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Per certi Versi /
Sorda la vita

Sorda la vita


La vita era assorta

non ti ha visto piangere

era distratta

non ha sentito la tua voce

 

Ha proseguito sorda senza di te

 

scrupoloso l’amore

è tornato indietro a prenderti

perché non avevi chiuso gli occhi

alla bellezza

Scriveva Amedeo Modigliani a un amico: «Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi» – In copertina una delle sue prime opere parigine, particolare del volto.

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino 

Presto di mattina /
Ispirazione, pietra e porta

Presto di mattina. Ispirazione, pietra e porta

Le Beatitudini per rincuorare e ravvedersi

Alla messa vespertina di due sabati fa a S. Francesca vi erano insieme scout e lupetti del Ferrara 5°, i grandi e i piccoli proprio in prima fila. Al vangelo erano di scena le beatitudini secondo Luca. Gesù rivela alla folla radunatasi nella pianura chi, agli occhi del Padre suo, fossero da considerarsi felici e chi invece sfortunati: Beati voi… poveri affamati piangenti e perseguitati. Guai a voi… ricchi, sazi, gaudenti, e davanti a tutti i lodati − perché Dio ha scelto da che parte stare e veglia − ha riconosciuto i suoi familiari, gli eredi come il Figlio del regno.

Nella prima lettura poi si parlava del tamarisco nella steppa dalla nerissima scorza, che quando vede venire il bene non lo riconosce perché come chi confida solo in se stesso non ha occhi se non rivolti verso se stesso, dallo sguardo tenebroso. Si diceva poi dei confidenti in Dio, di coloro che hanno in lui l’unica risorsa, attendono da lui aiuto. A differenza del tamarisco, questi sono detti simili agli alberi piantati lungo corsi d’acqua, verso cui stendono le radici. Non hanno paura del caldo, rimangono verdi le loro foglie anche nella siccità, continuando a produrre frutti.

Così coloro che vengono messi in guardia: “guai a voi”, coloro che tengono lontano il cuore da Dio e confidano solo nei loro simili hanno la loro controfigura e di che specchiarsi nel tamarisco per rinsavire; gli altri sono rincuorati e consolati per riconoscersi negli alberi che daranno frutti a suo tempo.

L’ispirazione da chi ti è venuta?

L’omelia, una manciata di minuti, ma per dire cosa? E da dove iniziare? Sono rimasto nell’inquietudine e nell’attesa ascoltando il diacono proclamare il vangelo dall’ambone. Poi, inattese, non so da dove sono emerse le parole del libro di Giobbe: «A chi hai rivolto le tue parole e l’ispirazione da chi ti è venuta?» (26, 4)

Ed ecco, come un vagito nascente l’assist che aspettavo: Ispirazione, il soffio che ha increspato le vele verso il largo.

Così ho domandato: «Secondo voi da dove nasce la poesia?» La prima risposta scontata, provocando ilarità nell’assemblea, è stata: «dal poeta». In risposta ho rilanciato con un’altra domanda: «e da dove viene nel poeta la parola?» E, dopo convulsi sommovimenti di grandi e piccoli e mani alzate tra i banchi arriva, quasi una piccola ‘ola’, anche la riposta: dall’ispirazione.

Così sospirando continuai: «Ma da dove sono venute a Gesù le beatitudini: Ispirazione, ispirazione, ispirazione…» fu, scontata, la risposta quasi corale. Insistetti ancora: «ma cos’è l’ispirazione?» E di nuovo silenzio: «da dove deriva questa parola?», come lanciando una cima di salvataggio. «Da spirare dice uno, respirare un altro e soffiare anche; dal soffio dello spirito» disse alla fine un quarto.

«Sì è proprio così» risposi subito, lo spirito che dimorava in Gesù, che sussurrava al suo cuore e abitava i suoi pensieri, animando il suo corpo e lo stesso che ha fatto gemmare le beatitudini, lo stesso Spirito del Padre suo, Spirito d’amore che li tiene uniti e che anche stasera si è riversato, spirando su di noi come onde miti sulla vela”. E la barca, quella sera, aveva raggiunto l’altra sponda del lago.

L’ispirazione: sconosciuta fonte

L’ispirazione per il poeta non è emozione effimera o esercizio di fantasia ma conoscenza, un sapere oltre, specchio riflettente di ciò che è inabissato nelle profondità del reale e dentro di lui. È sommovimento improvviso della coscienza e insieme dell’immaginazione, che determinano una scoperta, un dis-velamento seguito da un capovolgimento di prospettiva, un inatteso orizzonte, che è straniamento e poi familiarità del sentire come un vuoto nel pieno dapprima e nell’assenza intravede infine affiorare una presenza.

L’ispirazione messaggera dello spirito è come il vento «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv3,8). L’ispirazione è portatrice del Pneuma, lo Sconosciuto dentro e oltre noi stessi. Essa avvicina al fondo della realtà, al fondo dell’abisso che è l’altro, un abisso al pari di te: svelamento e velamento insieme: una ri-velazione appunto.

L’ispirazione è creatrice di parole primigenie direbbe il teologo Karl Rahner, matrice misteriosa, perché attinge alla loro essenza, al lievito madre dello spirito, generando parole in azione che danno forma a ciò che non ha forma, parole in presenza come traccia, impronta dell’indicibile.

«Se vuoi trovare la sorgente,
devi proseguire in su, controcorrente»

Bracconiere come Michel de Montaigne, (1533-1592), scrittore del Rinascimento francese, anch’io vado cercando parole d’altri e, citando un suo aforisma, dico: «Faccio dire agli altri quello che non so dire bene, talvolta per la debolezza del mio linguaggio, altre volte per la debolezza della mia intelligenza».

Così mi sovvengono le parole di Karol Wojtyla: «L’ispirazione, in maniera più o meno oscura, conduce il poeta e l’artista su quell’orlo abissale al mistero della tua scaturigine… Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente» (La sorgente, in Giovanni Paolo II, Trittico romano. Meditazioni, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2003, 15).

Nel suo Discorso agli artisti: “A quanti cercano nuove epifanie per farne dono al mondo” (4 aprile 1999) il papa poeta così scrive: «La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana.

Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione… Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel “soffio” con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione.

Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di “momenti di grazia”, perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende» (nn. 5; 15).

Ispirazione:
carezza dall’altra parte,
sommovimento di gestante,
pietra tombale divelta.

È quel soffio lieve che increspa l’orizzonte del silenzio, così il cammino delle parole ripiglia, anche se è notte. È quel sommovimento di linfa che preme, gemme spinte fuori dal solco di dura corteccia anche se è inverno ancora. Ispirazione è quella pietra tombale divelta delle parole sepolte, dall’altra parte lo sguardo del loro volto pasquale.

Una carezza disfìora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia
(E. Montale, Ossi di seppia, Einaudi, Torino 1943, 103).

Sotto le scorze, e come per un vuoto,
Di già gli umori si risentono,
Si snodano, delirando di gemme:
Conturbato, l’inverno nel suo sonno
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 157).

Dall’altra parte della mano tesa
Del petalo della foglia della rosa
Dell’aria azzurrina e del nembo
Del fulmine sghembo tra la pioggia
tutto è pazienza e attesa
che ribalti la pietra pasquale
il lato tombale delle cose
dall’altra parte il vero disegno
il volto luminoso
il regno il regno il regno!
(B. Cattafi, “Dall’altra parte”, in Tutte le poesie, Le Lettere, Firenze, 2020, 422).

È soffio di conchiglia

È l’ispirazione “soffio di conchiglia” per usare un’immagine ungarettiana che dà corpo all’infinito mistero. L’immagine esprime bene il pensiero di Karl Rahner (1904-1984) per il quale la conchiglia è simbolo efficace per dire «l’infinità presente nella finitudine della parola… L’intuizione sensibile guida non alla definizione delle cose, cioè alla conoscenza scientifica, ma verso una intensa evocazione, verso una conoscenza simbolica e dunque più «oscura».

Così commenta Antonio Spadaro introducendo i diversi saggi dedicati da Rahner alla poesia e alla parola poetica, ora raccolti in una nuova edizione: L’arte della Parola. Opere scelte, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, [MI] 2024, 32-33).

Scrive Rahner: «Il cristiano dunque, quale parola deve essere abilitato, esercitato e dotato di grazia ad ascoltare, per poter udire la parola del messaggio di Dio? Deve saper ascoltare la parola, attraverso la quale il muto mistero è presente, deve saper percepire la parola che colpisce il cuore nel suo più intimo, deve essere iniziato nella grazia umana ad ascoltare la parola che unisce e la parola che nel suo senso limitato e preciso è la corporeità dell’infinito mistero. Ma come si può chiamare una tale parola? Essa è la parola poetica; questo saper ascoltare è frutto dell’aver udito la parola poetica, alla quale l’uomo si abbandona in umile prontezza, affinché essa gli apra l’udito dello spirito e gli penetri nel cuore…

È vero perciò che la capacità e l’esercizio di percezione della parola poetica è un presupposto per sentire la parola di Dio. Può bene la grazia crearsi questo presupposto, ci possono ben essere molti uomini, ai quali la poesia dell’esistenza eterna penetra nell’orecchio e nel cuore soltanto nel messaggio cristiano, però tutto ciò non toglie, secondo la nozione acquisita, che il dire e l’ascoltare la poesia appartenga così intimamente all’essenza dell’uomo, che nel caso in cui questa capacità del suo cuore venisse distrutta, l’uomo non possa più ascoltare la parola di Dio in parola umana. Ciò che è poetico nella sua ultima essenza è presupposto per il cristianesimo…

Il coltivare la poesia è in ogni caso una parte dell’esercitazione al saper sentire la parola della vita e, viceversa, quando un uomo nel profondo del suo cuore impara ad ascoltare le parole del Vangelo veramente come parola di Dio, data da Dio stesso, allora incomincia a diventare un uomo che non può più essere completamente insensibile a ogni parola poetica» (ivi, 114-115; 117).

È pietra su cui edificare, porta per continuare oltre

«Poesia come fedeltà all’ispirazione». È questa la traccia di fondo, l’itinerario carsico che sottende la poetica di Bartolo Cattafi (1922-1979). Ne è convinto Raoul Bruni nell’introduzione alle sue poesie, che rileva pure nell’autore un’idea di poesia come “condizione umana”:

«La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana… Quella del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini» (Tutte le poesie, VIII-IX).

Pietra bianca
conchiglia calcare
con teneri bordi di colore
che sorte e acrocoro mandano
a un livello di mare
nella vasta pianura
percorsa da opliti
marinai mercanti inconsapevoli
isola emersa
misconosciuta itaca
sotto i piedi d’un gregge polveroso
(ivi, 563).

La porta
Non posso ancora aprirla
non vedo il muro
il varco nei mattoni
il legno immateriale
la misteriosa maniglia.
Ad ogni sbatter di fronda
di ciglia
di finestre furiose
di chiarissima
onda
di pesce fuor d’acqua
d’ali sulla preda
con speranza mi volgo.
Che sia Tu ad aprirla
Nelle Tue cose?
(ivi, 644).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Cosa dice il Nuovo Piano Pandemico 2025-2029?

Cosa dice il Nuovo Piano Pandemico 2025-2029?

La nuova versione del Piano pandemico 2025-2029, trasmessa oggi alla conferenza delle Stato-Regioni per l’approvazione e, è un testo di 150 pagine in cui vengono presi in esame le varie fasi di risposta all’emergenza, dalla pianificazione e il finanziamento fino al coordinamento, il controllo, l’organizzazione dei servizi sanitari e formazione del personale. Il principio guida del Piano, si legge, è “l’efficacia”. Gli interventi prospettati “sono fondati su un solido razionale scientifico e metodologico”, e dovranno essere “motivati da una condizione di necessità. Per tale motivo  ogni intervento è guidato anche dai principi di precauzione, responsabilità, proporzionalità e ragionevolezza”.

Il nuovo Piano nazionale pandemico illustra la strategia messa a punto dal governo Meloni in caso di emergenze come quella causata dal Covid-19. Una prima bozza era circolata il mese scorso, ma il testo è stato modificato nelle parti considerate più “delicate”.

Il testo infatti contiene alcuni importanti cambiamenti rispetto alla precedente bozza:

  • solo una legge (e non un Dpcm) potrà disporre un lockdown in caso di pandemia;
  • i vaccini, seppur ritenuti “efficaci”, “non potranno essere considerati gli unici strumenti” di contrasto;
  • e si ispira “ai valori fondativi del nostro Servizio sanitario nazionale”, in particolare “la giustizia, l’equità, la non discriminazione e la solidarietà”.

In caso di pandemia, “il conflitto che potrebbe eventualmente insorgere tra la sfera privata e quella collettiva rende necessario operare in ottemperanza al principio di trasparenza”. Per questo, “le informazioni saranno divulgate dalle istituzioni preposte, tanto al personale medico-sanitario quanto ai non addetti ai lavori, in maniera tempestiva e puntuale, attraverso piani comunicativi pubblici e redatti in un linguaggio semplice e chiaro. Ogni persona deve essere informata sulla base di evidenze scientifiche in merito alle misure adottate”, si precisa.

Di fronte ad un reale e grave rischio per la salute pubblica, “sarà necessario disporre di misure combinate che includano test, isolamento dei casi, tracciamento dei contatti e la messa in quarantena degli individui esposti”, ma occorrerà “aggiornare o modificare le decisioni o le procedure qualora emergano nuove informazioni rilevanti e fondate su evidenze scientifiche”.

Il testo esclude “l’utilizzo di atti amministrativi per l’adozione di ogni misura che possa essere coercitiva della libertà personale o compressiva dei diritti civili e sociali”. Nel caso di una pandemia di carattere eccezionale, come il coronavirus (di cui il 20 febbraio del 2020, esattamente cinque anni fa, si scopriva il paziente 1 a Codogno) “si può presentare la necessità e l’urgenza di adottare misure relative ad ogni settore e un necessario coordinamento centrale, valutando lo strumento normativo migliore e dando priorità ai provvedimenti parlamentari”.

Dunque, non sarà possibile ricorrere a interventi coercitivi se non tramite “leggi o atti aventi forza di legge” che “nel rispetto dei principi costituzionali” potranno prevedere “misure temporanee straordinarie ed eccezionali in tal senso”.
In sostanza, il nuovo Piano proibisce l’uso di atti come i Dpcm, usati durante il governo Conte per disporre i vari lockdown – contestati parzialmente da Meloni, ma molto profondamente da gran parte dell’opinione pubblica, da tanti attivisti per i diritti umani e da critici della militarizzazione della pandemia – che ora non potranno più essere utilizzati. Solo una legge o un atto con la stessa forza (un decreto legge ad esempio) potrà prevederlo.

Il nuovo Piano riconosce l’importanza dei vaccini seppur con un importante passo indietro rispetto a quanto inserito nella prima bozza. Se la prima bozza li considerava le misure “preventive più efficaci” per contrastare simili emergenze sanitarie, ora il testo recita: “i vaccini approvati e sperimentati, risultano misure preventive efficaci” e “contraddistinte da un rapporto rischio-beneficio significativamente favorevole”Finalmente, dopo anni, viene puntualizzato che i vaccini “non possono essere considerati gli unici strumenti per il contrasto agli agenti patogeni, ma vanno utilizzati insieme ai presidi terapeutici disponibili” in quanto non sono una panacea a tutti i mali e non possono sostituire la prevenzione primaria e la medicina territoriale (cose sostenute per altro proprio dai movimenti di lotta per il diritto alla salute in Italia e dallo stesso Vittorio Agnoletto).

Un’ apertura non di poco conto
per un governo come quello di Meloni che, sui temi dell’obbligatorietà vaccinale, del Green Pass e della violazione delle libertà costituzionali durante le politiche pandemiche, si è sempre mantenuto equidistante. Non dimentichiamoci che Giorgia Meloni, proprio sul Green Pass, quando non era ancora in vigore, dichiarò: “Penso al tema del certificato verde digitale. Siamo stati i primi a sostenerlo, ci auguriamo che venga adottato il prima possibile in un orizzonte di totale reciprocità con tutti gli altri Stati europei” (https://www.editorialedomani.it/video/il-video-della-polemica-quando-giorgia-meloni-era-favorevole-al-green-pass-uhvzkzct)

È la stessa Meloni che ha nominato Ministro della Salute il prof. Orazio Schillaci, rettore dell’Università di Roma Tor Vergata e docente ordinario di Medicina nucleare che ha fatto parte del Comitato tecnico scientifico sull’emergenza Covid, chiamato proprio dal suo predecessore Speranza (1).

Tutte le istituzioni coinvolte nella risposta a un’eventuale emergenza sanitaria “devono essere dotate di risorse necessarie e impiegarle in maniera efficiente ed efficace, rendicontando pubblicamente il proprio operato”, riporta la bozza. Si evidenzia che “la preparazione e la necessaria pianificazione operata punta a ridurre al minimo l’eventualità che si verifichi una scarsità di risorse in caso di evento pandemico”. Se questo dovesse accadere, “ogni scelta di allocazione  deve essere trasparente e guidata dal principio deontologico e giuridico della uguale dignità di ogni essere umano, dall’assenza di ogni discriminazione e dal principio di equità”, viene ribadito.

Quanto al finanziamento, l’ultima legge di bilancio “ha autorizzato, per l’attuazione delle misure del piano pandemico nazionale per il periodo 2025-2029, la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2025, di 150 milioni di euro per l’anno 2026 e di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2027”.

