolmente ipotizzare anche per la forte opposizione tra gli elettori, si usasse solo il 70% della disponibilità concessa dalle nuove regole dell’UE, la spesa militare salirebbe meno (circa 10-15 miliardi all’anno) ma il debito non calerebbe, rimarrebbe stabile e ciò significa, nell’attuale clima di instabilità internazionale (e di crescita dei tassi di interesse), oneri sul debito pubblico crescenti, cioè sopra i 104 miliardi del 2024. Una cifra mostruosa se si considera che l’intera spesa pubblica per scuole e università è di 75 miliardi e 135 quella della sanità.

Poiché è ragionevole pensare che il PIL cresca poco nei prossimi decenni, come avvenuto negli ultimi 30 anni (media annua 0,8%) e poiché dal 2027 verranno meno i giganteschi investimenti aggiuntivi del PNRR (71 miliardi a fondo perduto, 122 a debito) erogati all’Italia dalla UE nel post Covid, è facile stimare che tutto il welfare attuale (scuola, sanità, pensioni,…) entrerà in ulteriore sofferenza, facendo crescere il malumore dei cittadini con aumento delle astensioni e voti più “radicali” (le ali estreme dello schieramento politico), come spesso avvenuto nella storia. Se si migliora prevale il voto moderato, se si peggiora prevale la protesta. L’Italia è dentro questo tunnel dal 2008.

Una forza armata comune era un punto fondamentale del Manifesto di Ventotene (“al posto degli eserciti nazionali”, ma poi seguiva “la lotta contro la disuguaglianza e i privilegi sociali, le successioni non tassate, una proprietà privata corretta e limitata, nazionalizzazioni per evitare che la grandezza dei capitali investiti possa ricattare gli organi dello Stato…”). Ma un conto è la proposta di razionalizzare le attuali ingenti spese militari tra i 27 paesi dell’Unione (38% in più di quanto spende la Russia) un altro conto è avviare un gigantesco riarmo per singole nazioni il cui esito non sarà una forza comune, ma squilibri tra paesi alleati, questa volta di potere militare, e sottrazione di risorse allo sviluppo umano dei cittadini.

Il rischio di un riarmo per singole Nazioni porta all’escalation:  possibilità dei paesi meno indebitati (Germania, paesi nordici e dell’Est) di riarmarsi di più (e se tra 4 anni vince AFD in Germania?) con rischi sempre maggiori di guerre, senza procedere di un centimetro nella direzione degli Stati Uniti d’Europa. La deterrenza verso la Russia esiste già sia come armi, che come alleanze ed impossibile che una Russia in calo demografico (scenderà da 140 milioni a 120) e con un enorme territorio da gestire, possa invadere una Europa quattro volte più popolata e più armata.

ReArm rischia di generare non solo impoverimento tra i cittadini europei, ma premesse pericolose tra gli stessi paesi europei che sono stati protagonisti nelle guerre degli ultimi 500 anni e nel secolo scorso. E non servirà allo scopo di sedersi al tavolo della Nuova Yalta.

 

Cover photo: la giacca insanguinata di Francesco Ferdinando d’Asburgo, Wikimedia Commons

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Salari, Italia maglia nera

Salari, Italia maglia nera

Salari, Italia maglia nera

 

Il risultato? Siamo il fanalino di coda dei Paesi del G20. In pratica non ci siamo mai ripresi dalla crisi finanziaria del 2008.

Ad affermarlo il rapporto mondiale dell’Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, che analizza le tendenze dei salari e delle disuguaglianze a livello globale e che ha fatto un focus specifico sulla situazione del Belpaese.

Vertenza sui salari

“Il rapporto dell’Ilo conferma le criticità che da tempo denunciamo e la necessità di una vera e propria vertenza sui salari – afferma il segretario generale della Cgil Maurizio Landini -. Sulle tendenze di lungo periodo, dal 2008 al 2024, si evidenzia una perdita in Italia dell’8,7 per cento, superiore a quella degli altri Paesi che hanno un’economia confrontabile con la nostra, con effetti particolarmente gravi sulle lavoratrici e sui lavoratori a basso salario. Nel 2024 si registra un’inversione di tendenza, conseguenza anche dei rinnovi di tanti contratti collettivi, che però non compensa la fiammata inflattiva degli anni 2022 e 2023”.

Se si guarda agli altri Paesi a economia avanzata, le perdite sono state del 6,3 per cento in Giappone, del 4,5 per cento in Spagna, del 2,5 nel Regno Unito. Di contro, la Repubblica di Corea si distingue per aver registrato un aumento salariale complessivo del 20 per cento tra il 2008 e il 2024.

Lavoratori a basso reddito

A subire la perdita maggiore di potere d’acquisto sono stati i lavoratori a basso reddito, sui quali l’impatto dell’inflazione si è fatta sentire con più forza. “Spendono una proporzione maggiore del proprio reddito in beni e servizi di prima necessità – spiega Giulia De Lazzari, specialista sui salari del dipartimento Ilo per i mercati inclusivi, i salari e le condizioni di lavoro -. Stiamo parlando di beni alimentari e alloggio, che rappresentano oltre il 60 per cento della spesa e i cui prezzi aumentano di più rispetto all’indice generale. Per questo sono i più colpiti dalle crisi inflazionistiche”.

Produttività vs salari

C’è poi la questione della produttività: dal 2022 è aumentata più velocemente dei salari in Italia, e questa crescita è stata inferiore alla media dei Paesi ad altro reddito.

“La ricerca mette in evidenza una crescita della produttività nell’ultimo periodo a cui non è seguito un corrispondente incremento dei salari – afferma Nicola Marongiu, responsabile area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -. Questo può essere dovuto a un non allineamento tra il sistema economico e il rinnovo dei contratti, ma anche al fatto che la produttività in Italia, in virtù delle agevolazioni fiscali, viene redistribuita prevalentemente alla contrattazione di secondo livello (contratti integrativi, ndr), che come sappiamo copre una parte molto ridotta dei lavoratori. Mentre le associazioni datoriali non vogliono che sia redistribuita al primo livello (nel contratti collettivi, ndr). Questo spesso è elemento di rivendicazione e mobilitazione sindacale”.

I divari

E le donne? Secondo l’Ilo subiscono una doppia penalizzazione sul mercato del lavoro: percepiscono salari orari più bassi e lavorano un numero di ore inferiore. La dimostrazione in questo dato: sebbene rappresentino il 43,2 per cento dei lavoratori dipendenti, sono il 51,9 di quelli con salari bassi.

Forti disuguaglianze anche per i lavoratori migranti, che percepiscono un salario orario inferiore del 26,3 per cento rispetto ai lavoratori nazionali, un dato superiore alla media dei Paesi europei e in aumento rispetto al 2006. In Italia esiste un divario di genere anche tra i migranti, per cui le donne sono ulteriormente discriminate.

Rinnovi contrattuali

“Il governo pretende di rinnovare i contratti pubblici praticando l’abbassamento dei salari, stanziando un terzo dell’inflazione del periodo – aggiunge Landini -. Per questo non abbiamo sottoscritto quei contratti e rivendichiamo la riapertura di un reale confronto. Inoltre, l’esecutivo non prende in considerazione la detassazione degli aumenti salariali come da tempo chiediamo e non combatte il dumping attraverso una legge sulla rappresentanza, né sostiene la contrattazione attraverso l’introduzione del salario minimo. Le imprese, invece, devono garantire il rispetto dei tempi del rinnovo dei contratti e prevedere aumenti salariali ben oltre l’inflazione, per recuperare anche le perdite dei periodi pregressi e redistribuire la produttività. Ci batteremo affinché i contratti vengano rinnovati per garantire giusti salari, diritti e tutele, a partire dallo sciopero nazionale del metalmeccanici di venerdì prossimo, 28 marzo”.

 

 

L’unico luogo sicuro è un luogo umano

L’unico luogo sicuro è un luogo umano

Su questi altri approfondiamo in un altro momento, però constatiamo che l’agenda la scrivono loro e che noi siamo qua a rincorrergli dietro con mezzi sproporzionatamente inferiori su tutti i piani.

Proviamo dunque almeno a ribaltare la prospettiva. Formiamo tutti i comitati possibili “No al Riarmo” (per ora abbiamo aderito con Pressenza a questo https://stoprearm.org/) coordiniamoci il più possibile con tutte le realtà che chiedono la stessa cosa e chi se ne importa se uno lo chiede con un accento su un tema e un altro su un altro: viva le motivazioni di tutti ma facciamolo insieme perché la partita inizia con un punteggio truccato.

Però la domanda che dovremmo farci e a cui rispondere  è: quale paese, quale continente, quale città, quale quartiere è un posto sicuro. Dalla risposta a questa domanda possiamo formulare una proposta e, per quanto questa proposta sia utopica, sarà un seme da germogliare, il cammino verso il futuro a cui pensava Galeano quando parlava di utopia,

Se pensiamo in questa direzione sembra evidente che un posto sicuro non sia un posto dove dominano le armi. Basterebbero le periodiche stragi negli Stati Uniti o la situazione nei luoghi di guerra dove l’unica sicurezza è la distruzione e la morte. Basterebbe una gita turistica tra i check point della Cisgiordania. Basterebbe una visita a quei luoghi, sparsi purtroppo per il mondo, dove una mafia o un esercito privato “regolano” la vita delle persone.

