Le voci da dentro /
Il passare del tempo
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Le voci da dentro. Il passare del tempo
di Giampaolo
La storia dell’umanità è anche la storia del tentativo di vincere la paura della morte, o – ma forse è la stessa cosa – la dimostrazione di come la nostra esistenza terrena non ci basti.
Del resto, Fernando Pessoa fu estremamente chiaro quando affermò che “la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”. Non basta una sola vita per compiere tutte le azioni che riteniamo giusto effettuare, né per visitare tutti i posti che ci piacciono e meno che mai per conoscere tutte le persone che stimiamo.
Dal canto suo, Umberto Eco ebbe a dire che le persone che non leggono, quando saranno arrivate a settanta anni avranno vissuto solo la propria esistenza. Chi legge, invece, avrà vissuto almeno cinquemila anni, perché la lettura è una forma di immortalità all’indietro.
Questo di Eco è un modo molto laico per tentare di dilatare i confini temporali della propria esistenza: certo, un credente crede che possa essere infinita in avanti, Eco invece pensava che potesse esserlo all’indietro, tuttavia questo non conta più di tanto. Alla base di tutto c’era la non accettazione del limite – cosa a me molto nota – il tentativo di andare comunque al di là di quello che la natura o Dio ci hanno concesso: oltre il nostro tempo, oltre noi stessi.
Ci sono poi le persone estremamente sensibili, le quali vanno tenute in particolare considerazione poiché per esse una sola vita non è sufficiente a pagare tutti i debiti che sentono nei confronti del prossimo. Si tratta di persone che potrebbero accettare la morte solo nell’ipotesi in cui essa servisse a donare un’altra vita a chi amano, quindi soltanto nel caso in cui la propria fine servisse a pagare il più grande dei debiti, quello derivante dall’amore. Un debito enorme – è fin troppo ovvio ricordarlo – proprio perché non monetizzabile, quindi puro e assoluto.
La vita di ognuno di noi è un percorso. Ne erano convinti gli antichi greci (basti pensare al mito di Ulisse, e ci rendiamo conto di quanto ciò sia vero). Loro parlavano di nostoi, nel senso di “viaggi di ritorno”. A mio modo, anche io mi sento Ulisse. Ho iniziato un viaggio, mi sono distanziato, ho attraversato esperienze impegnative e addirittura devastanti.
Tutti ci distanziamo da ciò che siamo quando nasciamo. Io l’ho fatto in maniera particolare, estrema. Ora devo cercare il ritorno, un ritorno pieno di momenti di riflessione, di prese di coscienza sul senso dell’esistenza propria e di quella altrui. Non posso buttare via questo nostos. È il mio per il semplice fatto che mi appartiene, è importante. È imprescindibile.
Ulisse non è stato sempre a Itaca, anzi, ci è stato davvero poco. Eppure Ulisse di Itaca è indiscutibilmente il re. lo sono il re della mia Itaca ed è lì che voglio tornare.
Come suggerisce Kavafis, non avrò paura dei Ciclopi o dei Lestrigoni, tantomeno di Poseidone, imparerò dai dotti e comprerò profumi inebrianti, tenendo sempre in mente Itaca, viaggerò col cuore aperto e a vele spiegate.
Non potrò, tuttavia, dimenticare i lutti, le perdite. La perdita più importante della mia vita, è senza ombra di dubbio quella di mio padre. Un lutto devastante. Spesso immagino di stare a casa, tinteggiare i muri e verniciare porte e finestre. Non ho grandi doti manuali, il risultato del mio lavoro sarebbe tutt’altro che eccellente, però ne sarei contento. Il modo migliore per ricordare mio padre è mantenere viva la casa di cui tanto era orgoglioso, tuttavia, la cambierei giusto un po’.
A dire la verità, ho faticato parecchio a comprendere questo mio concetto.
Il passare del tempo quasi mi obbliga a vedere le cose in modo diverso. Ho cominciato a convincermi che “rispettare” significhi “vivere” e che “conservare” non sia un sinonimo di “mantenere”, bensì che comprenda in sé il concetto di “mutare”.
Ovviamente, non si deve mutare per il gusto di farlo o per affermare una propria visione egoistica. “Mutare” come essere rispettosi, mantenere vivo il ricordo. “Mutare” vuole essere il contrario di “museificare”: un museo è un luogo dove non c’è vita, dove tutto è morto ed è – per così dire – imbalsamato. Un luogo in mutamento è invece un luogo in cui il lavoro di chi è morto viene tenuto vivo, un luogo in cui tutto è utile.
Il lutto quindi, la perdita, l’assenza … Il lutto deve essere prima accettato, poi rielaborato, infine, se tutto dovesse andare bene, riuscire a vivere con l’assenza dell’altro e il vuoto che ti ha lasciato. Nelle persone malinconiche come me, è un po’ più difficile, non impossibile, ma difficile.
I ricordi riaffiorano come saette anche quando non sono io a cercarli, come se il tempo passato si facesse prepotentemente presente, un presente continuo, inflessibile.
Una luce abbagliante che mi fa vedere e sentire tutto: quando mi esortava di vivere nella rettitudine, quando si arrabbiava e mi cacciava da casa, il tavolo dove si pranzava composto da otto persone, il suo tonante “petulare” con un dialetto cavernicolo, la domenica con la schedina, il suo modo di mangiare, di fumare, tutti i suoi detti e proverbi, quel pettinarsi prima di uscire, la scarpa lucida, il fazzoletto ben stirato nel taschino, la sua ipoacusia che non accettava, il suo odore, le sue grida dal balcone del quinto piano, e tante cose ancora.
Non credo si possa arrivare alla conclusione del lavoro del lutto. Penso che il termine non sia mai del tutto possibile, perché la persona perduta, nonostante il lavoro che si può fare, ci lascia un solco indelebile.
Sono addirittura convinto del fatto che la persona perduta non si lasci dimenticare e la nostra stessa vita è fatta di quei resti, dei resti dei nostri innumerevoli lutti.
Più che illuderci che possiamo realizzare una effettiva attuazione del lutto, dovremmo piuttosto pensare che, se c’è una fine del lutto, essa si realizza solo nel riconoscimento della sua impossibilità, vale a dire che, il solo modo di portare a termine un lutto è quello di riconoscere la strutturale incompiutezza.
“Il maestro Bach scrisse una musica che non prevedeva l’esecuzione perché ritenuta musica pura, astratta: ritenne evidentemente opportuno non destinarla né alla voce umana né a qualunque altro strumento. Può sembrare assurdo scrivere una musica che può essere solo letta, tuttavia è un lusso che l’artista e solo lui, può permettersi seppur raramente” (Erri De Luca, Esecuzioni, in Alzaia).
Ecco, quando la mia testa viene riempita dall’immagine, dalla voce e dai momenti passati insieme con la mia famiglia, nel medesimo tempo si realizza la conclusione che mai potrò fare a meno del loro “ascolto”.
I vasi sanguigni, tramite il sistema circolatorio, sono adibiti al trasporto del sangue. I più importanti, sono le arterie. La mia famiglia e le persone a cui voglio bene, rappresentano perfettamente questa meraviglia.
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Mauro Presini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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