Il testo rivolge l’attenzione anche alle categorie più fragili: “In base alle rispettive competenze statali e regionali  gli interventi di sanità pubblica mirano ad essere inclusivi e rispettosi delle caratteristiche di ogni contesto sociale, nella piena consapevolezza che ogni tipo di misura possa gravare in maniera differente su gruppi di popolazione diversi tra loro per tratti sociali, economici, culturali, clinici”.

Tra le popolazioni particolarmente fragili e vulnerabili cui è opportuno prestare specifica attenzione vi sono: “i grandi anziani, coloro che sono ospitati all’interno di Rsa, le persone affette da patologie rare, psichiatriche, oncologiche, da comorbidità severe o immunodeficienze, le persone che vivono in condizioni di particolare fragilità sociale o economica, le persone migranti e le persone in regime di detenzione”. In ogni caso “risulta assolutamente centrale la sensibilizzazione delle persone attraverso una comunicazione semplice ed efficace dei benefici e dei rischi correlati”, si sottolinea. E “in nessun modo – si avverte – la campagna di informazione dovrà utilizzare toni drammatici, generare discriminazioni e stigma sociale”.

Che dire? Seppur l’invito è di rimanere vigilanti, non ci resta da sperare finalmente che questo nuovo piano pandemico sia un presupposto importante per attuare finalmente l’articolo 32 della nostra costituzione che afferma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Note :
(1) Squillaci
è sempre stato un convintissimo sostenitore del Green Pass, considerandolo indispensabile per “garantire la sicurezza nelle aule universitarie”. Durante la Covid-19, Squillaci si è distinto, nella sua università, per livelli maniacali di controllo, in cui “oltre ad inquadrare ogni singolo QrCode, gli studenti vengono obbligati a firmare un foglio per segnalare ulteriormente la propria entrata nel complesso e il possesso di pass”.

Cover: COVID-19 Coronavirus outbreak financial crisis help policy, company and business to survive concept, businessman leader stand safe by cover himself with big umbrella from COVID-19 Coronavirus pathogen (Foto di Teknoring)

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore

 

Il futuro è rosa …
Se sei uomo, benestante e in coppia

Il futuro è rosa …  Se sei uomo, benestante e in coppia

C’è un significativo divario di genere nella percezione delle preoccupazioni economiche. Gli uomini sono sistematicamente più ottimisti delle donne. Sono disuguaglianze da affrontare con misure mirate, per permettere una adeguata pianificazione economica.

Stress da insicurezza economica

Stress e ansia sono esperienze comuni e molto diffuse. Si parla ancora poco, però, di quanto la sicurezza economica influisca su di esse. Ci sono persone che faticano ad arrivare a fine mese e altre che temono per il futuro dei propri risparmi. Queste condizioni sono determinate sia da fattori oggettivi sia da elementi soggettivi, poiché, anche quando si parla di stress finanziario, è la percezione individuale a fare la differenza. Misurare questi aspetti nelle scienze sociali è fondamentale per comprendere meglio le dinamiche tra benessere economico ed emotivo, così da progettare politiche sempre più efficaci per ridurre l’insicurezza finanziaria e migliorare l’impatto sociale.

Una recente indagine curata dal Museo del Risparmio ha raccolto ulteriori evidenze. Condotta a metà ottobre 2024 su un campione rappresentativo della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni (3.868 partecipanti), la ricerca ha portato alla luce un tratto sistematico: le donne mostrano una propensione maggiore al pessimismo e un livello più elevato di preoccupazione economica rispetto agli uomini. Le differenze di genere non si riflettono solo in aspetti economici e lavorativi, ma emergono anche nelle percezioni soggettive di ottimismo, felicità e preoccupazione per il futuro.

Figura 1

Nota: Livello di ottimismo misurato secondo scala Likert 1-15 da valori più bassi a più alti

Figura 2

Reddito e percezione del benessere

I dati mostrano una netta disparità nella distribuzione del reddito netto mensile: le donne sono più concentrate nelle fasce inferiori, mentre gli uomini prevalgono tra coloro che godono di redditi più elevati. La differenza si riflette direttamente nella percezione del benessere: molti uomini definiscono il proprio stile di vita come “alto” o “molto alto”, mentre le donne tendono a collocarsi nelle categorie “medie” o “basse”. Il potere economico, dunque, non solo migliora le condizioni materiali, ma contribuisce a ridurre la percezione del rischio e a favorire un approccio più ottimista verso il futuro.

Figura 3

Figura 4

Felicità e ottimismo: un divario persistente

La valutazione della felicità su una scala da 0 a 10 evidenzia punteggi più alti tra gli uomini, mentre le donne risultano più presenti nelle fasce intermedie e basse. L’ottimismo segue un andamento simile, invertendosi con il pessimismo, che si manifesta in modo sistematicamente maggiore tra le donne. Lo scenario, amplificato dall’esperienza post-Covid, suggerisce che le aspettative sociali e il ruolo culturale attribuito a ciascun genere possano influenzare notevolmente la percezione del futuro.

Figura 5

Preoccupazione e gestione dell’incertezza

Un indicatore particolarmente rilevante è la percentuale di chi ha provato preoccupazione nelle ultime 24 ore: il 54,1 per cento delle donne contro il 41,7 per cento degli uomini. La differenza non solo evidenzia una maggiore sensibilità femminile alle incertezze economiche, ma mette in luce la necessità di strumenti specifici per gestire lo stress finanziario e favorire una maggiore serenità, soprattutto in un contesto di instabilità globale.

A Flourish chart

Il ruolo dell’istruzione

Che ruolo svolge l’istruzione? In generale, un più alto livello di istruzione è associato a un incremento della felicità. Tuttavia, mentre l’effetto positivo si riscontra in entrambi i generi, l’impatto sull’ottimismo è divergente: tra le donne, le più istruite risultano meno ottimiste, probabilmente a causa di una maggiore consapevolezza delle sfide economiche e sociali; per gli uomini, invece, il reddito, che aumenta con l’istruzione, sembra compensare eventuali effetti negativi.

A Flourish table

Influenza dello stato civile e del lavoro

Essere in coppia e avere un lavoro fuori casa si configurano come fattori chiave per la gestione delle preoccupazioni quotidiane. La vita di coppia, infatti, offre un supporto emotivo che può attenuare l’ansia: risulta particolarmente benefica per gli uomini, per i quali il matrimonio incide positivamente sia sull’ottimismo che sulla felicità. Al contrario, per molte donne il lavoro, pur rappresentando una fonte di autonomia economica, è spesso accompagnato da pressioni e aspettative sociali che possono accentuare una visione pessimistica.

A Flourish table

Prospettive future

Oltre ai fattori esaminati, è fondamentale considerare il ruolo della cultura e delle politiche sociali nella configurazione delle differenze. Un approccio integrato che favorisca l’equilibrio tra vita lavorativa e privata, investa in programmi di sostegno economico e promuova la formazione continua potrebbe contribuire a ridurre le asimmetrie. Inoltre, sono necessarie ulteriori ricerche, anche qualitative, per esplorare in profondità le cause dei divari, considerando variabili regionali e le evoluzioni delle dinamiche familiari e sociali.

L’indagine descrive un significativo divario di genere nella percezione di felicità, ottimismo e preoccupazione economica, legato a fattori come reddito, istruzione e status relazionale. Affrontare queste disuguaglianze richiede politiche economiche e sociali mirate, capaci di garantire sicurezza finanziaria e un supporto adeguato alla pianificazione economica, soprattutto per le donne. Solo così sarà possibile favorire un futuro più equilibrato e migliorare il benessere complessivo della società.

Gli autori

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Sopravvivere alla stagione delle arance:
le condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro

Le condizioni di vita e lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro

Medici per i Diritti Umani (MEDU) da 12 anni opera nella Piana di Gioia Tauro con la sua clinica mobile, portando avanti il progetto “Campagne aperte: laboratorio di pratiche territoriali per promuovere la dignità della vita e del lavoro”.

12 anni di attività ininterrotta, durante i quali è stata fornita assistenza medica, migliaia di persone sono state informate sui propri diritti e portando all’attenzione delle istituzioni e le precarie condizioni di vita e di lavoro dei migranti impiegati nella raccolta agrumicola sono state rese note all’opinione pubblica.
Durante l’ultima stagione, da novembre 2024 a febbraio 2025, Medici per i Diritti Umani hanno fornito assistenza medica e socio-legale a 371 persone attraverso uscite regolari, tre volte a settimana, presso la tendopoli di San Ferdinando, il casolare di contrada Russo a Taurianova e Largo Bruniani a Rosarno.

Si tratta prevalentemente di uomini di età compresa tra 31 e 50 anni (61%), provenienti da quasi tutti i Paesi dell’Africa occidentale, ma anche dal Maghreb (Tunisia, Marocco, Mauritania), dal Sudan, dal Camerun e dalla Bulgaria. La  gran parte di questi lavoratori (87%) possiede un permesso di soggiorno regolare,  il 25% è titolare di protezione sussidiaria, il 17% di permesso per lavoro subordinato e il 17% di protezione speciale. Solo il 10% delle persone intervistate da MEDU si trovava in condizioni di irregolarità per il soggiorno e il 3% non ha fornito informazioni. Circa il 78% vive poi in Italia da oltre tre anni e si dedica prevalentemente al lavoro agricolo, spostandosi durante l’anno tra diverse regioni.

Le condizioni lavorative, a 15 anni dalla “rivolta di Rosarno”, continuano ad essere di inaccettabile sfruttamento.
Nonostante molti braccianti (70% delle persone che hanno fornito indicazioni in merito) abbiano un contratto di lavoro a breve termine (di una settimana, uno, due o tre mesi) – si legge nella nota di MEDU . essi si trovano spesso a subire riduzioni in busta paga, salari inferiori a quelli contrattuali, riposi e ferie ridotti o addirittura inesistenti. I braccianti senza contratto (30% delle persone che hanno fornito informazione sul contratto) sono ovviamente ancor più esposti a condizioni di sfruttamento. Tutti, indipendentemente dalla condizione contrattuale, sono accomunati dallo stato di bisogno, che li espone a una condizione di ricattabilità, con orari di lavoro estremamente elastici e salari che non corrispondono a quanto pattuito.”

Per quanto riguarda la remunerazione dei lavoratori, su 66 lavoratori, il 35% riceve il salario esclusivamente in contanti, il 33% tramite bonifico e il restante 32% con una modalità mista. Ma il 58% ha dichiarato di non ricevere la busta paga e solo una ha affermato di raggiungere le 102 giornate necessarie per la richiesta della disoccupazione.
MEDU ha denunciato poi che anche quest’anno i braccianti sono stati costretti a vivere in strutture alloggiative assolutamente inidonee, di estrema precarietà in contesti periferici, abusivi e insalubri. Mentre resta particolarmente preoccupante la condizione dellex tendopoli ministeriale di San Ferdinando, il più grande insediamento informale della Calabria, creata originariamente come presidio temporaneo per ospitare circa 500 persone e diventato oggi un ghetto in continua espansione, con la costruzione di baracche e strutture precarie. Anche gli spostamenti quotidiani verso i luoghi di lavoro avvengono inoltre in condizioni pericolose, con strade dissestate e scarsa illuminazione, fattori che aumentano il rischio di incidenti.

Ci sono stati tentativi da parte delle istituzioni di allestire strutture adeguate, come il Villaggio della Solidarietà di Rosarno, che ha accolto i braccianti precedentemente ospitati nel campo container di Testa dell’Acqua, e il Polo Sociale di Taurianova, che offre accoglienza a circa 96 persone in 24 moduli abitativi. “Tuttavia, a Rosarno – sottolinea MEDU –  un progetto finanziato con oltre 3 milioni di euro di fondi europei per la creazione di una rete di accoglienza abitativa e inclusione sociale per i lavoratori migranti e le loro famiglie, che prevedeva la costruzione di sei edifici per un totale di 36 appartamenti, è rimasto bloccato per oltre 12 anni. Attualmente, gli appartamenti restano inutilizzati in attesa dei fondi necessari per l’arredamento. Solo dopo il completamento di questa fase sarà pubblicato il bando per l’assegnazione, aperto anche ai migranti in possesso dei requisiti richiesti.”

Condizione abitativa che unita allo sfruttamento incidono profondamente sulla salute dei lavoratori. Tra i problemi di salute riscontrati, le malattie dell’apparato osteoarticolare e dell’apparato digerente sono le più frequenti, seguite da problemi odontoiatrici e malattie del sistema respiratorio. Non meno rilevanti sono le malattie della pelle oltre che malattie del sistema cardio-circolatorio e i disturbi del sistema genito-urinario.

MEDU ribadisce la necessità di interventi tempestivi e coordinati per affrontare in modo strutturale le criticità legate alle condizioni abitative e lavorative dei braccianti agricoli stranieri e l’urgenza di intervenire per garantire condizioni di vita più dignitose nella tendopoli di San Ferdinando, attraverso il miglioramento dei servizi essenziali: raccolta dei rifiuti, disponibilità di acqua calda, regolarità del servizio elettrico e la presenza costante di un presidio dei vigili del fuoco.

Qui per approfondire: https://mediciperidirittiumani.org/sopravvivere-alla-stagione-delle-arance/.

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Stangata

L’ULTIMA STANGATA

L’ULTIMA STANGATA

Nelle settimane passate sono emerse all’onore della cronaca le scelte dell’Amministrazione comunale di Bologna e della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna relativamente alla manovra per far fronte ai tagli del trasporto pubblico locale, nel caso di Bologna, e della sanità a livello regionale.

Il sindaco di Bologna Lepore ha annunciato che dal 1° marzo scatterà l’aumento del biglietto della corsa singola dei bus da 1,5 a 2,3 €, la rimodulazione del costo degli abbonamenti e un rincaro della sosta a pagamento per gli autoveicoli. Dalla Regione sono uscite le indicazioni per incrementare l’addizionale Irpef, in modo progressivo, per i redditi sopra i 28.000 €, aumentare l’IRAP, il bollo auto e far pagare i tickets sanitari sopra i 35.000 € di reddito ISEE.

Entrambe queste impostazioni sono sbagliate. Pur nella differenza di ambiti e di specifici interventi, esse vanno in una direzione non condivisibile per almeno tre ragioni.

La prima è che, guardando al merito delle stesse, produrranno effetti seriamente negativi rispetto alla difesa del sistema di Welfare, di cui le politiche dei trasporti e quelle della salute sono cardini importanti. L’incremento del costo dei biglietti del bus e delle linee extraurbane produrranno inevitabilmente un disincentivo all’utilizzo del trasporto pubblico, mentre sia le politiche della mobilità sia quelle relative alla riduzione delle emissioni climalteranti ci dicono che occorre andare in tutt’altra, anzi, opposta direzione.

Il modello cui fare riferimento non è quello messo in campo da questo e dai precedenti governi che spingono ad innalzare le tariffe, definanziando il Fondo nazionale trasporti, ma semmai quello di Montpellier, città media francese paragonabile a Bologna con i suoi 300.000 abitanti, che dalla fine del 2023 ha deciso di rendere gratuito il trasporto pubblico urbano e che, dai primi dati a disposizione, ha visto crescere di circa il 20% i passeggeri che usufruiscono di tale servizio.

Allo stesso modo, l’intenzione di legare l’importo dei tickets sanitari al reddito – che però andrà vista meglio quando verranno rese note e precisate le modalità – restringe l’area dell’universalismo della prestazione e incentiva a non ricorrere al servizio pubblico, proprio quello che, a parole, la Giunta regionale dichiara di voler contrastare.

Il secondo punto fortemente critico di queste manovre è che vanno a colpire in particolare le classi medio-basse. Infatti, già di per sè l’utilizzo delle tariffe ( costo dei biglietti e tickets) ha un effetto regressivo, per il semplice fatto che le tariffe, a differenza dell’uso della fiscalità ( e in questo, in verità, l’intervento sull’addizionale IRPEF regionale ha meno questo segno), pesano di più in termini proporzionali sui redditi medio-bassi. Soprattutto, però, l’innalzamento del contributo a carico dei cittadini sul trasporto pubblico e sulla sanità, va ad aggiungersi al forte incremento tariffario relativo agli altri servizi pubblici (gas, elettricità ed acqua in primis) che si sta registrando da alcuni anni qua e che ha già letteralmente falcidiato i redditi medio-bassi.

Terza ragione che mi fa dire che siamo in presenza di un’impostazione sbagliata è che assistiamo al paradosso per cui è in primo luogo il governo nazionale di destra a portare la responsabilità di attaccare pesantemente il sistema pubblico e il Welfare, puntando esplicitamente ad una loro privatizzazione, e i governi locali devono farsi carico di coprire i tagli che da lì derivano, magari rispolverando, a partire dai governi di centrosinistra, il desueto e ormai autolesionista “senso di responsabilità”. Non rendendosi conto (voglio sperare, perchè altrimenti, sarebbe ancora peggio) che, così facendo, si alimenta il già troppo diffuso sentimento per cui le persone ritengono che “tutti sono uguali”, che tanto la politica, intesa in modo indifferenziato e generalizzato, non fa altro che gravare sulle tasche dei cittadini. Producendo, alla fine, un ulteriore distacco tra le persone e l’agire politico e acuendo l’idea della mancanza totale di rappresentanza, di cui la crescita dell’astensionismo elettorale e il calo della partecipazione alle scelte pubbliche sono già una buona testimonianza. In più, si rischia di rendere poco plausibile e scarsamente coerente una linea per cui l’opposizione di centrosinistra, a livello nazionale, denuncia i tagli al Welfare e poi, a livello territoriale, si fa carico delle loro conseguenze.