Qualcuno dirà a questo punto che esiste un uso legale delle armi e che, ragionevolmente, forze armate di vario tipo proteggono le nostre case, i nostri confini, le nostre case. Non bande armate ma Forze di Polizia, Eserciti difensivi che appoggiano la loro azione sulla legalità.

Va bene, possiamo riconoscere la necessità di forze moderatamente armate per difendersi dal crimine ma già, per esempio per l’Italia, non comprendiamo perché paghiamo un Esercito per difendere i nostri confini da francesi, svizzeri, sloveni, sanmarinesi e Guardie Svizzere vaticane, in sintesi dai nostri cugini, o forse fratelli. Vorremmo ricordare le funzioni che l’Esercito svolge senza uso di armi e che  sono un contributo alla nostra sicurezza: Protezione Civile, Previsioni del Tempo, ricerche sottomarine, Guardie Forestali (ora per altro in parte smilitarizzate). Ovviamente queste funzioni potrebbero essere perfettamente organizzate in modo civile e dunque non rientrare in nessun piano di riarmo.

Dobbiamo anche chiarire un equivoco (ma sarà un equivoco o una manipolazione?) secondo cui alcuni sostengono che il Piano di Riarmo proposto in sede europea non sia per finanziare acquisto di armi ma piuttosto tecnologia di vario tipo. In realtà nessuno ha scritto a cosa destinare questi soldi: si sta dicendo di metterli a disposizione perché, all’improvviso, ci vuole più sicurezza in Europa e si stanno discutendo come trovare questi soldi e come metterli a disposizione di chi vorrà spenderli.

Allora sarebbe buono che facessimo, noi pacifisti nonviolenti, antimilitaristi alcune semplici proposte.

Quando penso a queste cose sempre mi salta in mente una frase semplice che disse anni fa Silo, il fondatore del Movimento Umanista: “l’unico quartiere sicuro è un quartiere umano”; disse questa frase nel contesto di una grande campagna che negli anni ’90 del secolo scorso gli umanisti fecero in tutti i quartieri del mondo dove fu possibile: era una campagna di ricostruzione del tessuto sociale che si andava distruggendo e che si articolava in numerose attività di prossimità, lotte e attività sociali, apertura di Centri di Comunicazione Diretta e Giornali di Quartiere e campagne di appoggio al piccolo commercio di prossimità come garanzia di quartieri umani, vivibili e sicuri.

Sappiamo come è andata a finire e come quel nobile tentativo sia fallito, come i nostri quartieri siano diventati sempre più invivibili e più brutti. Pensiamo forse che con protezione elettronica e truppe alle frontiere i nostri quartieri saranno più sicuri?

La Sicurezza Sociale in senso amplio è la possibilità di vivere una vita degna e umana, con diritti e possibilità: investire in sanità, istruzione e qualità della vita sono le più efficienti forme di realizzazione di un luogo sicuro perché umano e, in questo campo, sarebbero da investire ben più di 800 miliardi. In questo momento poi l’emergenza climatica costituirebbe una priorità ben maggiore della ridicola possibilità che i Russi ci invadano (che sembra la motivazione sottintesa di tutta questa manovra).

Esiste in realtà un movimento sommerso di cittadini che già si autorganizzano per avere una diversa qualità della vita senza aspettare che arrivi qualcosa dall’alto: reti di cittadini, ecovillaggi, esperienze ispirate dal Transition Town, gruppi di autoaiuto, le human week, gruppi di acquisto solidale, reti di educatori, esperienze di ripopolazione di paesi abbandonati ecc. I nostri partner di Italia che Cambia ne fanno un eccellente resoconto. Questo per dire che già esperimenti di un nuovo paradigma sono in marcia.

Ma è evidente che dovrebbe essere la politica, sempre più succube di interessi finanziari, a decidere di cambiare direzione e a farlo con coerenza: perché quel che si propone oggi a chi ci vota non può essere diverso da quello che si farà quando si sarà al governo.

Per cui alla politica chiediamo con chiarezza e con coraggio di rispondere sul serio alla domanda “come rendo un posto sicuro”? Con le armi? con il controllo elettronico? Con la paura? Con il ricatto? E chiediamo un conseguente cambio radicale di priorità.

A ognuno di noi possiamo, con affetto, chiedere “cosa posso concretamente fare per rendere il mio intorno più umano, con più diritti, più empatia, più comprensione, più accoglienza”? E risponderci, nell’intimo del cuore, ed agire di conseguenza.

Nota: questo articolo è già uscito nei giorni scorsi su pressenza

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Convegno sulla ripubblicizzazione del servizio rifiuti: 27 marzo ore 17,30, c/o Factory Grisù

#liberiamoFerraraDaHera

Convegno sulla ripubblicizzazione del servizio rifiuti
27 marzo ore 17,30
Factory Grisù – Ferrara

Come potete vedere (volantino più sotto) al dibattito, dopo la nostra introduzione, parteciperanno:
Natale Belosi,
coordinatore della Rete regionale Rifiuti Zero ER
Gianluca Tapparini,
direttore dell’azienda ALEA di Forlì.

Dopo la campagna di comunicazione che stiamo sviluppando  “liberiamo Ferrara da Hera” e il flash mob che abbiamo tenuto il 22 febbraio scorso, con questo convegno intendiamo approfondire le ragioni che sostengono la nostra opzione per la ripubblicizzazione del servizio rifiuti.
Vi preannunciamo, che, dopo lo svolgimento del convegno, intendiamo anche lanciare una petizione online, per la quale vi chiederemo un impegno importante per sostenerla.

#liberiamoFerraraDaHera

La festa di Linda.
Un racconto quasi fantastico

La festa di Linda

Un racconto quasi fantastico

Mancava poco a domani, solo una notte, e magari anche quella notte avrebbe fatto il suo sogno. Domattina sarebbero arrivati tutti, da ogni angolo della terra, e in tre dalla nuova stazione di Marte, perché quello era davvero un evento speciale. E qual era l’evento? L’evento era lei, la cosa la faceva sorridere ma, inutile negarlo a sé stessa, si sentiva agitata come non le succedeva da tantissimo tempo. Ecco, quando aveva otto o dieci anni, era spesso agitata così, non ricordava più per cosa. Ma ora, dopo tutto quel tempo, adesso che era arrivata quasi alla fine, doveva ammettere di essere più agitata di allora.

Linda, la nonna Linda, la nonna di tutti, si alzò con un po’ di fatica dalla sua poltrona e si avviò zoppicando verso la sala da pranzo. Niente bastone, ce la faceva ancora, lei non aveva bisogno di un bastone. Aveva tre figli, e ognuno e ognuna le avevano regalato un bel bastone da passeggio. Eccoli lì, mica li aveva buttati, li teneva a dormire nel portaombrelli. La grande tavola era già apparecchiata, la tovaglia bianca di lino misto canapa, il bordo con un ricamo semplice, senza fronzoli, perché lei i fronzoli li odiava, e invece come adorava quella tovaglia antica. Con il pollice e l’indice provò il tessuto ruvido, così vero e bello, avvicinò il viso e aspirò il profumo del tessuto e del pulito. Sul tavolo mancavano solo i fiori, ma quelli li avrebbe aggiunti domani, all’ultimo momento.

Pensò ancora ai figli e ai bastoni, uno aveva addirittura l’impugnatura d’argento, e i figli non li aveva nemmeno ringraziati. Non si era comportata molto bene, ma insomma, non erano stati molto originali – Linda sorrise a quel pensiero impertinente – fosse stato ancora al mondo lo zio Checco, per il suo Moltianni le avrebbe regalato uno skateboard, non un bastone da passeggio. E poi, glielo aveva chiesto lei di regalarle delle stampelle?  Per lei i regali non servivano a nulla, ci si amava benissimo senza quella stupida idea di confermare e sventolare in pubblico il proprio amore con un regalo. Se li facessero fra loro i regali. Intanto era entrata nella camera del grande camino di terracotta e si era accostata al tavolo ovale di pioppo bianco dove erano ammonticchiati una trentina di grandi pacchetti.

Bel discordo Linda, abbasso i regali, ma allora i tuoi pacchi di biscotti? Non sono regali anche quelli? No e poi no, protestò contro se stessa, quelli sono un segnale, un messaggio, sono un lascito testamentario.  Proprio una bella eredità un pacco di biscotti…  Un momento,  ora  Linda era infuriata: “Ma i miei non sono semplici biscotti, sono biscotti rotti”. Ed eccole qua le generose confezioni da chilo della premiata ditta Malandrini. Era stata una geniale trovata di Alessandro Malandrini di Saronno,  pioniere della biscotteria italiana e fidanzato di sua nonna Clelia, no, forse era il fidanzato di sua bisnonna Maria Cecilia. Ha poca importanza,  fatto sta che il Cavalier Malandrini cuoceva biscotti nel suo forno industriale e ne uscivano tanti rotti,  spezzati, storti, difettosi. Invece di buttarli, Malandrini li mise in grandi sacchetti con sopra una scritta onestissima: Biscotti rotti.  Costavano la metà della metà dei biscotti di prima scelta e andarono a ruba. Funzionavano come il cilindro di un illusionista, ci infilavi dentro la mano e non sapevi mai che biscotto pescavi, un frollino, un wafer, un krumiro, una ofella, un amaretto. Più del  biscotto valeva la sorpresa. Ma alle sorprese bisognava allenarsi, ecco perché avrebbe distribuito ai discendenti il pacco degli impareggiabili biscotti rotti Malandrini.

Fece un’altra volta il giro della tavola da pranzo e contò ancora le grandi sedie di faggio, diciotto, un bel numero, più il seggiolone per Catina, l’ultima arrivata. Catina aveva quasi due anni e nonna Linda non l’aveva ancora vista toccata baciata. In cuor suo Catina, ma quella cosa non avrebbe mai compiuto il tragitto dal cuore alla bocca, nel suo cuore Catina era la preferita. Perché era l’ultima arrivata, perché aveva una malattia grave e fastidiosa, perché si chiamava Catina, Caterina, come sua madre. Linda non si vergognava delle sue preferenze, anzi, pensava alla preferenza come alla forma più perfetta dell’amore. Se ami molto, preferisci molto, e preferisci tutti, così era puntualmente capitato a lei con tutti e tre i suoi figli.

Il mese prima le era arrivata una foto di Catina, le aveva subito trovato una cornice. “No, niente argento per carità, che pacchianata!”, e l’aveva subito aggiunta al suo bosco famigliare. Accanto alla sua poltrona c’era un tavolino, nemmeno tanto piccolo, lì sorgeva una piccola foresta. Sul tavolino, senza un ordine preciso, senza gerarchie o cronologie, si affollavano alla rinfusa tutte le foto, dai bisnonni ai nipotini.

Il ritratto che attirava per primo il suo sguardo era  sempre quello, un adorabile gruppo di famiglia in un interno, anche se non si capiva di che interno si trattasse, forse la grande casa rossa di via Terranuova. Più che un gruppo sembrava un mucchio di famiglia, perché i cugini – le femmine di bianco vestite, indossando le vecchie camicie da notte del Milleottocento – stavano abbracciati e ammonticchiati uno sull’altra sul divano. In posa ma scomposti c’erano tutti e sette, con l’aggiunta di Hola, il pastore catalano perennemente abbaiante ma per l’occasione placidamente spalmata sulle ginocchia di zia Martina. La foto era virata seppia e trasmetteva un sapore di antico, anche se non era poi così vecchia, non era tanto più vecchia di lei, era stata scattata, Linda rifece i calcoli, la vigilia di Natale del 2008, o forse un anno dopo. Erano quelli gli ultimi anni della famosa nonna Caterina, detta Caterina non de’ Medici per la sua avversione verso la categoria, o Pasionaria per la sua passione anticonformista e protocomunista, o Baronessa Mamuska per i suoi nobili e disconosciuti natali, la nonna Caterina detta e ricordata in molti modi e maniere da figli nipoti e pronipoti.

Stava facendo buio, accese l’abat-jour omeostatica (faceva una luce azzurrina, tagliente e provò nostalgia della luce calda dell’energia elettrica), ripose la foto sul tavolino e prese il bicchierone con tutte e due le mani. Lo beveva sempre tutto in un fiato, senza staccare la bocca nemmeno una volta. “E con questo fanno undici”, disse a sé stessa. L’acqua era la sua migliore amica.

Riprese in mano il ritratto. Dei magnifici sette era rimasta solo zia Miriam, nata a cavallo del millennio, ingegnere (ingegnera, avrebbe chiosato sua sorella Clelia) e innamorata dei numeri. Dal fondo della Patagonia, dove si era trasferita trent’anni prima insieme al quartier generale della grande azienda fondata dal bisnonno Serafino, l’aveva avvertita che non avrebbe potuto essere presente alla sua festa di compleanno. Zia Miriam aveva solo 95 anni e puntava a doppiare il secolo e senza ricorrere ai trattamenti eugenetici. Non era proprio il tipo da spaventarsi per un viaggetto del genere: si sarebbe messa al volante del suo ovulo di ultima generazione e avrebbe digitato sul display: Europa-Italia–Ferrara–Quartesana. Ma chi avrebbe badato ai suoi cani (5), e ai gatti (11), ai pinguini (3 coppie), alle stupidissime oche Adelina e Guendalina, e al ciuchino Lucignolo? E poteva abbandonare le 14.000 preziose pecore aziendali, e proprio ora, in piena stagione della tosatura? No, mi spiace piccola (zia Miriam si ostinava a chiamarla piccola), non riesco proprio muovermi, è fuori discussione.

Va bene, le aveva risposto in simultanea Linda,  ma senza poter evitare un commento segreto e malizioso. Che poteva farci se oltre a essere intelligente era anche maliziosa? Non è cattiveria, si scusò da sola, la malizia è solo una conseguenza naturale, una innocua deviazione dell’intelligenza. Così pensò che zia Miriam, titolare del glorioso e pluripremiato Allevamento Incico spa e direttrice dell’ultima filanda del pianeta Terra, aveva un altro e più valido motivo per disertare la sua festa. Semplicemente, a Miriam non piaceva essere la seconda più vecchia del gruppo.

Si concentrò sulla faccia bambina di zio Tato, il più piccolo del gruppo. A quel tempo passava molte ore del giorno in compagnia di un pallone da calcio. Sarebbe di sicuro diventato un buon giocatore campione se a 17 anni, quando poteva finalmente fare il salto verso una grande squadra, dopo una settimana di febbre altissima, non fosse stato rapito da un insospettabile amore per la cultura. Appese le scarpette al chiodo e guardò per la prima volta in vita sua la parete del salotto fitta di volumi. Lui che fino ad allora aveva letto un libro e mezzo in tutto, affrontò di petto la grande libreria. In quaranta giorni e quaranta notti si mangiò e digerì alla bell’e meglio la biblioteca del padre. Poi senza indugio si mise all’opera e scrisse ininterrottamente per svariati decenni. Il suo romanzo fiume raggiunse le 14.000 pagine distribuite in 22 volumi, rimanendo purtroppo incompiuto.

Secondo la critica più attenta, il suo ciclopico “Adesso vi spiego com’è andata” inaugura (e chiude definitivamente, forse per stanchezza) la corrente del ipeultrarealismo. Avere in casa quei 22 tomi con la copertina gialla uovo marcio era subito diventato un must, un marchio di status sociale. Così la fatica letteraria di Tato aveva venduto qualcosa come 30 milioni di copie in tutto il mondo, contando però solo una traduzione, vista l’impossibilità di capirci alcunché. L’unica che, per amore e per mestiere, ci aveva provato sul serio – a leggerlo fino in fondo e a tradurlo – era stata sua sorella Clelia che però, intervistata sulla tellurica quanto labirintica trama di “Adesso vi spiego com’è andata”, aveva dovuto confessare di non aver capito del tutto com’era andata veramente.

Allo zio Momo era andata peggio. O meglio, secondo i punti di vista. Dopo aver diretto cinque concettosi lungometraggi in formato Quadriprof (quattro dimensioni con l’aggiunta di puzze, odori e profumi assortiti), ottenendo una assai tiepida accoglienza, aveva finalmente traguardato che il pubblico non era ancora pronto per la sua arte. Per fortuna zio Momo disponeva, come tutti in famiglia, di una intelligenza poliedrica e versatile. Si buttò con entusiasmo sul porno sperimentale, raggiungendo un considerevole successo e, particolare non trascurabile, collezionando svariate amanti e concubine.

E la carissima zia Martina? Che strana vita.. La sua piantagione di gangia prometteva successi e denari, se non fosse intervenuta quella dannatissima legge per la liberalizzazione e la promozione commerciale della marijuana e dei suoi derivati. Si trattava senza dubbio di una importante conquista civile, ma segnò una débâcle per la novella contadina. Da un giorno all’altro il fiorente mercato clandestino crollò e zia Martina si trovò nelle pesti. Seguì una fastidiosa crisi esistenziale da cui uscì solo due anni più tardi, risolvendosi a fare domanda per entrare nella Benemerita. Zia Martina avrebbe poi percorso con onore e velocissimamente tutti gli scalini della gerarchia: appuntato, maresciallo, capitano, colonnello, e infine eccola in alta uniforme, prima donna a raggiungere i galloni di generale dell’Arma dei Carabinieri.

Anche zia Clelia aveva contribuito a dar lustro alla famiglia. Imparò alla perfezione tre lingue, poi cinque, poi sette, poi diciassette. mandarino, lao, urdu e thai incluse. Le sue esibizioni pubbliche fecero impallidire le performances della donna cannone e dell’uomo più forzuto del mondo.

Sotto un grande tendone da circo gremito di gente di ogni specie e colore, zia Clelia se ne stava molto tranqui (Clelia aveva il vezzo di rispondere a tutti con quel suo tranqui) al centro di quella baraonda, seduta su una semplice sedia impagliata. La cosa funzionava più o meno come la simultanea di un gran maestro di scacchi. Intorno a zia Clelia, a formare un ampio cerchio, stavano sedute una ventina di persone, e tutte venti  parlavano contemporaneamente, esprimendosi ognuna nel suo idioma natale.  Clelia rispondeva a tutti, passando con sovrana disinvoltura da una lingua all’altra e permettendosi anche qualche battuta di spirito. In quella babele, e dico Babele in senso stretto – Linda era convinta che, se zia Clelia fosse stata nei paraggi, su quella Torre le cose sarebbero andate ben diversamente. Il pubblico in sala non ci capiva un’acca ma mandava urla e si spellava le mani.