Ovviamente, è più che legittimo che qualcuno avanzi il rilievo relativo al fatto di poter percorrere altre strade possibili. Il mio parere è che se ne potevano e se ne possono individuare almeno due, più efficaci ed eque.

La più radicale, ma anche quella per me preferibile, è quella di sottrarsi alla “trappola del debito”, ovverossia decidere di non coprire i buchi di bilancio dell’azienda dei trasporti di Bologna e delle aziende sanitarie regionali e aprire una vertenza con il governo centrale perchè sia lo stesso ad intervenire per incrementare le risorse del Fondo nazionale trasporti e del Fondo sanitario nazionale. Una strada che non sta nelle corde solo di chi, invece, come purtroppo è successo al centrosinistra egemonizzato dall’ideologia neoliberista da diversi decenni in qua, continua ad essere preda dell’ “ossessione del debito”, visto come male in sé.

Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna dal 1945 al 1966 (Biblioteca Sala Borsa)

Del resto, fare debito a livello locale e rivendicare che sia il governo centrale a farvi fronte è una scelta già compiuta in passato, proprio dalle Amministrazioni locali emiliane, in particolare negli anni ‘60 del secolo scorso, e ciò fu proprio la leva con cui si costruì il Welfare in questa terra e si fondò il “modello emiliano”.

In proposito, può essere utile ricordare che tale approccio venne utilizzato a partire dal lontano 1961 dallo storico sindaco di Bologna Giuseppe Dozza, che all’epoca, nella sua relazione al bilancio preventivo affermava che una prima sommaria e prudenziale valutazione delle esigenze attuali della città…è già sufficiente a misurare i termini, politici prima ancora che finanziari, del divario esistente tra i bisogni della collettività cittadina e le possibilità effettive che sono lasciate attualmente all’ente locale di soddisfarli…”. Da qui la conclusione che “si può prevedere sin d’ora la necessità che il prossimo bilancio presenti un disavanzo”.

Si può obiettare che erano altri tempi, che il livello complessivo del debito pubblico non era così elevato e che erano gli anni di una rilevante crescita economica; ciò non toglie che, seppure in un diverso contesto, una politica di utilizzo efficace del debito pubblico è assolutamente realizzabile anche oggi. Certo, ciò presuppone una visione di politica economica e sociale alternativa all’esistente, ma anche a quella messa in campo dai governi di centrosinistra da molti decenni in qua. Se però non si passa da qui, ci si ritrova condannati alla subalternità alle politiche di destra e a non riuscire a prospettare una reale alternativa, credibile agli occhi delle persone.

In subordine rispetto all’opzione che ritengo fondamentale, quella della non copertura del debito e dell’apertura di una vertenzialità forte nei confronti del governo, si potrebbe perlomeno ri-orientare la manovra, ragionando sul fatto di utilizzare la leva fiscale decentrata e non quella tariffaria (aumento biglietto del bus e tickets), salvaguardando i redditi bassi e medi, affermando così una scelta di progressività del prelievo ben più forte di quella finora prospettata. Anche qui, peraltro, si tratta di uscire dal paradigma per cui la forte disuguaglianza di reddito andata avanti negli ultimi decenni era praticamente inevitabile e un portato “naturale” dei processi economici-sociali indotti dalla globalizzazione.

Infine, mi interessa sviluppare un ulteriore ragionamento a supporto delle tesi che ho avanzato. Detto in parole povere, a me pare chiaro che la battaglia per uscire dal ricatto del debito o, perlomeno, per costruire una forte inversione nell’attuale distribuzione dei redditi e dei patrimoni diventerà sempre più attuale rispetto allo scenario delle scelte che si apriranno davanti a noi.
Come si può pensare di opporsi all’aumento delle spese militari che appaiono “ necessitate” dal contesto geopolitico aperto dal trumpismo e dal conseguente ridimensionamento della spesa sociale, in primis istruzione, sanità e gli altri beni comuni, se non si cambia radicalmente l’approccio che anche il centrosinistra ha prodotto negli anni della sua subalternità al pensiero unico dominante, s
e non si rivede proprio l’idea che il fardello del debito pubblico, il Patto di stabilità europeo, la crescita delle disuguaglianze sono tabù intoccabili e che, invece, occorre promuovere una linea completamente alternativa di politica economica e sociale?

Per questo, rivedere in modo forte le scelte di Lepore e di De Pascale non sono solo un fatto contingente e limitato, ma diventano una cartina al tornasole del futuro che si tratta di mettere in campo. E che occorre affrontare con la radicalità che l’oggi e il domani ci reclamano.

Cover: Maxi aumento biglietti autobus bologna (immagine ètv Rete7)

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Parole a capo
Carla Forza: «Xènia» e altre poesie inedite

Carla Forza: «Xènia» e altre poesie inedite

Xènia  

“Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo sola andata.”
(
Erri de Luca, Solo andata)

Conturbante silenzio
sul limitare piovoso
del vano
Muti figuri occupano
tutto lo spazio sbarrato
Non cigolano i cardini
oliati dalla vergogna
mendace
Feritoie retratte
come lingue d’acqua
fanno fare pace
Ingombranti sgomenti
appuntellati agli immacolati
cancelli
piagano l’animo

– Prego, entrate –
sillaba a cenni l’Occaso

 

*

 

Eterno ritorno

 

Andirivieni di esegesi multiple
intorno al corpo
in un balletto indispettito
di veti e dinieghi incrociati
Nella sabbia acida
dei reflussi la metamorfosi
mistificatoria degli Stati
soffoca la crasi
Pudica – in relazione –
la grazia piena di chi coniuga
l’inviolabilità equa della norma
all’umanità dei casi

Libertà traluce infinitezza
sebbene i ceppi
la incatenino alla tolda

 

*

 

Fragore

 

Nell’ocra riarso si incide
l’involontario verdetto
apparentando le idee
in scenari di senso
Effigi a rilievo perdurano
impari nell’eredità degli occhi
e poi si disfano in frame
inclini al dispregio
accanto a un carretto
dalle stanghe esplose

Permangono sagome
di sgomento
a nidificare nel grembo

 

*

 

E dentro, e fuori

 

Mi raccolgo in un angolo
candido di paradiso
come trillo d’uccelli al ceruleo
Levità sacra che distende
luce e la disperde
in volo
Ma su questo prato
screziato d’ombre

                          melliflue nel folto

si allungano
le mani dei bimbi
di Gaza
insinuandosi nel verde
dove le tenebre
tradiscono l’innocuo

Carla Forza. Nata in Toscana nel 1964, dopo la maturità classica si è laureata in Filosofia della Storia all’Università di Pisa. Attualmente vive in Lombardia e lavora, come docente di Materie letterarie, in un Istituto tecnico. Figura tra gli autori delle Antologie dei Premi Rebèlde, Voci dai Murazzi, Le Occasioni e dell’Agenda poetica Ed. Ensemble 2024. Suoi testi inediti sono comparsi su blog e riviste online quali L’Altrove – Appunti di poesia, La rosa in più, Margutte e Argo. «Grandina disgrazia e noi restiamo ciechi» è la sua silloge d’esordio (4 Punte Ed. 2024) presentata a Roma alla Fiera Più libri più liberi.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 273° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Foto di copertina hosny salah da Pixabay.

La colonizzazione della Luna e dello spazio, «la guerra tra i soli»

La colonizzazione della Luna e dello spazio, «la guerra tra i soli»

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(Foto di AstroPills)

Ad oggi, nonostante gli anni di ambiguità, sappiamo con certezza che l’allunaggio è stato – se c’è stato (1) – un evento circoscritto alla Guerra Fredda. Gli USA dovevano dare un segnale al mondo che anche loro stavano pensando allo spazio come meta da raggiungere, dopo che l’Unione Sovietica portò a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 con la messa in orbita del cosmonauta Jurij Gagarin a bordo della Vostok 1, segnando una pietra miliare nella corsa allo spazio.

Fino a quel momento solo i russi avevano ottenuto successi e quindi gli USA dovevano fare scacco matto. L’allunaggio, per gli USA, ebbe una valenza politica e geopolitica enorme. L’atterraggio di Neil Armstrong del 20 luglio 1969 costò 120 miliardi di dollari: il 4% dell’interno bilancio federale venne devoluto all’allunaggio per battere l’URSS. Percentuale che poi negli anni scese almeno dell’1% per poi in seguito scendere definitivamente allo 0,4‰.

“Perché sulla Luna non ci siamo più andati? Perché, con le capacità tecnologiche di oggi, non si è più ripetuto un allunaggio di quel tipo?” – sono domande che si sentono lecitamente spesso nell’opinione pubblica e che in parte trovano come risposta logica il fatto che gli Stati non hanno più investito quelle ingentissime risorse per la corsa allo spazio.

“Perché oggi si parla tanto della corsa allo spazio e ad un secondo allunaggio?” – ci si chiede – O, come in molti sostengono, “non si potrebbero spendere soldi per servizi più utili?”. A rispondere a queste domande indirettamente era stata l’astrofisica italiana Simonetta Di Pippo – che dal 23 marzo 2014 al 22 marzo 2022 è stata Direttrice dell’Ufficio per gli Affari dello Spazio Extra-Atmosferico delle Nazioni Unite (UNOOSA) con sede a Vienna – in una puntata del programma Quante Storie su Rai3.

Secondo l’astrofisica la corsa allo spazio e alla Luna oggi sarebbe “fondamentale” proprio in vista dell’agenda ONU 2030 e sui “17 obiettivi sostenibili” (o almeno così spacciati) che non sarebbero raggiungibili senza l’utilizzo dello spazio. Oggi infatti si inizia a parlare di “missioni lunari e spaziali” perché sembra essere un ottimo affare. Come ha dichiarato molto tempo fa Elon Musk, la corsa allo spazio è “la più grande opportunità commerciale dalla scoperta dell’America a oggi”.

Le sonde americane, russe, cinesi, giapponesi ed indiane hanno scoperto che la Luna è ricchissima di giacimenti minerari di ogni tipo: titanio, alluminio, ferro, litio, immense riserve di elio3 (isotopo rarissimo sulla Terra ed abbondantemente presente sulla Luna che potrebbe servire per i futuri reattori a fusione), oltre a metalli rari e 17 elementi essenziali per lo sviluppo economico e la “transizione energetica sulla Terra” che oggi vengono estratti esclusivamente in Cina. Come si può ben capire, laddove c’è estrattivismo non c’è nulla di sostenibile e le ragioni di questa corsa sembrano essere puramente economiche: la famosa space economy.

Se ai tempi della Guerra Fredda vi era una lotta incentrata su un “celodurismo” tecnologico con la conseguente lotta per il dominio della tecnica, oggi lo sviluppo tecno-scientifico ci ha portato a dire che la Luna e lo spazio sono importanti perché potrebbero servire all’essere umano sia economicamente sia per espandere la presenza umana su altri pianeti od oggetti del sistema solare. Viene da chiedersi su che basi reali, alla luce dei fatti, la Luna possa diventare un “laboratorio di pace”, come sosteneva l’astrofisica Di Pippo, in quanto lo scenario che appare è bene diverso.

Qui nasce una prima domanda che, più che politica, è filosofica e bioetica: di chi sono la Luna e lo spazio? Quale diritto abbiamo di sfruttarli?

A normare questo tipo di attività è l’Outer Space Treaty – ovvero il Trattato sullo Spazio Extra-Atmosferico – firmato a Londra il 27 gennaio 1967 e concepito come trattato multilaterale che costituisce la struttura giuridica di base del diritto internazionale aerospaziale.

All’articolo 4, il Trattato consente l’utilizzo della Luna e degli altri corpi celesti esclusivamente per scopi pacifici e ne proibisce invece espressamente l’uso per effettuare test su armi di qualunque genere, condurre manovre militari, o stabilire basi militari, installazioni o fortificazioni.

Il trattato, inoltre, proibisce espressamente agli Stati firmatari di rivendicare risorse poste nello spazio, quali la Luna, un pianeta o altro corpo celeste, poiché considerate «patrimonio comune dell’umanità»: l’articolo 2 del trattato afferma, infatti, che «lo spazio extra-atmosferico non è soggetto ad appropriazione nazionale né rivendicandone la sovranità, né occupandolo, né con ogni altro mezzo».

La maggior parte degli esperti in materia di Diritto aerospaziale internazionale affermano che la Luna ricade sotto il concetto giuridico di res communis, il che significa che la Luna appartiene ad un gruppo di persone, può essere usata da ogni membro del gruppo, ma nessuno se ne può appropriare.

È lo stesso concetto giuridico applicato anche alle acque internazionali (es: Convenzione ONU sulla Legge del Mare), con la sola differenza che le acque internazionali sono materia terrestre, mentre la Luna è materia extraterrestre. Viene quindi da chiedere con quale diritto di proprietà possiamo solo minimamente considerare la Luna come un «patrimonio comune dell’umanità» se abbiamo lo abbiamo reso lecito con un’autoconcessione, ovvero un’appropriazione.

Nonostante ciò, il fine del trattato è quello di impedire ogni diritto di proprietà privata allo stesso modo in cui il diritto del mare impedisce a chiunque l’appropriazione del mare (2). Però, a differenza di altri trattati sulle res communes (acque internazionali, spazio aereo, Antartide), l’Outer Space Treaty si limita a una breve esposizione di principi, espressi peraltro in termini molto generali.

Per fornire un esempio, l’art. 9 del trattato proibisce espressamente le attività aventi “conseguenze pericolose” (harmful consequences), ma non chiarisce in alcun modo cosa si debba intendere esattamente per “pericolose”. A questo va aggiunto anche il fatto che, per quanto la responsabilità delle attività svolte nello spazio da privati enti e cittadini sia espressamente riferita in capo agli Stati, l’estensione del concetto di “activities” non è ulteriormente specificato, né da una definizione, né attraverso un elenco.

I principi espressi dal Trattato sullo Spazio Extra-atmosferico sono stati successivamente ripresi e riaffermati da altre norme internazionali: Accordo sul Soccorso (1968), Convenzione sulla Responsabilità (1972), Convenzione sulle Registrazioni (1975), e in particolare il Trattato sulla Luna (1979), accordo che presiede alle attività degli Stati sulla Luna o sugli altri corpi celesti ed inteso come il seguito del Trattato sullo Spazio Extra-atmosferico.

Il Trattato sulla Luna è estremamente interessante nel contenuto e contribuisce a chiarire molti concetti dell’Outer Space Treaty. Per esempio vieta l’alterazione dell’ambiente dei corpi celesti e richiede che gli Stati prendano misure adatte ad evitare contaminazioni accidentali; vieta ogni uso militare dei corpi celesti, inclusi i test di armi o l’insediamento di basi militari; vieta ad ogni organizzazione o persona il possesso di qualsiasi proprietà extraterrestre, a meno che l’organizzazione non sia internazionale e governativa; vieta ad ogni Stato di dichiarare la propria sovranità su qualsiasi territorio dei corpi celesti; e richiede che tutte le estrazioni e allocazioni di risorse siano svolte sotto regime internazionale in trasparenza per evitare sovrapposizioni.

Proprio per questo è forse stato ratificato solo da 13 sui 193 Paesi ONU: Australia, Austria, Belgio, Cile, Filippine, Kazakistan, Libano, Marocco, Paesi Bassi, Pakistan, Perù e Uruguay, mentre 4 Paesi (Francia, Guatemala, India e Romania) l’hanno solo firmato e non ratificato. Non essendo ratificato da alcuna delle principali potenze aerospaziali (Cina, USA, Russia) e non firmato dalla maggioranza di queste, purtroppo ha una scarsa rilevanza diretta sulle attuali attività spaziali.

Ciò permette alle grandi potenze di poter continuare non solo a violare il già problematico concetto di spazio come res communis, ma anche di proseguire la strada di quello che il saggista Cobol Pongide ha definito capitalismo multiplanetario o capitalismo spaziale: una corsa imperialista allo spazio e al possesso della selenografia (3) australe lunare da parte delle grandi potenze tecno-capitaliste facilitata dalla deregulation del libero mercato neoliberista.

Oggi assistiamo alla creazione di due schieramenti geopolitici nello spazio: il Programma Artemis della NASA sostenuto da 30 Paesi e l’asse Cina-Russia a cui appartengono anche altri gruppi. Questo conflitto non si figura come scontro tra nazioni, ma bensì tra gruppi monopolistici. Molti sono anche i privati che hanno interessi sulla Luna. Non dimentichiamo il primo volo commerciale sub-orbitale avvenuto l’11 luglio 2021, il decollo inaugurale di New Shepherd il 20 luglio 2024 ad opera di Blue Origin di Jeff Bezos, per non parlare di Starlink del miliardario tecnofascista Elon Musk.

Se pensiamo all’atterraggio su Marte; sappiamo tutti benissimo che dietro questa nuova corsa spaziale ci sono Elon Musk, Amazon, Virgin Airlines, Google e i grandi colossi tecnofili della Terra, che vedono lo spazio extra-atmosferico come una nuova frontiera da depredare e non tanto da scoprire e conoscere. Ciò che sta accadendo nello spazio è transumanesimo puro che riproduce le logiche del colonialismo del Cinquecento quando l’Occidente imponeva il suo sistema-mondo alle popolazioni native del pianeta armato di scienza e Bibbia.