Rimaneva zia Olly, lei sì che aveva girato il mondo. Per vent’anni aveva fatto perdere le sue tracce sulle strade che portano in India. Inseguiva una piccola tribù di pigmei albini di cui si favoleggiava da secoli, ma che tutti, geografi e antropologi, ritenevano appunto solo una favola.

Zia Olly si procurò nella biblioteca dell’università di Coimbra l’unica preziosa fonte, il diario manoscritto di un navigatore portoghese del Seicento, noto più per le sue epiche sbronze che per le scoperte geografiche. Nel suo resoconto di viaggio, unto e bisunto, pieno di strafalcioni, macchiato di uovo, pomodoro e vino di Porto, non c’era però nessuna coordinata geografica, nessun indizio utile a rintracciare quel minuscolo scoglio in mezzo all’Oceano Indiano. Ma esisteva veramente? La testardaggine di zia Olly fu alla fine premiata, quando, dopo un pauroso naufragio, approdò per puro caso su un’isola misteriosa quanto inedita.  A quel minuscolo lembo di terra – oggi è segnato sulle carte a 3.483,5 miglia marine a sud-sudest di Colombo (Sri Lanka) – zia Olly volle dare il nome familiare di Isola Tullia. Seguirono i suoi famosi studi sui 27 abitanti albini dell’isola: pacifici, burloni, vegetariani e felicemente dediti a relazioni consensualmente non monogamiche. Quest’ultima scoperta, il fatto cioè che gli albini di Tullia, lontani dal cappio delle religioni monoteistiche, praticassero il poliamore in pace e armonia, provocò un salutare effetto a cascata sulla decrepita morale occidentale.

*     *    *

Il giorno della sua festa Linda si svegliò come sempre qualche minuto prima dell’alba. Si alzò a sedere nel letto e subito riconobbe i rimasugli del suo sogno. Come sempre c’era lei bambina di pochi anni e mamma Caterina attaccata a lei, in piedi, sulla riva di un mare immenso, così diverso da tutti i mari che aveva conosciuto nella sua lunga vita.

Era giorno fatto e il sole bruciava la sabbia e la testa, ma il mare era nero, notturno, calmo eppure carico di insidie. Lei aveva addosso il suo costume rosso a due pezzi, la mamma un costume intero bianco, tutte e due voltavano le spalle a lontani ombrelloni. Erano già entrate in acqua con i piedi ma non si muovevano, guardavano una linea d’ombra laggiù in fondo, dove finiva il mare, piene di paura ma piene di voglia di avanzare in quell’acqua scura. L’acqua era freddissima. Andiamo, avanziamo, ci buttiamo? Ma rimanevano ancora ferme, attaccate l’una all’altra. Poi, dal limite estremo del mare veniva il suono di una sirena di una nave, ora la nave sfilava davanti ai loro occhi, alta come un palazzo, tutte le finestre accese. Con quella visione e quel fischio prolungato di sirena, il sogno si interrompeva.

Che peccato, alla bambina del sogno, ma anche ora, mentre ancora stava seduta sul letto, le sarebbe piaciuto un finale, un finale qualsiasi. Dopo tutti quegli anni credeva anche di meritarselo un bel finale.

Nonna Linda si infilò i suoi vecchi zoccoli, ignorò il bagno e raggiunse direttamente la cucina. Sulla parete bianca di fronte al camino stavano appesi i quattro grandi piatti di ceramica con i quattro re delle carte, nonno Desiderio e i suoi tre fratelli, ognuno con il seme distintivo del proprio carattere; spade, bastoni, coppe e denari. Anche quello era un gruppo di famiglia in un interno. E senza volere scivolò ancora nei pensieri, uno a scavalcare l’altro, perché la grande casa di campagna sembrava vivere solo per quello scopo, chiamare i pensieri e radunare i ricordi.

Trent’anni prima, quando Linda era tornata in Italia dall’Aegentina, aveva subito riaperto la villa. Conosceva bene la sua virtù (paura dei fantasmi? Che idea sciocca: lei li adorava i fantasmi) e aveva preso una decisione, avrebbe usato tutto il tempo rimastole per non perdere una briciola del passato, nemmeno una.

Ora però dal salone d’ingresso sente arrivare la musica allegra del pianoforte. Forse il piano ha imparato a suonare da solo, o forse è lo zio Duccio, il più giovane dei fratelli del nonno Desiderio, che le dedica una canzone e le augura il buon compleanno.  Linda si avvicinò al vecchio frigorifero Elios, uno dei primissimi modelli ESA (Energia Solare Alternata),  l’ultimo ritrovato della tecnica, ma ora era un pezzo di antiquariato, un vero cimelio, un altro ferrovecchio che non aveva voluto rottamare. L’Energia Solare Alternata si era dimostrata abbastanza presto una pessima idea, passabile per scaldabagni, forni e fornelli, ma palesemente inadatta a produrre e mantenere il freddo – E voleva tanto a capirlo? , rifletté  Linda.

Dove eravamo rimasti? A lei davanti al suo frigo solare; ora lo apre e tira fuori una bottiglia d’acqua fredda. Nel frigo non c’è molto posto per le cose da mangiare, quasi tutto lo spazio è occupato da bottiglie, tutte piene d’acqua. Di fianco al frigorifero, sulla credenza verde chiaro con il piano di marmo, ci sono tre vassoi e tanti bicchieri di vetro leggero, grandi e trasparenti, perché Linda odia i bicchieri colorati e non sopporta il contatto delle labbra con un vetro grosso. Se riempi uno di questi bicchieri di vetro sottile, non fino all’orlo, diciamo per tre quarti, la bottiglia si vuota per metà. Un bicchiere è mezzo litro, dodici bicchieri sei litri, che è giusto la dose giornaliera di Linda. Questo che si sta versando ora è il primo bicchierone della giornata, l’ultimo lo berrò verso le sette di sera. L’acqua, devo averlo già detto, è la  migliore amica di Linda , la ragione della mia salvezza, o forse no, ma ilei sentiva che era proprio così.

I reni di Linda erano piccoli come noccioline americane, non crescevano, non volevano funzionare. Aveva le foto di lei intubata in ospedale. I dottori di Lione non sapevano cosa dire e cosa fare, la diagnosi era complicata. Una cosa brutta, tanto brutta che anche a mamma Caterina era andata via la speranza, e lei, Linda, non sapeva più se restare e vivere, oppure tornare indietro, dall’altra parte, dove non sappiamo se c’è il buio o la luce. C’era un video ripreso da un cellulare con la mamma che la tiene sulle ginocchia e la fa cavalcare. Nel video, l’aveva rivisto un milione di volte, lei ha ancora il sondino nel naso, ma ride e fa ciao con la mano. Non ricorda molto altro di quei mesi terribili, ma capita a volte che i ricordi entrino in silenzio sotto la pelle e rimangono con te per sempre.

Era stato un dottore italiano, il dottore era parecchio anziano, Linda aveva quattro anni e cresceva troppo poco, a mamma Caterina il vecchio medico aveva dato un consiglio. Senta signora, è un rimedio antico, forse non farà miracoli, ma certo non potrà far del male alla bambina, l’acqua non fa male a nessuno. Acqua, acqua, tanta acqua, tutti i giorni. Da allora lei aveva seguito fedelmente la dieta acquatica. I suoi reni, sia stata l’acqua o le medicine, le preghiere a Dio o la fortuna, non le avevano più dato problemi. Era solo rimasta, una volta si diceva così, un po’ debole di reni, ma niente di più.

Di Lione aveva ricordi sfocati, l’ospedale, la casa, il parco dove andava tutti i giorni, prima in passeggino, poi sulle sue gambe e sul triciclo – era rosso anche quello, dello stesso rosso del suo costume da bagno a due pezzi – ma Lione le era sempre stata antipatica, forse per via della malattia, o per la faccia triste che i genitori volevano nasconderle, o semplicemente per i francesi, tutti i francesi o quasi tutti. Dopo Lione c’erano stati tanti altri posti, tante città e tante case. Lione era stata coperta da moltissime altre immagini, come un lenzuolo sotto cento coperte.

Questo pensa ora Linda, che non era stato facile essere figlia di due scienziati. Era diventata grande. Abitavano in una bella casa nel quartiere Palermo a Buenos Aires, la casa era piena di sole e di vento, aveva un grande giardino. Quel giorno, erano a tavola, Linda andò subito al sodo  con mamma e papà: Qui mi piace, è il mio posto, non voglio più partire, voglio essere un animale stanziale io. Invece, dopo che a mamma Caterina era stato assegnato il premio, quello per la fisica – ricordava benissimo la compassata cerimonia a Stoccolma – i viaggi si erano moltiplicati, e dopo il secondo premio, questa volta per la chimica, c’erano stati anni in cui mamma e papà non disfacevano mai le valigie.

Colpa di Argon, “l’Inoperoso” secondo la radice greca, l’inafferrabile e inutile gas nobile, detto anche gas inerte, o gas raro. Questo Argon, che non è poi tanto raro, visto che partecipa con un rispettabile uno per cento alla composizione dell’atmosfera terrestre (venti o trenta volte di più dell’anidride carbonica senza la quale però non ci sarebbe vita sul pianeta), non aveva nessuna intenzione di combinarsi o coniugarsi con alcunché. Da sempre, dal principio di tutto, Argon dormiva, fluttuava, oziava, incurante degli altri elementi e del genere umano.

Mamma Caterina – la stampa internazionale l’aveva poi messa sul trono chiamandola la nuova Marie Curie – non era certo una donna da confondersi con le altre. Del resto, la bisnonna Maria Cecilia, la nonna della mamma, andava ripetendo che “In famiglia siamo tutti un po’ speciali”, Forse la mamma lo era più degli altri, era speciale in un modo speciale. Fatto sta che grazie a una geniale intuizione, a una perseveranza alfieriana e a uno spericolato esperimento, mamma Caterina era riuscita a far socializzare il placido Argon. Linda aveva gran rispetto per la scienza e gli scienziati, ma aveva una personale teoria al riguardo. Conosceva sua mamma meglio di chiunque altro ed era convinta che con Argon lei avesse giocato d’astuzia, che gli avesse tirato un tiro mancino.  Lo aveva corteggiato, vezzeggiato, adulato (papà Serafino se ne era anche un po’ risentito), lo aveva portato a spasso come si fa con un cagnolino adorato, tenendo il guinzaglio allentato, senza dare strattoni, carezzandogli il muso e lisciandogli il pelo. Poi, in un momento di abbandono, quando l’accidioso e misantropo Argon aveva la guardia abbassata, la mamma aveva stretto all’improvviso il collare e costretto l’Inoperoso – per la prima volta dal Big Bang ai giorni nostri – a darsi da fare e a guadagnarsi da vivere.

Il resto è storia che trovate in qualsiasi enciclopedia. Né l’autore di queste righe né Linda vogliono annoiare il lettore ripetendo quello che i bambini imparano in terza elementare.  Il trionfo della Energia Argonautica è sotto gli occhi di tutti. Chi non sa che senza di lei (e ovviamente senza mamma Caterina) non saremmo arrivati dove siamo adesso? E non ci sarebbero i viaggi interstellari, l’inquinamento zero e ozono quanto basta.

Ma è tempo di tornare alla festa di Linda e di concludere questa storia. Una storia piuttosto ordinaria ma assolutamente vera anche se, lo ammetto, non troppo verosimile. Le piccole licenze, le innocue divagazioni, le strampalate fantasie che l’autore ha voluto concedersi, non sono però frutto di una inveterata tendenza alla menzogna, ma il risultato di un duplice amore. L’amore per l’oggetto, cioè per i soggetti protagonisti del racconto, e l’amore per la finzione letteraria. Non so se qualcuno l’ha già scritto, in ogni caso lo scrivo io: solo percorrendo le strade della finzione è possibile estrarre qualche verità dalla materia inerte del reale. E’ una teoria stramba e non dimostrabile? Ve lo concedo, ma è la mia teoria.

Ora il sole incomincia a scottare e quella mattina, voglio dire questa mattina, la mattina del 18 dicembre 2095, non sembra diversa da qualsiasi altra mattina di caldo inverno di fine secolo. Linda si è vestita e con il vestito della festa, continua a camminare per le stanze della villa, i suoi zoccoli fanno toc toc sul vecchio pavimento di cotto. Come tutte le mattine si emoziona vedendo la luce del sole che invade e accende le pareti bianche. Che ore sono? Sono le otto e mezza, l’ora della prima colazione. Ma prima deve levare i catenacci del portone d’ingresso, afferrare le maniglie, far scorrere e accostare le due ante della porta a vetri.

Un sibilo leggero, prolungato e acuto come una punta di spillo, taglia a metà l’aria tiepida del mattino. Allora Linda riapre le ante della porta finestra che affaccia sul parco, passa con lo sguardo i pioppi secolari e le due Gingo dritte come sentinelle, l’orto ben tenuto, la torre colombaia là in fondo. Sul grande prato verde sta atterrando l’ovulo dei primi invitati. Il buffo velivolo descrive un cerchio quasi perfetto proprio sopra la torre e si posa dolcemente sull’erba. L’ovulo (occorre specificarne il principio motore? Gas Argon ben compresso in quattro pistoni e una biella) brilla nel primo sole; è rosso cromato, lo stesso rosso delle antiche automobili a scoppio Ferrari. Sembra proprio una grossa ciliegia matura. Nonna Linda avanza qualche passo sul pianerottolo della scala di cotto, agita la mano destra per dare il benvenuto ai suoi ospiti. La sua festa di compleanno è incominciata.

(Finito a Ferrara il 30 giugno 2016 – 5° revisione 21 marzo  2025)

 

Per leggere tutti gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Per certi Versi /
Il silenzio del viaggio

Il silenzio del viaggio

Il tempo di partenza
è come il destino di chi è fermo
alla stazione

Il bagaglio straripante
è un movimento
di vaghe mete

è una attesa lunga
il fuggire voluto
dalla propria presenza

è un viaggio fatto di silenzi

Fischia un treno
in lontananza
alla fermata
nessuno sale

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

Cover: stazione di Oderzo deserta, immagine di flickr.com su licenza Wikimedia Commons

Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi

Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi

Opere che si nutrono d’aria e che l’aria valorizza quelle di Daniela Carletti. L’artista ferrarese ha appena concluso una bella personale negli ampi e luminosi spazi del Centro mercato di Argenta e a breve aprirà il suo studio in uno dei percorsi di visita offerti dalla manifestazione Cardini Atelier Aperti (nel weekend di sabato 29 e domenica 30 marzo 2025). Dagli anni Ottanta ad oggi, Daniela si dedica a una pittura fatta prima di tutto di ricerca e di sperimentazione. Tecniche combinate in una fusione armonica di segni, sfumature, colori.

Mito e natura si fondono nelle opere basate su alcune delle metodologie di lavoro che hanno segnato lo stile delle avanguardie artistiche del Novecento e che vengono riprese, rielaborate e utilizzate in maniera personale.

Matrici di foglie
Atelier Daniela Carletti
Studio – foto GioM

Il frottage – che è un metodo di disegno che consiste nel far affiorare sul foglio di carta il rilievo sottostante, utilizzato e rilanciato da uno dei maggiori esponenti del surrealismo come Max Ernst – con Daniela si estende in chiave più pittorica e trasforma le erbe dei campi in matrici di stampo naturalistico, che sovrappongono le loro forme e scabrosità per fare riemergere grandi steli, foglie giganti e altre specie campestri sui fogli e sulle tele.

Daniela Carletti davanti a una sua opera

La tecnica del dripping – che consiste nel lasciar sgocciolare i colori sulla tela senza l’uso di pennelli – diventa per Carletti segno che sintetizza filamenti di origine vegetale e partiture di tela che si contrappongono a parti trattate con procedimenti diversi.

Acrilico su tela di Daniela Carletti

Questo sistema che sfrutta la colatura dei pigmenti è stato anticipato nella forma della scrittura automatica da esponenti del surrealismo per essere poi adottato, a partire dalla metà del Novecento, dall’artista americano Jackson Pollock con il quale nasce una vera e propria scuola dell’action painting. A livello nazionale, la metodologia si ritrova in un pittore come Mario Schifano con un’interpretazione tutta personale che non ha disdegnato rappresentazioni naturalistiche, dai ‘campi di grano’ a certi ‘paesaggi anemici’.

Dripping in un’opera di Jackson Pollock su copertina rivista Taschen
Campo di grano di Mario Schifano, 1970

Daniela fa notare come il paesaggio piano del territorio padano resta per lei una costante. Un orizzonte costellato qua e là da figure di tipo vegetale o umano, di genere prevalentemente femminile. Sulla tela queste figurazioni sono più descrittive e didascaliche. Volti che mi evocano la simbologia delle stagioni – l’Estate gialla di grano di un volto di donna dalla pelle scura e la Primavera rosata e fiorita – ma che il titolo delle opere riporta a una mitologia letteraria diversa.

Daniela Carletti davanti a opera ‘Le vie dei canti’

Il riferimento è quello antropologico della cultura aborigena australiana, recuperato attraverso la lettura dei diari romanzati dello scrittore britannico Bruce Chatwin, Le vie dei canti. Questi lavori – spiega Daniela, che dell’opera di Chatwin ha ripreso il titolo – raccontano le indagini che lo scrittore svolse nelle terre australiane sulla tradizione dei canti rituali, tramandati di generazione in generazione come conoscenza iniziatica, che danno voce contemporaneamente ai miti della creazione e alle mappe del territorio. Un riferimento, quello a Bruce Chatwin, così sentito da ritornare nel titolo stesso scelto da Daniela per questa esposizione: “Il tempo del sogno”. Un tempo che – come riporta lo scrittore britannico nel suo libro-diario di viaggio – è l’epoca che precede la creazione del mondo e che in qualche modo contiene i modelli che poi prenderanno forma nella realtà.