I Colombo contemporanei si impossessano della Luna e dello spazio nello stesso modo in cui Cristoforo Colombo considerava l’Abya Yala una terra nullius. Chi ha detto che la Luna deve essere per forza essere “patrimonio dell’umanità” e non debba solo appartenere a sé stessa? Chi ha detto che la Luna debba per forza essere usata dall’umanità per i suoi scopi? A chi abbiamo chiesto il permesso di usarla? È stata un’autoconcessione, quindi tutti i presupposti del suo sfruttamento sono irrazionali. Non ci basta già il lavoro che fa per noi, come guidare i raccolti e le maree? Vogliamo di più, sempre di più.

Queste visioni detengono in sé da un lato un esplicito approccio colonialista e patriarcale (nel suo significato predatorio e di imposizione del dominio) di cui sono portatori gli astropreneur spaziali di matrice neoliberista; dall’altro un approccio anti-ecologico oltre ad una mentalità antropocentrica ed estrattivista, che guarda esclusivamente agli interessi umani al fine di estrarre materia prima ad uso e consumo del suo modello di sviluppo, di consumo e di produzione insostenibile. Una mentalità colonialista e riduzionista che non si fa scrupoli nel dover sfruttare addirittura altri pianeti dopo aver sfruttato fino all’estremo il pianeta Terra.

Non si può negare che ciò che concepisce la corsa allo spazio, alla Luna e a Marte è una mentalità industrialista ed imperialista vestita del nuovo abito moderno quanto trendy del capitalismo avanzato: si avalla senza problemi questo modello tossico di produzione arrivando ad espandere il suo sistema di sfruttamento. Una mentalità privatistica per cui, sebbene la Luna non sia di proprietà di nessuno, tutti la possono sfruttare per i propri scopi.

Se è vero che l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio Extra-atmosferico (UNOOSA) supervisiona i programmi spaziali dei vari Paesi (le autorizzazioni di utilizzo del suolo lunare) e tiene il registro degli oggetti spaziali lanciati nello spazio (razzi, di sonde e navicelle), come possiamo essere sereni di fronti ai potenziali conflitti d’interesse visto il grande peso che rivestono privati come Musk? È giusto che un singolo privato possa accaparrarsi il diritto di usufruire dello spazio?

I nuovi colonialisti vanno nello spazio, sulla Luna, persino su Marte e dimenticano la Terra, gli animali, le foreste, gli ecosistemi sia terrestri che extra-terrestri, le biodiversità sia terrestri che extraterrestri, le relazioni umane e i rapporti di cura. Forse stiamo già lavorando per la fine della vita sulla Terra e l’inizio di quella su Marte.

Si sta andando verso una mentalità superomista e terribilmente futurista – incrementata ora dal peso geopolitico di Donald Trump sostenuto dal miliardario transumanista Elon Musk – volta a travalicare qualunque limite non sia stato già travalicato.

Un celebre canzone di Pierangelo Bertoli intonava: “e presto la chiave nascosta di nuovi segreti così copriranno di fango persino i pianeti vorranno inquinare le stelle la guerra tra i soli i crimini contro la vita li chiamano errori”. Non stiamo dando troppa importanza a ciò di cui non abbiamo bisogno per salvare l’umanità e la Terra?

Note

(1) Nel 2001 Philippe Lheureux pubblicò un libro dove sosteneva che le foto prese dagli astronauti statunitensi sulla Luna fossero in realtà dei falsi semplicemente realizzati sulla Terra. Le sue teorie analizzano alcune supposte anomalie riscontrate sulle foto diffuse dalla NASA. Un libro più volte annunciato dall’ente spaziale per rispondere a questi interrogativi e commissionato a Jim Oberg, esperto in questioni aerospaziali, non è mai stato pubblicato, secondo alcuni esperti per evitare di dare credibilità alle teorie critiche sull’allunaggio, anche se le ragioni reali non furono mai rese pubbliche http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/2424927.stm.
Nel 2017 è uscito American Moon, un controverso documentario che con fonti, pareri di fotografi professionisti di fama internazionale ed attingendo dalla letteratura scientifica legata all’astronomia e all’astrofisica, accosta l’allunaggio ad una “false flag” circoscritta alla Guerra Fredda. American Moon non ha ancora avuto nessuna smentita scientifica. https://www.youtube.com/watch?v=IOVK1gAvo8A

(2) Purtroppo questi principi sono spesso messi in discussione dalla follia di coloro che rivendicano la facoltà di vendere diritti di proprietà sulla Luna e su altri corpi celesti, ma questa rivendicazione non è mai stata verificata fortunatamente in nessuna aula di tribunale.

(3) Inaugurata da Galileo, la selenografia venne definendosi come una nuova scienza rigorosa grazie al contributo di numerosi ricercatori che ne fissarono progressivamente lo statuto. Alla fine del Seicento, le mappe lunari presentavano un aspetto che non sfigura troppo rispetto alle moderne fotografie del volto della Luna. Man mano che la sua morfologia veniva definendosi, gli astronomi si impegnarono nello sforzo di introdurre una nomenclatura omogenea, che consentisse di identificare le molteplici caratteristiche geografiche della Luna.

Fonti:

Questo articolo è uscito con altro titolo su Pressenza del 5 febbraio 2025

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A volte scrivono bei romanzi … Vittorio Sandri, un autore nato a Ferrara

A volte scrivono bei romanzi … Vittorio Sandri, un autore nato a Ferrara 

Vive e lavora in Irlanda, come recita la quarta di copertina dell’ultimo libro, ma è nato a Ferrara e a Ferrara torna per ritrovare famiglia e amici. Dal 2022 anche per presentare i suoi libri.

Infatti L’educazione di Giulia è uscito tre anni fa, mentre La profezia dell’Azero è recentissimo essendo uscito nel dicembre 2024.

So pochissimo di lui quando vado a sentire la presentazione di quest’ultimo a fine dicembre, alla Biblioteca Luppi. Poi vengo coinvolta insieme al Prof. Alberto Andreoli nella presentazione di inizio febbraio alla Biblioteca Ariostea e dunque leggo entrambi i suoi romanzi andando in ordine inverso alla loro pubblicazione.

Cerco le recensioni già uscite, trovo quella pubblicata alla fine di maggio del 2022 su questo giornale e ne traggo un utile spunto di riflessione sul significato di quel di Giulia che è nel titolo. Sull’Azero non trovo  commenti in rete, se non nella forma di frasi lapidarie accompagnate da un certo numero di stelline.

Mi piace come Vittorio Sandri scrive. Credo di riconoscere nella sua scrittura alcuni tratti della narrativa italiana contemporanea di buon livello. A partire dall’utilizzo della prima persona, che vuol dire scandaglio interiore, vuol dire narrare esponendosi al lettore in un rapporto io – tu che intriga.

Nell’Educazione Marco è un affermato professionista che vive nella capitale con la bella famiglia. È notte e nella quiete della sua casa lo riafferra un tempo diverso dentro il quale ha vissuto: agli anni ’90 risale la storia d’amore giovanile con Giulia, un amore che è rimasto incistato nel profondo dell’uomo che Marco è ora.

Nella Profezia siamo nei primi anni 2000: è il trentenne Carl a ricordare gli anni che ha vissuto a Berlino, mentre il suo presente è a Parigi: se ne è dovuto andare da Kreuzberg  per non incorrere nella vendetta di una banda di malviventi e ora nella capitale francese vive un presente anonimo, che è rimasto come lo ha abbozzato all’arrivo qualche anno prima e non ha avuto sviluppo. Se non per quell’atto dello scrivere una storia che a Berlino gli è stata raccontata dall’Azero, dentro al suo fumoso locale.

I due protagonisti ripercorrono il proprio vissuto spostandosi su piani temporali sfalsati: non si tratta solo di inserire dei flash back nel corso della narrazione, direi che l’alternanza tra prima e ora è un vero e proprio tratto costitutivo dei due libri e richiede scelte stilistiche diverse e perfino caratteri grafici distinti.

Ai capitoli centrati sul presente si alternano i capitoli incardinati sul passato, scritti in corsivo: l’io del protagonista vi si specchia e unisce il riverbero della persona che è stato all’uomo che è ora. Due fasi dell’io che sono come scatole cinesi: la scatola più grande contiene il presente, in quella immediatamente più piccola c’è un passato che con l’esercizio tenace del ricordo sembra espandersi e premere contro l’involucro esterno.

Quando la fusione avviene, si completa per i protagonisti il loro romanzo di formazione.

L’educazione di Giulia comincia così: in seguito a una telefonata che ha ricevuto nel corso della notte, Marco è in grado di cercare e ritrovare Giulia dopo molti anni. Mentre la notte passa e con la luce del nuovo giorno ha avvio il viaggio per andare da lei, Marco ripercorre gli anni della sua giovinezza e risale fino all’oggi. La storia si conclude con il loro incontro a Milano, ma noi lettori non sappiamo cosa sia accaduto esattamente, non quali parole si siano scambiati.

Marco ne esce pacificato e finalmente capace di mettere a fuoco la propria vita senza specchi che gliela deformino col rimpianto dell’altra possibile vita accanto a Giulia. Quanti anni tuttavia, come accadeva nei riti di iniziazione alla vita adulta, è rimasto nella foresta, in solitudine, a mettersi alla prova? Una formazione atipica, dal momento che ha impiegato qualcosa come trent’anni a spegnere il desiderio verso Giulia e a smettere di sottostimare ciò che è venuto dopo di lei.

D’altro canto Carl trova il suo momento di crescita consapevole attraverso il lento processo della scrittura, raccontando la storia che gli ha rivelato l’Azero e vive la possibile pubblicazione del libro come il riscatto dagli errori del passato e dalla piattezza della vita che conduce a Parigi.

Ha un modesto lavoro in un ristorante,  trascina le sue giornate come un inetto ai margini della bella società parigina.  Anche la sua formazione ha un aspetto originale, in quanto si completa per una imposizione che viene dal contesto esterno più che da una spinta interiore.

Che il libro venga o no pubblicato, che la sua storia d’amore con Erin, troncata ma mai sopita per lui, possa avere uno sbocco sono determinati da una sorta di coalizione tra alcune figure del passato e del presente.

Tuttavia è ancora giovane e la avvenuta formazione pare attrezzarlo come uomo per il futuro che gli resta. Mentre Marco, chiudendo il cerchio rimasto aperto per troppi anni sulla figura così attrattiva, così enigmatica di Giulia, rientra dentro un presente già formato, che gli ha dato sicurezze e abitudini e che ora riesce a vedere in una luce diversa e giusta per lui.

Due romanzi che sanno coinvolgere, il lettore è attratto dall’invito a guardare e a guardarsi dentro, si rende docile ai salti temporali del racconto, si ritrova a cucire tra loro le parti per ottenere l’intero che è il protagonista, mentre lui per primo tira le somme su di sé.

Ecco tornato il gioco di specchi a cui mi fa pensare quella educazione di Giulia col suo senso ancipite: se significa da Giulia verso Marco esprime la lunga convivenza col ricordo di lei a cui lo ha costretto andando a vivere a Milano. Realizza la incapacità di lui, nelle successive scelte di vita, a prescindere dal sapore di quell’amore intenso e finito bruscamente.

Se invece intende l‘educazione che riguarda Giulia, il senso si sposta sulle tante variabili che l’hanno fatta crescere, e tra queste ci può stare la storia con Marco. Giulia ha tratto dalla vita a Milano gli ingredienti della sua maturità, si è fatta adulta lontana da lui e ora, dopo trent’anni, che donna sarà? Vittorio Sandri non dà la risposta, scegliendo un efficace non-detto: sappiamo soltanto che pronuncia il suo nome non appena se lo trova davanti.

Nota bibliografica:

  • Vittorio Sandri, L’educazione di Giulia, Faust Edizioni, 2022
  • Vittorio Sandri, La profezia dell’Azero, Edizioni Efesto, 2024

La cover ritrae Vittorio Sandri accanto ad Anna Lodi Sansonetti, sua docente di materie letterarie al Liceo Ariosto, e con Roberta Barbieri

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Crimini e  vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove.

Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta.

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca.

Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici, cosi come le università e le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”.

Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica, nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie.

Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano”, non per la particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 condomini legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove.

Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti.

A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi.

A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione.

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali, organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia”, promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma.

Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali.

Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime.

Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti.

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche.

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario Pagine nascoste di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del Festival delle Culture 2025.

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa.

La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione.

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di Aufarbeitung, ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione.

Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

  • Sul medesimo argomento vedi anche su Periscopio gli articoli di Franco Ferioli;

Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Partiamo dalla fine: l’arrivo a New York dell’apostolo Paolo così come viene descritto da Pier Paolo Pasolini nell’ultima parte del suo abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (P.P. Pasolini, San Paolo, Einaudi, Torino, 1977):

Apparizione di New York per mare. Il transatlantico dove è imbarcato Paolo – accompagnato dalle guardie – attracca alla banchina del porto e Paolo scende. Ad attenderlo sulla banchina è una delegazione di Giudei domiciliati a Roma: le strette di mano tra Paolo e loro non sono solo cortesi, ma anche commosse e fraterne. Poi il gruppo si perde tra l’immensa folla del porto”.

Ci si sposta dunque a Manhattan, nel West Side, posto apocalittico e poverissimo. A questo punto, nella sceneggiatura, Pasolini scrive:

Ma con particolare amore la macchina da presa inquadrerà proprio l’alberghetto in cui è alloggiato Paolo: che ha una curiosa e commovente somiglianza con l’alberghetto dove è stato ucciso Martin Luther King. Un poliziotto americano (nero) cammina tranquillo e dolce su e giù per il ballatoio del secondo piano, su cui si affaccia la porta che dà all’appartamento di Paolo”.

La sceneggiatura poi continua con la descrizione, in successione, del discorso di Paolo davanti ai Giudei (praticamente la Lettera agli Ebrei), della deposizione davanti al tribunale, del ritorno a Roma e ancora dell’ultimo viaggio a New York dove Paolo prende alloggio in un altro alberghetto che “… assomiglia straordinariamente a quello della prima volta; solo che stavolta è assolutamente identico a quello dove è stato assassinato Martin Luther King”.

Qui, nello stesso luogo ed alla stessa maniera di Martin Luther King, il Paolo di Pasolini verrà ucciso.

Così si conclude la sceneggiatura di quel film (mai girato) che nell’intenzione dell’autore avrebbe dovuto completare il percorso iniziato con Il Vangelo secondo Matteo (1964) ma che, soprattutto, avrebbe dovuto rappresentare il clima storico-politico degli anni ‘70 del Novecento, nel quale maturarono le riflessioni, le visioni e le… profezie di Pasolini costantemente attraversate da una certa idea di “sacro”.

Per effetto della sua identificazione con l’apostolo Paolo, nella sceneggiatura sembra aleggiare una tragica premonizione. Pasolini, credendo che fosse finalmente giunto il momento della realizzazione del film, nel 1974, riprese e modificò la sceneggiatura iniziale. L’anno dopo, come si sa, verrà ucciso in circostanze simili a una scena descritta minuziosamente proprio nell’abbozzo di sceneggiatura.

L’intera vicenda di Paolo viene trasposta ai nostri giorni per costringere lo spettatore, dice Pasolini, a pensare che “…San Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia”.

È per questo che le capitali del mondo antico, centri indiscussi di potere, cultura e ricchezza, vengono sostituite con le odierne capitali. L’antica Gerusalemme, ad esempio, inizialmente identificata con la Parigi negli anni della Seconda Guerra Mondiale, nella revisione del 1974 viene sostituita con Roma e pertanto il Vaticano diventa il palazzo del Gran Sacerdote di Gerusalemme.

Il film si sarebbe dovuto strutturare in quattro momenti importanti della vita del protagonista: la morte di Stefano, cioè del primo martire cristiano, avvenuta proprio per opera di Paolo; la conversione sulla via di Damasco e, per finire, la predicazione e il martirio.

Pasolini con questo film intendeva raccontare l’evangelizzazione dell’apostolo dei Gentili nel modo più fedele possibile, cioè utilizzando proprio le sue parole calate nella contemporaneità. L’Italia di quegli anni era caratterizzata da un conformismo incarnato in due ben precisi aspetti; il primo religioso ipocrita e convenzionale e il secondo laico liberale e materialista: qui l’analogia con i Giudei e i Gentili dell’epoca dell’apostolo è del tutto evidente.

E dunque non poteva essere certo Roma, la capitale del colonialismo e dell’imperialismo moderno, ma appunto New York con Washington, la cui società replicava gli stessi elementi che diedero potenza alla capitale dell’Impero Romano (e per inciso  questo è ancora più vero oggi con la “restaurazione imperiale” a cui stiamo assistendo, dove la spartizione del mondo è sempre e solo un affare di poche potenze).

Proprio per evidenziare l’attualità di questi problemi, Pasolini lascia parlare i suoi personaggi con un linguaggio tipico della sua contemporaneità (che è lo stesso, praticamente anche oggi seppure più diffuso, capillarmente e velocemente, attraverso i social). Così le domande che gli evangelizzatori pongono all’apostolo o le critiche degli intellettuali borghesi  sono del seguente tenore:

C’è qualcosa che non va dentro di lui: qualcosa di orribile. Ammazzava lui stesso i prigionieri, quand’era nazista. Cose così non si cancellano più da una vita, ne sono una componente. E, infatti continua a essere fanatico. Il suo moralismo è atroce…”

Le parole di San Paolo sono al contrario esclusivamente religiose, formulate cioè con quello stesso linguaggio universale giunto fino a noi attraverso le sue Lettere. Grazie a questo espediente Pasolini era sicuro di far risaltare la profonda tematica del film e cioè la contrapposizione fra attualità e santità , cioè tra “…il mondo della storia, che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire quel mistero…”, il sacro, limitandosi a relegarlo nell’astrattezza e nel puro interrogativo, e “… il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario…” opera concretamente.