Studio di Daniela Carletti – foto GioM

Il passaggio dall’idea alla realtà è una metafora che si può ritrovare nella forma nelle opere. Il profilo bidimensionale delle tele, per la maggior parte di dimensioni vaste, è predisposto per assumere anche la terza dimensione. Le cerniere, celate sullo spessore laterale dei telai, consentono infatti ai dipinti di essere anche appoggiati a terra. Le opere si trasformano così nelle quinte di una scenografia che può essere considerata il passaggio dall’immagine pura e semplice al suo inserimento nel mondo, che sfuma dalle tinte più calde (giallo, rosa, arancio) a quelle più fredde dell’azzurro e del verde.

Daniela Carletti nel suo studio – foto GioM

Le sculture si caratterizzano, invece, per la totale monocromia. Di tonalità bianca, le statue si compongono di una struttura metallica composta da una rete di fili avvolti nella garza passata nel gesso e protetta da una resina finale con una metodologia specifica messa a punto dall’autrice.

Pieghevole della mostra ad Argenta (FE)
“Il tempo del sogno” di Daniela Carletti

Una tecnica che ancora una volta si nutre d’aria e ingloba l’ambiente intorno, proiettandosi a sua volta nel mondo in un gioco di luci e ombre.

Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Il governo Americano vuole un’Europa vassalla, ma la militarizzazione porta solo al fallimento

Il Governo Americano vuole un’Europa vassalla, ma la militarizzazione  porta solo al fallimento

New York City Gli europei sono sotto shock di fronte alle ultime mosse del governo statunitense contro il Continente. Dalla lezione paternalistica tenuta dal vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera a febbraio (vedi il discorso qui) ai negoziati sull’Ucraina tra Stati Uniti e Russia – escludendo la Comunità europea – l’alleanza transatlantica è messa alla prova come mai prima d’ora.

Devo forse ricordare ai miei colleghi americani che la realtà che condividiamo oggi ha profonde radici europee? Il mondo occidentale è stato plasmato e sviluppato da pensatori, filosofi, artisti, politici ed economisti europei, che hanno tutti contribuito a fondare la moderna civiltà occidentale.

I principi dei diritti inalienabili, la separazione dei poteri e la struttura della Costituzione degli Stati Uniti sono stati ampiamente influenzati da pensatori illuministi come Montesquieu e John Locke. Anche Washington D.C. è stata progettata da un europeo, il francese Pierre L’Enfant, la cui pianta a griglia definisce ancora oggi l’assetto della città.

Senza l’Europa non ci sarebbero gli Stati Uniti d’America come li conosciamo. Alcuni potrebbero addirittura sostenere che gli Stati Uniti rappresentano un’evoluzione generazionale della civiltà europea, emersa nell’era postcoloniale. Oggi, i dati del censimento degli Stati Uniti indicano che circa il 60% degli americani si identifica come di origine europea, con una percentuale che aumenta se si considerano le persone di ascendenza mista.

Dati questi profondi legami culturali e storici, ci si aspetterebbe che Washington trattasse l’Europa come un partner alla pari nel plasmare il futuro.
Invece, gli Stati Uniti continuano a dettare la politica di sicurezza con scarsa considerazione per le prospettive europee, sia nei negoziati con la Russia sull’Ucraina, sia nello spingere i membri della NATO ad aumentare le spese per la difesa.

Questo approccio tratta l’Europa come un subordinato, non come un alleato. L’Europa ha passato decenni a cercare di superare il nazionalismo militarista che ha portato a due guerre mondiali, eppure Washington sta facendo pressione sull’Europa per rimilitarizzarla. Spingendo un nuovo aumento degli armamenti, gli Stati Uniti stanno guidando il continente all’indietro, non in avanti.

Gli Stati Uniti hanno ripetutamente dimostrato i fallimenti della militarizzazione, dalla Corea (1950-1953) e dal Vietnam (1955-1975) alla Baia dei Porci (1961), al Libano (1982-1984), alla Somalia (1992-1994), all’Afghanistan (2001-2021), alla Libia (2011) e all’Iraq (2003-2011, con una ripresa nel 2014-2017).

Si potrebbe aggiungere che i conflitti in corso in Ucraina e in Palestina sarebbero molto diversi senza i finanziamenti, le armi e il supporto logistico degli Stati Uniti. Questa spinta al riarmo non sta portando solo l’Europa, ma il mondo intero nella direzione sbagliata.

La vera sfida per gli Stati Uniti non è quella di dominare il mondo con la forza, ma di ridefinire la leadership per il XXI secolo. La vera influenza si basa sul partenariato, non sulla coercizione. Invece di aggrapparsi a lotte di potere ormai superate, gli Stati Uniti dovrebbero essere il partner fondatore della prima comunità umana universale, guidata dalla diplomazia, dalla cooperazione economica e dalla sicurezza condivisa. Qualsiasi cosa di meno è irrilevante nel mondo moderno.

Traduzione di Toni Antonucci

David Andersson è un giornalista, fotografo e autore franco-americano che vive a New York da oltre 30 anni. Dirige l’agenzia di stampa internazionale Pressenza ed è autore di The White-West: A Look in the Mirror, una raccolta di articoli che esaminano le dinamiche dell’identità occidentale e il suo impatto sulle altre culture.

Questo articolo è stato pubblicato con altro titolo su Pressenza il 20 marzo 2025
Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFranceseTedesco

Cover: America ed Europa, America Europa,, immagine Depositphotos

«Impronte», l’ultima opera del poeta Cheyenne Lance David Henson

«Impronte», l’ultima opera del poeta Cheyenne Lance David Henson.

Lance David Henson è uno dei più rappresentativi poeti della cultura dei Nativi d’America, oltre ad essere una delle grandi voci della letteratura nativa americana contemporanea. Nato a Washington DC, è cresciuto vicino a Calumet nell’Oklahoma dove i suoi nonni lo hanno cresciuto secondo le tradizioni della tribù Cheyenne. Henson pubblicò il suo primo libro di poesie, Keeper of Arrows , nel 1971, quando era ancora uno studente all’Oklahoma College of Liberal Arts. Ora ha all’attivo più di 50 volumi di poesie che sono stati tradotti in 25 lingue.

Henson fece parte del programma Artist in Residence del State Arts Council of Oklahoma, attraverso il quale tenne laboratori di poesia in tutto lo stato per 10 anni. Da allora, ha viaggiato in tutto il mondo tenendo conferenze e leggendo le sue poesie. Oggi Henson vive tra gli Stati Uniti e l’Italia, a Bologna, con la moglie Silvana, ed è membro dell’AIM – American Indian Movement, della Native American Renaissance insieme a nomi del calibro di N. Scott Momaday, Vine Deloria Jr.e Joy Hario, e della Dog Soldier Society, una società militare Cheyenne.

Per quanto abbia avuto, in parte, una formazione militare, Lance Henson ha combattuto ottanta anni a fianco della resistenza indigena usando sempre la sua poesia come arma per smuovere le coscienze.

E’ proprio “Impronte. Imprints”, la sua ultima opera pubblicata dalla Mauna Kea Edizioni, a celebrare i suoi 80 anni con una selezione di poemi dal 1970 al 2024. In edizione bilingue italiano e inglese, l’opera include i lavori più significativi del grande autore insieme a nuovi poemi e a quelli in lingua Cheyenne (tsististas).

Attraverso uno stile minimalista senza maiuscole, punteggiatura, rima o metro (tipico della letteratura Cheyenne), le poesie di Henson riescono a descrivere la connessione ecologica del suo popolo alla Natura e al mondo vivente, attingendo all’ancestrale spiritualità Cheyenne e incorporando parole dalla lingua Cheyenne, la filosofia Cheyenne e un forte commento socio-politico.

Le immagini della Natura e delle stagioni figurano in modo prominente nelle opere di Henson, commentando anche la situazione dei popoli indigeni nordamericani, la loro oppressione storica e le minacce moderne alle loro culture, oltre al degrado etico segnato dal consumismo e dalla società industriale di massa che ha avuto la pretesa di occidentalizzare il mondo: purtroppo, riuscendoci. Centrale è la critica al denaro, al potere e all’essenza politica e suprematista degli Stati Uniti: l’unica nazione artificiale creata da europei al mondo nata dal sistematico etnocidio di milioni di persone indigene.

L’essenza suprematista degli USA e la critica al potere la esprime proprio in “Impronte” in una bellissima poesia dal titolo in lingua tsististas “maheo na dots houn” (“creatore sto pregando”), dedicata al grande Leonard Peltier – suo compagno di lotte per l’eguaglianza dei Nativi Americani ed aderente all’AIM – arrestato e incarcerato per quasi 50 anni, ricevendo solo a gennaio 2025 la commutazione della pena da Biden, che gli ha concesso i domiciliari.

Che le preghiere di Hanson siano state esaudite proprio nell’anno della pubblicazione del suo ultimo libro? Chi lo può dire, ma ciò che emerge è la grande purezza e fortezza d’animo indigena che non cessa di stupire esattamente come una goccia d’acqua, con costanza, scava la roccia.