Proprio in una scena del San Paolo, come si è detto, Pasolini sembra presagire la sua fine: l’invenzione poetica pare precedere la realtà; la letteratura anticipare con eventi simbolici, ciò che accadrà realmente.

Nella scena San Paolo tiene un discorso nella periferia di Roma; intorno a lui si assiepano gli ascoltatori che sono usciti “…da quei caseggiati incolori, scrostati e immensi che dentellano l’orizzonte. Qui c’è un ciglio di erba tisica; un ponte; un immondezzaio; uno sterro desolato…”. Mentre l’apostolo parla un gruppo di teppisti lo assale e assistiamo a un “…pestaggio freddo e macabro, da cui è dissociato ogni sentimento umano”.

La descrizione è vivida: il suo corpo resta inerte a terra con “… il volto ricoperto di sangue e polvere…”, scrive Pasolini, “…insopportabile alla vista e irriconoscibile”. Pasolini è morto così.

Ancora oggi quelle e queste parole risuonano forti; le parole di un poeta che ripete amplificandole (se fosse possibile) le parole di un apostolo.

Ma quanti ancora sentono le parole e quanti davvero le ascoltano le parole come quelle di Paolo VI che convinsero Pasolini, in quegli anni ’70 del Novecento, ad abbozzare la sceneggiatura per un film sull’apostolo Paolo?

In un’intervista del 1974 sui motivi della realizzazione del film Pasolini infatti risponde così:

Lo faccio… proprio perché il Papa Paolo ha fatto un discorso di contrizione terribile […] Dice chiaramente che ormai la società non ha più bisogno della Chiesa , la società provvede da se stessa ai suoi bisogni; e quindi dove interviene la Chiesa? Quali sono gli interventi che la Chiesa può fare in favore di qualcuno? […] La conclusione, poi, è misera: cioè, come ovviare a tutto questo? Pregando. E va bene, ma chi prega se la situazione si è messa in modo tale che nessuno prega più?

Allora quello che mi fa rabbia è questo: ora che il potere… la esclude con tanto cinismo dopo essersi appoggiato su di lei per un secolo… la Chiesa dovrebbe cambiare radicalmente politica e passare decisamente all’opposizione…perché l’opposizione al nuovo potere non può che essere anche di carattere religioso… Una “sacra” opposizione, nonostantela mancanza di senso di sacro dei miei contemporanei”.

Ed è ancora tutto qui e ora il rovello di Pasolini tra attualità e santità ben racchiuso in queste taglienti e, ancora una volta, profetiche parole di uno degli apostoli durante la predicazione di Paolo a Parigi:

il nostro è un movimento organizzato… Partito. Chiesa…”- chiamatelo come volete – “Si sono stabilite delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L’opposizione è un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una forza che prende il potere: e come tale [dovrebbe] essere un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali.

Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci – il vecchio ineliminabile uomo, meschino, mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni e di convinzioni rassicuranti. Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione…”.

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Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

referendum

Si avvicinano i Referendum: i fuori sede vogliono votare

Si avvicinano i Referendum: i fuori sede vogliono votare

Redazione di Collettiva
pubblicato il 22 febbraio 2025

 

 

 

“L’unica cosa che manca realmente – aggiungono – è la volontà politica di garantire il diritto costituzionale a 5 milioni di italiani, casualmente in concomitanza dei referendum di questa primavera. Per questo, oggi eravamo in piazza a manifestare la nostra posizione” dichiara Anna Tesi, delegata al voto fuori sede per l’Unione degli universitari.

“Oltre a Malta, siamo l’unico paese di tutta l’Unione Europea a non dotarsi di una legge per il voto fuori sede: è inaccettabile oltre che ridicolo essere fanalino di coda anche in questa tematica, quando basterebbe guardare come funziona in tutti gli altri paesi per colmare questa lacuna gravissima. Vogliamo una legge per tutti i 5 milioni di cittadini fuori sede, studenti e lavoratori.” dichiara Paolo Notarnicola, coordinatore della Rete degli studenti medi.

Il ministro ha dichiarato i risultati della sperimentazione delle scorse europee non soddisfacenti. Ma la soluzione per gli studenti non fermare tutto, bensì cercare di “capire cosa è andato storto. Se il governo si ritiene realmente impegnato nel contrasto all’astensionismo, come dichiarato, è inaccettabile fare passi indietro, abbiano l’umiltà di sedersi ad un tavolo con le parti sociali e ascoltare tutte le criticità della scorsa sperimentazione”.

D’altra parte la sperimentazione messa in piedi dal ministero per le scorse europee “faceva acqua da tutte le parti: ad essere considerati fuori sede erano soltanto gli studenti fuori regione, i tempi per fare richiesta erano molto ristretti e mancava uniformità tra i comuni nel rilascio dell’attestazione di ammissione al voto. Sono molte infatti le testimonianze di studenti che non hanno mai ricevuto l’attestazione nonostante ne abbiano fatto richiesta”, concludono gli studenti.

 

Trump e i BRICS verso il Novus Ordo: e l’Europa resta fuori 

Trump e i BRICS verso il Novus Ordo: e l’Europa resta fuori 

L’avvio dei negoziati sull’Ucraina tra Stati Uniti e Russia (da soli, senza Europa e Ucraina) e le dichiarazioni di Trump e dei suoi collaboratori hanno gettato nel panico tutta l’élite europea che si è trovata di colpo del tutto spiazzata da un “principe” protettore che la esclude; e si ritrova così nuda, un mero mercato senza potere politico, auto illusa e dissanguata (ha speso più degli americani, 135 miliardi vs. 114) da una guerra che pensava di vincere contro la Russia.
Il nuovo segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato che l’ordine mondiale uscito dalla 2^ guerra mondiale è “ormai obsoleto e dopo 80 anni di dopoguerra la convivenza internazionale merita una nuova architettura politica…il sistema democratico in cui viviamo è ormai un’arma contro di noi (gli USA)”.

Se consideriamo poi le principali dichiarazioni fatte da Trump su Canada, Groenlandia, Panama, Gaza, la stessa Ucraina (“tra anni potrebbe essere russa”) e del suo vice Vance alla conferenza di Monaco, e come Trump sta procedendo alla chiusura della guerra in Ucraina e a quella tra Israele ed Hamas a Gaza, appare chiaro che gli Stati Uniti intendono realizzare un grande cambiamento nel mondo da cui trarre nuovi vantaggi, a costo di dare spazio a Cina e Russia; cosa che non volevano assolutamente Biden e la stessa Europa che hanno coltivato per 25 anni una strategia neocon di allargamento ad est della Nato, convinti che ciò avrebbe portato, prima o poi, all’implosione della Russia. Questa strategia è stata imposta all’Europa, autoconvintasi che il prezzo che pagavano i paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) per la rinascita di quelli dell’Est (Polonia, etc.) avrebbe nel lungo periodo pagato. La Polonia e gli altri ad est sono cresciuti in modo impressionante, se si pensa il reddito reale dei polacchi è cresciuto di 8 volte dal 1991 al 2023. E ciò spiega l’americanismo dei tutti i paesi dell’est che hanno sempre contrastato il dialogo tedesco-russo dell’epoca Merkel, riarmandosi in modo impressionante: dal 2000 al 2020 la Polonia passa da 5,7 miliardi a 27 (a valori costanti) e l’Ucraina da 1,7 a 7,4 miliardi (per memoria: l’ Italia non cresce ed è ferma a 33 miliardi). Ciò che colpisce è il “suicidio” della Germania, che sapeva che senza un dialogo commerciale con Russia e Cina avrebbe subito un danno enorme: la sua produzione manifatturiera è infatti crollata, dal 2019 al 2024, del 10,4% (al confronto: Italia -4,7%, Francia -4,8%).
Ora, la nuova amministrazione americana considera quel tipo di politica come un capitolo chiuso.

Fine del mondo bipolare

Finisce così anche l’idea di un mondo governato solo dagli USA dopo la dissoluzione dell’URSS. Troppo forti sono oggi i veri competitor: Cina, Russia e Brics. Anche la globalizzazione spinta finisce in soffitta in quanto ha portato profitti enormi alle fasce ricche del pianeta (e alle multinazionali americane) ma ha anche distrutto la manifattura americana, mandando alle stelle sia il deficit commerciale che il debito pubblico USA. Il deficit commerciale Usa è 980 miliardi di dollari nel 2024 (295 con Cina, 172 con Messico, 123 con Vietnam, 87 con Irlanda, 85 con Germania, 74 con Taiwan, 68 con Giappone, poi seguono altri 4 paesi e al 12° posto c’è Italia con 44 miliardi, fonte Bea).

Jeffrey Sachs, economista alla Columbia University, uno dei principali consiglieri economici del Papa, lo dice senza giri di parole: “Trump ha rotto con la tradizione neoconservatrice USA incentrata dagli anni ’90 sull’espansione ad est della Nato, che è la principale preoccupazione della Russia, e ciò consente un ripristino di normali relazioni tra USA e Russia…ed arrivare alla pace in Ucraina…L’Europa si è tagliata fuori da sola, rifiutando la diplomazia e schierandosi sulla linea neocon ha gettato al vento la storia delle relazioni diplomatiche tra Russia ed Europa…la quale dovrebbe riallacciare rapporti con Mosca”.

Il passato americano degli ultimi 40 anni è una sfilza di gravi errori (altro che “fine della storia”): invasione del Vietnam, dell’Iraq, bombardamento su Belgrado e Kosovo, intervento in Libia, cambio di regime in Libia e Ucraina, crescita gigantesca delle spese militari (+62% dal 2000 al 2023, fonte Sipri, da 543 a 880 miliardi a valori costanti), globalizzazione spinta dal 1999 che produrrà non solo la crisi finanziaria 2007-2008 ma l’esplosione del debito pubblico USA (121% sul Pil e +6,3% nel solo 2024) e l’attuale gigantesco deficit commerciale dovuto alla delocalizzazione di gran parte della manifattura americana che oggi importa merci prodotte da aziende americane delocalizzate in Cina, Vietnam, Messico, Irlanda, …

L’allargamento ad est della Nato in Europa, voluto dai neocon americani, dagli inglesi e da alcuni paesi europei (e purtroppo accolto dall’élite europea) si è infine tradotto in guerra aperta con la Russia, finita così nelle braccia della Cina, la quale si è, in questi ultimi anni, ulteriormente rafforzata (proprio per via della guerra in Ucraina) nelle aree dell’Asia centrale, come ha rivelato un documento russo pubblicato dal Financial Times intitolato “La perdita di posizioni in Asia centrale della Russia a favore della Cina”.
Nel frattempo la Cina ha costruito un formidabile e sempre più ampio fronte di opposizione mondiale (BRICS) agli Stati Uniti, che punta nel medio periodo ad erodere il potere del dollaro, reso più fragile
dall’enorme crescita del suo debito pubblico e dal più grande disavanzo commerciale al mondo.
Per non parlare della disgregazione interna della società americana, oggi divisa come non mai, con
lavoratori senza incrementi di salario reale negli ultimi 40 anni, un calo della speranza di vita  – caso unico al mondo tra i paesi avanzati – e disuguaglianze spaventose “per cui nel 1980 un operaio guadagnava un sessantesimo del loro padrone e oggi 60mila volte meno” (Abhijit Banerjee, premio Nobel 2019 indo-americano).

Tutti questi fenomeni sono stati celati dalla narrazione della crescita del PIL americano, che ancora oggi molti analisti prendono come indicatore di sviluppo umano: invece si tratta di un vecchio arnese, inventato in tempo di guerra per calcolare la produzione e che dice pochissimo della realtà profonda di un paese. Lo hanno scoperto a loro spese gli ucraini, mandati al macello dai paesi europei più oltranzisti e dal Regno Unito (più ancora che dagli americani), che credevano di vincere una guerra contro la Russia, in quanto gli era stato raccontato che l’Occidente aveva un Pil trenta volte superiore e che la Russia aveva una debolissima economia.
Ora però, come afferma Xi Jinping, “l’Asia sta crescendo e l’Occidente sta calando” sia come forza
economica che sociale. Trump, da uomo d’affari, ne prende atto, decidendo di “governare il mondo” nel XXI secolo non più da solo (troppo costoso, troppi potenziali conflitti) ma trovando accordi con chi conta nel mondo sulla base di quelli che sono i principali parametri del potere:

-Sovranità

-Forza economica

-Forza militare

-Finanza

-Materie prime

che tradotto in nazioni significa:

Cina, Russia, Arabia Saudita, India.

L’Europa: un mero mercato

In questo elenco non c’è l’Europa, perché non è uno Stato sovrano ma un mero mercato, con meccanismi di potere e decisione interni farraginosi e autobloccanti.
L’obiettivo di Trump è trarre il massimo vantaggio per gli Stati Uniti dalla nuova situazione reale, giocando su più tavoli e in cambio della cessione anche di “sfere di influenza politica” ai competitor (Russia, Cina, Arabia). Per i vassalli senza potere (Europa, Canada,…) ci sono solo oneri.

Siamo lontani da un mondo ideale in cui c’è fratellanza senza potere, ma è anche vero che è sempre stato
così e non possiamo nasconderci come Occidente che abbiamo governato il mondo fino ad oggi (dal
1492) e che in ballo non c’è la “democrazia”, ma il nostro tenore di vita e quello degli altri, che lo
reclamano. Sul biglietto da un dollaro americano campeggia, onde evitare equivoci, la piramide del potere con l’occhio che tutto controlla e la scritta “Novus ordo seclorum”. Quell’ordo sta cambiando.

Con Trump, la Russia potrebbe avere un ruolo maggiore nell’euro-asia, la Cina nell’indo-pacifico, con incursioni americane nelle altre due aree. La Groenlandia potrebbe ricevere l’appoggio degli Usa in modo da svolgere un ruolo con Russia e Cina nella nuova rotta artica, che prevede 23 giorni anziché 44 (passando per il canale di Suez) per le merci cinesi dirette in Europa. A Panama Trump vuole togliere ai cinesi di Hutchinson Holdings il controllo dei porti ai due estremi del canale e garantire un transito gratuito alle navi Usa. Gaza potrebbe essere ristrutturata dai paesi arabi (dove l’Arabia Saudita cerca un porto) incaricando gli arabi di trovare una soluzione ai palestinesi, in cambio della pace con Israele. In Ucraina acquisire gran parte delle terre rare (come ha già proposto a Zelenskij il segretario del tesoro USA) lasciando oneri e cocci della ricostruzione agli europei.

In questo contesto chi ci perde sono i vassalli. In primis l’Europa, che in 25 anni non è riuscita a costruirsi come Stato sovrano (federale), gettando alle ortiche l’enorme ruolo che avrebbe potuto svolgere nel mondo se lo fosse diventata, anziché sprecare le proprie risorse nell’allargarsi verso Est (provocando la Russia) e diluendosi in un condominio a 27 dove basta un voto contrario per bloccare tutto.
Lucio Caracciolo, intervistato su Il Fatto, prevede un futuro infausto per l’Europa che verrà.Per motivi che non riesco a spiegarmi, l’Ucraina si è affidata alle promesse europee e americane pensando di poter entrare nella NATO e conservare territori ingaggiando una guerra di lunga durata. Un’operazione di dissanguamento in vista di obiettivi che non si potevano raggiungere. Questo spiega la crisi dell’autorità politica di Zelensky, così come il rifiuto dei giovani ucraini di andare al fronte e la massiccia fuga verso l’estero di milioni di ucraini. Questo è il vero problema: non tanto il 20% di territori perduti, ma l’80% che è in condizioni disperate”. Che alternativa aveva Zelensky? “Firmare l’accordo dell’aprile 2022 sponsorizzato dalla Turchia che avrebbe dato condizioni nettamente migliori di quelle di oggi e risparmiato centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. Ma in quel frangente sono stati soprattutto gli inglesi e alcuni europei, più che gli USA, a spingere gli ucraini a combattere assicurando loro che si sarebbe potuto vincere”.  A questo punto per la UE che strada si apre: quella della disgregazione o una sua rifondazione? “Non credo ad una rifondazione, l’Unione è una fondazione americana, conseguenza della decisione USA di restare in Europa dopo la 2^ guerra mondiale e di organizzarla militarmente tramite la Nato. Ma nel momento in cui ci lasciano noi torneremo a quello che siamo sempre stati, paesi in conflitto, sperando che questo non comporti una guerra tra noi, com’è sempre successo”.

Non c’è dubbio che sia quindi comprensibile lo stato di choc in cui si trova oggi l’élite europea, simile a 27 nani illusi di avere una Biancaneve che li proteggeva, e che si trovano di fronte a maga Circe che li
trasforma in porci (per fortuna dei compagni di Ulisse, non bevve il vino Euriloco che lo avvisò e li salvò. Ma per ora non si vede in Europa alcun Ulisse).