Eduardo Duran, psicologo junghiano di origine Apache, scrive di Henson: «Le parole della poesia di Lance sono canti di medicina che parlano del processo di trasformazione dell’anima. È attraverso il viaggio all’ombra della morte che possiamo ritrovare la nostra umanità che è stata a lungo dimenticata. La sua immaginazione poetica è la medicina compassionevole di cui abbiamo profondamente bisogno per risvegliare l’anima del guerriero».

Eric Harrison nell’Encyclopedia of American Indian poetry, scrive: «Lance Henson, Cheyenne, esplora il rapporto intimo ma spassionato del suo popolo con il mondo naturale e le sue cerimonie. Henson si affida a immagini potenti per “sondare gli strati dell’inconscio” in modo simile a Freud e Jung, ma anche per esprimere la concezione nativa del sé».

Io credo che “Impronte” sia una questione di “vibrazioni”. Le poesie contenute in questo libro hanno un gusto diverso dalle altre e si captano nello stesso modo in cui si percepiscono parole di verità: hanno una vibrazione diversa da tutte le altre. Nulla hanno di caotico e roboante. Nel leggerle sembra quasi ascoltarle riecheggiare nel silenzio di una prateria. Piccole poesie in grado di colpire in profondità, scalfire ed arrivare dritte al cuore lasciando “tracce/impronte di consapevolezza”.

“Impronte” è una cura terapeutica all’accelerazione dell’Occidente storico, riportandoci all’importanza delle piccole cose e del quieora che abbiamo dimenticato e continuiamo a dimenticare.

“Impronte” è un’occasione, non solo per riscoprire la profondità della letteratura nativa Cheyenne, ma anche per prenderci del tempo per noi, per lasciarci attraversare da parole che (ci) curano e ci portano a guardare la realtà in modo diverso. Soprattutto ci permettono di chiederci: dove stiamo andando?

In copertina:  Lance David Henson,  foto da premiostana.it/poesia

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Safari tra gli alberi giganti di Palermo, dall’orto botanico alla città

Safari tra gli alberi giganti di Palermo, dall’orto botanico alla città

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Palermo è di per sé un giardino botanico diffuso. Arrivata nella ex capitale del Regno delle Due Sicilie per la prima volta, nonostante le alte aspettative, è stata tutta una meraviglia. Basta una passeggiata in centro sulle tracce di una rivendita di cibo, per incappare nelle Magnolie tentacolari gigantesche di quella che sarebbe altrimenti una normale piazzola, in San Francesco di Paola.

Ficus nella piazzola San Francesco di Paola (foto GioM)

In piazza Verdi, davanti al Teatro Massimo, il marciapiede è costellato da Ficus microcarpa dai fusti bitorzoluti e rigonfi, sotto ai quali sostano i carretti trainati da cavalli.

Ficus davanti al Teatro Massimo
Piazza Verdi con Ficus microcarpa (foto GioM)

Un grande esemplare di ficus magnolioide è all’ingresso dei Giardini Reali, nel parco aperto a tutti di Villa Garibaldi, per non dire delle Palme grandi e rigogliose che spuntano un po’ dappertutto.

Giardini Reali, Palermo (foto GioM)

Il giardino botanico vanta un esemplare ancora più grande di ficus magnolioide a colonne (tecnicamente ficus macrophyilla columnaris). Credevo fosse il grande, doppio, esemplare che accoglie il visitatore all’ingresso. Niente affatto. L’albero monumentale è quello che ti si para davanti all’improvviso, verso la fine del giro del giardino. È stato portato qui dall’isola di Lord Howe, in Australia. Messo a dimora 185 anni fa da Vincenzo Tineo, uno dei primi direttori dell’Orto botanico, ora supera i 14 metri di larghezza.

Il ficus magnolioide

Originario degli stati australiani del Queensland e del Nuovo Galles del Sud, questo tipo di magnolia è stato introdotto in Italia attorno all’anno 1840, quando è stato piantato il primo esemplare nell’orto botanico di Palermo. La pianta rappresenta quindi il capostipite dei grandi Ficus dei giardini di Palermo, della Sicilia e dell’Italia meridionale. La sua struttura è formata da più fusti che si affiancano a un corpo centrale, creato dalla saldatura di propaggini arboree e da radici aeree che, nel complesso, gli conferiscono una forma sinuosa a raggiera.

orto botanico
Le colonne portanti del ficus (foto GioM)

Lo sviluppo avviene in tutte le direzioni: il corpo centrale svetta sì verso l’alto, ma si prolunga anche lateralmente. Le ramificazioni vanno in su e le radici aeree colonnari si appoggiano al suolo, sorreggendo i rami della pianta come zampe elefantiache. La pianta appoggia sulla superficie della terra con le sue radici esterne, a forma di grandi lame che emergono dal suolo verticalmente, estendendosi sul terreno e consolidando l’ancoraggio. L’albero, grazie a queste lamine e alle colonne che autoproduce, riesce a sostenere un peso che sarebbe altrimenti spropositato.

Le radici tabulari del Ficus macrophylla

La scheda del ficus dell’Orto botanico palermitano enumera ben 44 fusti. I più grandi di questi hanno una circonferenza di oltre tre metri e mezzo, e sostengono l’allungamento di undici grosse ramificazioni principali, a sviluppo quasi orizzontale, da cui partono i rami di ordine inferiore.

Il capostipite dei grandi Ficus di Palermo

Il sentiero d’ingresso conduce poi sul viale degli Alberi bottiglia. Tecnicamente, queste piante dal fusto panciuto che si va affusolando verso l’alto – tutto costellato di spine durissime – sono esemplari di “Ceiba speciosa“.

Alberi bottiglia (foto GioM)

L’albero è chiamato anche falso kapok o falso cotone, perché le grosse capsule dei suoi frutti si aprono, liberando una morbida lanugine bianca.

La Dracaena draco (foto EG)
L’albero (foto Orto Botanico – UniPa)

Più avanti, sulla destra, si incontrano strisce verdi ordinate. E qui appare l’Albero del drago (Dracaena draco).

Passarci sotto mette davvero inquietudine, con quei rami scuri e grifagni. Le sue propaggini sono nere come membra mostruose, che sembrano allungare inquietanti, piccole manine verso il basso e verso chi osa passarci sotto. Rasserena scorgere il passaggio di una più tranquillizzante e comune gallina, dalle piume rossastre, che becchetta lì intorno.

Una gallina a sorpresa sotto l’albero del drago

In fondo, verso la palazzina ai margini del giardino, spiazza ancora la tracotanza botanica di una Monstera Deliciosa.

Monstera rampicante (foto GioM)

È la pianta che di solito dà un tocco graziosamente esotico a salotti e hall di palazzi e alberghi, con quelle sue foglie grandi e forate, che formano grandi dita verdi simmetriche. L’esemplare della raccolta vegetale palermitana serpeggia invece con il suo tracotante fusto scaglioso, arrotolato come un’edera giunonica intorno al grosso tronco del Pecan (la Carya illinoensis), che appartiene non a caso alla famiglia delle Junglandaceae. È infatti l’albero che produce quelle forme grosse di noce, da cui deriva il nome della specie, che significa Ghiande di Giove (Jovis =Giove e Glans =ghianda).

Abituati all’aloe dei nostri vasi, qui le piante grasse si fanno tentacolari nella forma di Agave salmiana, che supera i 4 metri, incurante di essere stata lasciata in un’area completamente scoperta.

Agave salmiana

Protetto dai vetri della Serra delle succulente, l’esemplare di Cactacea si dipana pallido e spinoso come un serpente apparentemente immobile.

Cactacee nella serra delle succulente

Nel Boschetto di bambù si sente un rumore sinistro: cigolii, lamenti degli alti fusti che oscillano col vento come porte di un antico maniero. Un gatto grigio fa eco al lamento con un verso stridulo di rimando che si fatica ad attribuire a un mammifero.

Bambù dell’orto botanico
Cigolii si alternano a miagolii

Quest’area è particolarmente popolata di felini. Un micio bianco a chiazze scure posa tranquillo, mentre quello grigio si muove inquieto emettendo suoni inquietanti e un altro, di colore rosato, si muove silenzioso mimetizzandosi nella stessa gamma di tonalità di canne, foglie secche e muretti.

Il gatto mimetico (foto GioM)

Le possibilità di godere dello spettacolo di una natura spropositatamente rigogliosa si moltiplicano nei giri per la città. Il giardino della Cattedrale di Palermo offre la vista geometrica dei bossi squadrati, in contrasto con l’arricciamento dei cactus e delle forme rotondeggianti delle palme dai fusti longilinei.

Giardini del Duomo di Palermo (foto GioM)
Bosso e cactus

Bella come un centrotavola monumentale la palma a sei zampe del Chiostro dei Benedettini, che affianca il Duomo di Monreale. Una proliferazione di tronchi, che si moltiplica nelle variegate colonne – tutte diverse – che circondano l’area verde.

Palma del chiostro di Monreale (foto GioM)

Non c’è quindi da stupirsi che quando l’antico re Ruggero decise di farsi decorare una stanza all’interno dello stupefacente e luccicante Palazzo dei Normanni, le piante tornassero così frequenti e rigogliose. Nei mosaici di sapore orientale le palme, gli aranci e altri alberi da frutto trionfano accanto a gattopardi e leoni, pavoni e cigni.