La prima reazione dell’élite che governa l’Europa è quella di un riarmo, escludendo le spese militari dal Patto di stabilità. Da un lato questa decisione mostra quanto sia aleatorio e fasullo il principio del “non fare debito”, perché se ci sono investimenti che non si autofinanziano sono proprio quelli militari; dall’altro, se l’idea era di liberarsi dalla tutela americana, i nuovi investimenti dovrebbero concentrarsi su progetti solo europei, anche per sfruttare i potenziali ritorni dello sviluppo tecnologico militare sulla produzione civile, mentre oggi il 73% delle armi è acquistato fuori UE (e il 63% negli USA) in quanto l’industria europea degli armamenti è poco sviluppata rispetto a quella statunitense e totalmente frammentata. E sarebbe l’ennesimo favore agli Stati Uniti.
Solo uno Stato Europeo Sovrano (federale) può organizzare una difesa comune, ma con questa Unione Europea il riarmo sarebbe inutile, costoso e inefficace.
Per l’Italia, il riarmo significa salire da 33 a 45-50 miliardi all’anno (cioè +12/15 miliardi) da sottrarre ulteriormente a scuola e sanità. Di fatto significa una trasformazione dell’Europa dal welfare al warfare, ma per fare la guerra a chi? Si continua con una logica mercantile di una Europa mero mercato. Nel caso poi di una guerra sarà curioso vedere quali giovani europei e di quali paesi saranno disposti ad andare al fronte e chi guiderà i droni (Starlink di Musk?). Se l’Europa seguirà questa strada non farà altro che accelerare la sua fine.

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Diorama

Diorama

Il presepio lo conoscono tutti, è quello il diorama più noto, il diorama per antonomasia. Andate a Napoli, non nelle chiese ma nelle case private, anche nelle più povere, per vedere come il presepio – costruirlo pezzetto per pezzetto – non sia solo tradizione o passione intima, ma arte assoluta. Presepi e diorami in genere ci accompagnano da secoli; abbiamo bisogno di miniaturizzare il mondo, in scala ridotta ci pare meno complicato e doloroso. È un meccanismo che funziona alla perfezione e che possiamo dominare: le ruote girano, le luci si accendono e si spengono, i personaggi ripetono con diligenza i movimenti previsti. C’è poi altro che ci incanta davanti a un diorama costruito a regola d’arte, perché quel mondo in scala ridotta rimpicciolisce anche chi lo osserva; così la nostra infanzia ci raggiunge, senza preavviso, né possiamo opporci al suo ritorno. Anche questo, ma non è ancora tutto. C’è un elemento imponderabile, di cui ci sfuggono i connotati, che non riusciamo a vedere ma di cui avvertiamo la presenza. Da qui la fascinazione del diorama.

Se intendiamo il diorama come una categoria, alla stessa possono appartenere insiemi di oggetti e soggetti affatto diversi: il villaggio o la casa delle bambole, ma anche il drammatico compianto di Nicolò dell’Arca e, per estensione, i sassosi giardini zen. Nell’ultima decade del secolo scorso è stato il grande Hanshiro Miura a condurre il diorama fino al vertice della più apprezzata e discussa arte contemporanea, quella battuta nelle aste internazionali inseguendo record su record. Cha no yu – letteralmente “acqua calda per il tè” – nota in occidente come ‘La cerimonia del tè’ è senza dubbio la sua opera più celebre. Al centro della scena vediamo Sen no Rikyu, il monaco zen che nella seconda metà del XVI secolo codificò la cerimonia così come oggi la conosciamo. Attorno a lui, i suoi amici, i componenti del circolo eletto di Kyoto: il pittore e grande innovatore Tawaraya Sotatsu, il calligrafo e politore di spade Kon’ami Koetsu, il ceramista Chorijro creatore dello stile Raku e accanto a lui Futura Oribe, inventore e capostipite della ceramica che prese il suo nome. Un po’ più lontano, a formare un cerchio più ampio, stanno i samurai in pose plastiche, riccamente vestiti e armati. In questo diorama, il monaco Rikyu celebra il rito: il suo braccio regge la teiera e ne varia la posizione secondo le quattro stagioni. Una parvenza di fuoco arde sotto la teiera.

È però impossibile descrivere l’animata perfezione e gli innumerevoli particolari che compongono i diorami di Hanshiro Miura. Né può servire o comunque bastare rifarsi alla fonte di ispirazione di ogni singola opera: la tradizione e il rito (come appunto nella ‘La Cerimonia del tè’), o una celebre opera lirica (come nel diorama ‘Le sorelle di Turandot’), o la vasta filmografia del maestro Kurosawa (‘Appena dopo la battaglia’). I diorami di Miura sono inesauribili, non è cioè possibile traguardarli, comprenderli fino in fondo, riunirli nella memoria in una immagine esatta. La difficoltà non pare risiedere nel gran numero dei personaggi, delle situazioni e dei movimenti – l’esperienza del moderno ci ha abituato da tempo alla folla e al movimento – ma a un elemento di disturbo, a quell’invisibile presenza cui prima accennavo.

I diorami di Miura non sono solo belli, “i più belli di tutto il Giappone”. Non sono solo i più veritieri o verosimili, i più precisi, esatti in ogni proporzione, perfetti nei gesti e nei colori. In quel teatro portatile si affollano decine di figure immerse in una millimetrica ricostruzione degli ambienti e dei fondali, fino alla stupefacente e mutevole espressione incisa nei tratti dei volti. Ma oltre, o piuttosto, sotto questa perfezione, i diorami di Hanshiro Miura nascondono ed esibiscono senza pudore un’anima segreta. Non uso a caso la parola, è proprio l’epifania dell’anima a renderli straordinari, la ragione per la quale le mostre di Miura si trasformano puntualmente in un evento. È l’anima che attira come mosche decine di migliaia di visitatori.

Sotto il meticoloso, certosino, maniacale assemblaggio di oggetti inanimati – forse per una precisa intenzione dell’autore o per un puro prodigio – avvertiamo un’invisibile e inaspettata presenza. L’anima appunto, proprio quell’anima che dovrebbe essere – e solo per i pochi che si attardano ancora a crederci – una peculiare ed esclusiva proprietà dei viventi, non già degli oggetti e delle cose inanimate. Eppure, in ogni diorama del maestro Miura – ma forse, almeno un poco, in tutti i diorami e in tutti i presepi – si nasconde quella dimenticata entità. Mi sbaglio, l’anima dei diorami animati di Miura non è poi tanto nascosta. Dopo qualche minuto che li osservi, l’anima si mostra, salta fuori dal quadro, ti raggiunge, occupa il tuo campo visivo e la tua mente. Come un prigioniero che dal buio della materia rivede improvvisamente la luce. Né è possibile intendere da dove venga quell’anima, né dove si sia celata fino ad allora.

Così i visitatori curiosi, prima incantati davanti a quelle miniature perfette, dopo pochi minuti, eccoli turbati, quasi disturbati. Tornano verso casa muti, e quel disturbo li accompagna ancora per molti giorni. Guardate la faccia di questa coppia di mezz’età appena uscita dalla mostra, o i giovani volti di questo gruppetto di studenti. Sono facce spaventate.
Perché questa apparizione, questo svelamento, è un’esperienza che non si dimentica e che spaventa. Sempre, alla meraviglia davanti al “bello”, subentra un malessere cui non si riesce a dare un nome e una causa, ma che presto vince ogni resistenza. Non è infatti cosa di tutti giorni trovarsi faccia a faccia con l’anima, quella ambigua entità che, se i più consideravano pura invenzione, aveva comunque abbandonato da un paio di secoli l’umana esperienza del mondo.

I visitatori escono dalla grande sala, e per ore, per giorni, sembrano aver perso la favella, lo sguardo vuoto, i gesti svagati. Sognano molti sogni ogni notte ma al mattino evaporano come una nuvola e gli rimane solo il ricordo di un breve spavento.

Intanto, una lunghissima fila ordinata continua a sostare davanti alla biglietteria. La mostra del maestro miniaturista Hanshiro Miura è stata dapprima prorogata oltre il termine, quindi, a furor di popolo, è diventata un museo permanente. Chiunque voglia fare esperienza di quella cosa perduta, scomparsa dalla vita di ognuno, chiunque voglia incontrare l’anima, almeno per qualche attimo e almeno una volta nella vita, si mette in fila con gli altri. Con diligenza. Con molta pazienza. Ci sarà molto da aspettare, giorni, forse anni, ma alla fine arriverà il tuo turno

 

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“Il giardino e la città”: dal 4 febbraio al 4 marzo,
Proiezioni pomeridiane alla Sala Estense. Ingresso libero.

“Il giardino e la città”: dal 4 febbraio al 4 marzo,
Proiezioni pomeridiane alla Sala Estense. Ingresso libero.

“Il giardino e la città” sarà il tema della XIX rassegna “Giardini al Cinema”, un evento cittadino ormai noto, organizzato dal Garden Club di Ferrara che verrà presentato nel Salone d’Onore della Facoltà di Architettura in Via Ghiara 36, martedì 4 febbraio alle ore 16.00.

Paola Roncarati, presidente del Garden Club, aprirà l’incontro con una introduzione alla rassegna, a cui seguirà la curatrice Giovanna Mattioli, che illustrerà il tema con le immagini dei giardini presenti nei film in programma e concluderà il prof. Romeo Farinella con un approfondimento.

I tre film in rassegna film saranno proiettati alla Sala Estense in Piazzetta Municipale alle ore 16.00, a partire dal 12 febbraio.

I film che saranno presentati sono stati girati in città emblematiche dal punto di vista urbanistico: Ferrara, la prima città moderna dell’Occidente; Parigi, la città capitale, la Ville Lumière; New York, la metropoli. Città che possiamo dire di conoscere proprio attraverso e grazie al cinema, perché le loro strade, i loro quartieri e giardini, sono stati scelti come luoghi delle riprese di una serie sconfinata di pellicole e di serie televisive.

In questo contesto, ciò che lega i tre film proposti quest’anno, è proprio la presenza significativa del giardino nello sviluppo del racconto. Tutto questo permetterà di fare una serie di considerazioni che non saranno certamente esaustive per un argomento così complesso, ma serviranno come stimolo per chiavi di lettura non convenzionali, che sfruttando la magia della finzione cinematografica, permette di vedere forme e significati che nella realtà non riusciamo sempre a notare.

Si parte mercoledì 12 febbraio con Il giardino dei Finzi-Contini (di Vittorio de Sica, 1970). Un classico della letteratura rivisto dal cinema è un passaggio importante tra parola e immagine, un percorso difficile e complesso che può alimentare, come in questo caso, accesi dibattiti tra autore e regista. In questa rassegna, la visione del film sarà indirizzata non sulle vicende umane e/o letterarie, ma lasceremo parlare la città di Ferrara, attraverso uno dei suoi giardini, quello più famoso, quello più enigmatico, quello che non c’è.

Si continua martedì 25 febbraio con Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, di Eric Rohmer,1995): film a episodi, interamente girato nei quartieri della capitale francese, ci racconta tre storie della vita sentimentale dei suoi protagonisti, in altre parole: variazioni sul tema dell’amore messe in scena nei luoghi della città. Particolarmente interessante il secondo episodio dal titolo emblematico: “Le panchine di Parigi”, che ci mostra gli appuntamenti di una coppia fissati esclusivamente nei parchi e nei giardini. Ricordi, oseremo dire, di Jacques Prévert. Un film molto interessante come documento visivo, che ci permetterà di osservare alcuni giardini storici e le fasi iniziali di parchi contemporanei che sono maturati in questi trent’anni. Un entusiasmante viaggio nel tempo.

La leggenda del Re Pescatore (The Fisher King, di Terry Gilliam, 1991), che chiude la rassegna martedì 4 marzo, ci racconta la storia di Jack, spregiudicato conduttore radiofonico che provoca di sponda la morte della amatissima moglie di Perry, docente universitario. Un dramma che li farà letteralmente impazzire. New York è la grande mela dove tutto può succedere e i destini si possono incontrare e tra sensi di colpa e visioni di antichi cavalieri, c’è lo spazio per ricucire il senso della vita, e magari ritrovarlo stesi sul grande prato del Central Park. Un luogo straordinario già visto e analizzato in altre rassegne, che in questo caso si mostrerà in un ruolo fantastico e onirico.

Ciascun film sarà preceduto da una breve introduzione di Giovanna Mattioli.

L’ingresso è aperto a tutti con offerta libera. Iniziativa da non perdere, anche per riavvicinarci alla bellezza.

Per certi Versi / Bucaneve

Bucaneve

 

Strappa il mio vestito di ghiaccio

fammi sentire il calore

mentre mi denudi dal gelo

 

Freddo è il mio corpo

i miei seni gelati

non danno più vita

 

Divieni un sole

che scioglie il mio inverno

io raccoglierò

fiori sotto la neve

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

Cover: Foto di Henryk Niestrój da Pixabay

Hoggar, “spaventoso” gigante tatuato:
dentro al vulcano e aggrappati al cielo

Hoggar, “spaventoso” gigante tatuato:
dentro al vulcano e aggrappati al cielo.

Nel cuore del Sahara addormentato 

Il Sahara è un gigante addormentato che, da milioni di anni, giace supino sulla superficie africana: la sua capigliatura sono le foreste equatoriali; i suoi piedi sono le montagne dell’Atlante; la sua pelle è la sabbia dei deserti, le sue vene sono i torrenti, i suoi nei le oasi e, proprio nel centro, a metà distanza fra il fiume Nilo e l’Oceano Atlantico, c’è il suo ombelico: l’Hoggar, un massiccio montuoso di origine vulcanica di 530mila chilometri quadrati.

Le eruzioni, che ebbero inizio 35 milioni di anni fa e continuarono fino al Quaternario, hanno dato un’incredibile varietà di forme a un corollario di catene concentriche, che, da un’altezza massima di oltre 3.000 metri, degradano in picchi, creste, pareti, guglie, coni, funghi e aghi di rocce via via sempre più basse, sino a raggiungere la piatta superficie del deserto.

Lo scenario naturale di questa barriera geografica ubicata nel sudest dell’Algeria, tra Africa Bianca e Africa Nera, oggi Parco Nazionale Culturale, rappresenta uno dei più straordinari musei di Land Art presenti sulla superficie della Terra.
L’ombelico del gigante è tatuato: sulla sua pelle – ovvero in nicchie, grotte e caverne scavate dall’uomo e dall’erosione millenaria – sono stati tracciati grandiosi cicli pittorici da uomini preistorici che hanno documentato con una quantità impressionante di graffiti e incisioni rupestri, la propria presenza qui, quando il deserto non lo era ancora. Attraverso le immagini eseguite dagli stessi protagonisti, è possibile seguire con continuità un arco di migliaia di anni di storia dell’umanità, partendo dai gruppi di nomadi cacciatori alle prese con le prime esperienze di domesticazione animale e vegetale, fino alla sedentarizzazione, alla diffusione del carro a due ruote, all’impiego del cammello e del cavallo, all’uso dell’alfabeto e della scrittura.

Il Parco Nazionale Culturale dell’Hoggar conserva la forma estetica che, attraverso la descrizione dei loro spostamenti e di ciò che costituiva la loro cultura, i popoli sahariani primitivi dettero al proprio immaginario e può essere considerato un museo a cielo aperto che ospita un’esposizione permanente delle prime illustrazioni prodotte dall’uomo a partire da seimila anni fa.

Il vulcano architetto

Quella che il vulcano, attraverso milioni di anni di mutamenti geologici, ha dato alla propria natura eruttiva, è invece una forma primordiale di modellazione architettonica: il massiccio presenta una alternanza di rocce granitiche con rocce basaltiche fuoriuscite da numerosi crateri vulcanici nelle quote più elevate.

In alcune zone i basalti blu hanno coperto, con spessori di centinaia di metri, gli antichi graniti rosa e azzurri, formando multicolori bacini sovrapposti, strapiombi e cascate di minerali, vòlti e archi di cristalli. Sui versanti più ripidi, strati sovrapposti di lava hanno gettato le fondamenta per intere sequenze di colonnati di basalto perfettamente esagonali. I pendii più morbidi si sono rivelati letti ideali per il rotolare millenario e progressivo di migliaia di gocce di lava solidificata divenute ciottoli perfettamente levigati e sferici come biglie di vetro o pietre rotonde stratificate da striature nere elicoidali a forma di trottola che ne testimoniano la rotazione quando erano ancora molle magma incandescente.

I movimenti del sole, della luna e delle stelle, producono continui giochi di luce che cambiano minuto per minuto: trasparenze, ombre, rifrazioni e riflessi culminano in un’apoteosi di effetti visivi durante le ore serali del tramonto, quando l’intero massiccio vulcanico torna a colorarsi di rosso fuoco, per poi, lentamente, spegnersi nel grigioblu delle foschie notturne.

L’Hoggar o Haggar – dall’arabo: “luogo impressionante” o “spaventoso” – fu scelto fin dai tempi più antichi come luogo di culto e di incontro, ed è sempre stato il regno indiscusso dei popoli nomadi Tuareg, i leggendari “uomini blu” e delle loro mitica regina Tin Hinan.

Altissimo, arido, roccioso, privo di vegetazione, il Parco Nazionale dell’Hoggar emerge dal deserto e dal tempo per unire in sé la bellezza delle espressioni artistiche dei suoi abitanti con la magnificenza della forza creatrice della natura. Le memorie del tempo, della natura e dell’uomo qui coincidono nello spazio eterno, sacro e mistico di una impressionante biblioteca scritta su pietra e costruita dentro all’ombelico vulcanico di un gigante addormentato.

Pére de Foucauld i suoi amici Tuareg

Charles de Foucauld  era amico dei Tuareg e l’amicizia era ricambiata, non aveva motivi per rivaleggiare in materia di spiritualità e religiosità al punto da essere visto come una minaccia o un profanatore o un dissacratore ed è impossibile che i Tuareg potessero essersi spinti ad assumere atteggiamenti di fanatismo religioso contro colui che rispettavamo come un santo, pur se straniero, cattolico e bianco.