SAFARI TRA GLI ALBERI GIGANTI DI PALERMO
Sala di Ruggero a Palazzo Normanni PA (foto GioM)

Perché, a Palermo, la natura ha questa forza esotica, felina e ferina, che non si contiene. Una natura che sprizza rigogliosa, ovunque la si posi.

In copertina: Le radici verticali, colonne portanti del Ficus Macrophylla – ph Giorgia Mazzotti.
Tutte le foto del servizio che corredano l’articolo sono di GioM e EG e per un’immagine dell’albero Drago concessione crediti Orto Botanico – Università di Palermo.

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SAFARI TRA GLI ALBERI GIGANTI DI PALERMO

Alberi tentacolari quelli che si incontrano ad ogni angolo di Palermo. Un’aiuola cittadina in piazza San Francesco di Paola sorprende come una giungla per le liane che penzolano dagli esemplari di Ficus magnolioide. Palme, albero di drago e ancora ficus magnoloide costellano i Giardini Reali, aperti al pubblico, e il parco urbano di Villa Garibaldi. All’orto botanico si trova il principe di questa specie. È il ficus magnolioide a colonne (ficus macrophyilla columnaris) piantato nel 1845, quando è stato introdotto in Italia il primo esemplare del genere. A sorreggere un peso spropositato, il ficus provvede da sé. Ha radici terrene esterne, a forma di grandi lame, e radici aeree che fungono da zampe elefantiache. Le emozioni continuano sul viale degli alberi bottiglia (Ceiba speciosa) e davanti a un mostruoso Albero del drago (Dracaena draco). La Monstera Deliciosa assale i tronchi in veste di edera gigante. Le piante grasse serpeggiano. Natura geometrica alternata ai ricci di palme e di cactacee davanti alla Cattedrale di Palermo, mentre una palma a sei zampe sta al centro del chiostro del Duomo di Monreale. Non sorprende quindi che palme, aranci e alberi da frutto trionfino anche nei mosaici di sapore orientale accanto a gattopardi e leoni.

Storie in pellicola /
Questi fantasmi! Di padre in figlio

Questi fantasmi! Di padre in figlio

Alessandro Gassman prende il testimone dal padre Vittorio che si era cimentato con Questi Fantasmi! nel 1967, firmandone la regia di un bell’adattamento per Rai Uno, oggi visibile su Rai Play. Un classico da rivedere, senza esitazione.

La divertente e, a tratti, amara commedia di Eduardo de Filippo è girata interamente a Napoli e vede Massimiliano Gallo nel ruolo di Pasquale Lojacono e Anna Foglietta in quello della moglie Maria.

Lojacono è un vinto, un uomo che vive di espedienti, che, nel tentativo di salvare le sue finanze e il suo matrimonio, si trasferisce in una casa lussuosa che gli viene affidata gratuitamente perché si pensa infestata dai fantasmi.

In cambio di quella sua magnifica presenza, dovrà sfatare la credenza popolare secondo cui tanti spiritelli irrequieti passeggerebbero per quelle eleganti stanze.

Mentre dalla finestra dell’appartamento di fronte, il professor Santanna, che si intravvede solo di spalle, osserva tutti questi strani avvenimenti. Quasi un grillo parlante.

Pasquale è un uomo ambiguo ma è anche un puro, che crede ai fantasmi e alle persone. Fa forse finta di non vedere, o forse ha solo paura di guardare in faccia la dura realtà.

Maria, dal canto suo, tradisce il marito con quello che Pasquale scambia – o vuole scambiare – per un ricco fantasma benefattore. Rispetto alla Maria originale del 1946, donna docile, sopraffatta e manovrata, quella di oggi è invece volitiva, sensuale, sicura, padrona delle situazioni e pertanto vincente. Pur con le sue tante fragilità.

Massimiliano Gallo, diretto da Alessandro Gassmann, in “Questi fantasmi!”, foto ufficio stampa

La commedia mette in scena un gioco delle parti che fa riflettere. Una relazione fra i due coniugi fatta di cose non dette e di tradimenti. Di debolezze e di timori. Di dubbi e rimorsi.

Allo spettatore resta però sempre il dubbio su quello strano scambio …

Perché, come dirà Pasquale, “I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi…”.

E perché bisogna dimenticare di avere paura. Sempre.

Questi fantasmi! di Alessandro Gassman, con Massimiliano Gallo, Anna Foglietta, Alessio Lapice, Maurizio Casagrande, Gea Martire, Viviana Cangiano, Tony Laudadio, Lello Serao, Italia, 2024, 102 mn

Foto ufficio stampa Rai

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Anna Foglietta in una scena di “Questi fantasmi!”, foto ufficio stampa

Cosa dice veramente il Manifesto di Ventotene

Cosa dice veramente il Manifesto di Ventotene

Il MANIFESTO fu scritto da Altiero Spinelli (1907-1986), politico, deputato italiano, scrittore e fondatore del Movimento federalista europeo, ex comunista ed espulso dal partito per aver criticato Stalin. È uno dei “padri” dell’idea di Europa.

L’altro autore è Ernesto Rossi (1897-1967), economista e giornalista e dirigente del Partito d’Azione e militante del movimento Giustizia e Libertà fondato dal teorico del socialismo liberale Carlo Rosselli. Lo scrissero nel 1941 mentre erano rinchiusi con altri 500 antifascisti nell’isola del Tirreno di Ventotene.

Una introduzione fu fatta da Eugenio Colorni nel 1944. È la prima idea di una Europa unita, seppure federale (cioè con una forte autonomia dei singoli Stati nazionali) e una rappresentanza diretta dei cittadini negli organismi centrali. È un breve documento che va ovviamente contestualizzato in quei momenti storici, e che contiene alcune ingenuità, come ammise lo stesso Spinelli nelle sue memorie, ma in cui è chiara l’idea (visionaria per quei tempi) di una integrazione europea degli Stati nazionali, dopo due tremende guerre mondiali e fratricide.

Gli autori socialisti (e del Partito d’azione) criticavano sia l’esperienza reale del comunismo dell’URSS, sia quella di un capitalismo deregolato. Il testo si presenta, dopo oltre 80 anni, di grande attualità, anche se non mancano ingenuità, come quella citata dalla Meloni e forse la frase più infelice, cioè la dittatura dello Stato.

In realtà tutta l’impostazione economico-sociale del Manifesto non è statalista, come la premier ha cercato di far credere, sottolineando la frase più infelice, ma quella poi assunta dalla nostra Costituzione, che prevede la difesa della proprietà privata ma anche la sua limitazione, qualora ciò sia utile all’interesse pubblico, come del resto avvenne con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e, aggiungo io, sarebbe necessaria ancora in altri settori come salute ed erogazione del gas.

C’era la critica al comunismo sovietico, “un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”, ma cercava anche di individuare una via economica che non fosse solo subalterna agli interessi privati se non monopolistici.

E soprattutto l’idea di una Europa federale la ”unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione” e l’idea di una forza armata comune (indipendente dagli anglosassoni) “al posto degli eserciti nazionali”.

C’era anche una impostazione socialista, che chiedeva a questa Europa di perseguire “la lotta contro la disuguaglianza e i privilegi sociali, le successioni non tassate, una proprietà privata corretta e limitata, nazionalizzazioni per evitare che la grandezza dei capitali investiti possa ricattare gli organi dello Stato…”.

Un’idea visionaria ma concretissima di una Europa che unita lavora per “condizioni di vita più umane, liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale… non lasciando ai privati attività monopolistiche che sfruttano i consumatori”.

Il Manifesto era quindi a favore delle nazionalizzazioni di quei settori che avrebbero portato vantaggio ai cittadini ed era favorevole a gestioni non solo private “alle cooperative e all’azionariato operaioe a remunerazioni medie che fossero press’a poco uguali per tutte le categorie professionali”. Segnato quindi da un forte egualitarismo.

C’era poi la proposta di un forte rafforzamento del welfare fino a dare un “minimo di conforto per conservare il senso della dignità umana e la solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica…non con la carità… ma con provvidenze pubbliche” (una sorta di reddito per i poveri ante litteram), ma anche di salario minimo “… senza però ridurre lo stimolo al lavorocosì nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori”.

In sostanza un testo non solo visionario, ma di grande attualità che individua una via originale (tutta da ancora da percorrere) di una Europa unita (seppure federale, cioè con forte autonomia dei singoli popoli) e terzo polo nella vita economico-sociale, al centro (virtuoso) di due polarità entrambe viziate (sbagliate):

  1. il comunismo nella sua forma reale realizzatosi in URSS;
  2. un capitalismo deregolato dove “dei plutocrati, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali”.

Un testo fortemente ispirato dal silenzio di quegli interminabili giorni di prigionia, pieno di fratellanza ed etica, in polemica con la “potenza del denaro”, che già allora si intravvedeva e come tale pieno di spiritualità, che vuole anche dare sicurezza all’Europa con un suo esercito, ma anche lontana dalle “esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari”.

Infine profetico là dove si dice che “è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose per riprendere la politica d’equilibrio dei poteri, nell’apparente immediato interesse dei loro imperi”.

In copertina: Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi autori del Manifesto di Ventotene, foto del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

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