In seguito alla sua tragica morte, la maggior parte del suo lavoro risultò occultato in favore di una visione agiografica della sua vita, mettendo in risalto solo gli aspetti del suo percorso spirituale, del suo ruolo evangelico e del suo compito missionario.
Ma la prima pubblicazione in Francia, avvenuta dieci anni dopo la sua morte, fece ben comprendere il lavoro enciclopedico che aveva compiuto: i due volumi che costituivano il corpus delle Poésies Touarègues comprendevano più di 575 poemi e qualcosa come 5.670 versi.

A partire dal 1907, parallelamente ai suoi approfondimenti scientifici sul lessico, sulla grammatica, sui nomi dei luoghi e delle persone, Pére de Foucauld aveva copiato, trascritto, tradotto, commentato e analizzato il compendio di tutti i poemi e di tutte le poesie recitategli a memoria per giorni e giorni dalle donne Tuareg. Aveva condotto la propria ricerca in maniera speculare traducendo i Vangeli ed estratti della Bibbia in lingua Tamasheq e aveva raccolto informazioni ed elementi tali, in dieci anni di continui approfondimenti, per poter stabilire una veridicità e una corrispondenza diretta tra i miti legati alla Tin Inan dei Tuareg e alla Neit degli Egizi che confluivano nell’idea di una dea madre primordiale creatrice e progenitrice dell’umanità.

L’impianto del monumentale lavoro di studioso svolto dal “marabutto bianco dei Tuareg dell’Hoggar”, come è stato definito, che per tragica fatalità della vita, o per drammatica coincidenza del destino, finì di redigere due soli giorni prima della sua morte, non venne mai più ritrovato o ricomposto nella sua integrità.

Ci si avvicina alla verità tanto più ci si allontana dagli uomini. Più ci si allontana dagli uomini tanto più ci si avvicina a Dio.

Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono il deserto lo chiamavano paradiso e lo trovavano accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni e sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”; Paolo di Tebe ne visse otto in più in una spelonca vicino a una fonte dove cresceva una palma: acqua e datteri furono la sua dieta ma negli ultimi sessant’anni si cibò del tozzo di pane che un corvo gli portava in dono ogni giorno.

Pére Charles de Foucault si sarebbe potuto considerare l’ultimo discendente di quella tipologia di uomini religiosi che scelsero la vita nel deserto come massima forma di lontananza dagli uomini e vicinanza con Dio.
L’esempio di questi monaci, eremiti ed anacoreti non era solo esemplare in quanto rifiuto delle ricchezze mondane e dell’opulenza del potere temporale della chiesa cattolica con scelte di vita ascetiche, ma anche e soprattutto perchè, essendosi recati nei territori più ricchi di reperti ed elementi culturali di storia precristiana, furono anche in grado di sollevare dubbi e argomentazioni sulle radici stesse del cristianesimo, finendo con l’occupare un ruolo malvisto molto scomodo e critico nei confronti dell’autorità ecclesiastica e papale.

Allo stesso modo anche Pére de Foucauld, affascinato da quel misto di paganesimo astrale e cristianesimo primitivo che costiuisce l’essenza culturale dei popoli Tuareg, risultò oltremodo inviso a molti: era convinto che il processo di evangelizzazione potesse attuarsi solo attraverso il rispetto e la comprensione delle altre culture; aveva deplorato apertamente la conoscenza superficiale e la mancanza di rispetto sia da parte dei missionari che da parte dell’amministrazione coloniale; aveva condannato gli eccessi di violenza repressiva operati con le armi dalle forze militari francesi.

Chi ha ucciso l’ultimo degli eremiti del deserto? 

Anche tutto ciò che è possibile apprendere sulla sua fine (1 dicembre 1916) riconduce ad un dato oltremodo scomodo, dal momento che la spedizione mossa contro di lui allo scopo di sequestrarlo, finita in tragedia, venne in realtà organizzata dai partigiani indipendentisti libici vittime di eccessi di violenza repressiva inaudita, operati, con armi proibite, gas nervini e dai primi bombardamenti aerei mai effettuati nella storia dell’aeronautica mondiale, dalle forze militari coloniali italiane contro le popolazioni libiche della Cirenaica e del Fezzan.

I primi ad accorrere sul luogo della razzia e del delitto, dopo la fuga precipitosa degli assalitori e dell’esecutore materiale di quell’assassinio, furono i componenti delle famiglie Tuareg per le quali la residenza fortificata di mattoni e fango era stata costruita a scopo difensivo: all’esterno giaceva il corpo di Pére de Foucault, colpito a morte da un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo all’altezza delle tempie; all’interno del fortino mancava tutto quel poco che poteva essere razziato dalla furia – qualche arma, munizioni, provviste, utensili, oggetti personali – ma sparsa ovunque, gettata o strappata, rimaneva abbandonata a terra una scia di fogli di carta di appunti scritti a mano riproducenti lettere, simboli, schizzi, disegni, graffiti, geroglifici, mappe, nomi di luoghi. Luoghi della memoria Tuareg Kel Haggar e luoghi della memoria del loro amato “padre bianco” Charles de Foucauld.

Chi trovò il coraggio di entrare dentro a quella casa di fango come si entra in una tomba profanata, raccolse i fogli dello sciame di scritture che componevano l’enciclopedia delle conoscenze delle genti che parlavano e cantavano un dialetto berbero… che vivevano come famiglie di pastori nomadi in un habitat sconfinato che dai crateri e dalle cime dellAtakor, il cuore del vulcano, degrada sgretolandosi fino al nulla di oceani dominati da dune di sabbia e vento…

In molti, tranne i Tuareg, avrebbero potuto ritenere scomodo il lavoro di Pére de Foucauld, ma nei suoi confronti il ruolo mantenuto dalle genti Tuareg, oltre a quello di ispiratore, è stato anche quello di protettore e conservatore dei suoi scritti, provenienti dal luogo del delitto, dalle mani di coloro che sopraggiunsero per primi subito dopo i fatti e che da allora si resero conto di essere i depositari delle conclusioni a cui giunsero i suoi studi.

Due Vie Lattee aperte a conchiglia

Si fatica a muovere ogni singolo passo sotto il sole cocente, è tanta la luce che si fatica a tenere aperti gli occhi, ma quando nel deserto le fasi lunari illuminano le notti a giorno e si decide di viaggiare animali e uomini fianco a fianco, lo sforzo è minore, il passo sostenuto, lo sguardo si alza e alla vista appare lo specchio del cielo riflesso sulla terra: due vie lattee aperte a conchiglia una sopra l’altra.

Se di notte decidi di rivolgere lo sguardo fisso al cielo, la luce, l’immensità e la vicinanza della Via Lattea ti creerà un’impressione di vertigine.

Se ti corichi a terra e la osservi, la sensazione non è di sentirti sdraiato, ma aggrappato con la schiena di fronte all’incombere di un baratro infinito di stelle, pianeti, costellazioni e nebulose che occupano tutto il campo visivo.

Ma è l’alba il vero traguardo da raggiungere quando il chiarore dell’aurora si riflette sulle superfici calcinate e diviene abbagliante e non si può non rimanere estasiati dalla visione di paesaggi da genesi primordiale che appaiono dal bianco assoluto come incantesimi di chimere che svaniscono.

Dal sole bisogna difendersi o ripararsi, dalla luna no. Non solo: nel deserto quella del sole non è l’unica luce: la luna è il sole argenteo delle notti. Blu, azzurro, turchese e indaco sono i colori di noi “Uomini Blu”, gradazioni notturne rifratte o emesse dalla luna, dalle stelle e dal cristallo contenuto in ogni granello di sabbia da calpestare scivolandoci sopra o da soffermarsi a leggerlo e studiarlo come si studia e si legge un punto su una mappa celeste.

Il deserto è il luogo terrestre più lontano dal mondo e più vicino al cielo, allo spazio. Luogo del pre e luogo del post. E’ per questo che è mistico e sacro: Punto di non ritorno di un orgasmo cosmico.

Cover: Il Massiccio dell’Hoggar nel deserto del Sahara in Algeria – immagine Wikimedia Commons

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LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio Romeo Farinella presenta al Libraccio il suo ultimo libro.

LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio alle 17,30 Romeo Farinella presenta il suo ultimo libro


Sinossi

Le relazioni tra città e disuguaglianze vanno inquadrate in una riflessione sui temi posti dai cambiamenti climatici in corso e dalla transizione ecologica. A queste relazioni fanno da sfondo le retoriche riferite ai processi di rigenerazione o di “fondazione” urbana generati dal modello neoliberista che si sta imponendo non solo nel mondo occidentale.
La rigenerazione urbana destinata alle classi più ricche, nella logica della gentrificazione, e la privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio pubblico, la segregazione socioeconomica ed etnica dei gruppi vulnerabili e quella volontaria dell’élite, la sostenibilità come strumento di esclusione (eco-gentrificazione) e i processi di greenwashing ne rappresentano i caratteri più salienti.
Tre tappe segnano questo percorso critico: la città industriale e la rottura dell’equilibrio uomo-ambiente; gli intrecci tra urbanizzazione, cambiamenti climatici e disuguaglianze; le retoriche eco-urbanistiche e il diritto alla città.

Anticipiamo due brani del volume di Romeo Farinella

I . Disuguaglianze e politiche urbane

Dal World Inequality Report 2022 emerge che l’1% delle persone più ricche del pianeta emette una quantità di gas serra corrispondente al 50% dei più poveri. Il 10% dei francesi più agiati producono il 25% del totale delle emissioni mentre i più poveri in media il 5%. Quel 10% conduce certamente una vita più sana e formalmente più “sostenibile”. Lo si riscontra nella scelta della qualità dei prodotti per l’alimentazione, ma anche per il proprio benessere personale o per il tempo libero e i servizi alla persona.

La componente più povera del nostro mondo, nonostante conduca una vita certamente meno sana nella scelta dei prodotti alimentari, nella gestione dei rifiuti, nelle forme di mobilità, in termini di bilancio globale è molto più “ecologica” della classe media e di quella economicamente più agiata. La ricerca dell’obiettivo zero emissioni non può populisticamente risolversi in misure che colpiscono percentualmente, alla stessa maniera, tutti gli strati della popolazione, ma necessita di strategie che tengano conto che, in termini di bilancio complessivo, le azioni proposte non incidono allo stesso modo sulla popolazione (ricchi/ poveri) o sulla geografia economica (Occidente/ Global South). Andrebbero, quindi, evitate misure che pesano di più sui poveri, come la carbon tax o la flat tax e, prima di tutto, occorrerebbe rivedere un sistema fiscale che genera e moltiplica le disuguaglianze perché non adegua le imposte ai diversi livelli di reddito. Al contrario, andrebbero valutate preliminarmente le disuguaglianze, tra paesi e gruppi sociali, per proporre delle strategie di adattamento, di tassazione, di redistribuzione delle ricchezze, proporzionali al contributo di ogni gruppo sociale in termini di emissioni di gas serra . La necessità, dunque, che chi inquina paghi i costi della decarbonizzazione appare politicamente non più rinviabile, come già sosteneva nel 2015 l’economista Thomas Piketty .

L’evoluzione demografica in corso non gioca a favore del miglioramento delle città e allontana sempre più il raggiungimento dell’obiettivo 11 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. La prospettiva di arrivare al 2100 con una popolazione mondiale oscillante tra dieci e undici miliardi di persone deve fare i conti anche con l’invecchiamento, visto che le aspettative di vita per gli over 65 sono in aumento mentre sono in calo le nascite, come ci dicono i dati del World Population Prospect 2024 delle Nazioni Unite .

Le previsioni demografiche in realtà sono discordanti e altre fonti indicano per il 2100 una oscillazione tra gli otto e i nove miliardi di popolazione; in ogni caso le città dovranno adattare i loro sistemi di salute e protezione sociale per fornire servizi e spazi adeguati e sicuri a queste fasce d’età. Inoltre, se le loro dimensioni cresceranno e se ne nasceranno di nuove, il consumo di beni e di suolo aumenterà ancora più velocemente. È necessario, dunque, impegnarsi in una sfida enorme di fronte alla scarsità di risorse e all’intensificarsi dei problemi ambientali. Un cambiamento per il quale il mondo non sembra preparato.

Verso quale modello di sviluppo dovremmo quindi orientarci se la nostra finalità, oltre a quella di salvare il pianeta, comprende preliminarmente anche la lotta alle disuguaglianze? Si tratta di fare emergere un tema sempre latente, ma fondamentale se di nuovo paradigma dobbiamo parlare, ovvero il rapporto tra democrazia e capitalismo. Consapevoli che la parola “democrazia” può indicare esperienze e dottrine diverse4, il “capitalismo” non è certamente in crisi, anzi rafforza sempre più il suo ruolo di “motore di prosperità selettiva”, come sottolinea Nadia Urbinati . Un “meccanismo” in grado di modificare nel corso della sua storia le condizioni e i presupposti che generano profitto, consapevole che la povertà dei “molti” è la condizione per il benessere dei “pochi”.

Nel corso del Novecento, nei paesi occidentali le differenze si sono certamente attenuate (ma non sono sparite) mentre le disuguaglianze e la povertà, come già ribadito, si sono rafforzate altrove, grazie anche al dominio dei modelli di sviluppo neoliberali. La transizione ecologica, con l’enfasi posta sul tema dell’innovazione tecnologica, che renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in realtà non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso.

II . “Futuro ancestrale”. Oltre la sostenibilità

La sostenibilità è in fondo un concetto del capitalismo. La scrittrice e giornalista brasiliana Eliane Brum, riferendosi al pensatore brasiliano di origine indigena, Ailton Krenak, lo ribadisce chiaramente quando scrive che: “questo è il termine impiegato da chi ritiene possibile uscire dall’abisso senza rinunciare al sistema capitalistico che ci ha portato sull’orlo dell’abisso. È un discorso appetibile affinché, grazie a qualche alterazione cosmetica, tutto possa proseguire senza eliminare la disuguaglianza strutturale tra generi, razze e specie.”.

Secondo Krenak il mito della sostenibilità è una narrazione creata dalle aziende capitalistiche per conquistare i consumatori. Il racconto si fonda sull’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia: l’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che sia sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?

L’idea della ancestralidade introdotta da Krenak è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità; si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile. Vivendo è impossibile non lasciarne ma questo non significa che non ci si debba porre il problema di cercare di lasciarne il meno possibile. La riflessione sulle impronte lasciate dal nostro sviluppo è una chiave di lettura per comprendere le trasformazioni delle culture e dei territori. Secondo André Corboz, il territorio non è un dato bensì il risultato di diversi processi. Se un tempo il territorio si modificava anche spontaneamente, l’azione dell’uomo ha preso il sopravvento sui processi di modificazione, quindi il territorio è un progetto perché esprime una volontà di trasformazione. Questa considerazione determina la necessita di definire l’insieme di obiettivi ed il quadro valoriale ed etico a cui ci riferiamo quando ragioniamo sul progetto.

Il capitalismo neoliberista ha ben chiara la sua prospettiva progettuale e la sta attuando limitando la sfera pubblica a favore del privato, sostituendo alle politiche pubbliche interventi a vantaggio di banche e imprese, esautorando i parlamenti e i poteri legislativi a vantaggio della efficacia delle decisioni politiche, rafforzando gli apparati comunicativi fautori di una informazione anestetizzante relativamente ai conflitti e alle crisi in corso.

Le politiche urbane rappresentano uno dei campi privilegiati per l’azione progettuale, sempre più attraversata da una retorica imperante che svuota di significato anche le categorie riprese dalla natura (“foresta”, “bosco”, “albero”) per ridurle ad aggettivi subordinati ad interventi che hanno ben altre finalità. E la risposta non può essere Fitopolis di Stefano Mancuso, la cui tesi sembra una banalizzazione di un rapporto complesso tra città e natura. Secondo il botanista, riprendendo i dati del Copernicus Climate Change Service, per risolvere il problema della crisi climatica dobbiamo piantare cento miliardi di alberi. Piantare alberi attorno alle città è una soluzione per ridurre le emissioni climalteranti ma ci sarebbe anche un’altra strada, afferma Mancuso, ridurre tali emissioni intervenendo sul modello di sviluppo ed energetico.

Questo avrebbe un profondo impatto sull’economia delle nazioni e richiederebbe un tempo ancora lungo oltre ad un impegno globale, quindi meglio soprassedere. Del resto, Mancuso usa genericamente il termine “Antropocene” per definire il processo di alterazione del pianeta da parte dell’uomo, ma l’impatto di un nordamericano o di un europeo, come già ribadito più volte, non è lo stesso di un africano o di un indio, che sono di fatto vittime di questa situazione, al contrario dei “bianchi”. Le responsabilità umane che ritroviamo dietro la crisi climatica o si precisano e si contestualizzano economicamente, politicamente e socialmente o non serve a nulla ribadirle genericamente. Il problema oggi non è solo “ecologico”, è prima di tutto “socio-ecologico” o “socio-politico-ecologico” ed attiene in maniera diretta all’incidenza delle disuguaglianze nelle dinamiche di cui stiamo parlando.

[…] Il rischio di trasformare il “piantar alberi” in una gigantesca operazione di greenwashing è pertanto un pericolo reale; inoltre si pone un altro problema: dove trovare i cento miliardi di alberi da mettere attorno alle aree urbane del pianeta? Nel 2015 si faticò a trovare gli alberi per l’EXPO di Milano e supponendo di avere oggi i denari per pagare ai vivaisti la messa a dimora dei miliardi di alberi necessari, tra quanti anni questi saranno pronti per essere impiantati? E come faranno i paesi africani a piantare alberi, con i loro bilanci strozzati dai debiti contratti con i paesi occidentali che si arricchiscono sulle loro miserie?

La lentezza con cui procede l’impiantazione della foresta del Sahel per bloccare l’avanzata del deserto, di cui abbiamo parlato, lo testimonia. In Fitopolis si afferma che le città del futuro, siano esse costruite ex novo o rinnovate, devono trasformarsi in luoghi dove il rapporto fra piante e animali si riavvicina al “rapporto armonico” (sic!) che troviamo in natura. Ma siamo certi che dobbiamo costruire nuove città, non bastano quelle che abbiamo?

Le città mal costruite dall’uomo, prevaricanti nei confronti degli alberi e della natura, non sono nate per caso o per volontà divina ma sono l’esito di processi culturali e politici che, in particolare dopo la rivoluzione industriale, hanno assunto le dimensioni e le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere nel primo capitolo. Vi sono, quindi, delle responsabilità che non sono genericamente umane, ma sono associabili a specifiche forme di razionalità del pensiero occidentale, ad esempio il capitalismo e il neoliberismo. L’alterità e il dominio dell’uomo nei confronti della natura non è un dato generalizzabile a tutta la specie umana, come vedremo le culture indigene si sono sempre poste come componenti della natura e della foresta, senza ribadire la supremazia della specie umana sulle altre. Le città nuove, marcatamente neoliberiste, che abbiamo descritto precedentemente sono ricche di alberi e vegetazione ma si basano su processi escludenti e dunque su di una selezione di censo, se il concetto di classe sembra troppo marxista.

In copertina: Brick Lane, East End of London – ph. Romeo Farinella. 

Nota di redazione
Tra i molteplici impegni e attività, Romeo Farinella trova il tempo di collaborare con assiduità a questo quotidiano. Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Amnesty International all’Unione Europea:
“Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”.

È la prima volta nella storia dell’Unione che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliana, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

In copertina: Il Ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar (Foto di Wikimedia Commons)

Parole a capo
Bruno Montanari: alcune poesie da “Spigolature”

Spigolature

Io non solo credo che la poesia sia strettamente legata alla realtà, ma anche credo che la realtà abbia bisogno della poesia per essere reale, per essere tale
(Piero Bigongiari)

I minuti

mai si fermano.
Continuo è il loro ticchettare.
Anche nel buio vanno
tenuti per mano dalle stelle.

Sono le sei!
Già vaga la luce
per i sentieri del cielo.
Bussa alla finestra
una nuova aurora
con il sapore
di un altro giorno.

Le strade sono ancora vuote,
in giro non c’é nessuno.
Il tempo si muove veloce,
presto il rumore
camminerà tutto intorno.

 

*

 

Per città

A lungo
si è confuso il mio andare
tra una folla di ombrelli aperti.
Ora la pioggia
ha smesso di cadere.

Non piove più,
ma il cielo è buio,
ancora pieno di nuvole.
Vado tra i passi della gente
che in fretta per la strada
cammina
senza fermarsi a parlare.

 

 

 *
Noto
scenari economici nuovi
e sono pieno di incertezza
per l’aprirsi delle frontiere,
il continuo migrare delle genti
ed il chiudere
e lo spostare delle fabbriche
in altri paesi.
Vedo…
la strada della gente che lavora
farsi sempre più scivolosa
e stretta,
per la grave crisi economica
e la classe politica italiana
non sempre preparata
e a volte corrotta.
*
Porta il sapore dell’infanzia
e di un mondo perduto la neve.
Di quando la mangiavo
raccolta nel palmo della mano,
o la mettevo nel bicchiere
con un poco di vino rosso
per fare la granatina.
Di quando Franco posava
le trappole
per catturare i passeri
ed io, che non volevo,
correvo avanti e indietro
per farli scappare.
Di quando noi amici
eravamo come fratelli
ed il poco pane
che insieme dividevamo
aveva un altro sapore.
*
E venne Uno
ad annunciare
che siamo tutti uguali,
non fu creduto
e fu messo in croce.
Dopo duemila anni,
l’uomo ancora non capisce
che siamo fratelli
e, con la storia
dei ricchi e dei poveri
dei servi e dei padroni
dei bianchi e dei neri,
continua a piantare croci.

 

Bruno Montanari (1941) di Madonna Boschi / Vigarano Mainarda (FE). L’unione con la poesia è avvenuta nel 2008. Prima non aveva mai scritto. Da allora ha pubblicato oltre 50 libri con diversi editori. Un libro si trova presso la Biblioteca Vaticana e due libri presso la Biblioteca del Presidente della Repubblica. Molti giudizi favorevoli sui suoi lavori sono apparsi per diversi anni nella rivista internazionale “Poeti e poesie”. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 23 luglio 2020.

NOTA: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 272° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Dal 1986 il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuove l’impegno dei Comuni, delle Province e delle Regioni italiane per la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, attraverso: la promozione dell’educazione permanente alla pace e ai diritti umani nella scuola, l’organizzazione della Marcia per la pace Perugia-Assisi e delle Assemblee dell’Onu dei Popoli, la promozione della diplomazia delle città per la pace, il dialogo e la fratellanza tra i popoli, lo sviluppo della solidarietà internazionale e della cooperazione decentrata contro la miseria e la guerra, la promozione di un’informazione e comunicazione di pace, la campagna per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’impegno per la pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, la costruzione di un’Europa delle città e dei cittadini, strumento di pace e di giustizia nel mondo.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani anche quest’anno promuove la Giornata nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta, che è arrivata alla sua quarta edizione. Sabato 1° marzo sarà dedicato alla riscoperta e alla promozione del valore alla cura di noi e degli altri, della città e del pianeta in cui viviamo. “In un mondo in guerra, si legge nell’appello del Coordinamento, mentre siamo costretti a soffrire le conseguenze di decenni di  individualismo e incuria, come dice Papa Francesco, dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono.  Nell’ora della crisi più grande, la cura è la risposta più efficace. La cura reciproca è il modo più concreto che abbiamo per fronteggiare i problemi, ridurre le violenze e le sofferenze e cambiare le cose, qui e ora, senza aspettare che lo facciano altri, senza aspettare domani. Per questo la dobbiamo riscoprire, studiare e imparare, organizzare e promuovere.”

Pensiamo alla cura degli ammalati e della salute di tutte e di tutti, alla cura dei più piccoli e delle giovani generazioni, alla cura dei più fragili e vulnerabili, degli anziani e delle persone e famiglie in difficoltà economiche, alla cura delle donne vittime di tante violenze e discriminazioni, alla cura del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici,   alla cura della nostra economia, delle nostre città e quartieri, dell’ambiente e dei beni comuni che non sono solo nostri.
Pensiamo ai popoli in guerra, a Gaza e nel resto della Palestina e del Medio Oriente, in Ucraina e nel resto del mondo, ai migranti, alle persone perseguitate dalle guerre, dall’oppressione, dalla miseria e dalle catastrofi ambientali.

Il 1 marzo, migliaia di studenti e insegnanti, di ogni parte d’Italia, usciranno dalle loro scuole per andare a conoscere e ringraziare le persone che si prendono cura di noi e degli altri nei loro luoghi di lavoro e volontariato: pronto soccorso, ospedali, case per anziani, centri specializzati di cura, mense, empori Caritas, centri di accoglienza dei migranti, centri antiviolenza e case delle donne ma anche sedi della rai, comuni, province, tribunali, librerie, canili. Alcuni studenti e insegnanti faranno esperienza diretta di cura degli altri o dell’ambiente (ad esempio: servire ad una mensa per i poveri e senzatetto, ripulire, riordinare e abbellire uno spazio pubblico segnato dall’incuria, dall’abbandono o dall’inverno).

Altri ancora costruiranno la mappa della città della cura andando a scoprire e “illuminare” le persone, le pratiche e i luoghi di cura del territorio che contribuiscono al nostro ben-essere personale e collettivo. I partecipanti alla Giornata promuoveranno la cultura della cura raccontando in tempo reale, sui social network, gli incontri e le cose viste e sentite, amplificando così le voci e le storie delle persone incontrate, le loro attività e le loro idee sulla cura #iohocura.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani invita tutti i Sindaci e i Presidenti degli Enti Locali e delle Regioni ad aderire formalmente alla Giornata Nazionale della Cura delle persone e del pianeta, a registrare e diffondere  video-messaggi per dare valore alla cura e promuovere la cura della comunità e del territorio; a consegnare agli alunni/studenti della propria città il “Quaderno degli esercizi di cura”: un originale strumento di educazione civica per sviluppare l’attenzione, il rispetto, la responsabilità, la presenza, l’ascolto, la comprensione, l’empatia, l’uso delle parole, il dono, la generosità e il coraggio.

Qui per approfondire

Pubblicato su pressenza il 20.02.25

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Referendum sulla Cittadinanza:
cosa prevede e quando si vota

Ok dalla Consulta al referendum sulla cittadinanza:
cosa prevede e quando si vota.

Il quesito referendario interviene sulla legge numero 91 del 1992 per abrogare l’intero articolo 9, comma 1, lettera f) e alcune parole alla lettera b). Ovvero esclusivamente la parte relativa al requisito temporale.
Oggi infatti, gli stranieri maggiorenni che risiedono in Italia e che rispettano una serie di requisiti (dalla conoscenza della lingua alle condizioni economico-sociali) devono dimostrare di aver vissuto nel Paese per dieci anni consecutivi. Il referendum chiede di dimezzare questo periodo, a cinque anni, lasciando intatti gli altri requisiti. 

Per la Consulta, “il quesito è omogeneo, chiaro e univoco”, si legge nella sentenza depositata quest’oggi. “La richiesta referendaria non contraddice neppure la natura abrogativa del referendum, che la Corte ha costantemente ritenuto non può essere utilizzato per costruire, attraverso il quesito, nuove norme non ricavabili dall’ordinamento. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la nuova regola non sarebbe del tutto estranea al contesto normativo di riferimento”.

I giudici hanno motivato l’ammissibilità spiegando che in caso di approvazione del referendum “verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di atto discrezionale di “alta amministrazione” del provvedimento di concessione della cittadinanza”.

Peraltro, prima della legge del ’92, il tempo minimo di residenza per diventare cittadino italiano era fissato a cinque anni, come ricorda la stessa Corte. “La normativa di risulta, pertanto, sarebbe pienamente in linea con un criterio già utilizzato dal legislatore”, hanno puntualizzato i giudici.

Quando si vota

Dopo l’ok della Consulta, il prossimo appuntamento coincide con la data in cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella comunicherà quando si andrà a votare. I cittadini saranno a chiamati ad esprimersi sui cinque referendum, che come prevede la legge, dovranno tenersi  in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Gli altri referendum

I giudici avevano dichiarato inammissibile quello che intendeva abrogare la legge sull’Autonomia differenziata, su cui la stessa Consulta si era pronunciata a novembre, bocciando diversi aspetti della norma.
Ammissibili invece i quattro quesiti sul lavoro (jobs act, indennità di licenziamento illegittimo, contratti di lavoro a termine e responsabilità dell’imprenditore committente) e quello sulla cittadinanza. Quest’ultimo chiede la riduzione da 10 a 5 anni del tempo di residenza necessario per chi intende richiedere la cittadinanza.

Ora comincia il difficile

Naturalmente raccogliere le firme e andare alle urne non basta, i referendum bisogna vincerli, e trattandosi di referendum abrogativi, occorre prima di tutto portare al voto la metà più uno degli aventi diritto.  E’ un obiettivo difficile ma non impossibile. Anche se La destra, la stessa che a parole si  lamenta dell’astensione, non si batterà per il Sì, ma per far fallire i referendum  inviterà gli italiani a disertare le urne e ad andare al mare.
Non conosciamo ancora da data dei referendum, ma non aspettiamo gli ultimi quaranta giorni. La campagna per il Sì cominciamola subito, da oggi, ognuno di noi. 

Interregionali e Jet privati

Interregionali e Jet privati

Oggetto: Parenzo e l’Interregionale

Seguendo (18/02) la rubrica radiofonica “La Zanzara”,  condotta da Giuseppe Cruciani, ho udito uno scambio di invettive tra David Parenzo, noto volto de “la 7” , e un ascoltatore che contestava gli stipendi faraonici dei dirigenti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).

Secondo Parenzo i dirigenti dell’OMS sono pagati equamente e dovrebbero pure viaggiare su jet privati, vista la loro preziosa opera, mentre i poveretti (il termine usato era : “gli str...”) che stupidamente contestano senza fondamento le spese eccessive dell’OMS  – come l’ascoltatore – meritano di viaggiare sui treni interregionali.

Non entro nel merito della querelle, ma essendo un lavoratore che si sposta sui treni interregionali, mi sono sentito profondamente offeso dalle parole di Parenzo.

Parole degne di un radical-chic che, se prende il treno, viaggia di certo in prima classe e guarda dall’alto in basso i poveretti che, come il sottoscritto, non viaggiano – ahimè – sulla Freccia Rossa.

Giuseppe Grandi

In copertina: foto Pxhere.com su licenza Creative Commons

Sapere altro, sapere oltre:
la scuola di formazione politica di Attac

Sapere altro, sapere oltre:
la scuola di formazione politica di Attac.

Una proposta per i giovani di Attac Italia

Sapere altro per non accontentarsi della narrazione dominante e continuare a credere che un altro mondo sia possibile
Sapere oltre per non accettare la semplificazione della realtà ed essere radicali, ovvero capaci di andare alla radice dei problemi

Perché una scuola di formazione politica
Nell’epoca della cosiddetta scomparsa delle ideologie, l’unica narrazione rimasta in campo è quella basata sull’idea che la società debba essere regolata dal mercato e che l’individualismo sia la cifra delle relazioni fra le persone.
Poiché, al contrario, pensiamo che la vita delle persone si svolga dentro la reciprocità e l’interdipendenza tra le stesse e che la società debba essere il luogo del “prendersi cura con”, ovvero della costruzione comune dell’interesse generale, riteniamo che una scuola di formazione politica possa essere un valido strumento per contribuire a costruire questo nuovo orizzonte.

Perché una scuola rivolta alle giovani e ai giovani
Una scuola di formazione non può che essere rivolta alle persone che attraversano una fase della vita dentro la quale la formazione assume un ruolo prioritario.
Ma c’è un’ulteriore motivazione legata alla particolare situazione che la realtà giovanile si trova a vivere in quest’epoca: una realtà di precarietà delle condizioni materiali che rende estremamente più complicata una percezione progettuale della propria esistenza, spesso vissuta nel “qui ed ora” e dentro accadimenti nei quali è quasi impossibile trovare una chiave di lettura, un “prima” che aiuti a disvelare un “poi” e ad attivarsi per cambiarlo.

Siamo inoltre immersi in un periodo di contraddizioni drammatiche: un’epoca nella quale la guerra sembra diventata lo strumento per ridisegnare i rapporti di forza geopolitici, la crisi eco-climatica investe la vita quotidiana delle persone, la diseguaglianza sociale non ha precedenti nella storia. Capire come siamo giunti qui, come tutte queste crisi siano tra loro collegate e cosa si possa fare per immaginare un’alternativa di società è fondamentale per una generazione di giovani che si affaccia al futuro.

Proposta metodologica
La scuola di formazione politica si rivolge alle giovani e ai giovani dai 16 ai 34 anni.
E’ costituita da sezioni di indirizzo, ciascuna delle quali viene articolata in moduli tematici.
Ogni modulo tematico viene affrontato attraverso un ciclo di quattro-cinque lezioni online.
Ogni modulo si avvarrà del contributo di docenti qualificate/i e di persone esperte della tematica trattata.
La partecipazione a ciascun modulo richiede un’iscrizione preventiva con il pagamento di una quota di 10,00 euro.
Alle partecipanti e ai partecipanti di ciascun modulo verranno forniti materiali inerenti la tematica trattata.
Al termine di ogni modulo è previsto un incontro online fra le/i partecipanti per discutere assieme sull’esperienza vissuta e sulle sue possibilità di evoluzione, anche attraverso la realizzazione di laboratori permanenti di approfondimento.

Articolazione della Scuola
La scuola di formazione politica sarà articolata in tre sezioni di corsi:
1. Sezione “didattica”
E’ una sezione che mira ad affrontare una tematica, realizzando moduli che ne analizzano i diversi aspetti e forniscono gli strumenti base per comprenderla e attivarsi di conseguenza.
2. Sezione “storica”
E’ una sezione che mira ad affrontare una tematica dal punto di vista storico, realizzando moduli che ne analizzano i percorsi attraverso i quali è nata e si è affermata, si è modificata nel tempo, si è trasformata e cosa esprime oggi.
3. Sezione “movimenti”
E’ una sezione che mira ad affrontare le esperienze concrete dei movimenti sociali, realizzando moduli che ne analizzano le lotte e le proposte, le pratiche di partecipazione e di convergenza, i contributi alla costruzione di un’alternativa di società.

Prima fase
Verrà approntato un Form digitale per verificare, rispetto alla fascia di utenza prevista, quali siano i principali bisogni formativi. Il Form verrà pubblicato sul sito dell’associazione e indirizzato a diverse realtà associative e di movimento, in modo da raggiungere il massimo della diffusione possibile.
Seconda fase
Una volta identificati i bisogni formativi evidenziati dalla partecipazione al Form digitale verrà elaborato un programma annuale di corsi per ciascuna delle sezioni previste nell’articolazione della scuola.

Attac Italia

Sapere altro, sapere oltre: scuola di formazione politica per giovani