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Parole a capo
VERNICE: «Viaggi di versi»(2)

A Forlì nella cornice di VERNICE: «Viaggi di versi» (2)

Alla 22a Edizione di “VERNICE – Art Fair alla Fiera di Forlì, allo stand dell’artista ferrarese Isabella Guidi, l’Associazione Culturale Ultimo Rosso ha realizzato il Reading poetico “Viaggi di versi”. Dopo la prima uscita della scorsa settimana, pubblichiamo un secondo gruppo di poesie lette durante l’evento.

 

 “Che sia benedetto chi non conosce la rotta. Il futuro è di chi sa affrontare il mare nero inseguendo un miraggio”
(Paolo Rumiz)

 

PENDOLARI

 

I tulipani si inchinano alla sera
il pane odora le case
e il treno sui binari ozia
Sui campi di spalle curve
il vento incalza
dentro i vagoni
il tepore del pianto
nell’ansia di essere vivi
Vite segnate in giallo
flash di oggetti smarriti
La mente a pugno chiuso
fa rumore di rabbia antico

(Rita Bonetti)

 

*

 

BARCA

 

Suonano a vuoto
i miei passi sulla tolda di
questa barca solitaria e deserta
La cambusa è vuota e le
macchine sono ferme
Non avverto più quel ronzio familiare
che favoriva il mio sonno
nelle sere lunghe dopo le ore trascorse
a studiare la mappa
a individuare la rotta e
pensare qualche cambiamento
La barca fila via senza timone
solo la corrente
Le grandi vele non schioccano
E non servono.
Mi porta la corrente
Verso una parvenza di terra
Una sagoma nella nebbia
forse il molo di un porto
o un’altra barca simile a
questa, senza timoniere.

(Elena Vallin)

 

*

 

 PARTENZE

 

Un vento leggero
mi solleva da terra
sono in cerca delle mie ali
perdute un tempo
quando il mondo
intorno a me
era libero da amarezze
e io annegavo felice
nella luce.

(Silvia Lanzoni)

 

*

 

 NEL VIAGGIO L’INFINITO

 

Mentre il tempo stringe da ogni lato
beffardo inadeguato
insufficiente sempre all’infinito
che la mente contiene e il cuore spera
si sta sospesi tra la realtà
e tutte le astrazioni che il pensiero
può concepire: gli universi ignoti
fantasie fedi libertà dei sogni.
L’infinito nel tempo e nello spazio
muove una guerra dolorosa al battito
di ciglia che è il cammino di una vita.
Ma l’anima in dissidio trova pace
nel viaggio che dilata
la mia dimensione col suo limite.
Luoghi e passaggi
profumi e colori
tramonti e albe e golfi
montagne e fiordi
cattedrali e spiagge
e le innumerevoli
isole tra gli oceani battute
dalle maree e le infinite specie
e ogni angolo diverso
e ognuno un mondo a parte, una cultura
Qualunque cosa che mi porti a bere
un pezzetto di questa Madre Terra
e nutra la memoria e riempia gli occhi
mi regala un respiro
di eternità.

(Marta Casadei)

 

*

 

 TRAMONTO AFRICANO

 

Il cielo azzurro s’incupisce
vasta distesa scura
il sole, una palla arancione,
ora tocca la linea viola;
rinfresca l’aria
decorano lievi nuvole
arancio ocra rosso.

Nera si staglia
tra noi e l’infinito
una sagoma: un elefante,
eterna memoria

Ritornerà la luce
sfileranno le figure verso il destino:
antico ciclico ritorno.

Costretti a ripararci torniamo:
ci guardiamo sorridere, complici.

(Cecilia Bolzani)

 

*

 

 Legàmi scorsoi
attorcigliati a Capo Fragile
meta di bambini
vecchi e del mondo
dei dispersi viaggiatori

(Pier Luigi Guerrini)

 

*

 

NAVIGARE A VISTA

 

Esistenza,
oceano d’incertezza.
Lo solchiamo in piccoli vascelli
occhio alle mappe
e agli strumenti
illusi di poter
sempre
controllare la rotta.
Radici come àncore
germogliano isole
disperse
di terraferma sicura,
approdo per raggrumare
saperi e forze.
Bisognerà imparare
l’accomodarsi ai venti
fluire in traiettorie
inaspettate e nuove
lasciare aperta un poco
la porta del mistero.

(Anna Rita Boccafogli)

 

(In copertina, foto della Bretagna di stbucher da Pixabay)

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 279° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Cosa c’è dentro il ddl sicurezza: la parola d’ordine è reprimere

Cosa c’è dentro il ddl sicurezza. Proteste, carcere, cpr e cannabis: la parola d’ordine è reprimere

Il disegno di legge voluto dal governo Meloni e dai ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto, introduce nuovi reati e prevede pene più pesanti per chi protesta, con l’obiettivo di mettere a tacere ogni forma di dissenso. Tra le proposte, il permesso alle forze di polizia di detenere armi senza licenza

Pene più severe per chi contesta e blocca la strada, maggiori poteri alle forze di polizia, stretta sulla cannabis legale e una serie di provvedimenti che puntano a sedare sul nascere le proteste in carcere e all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Sono alcuni degli argomenti contenuti nel ddl sicurezza proposto dal governo guidato da Giorgia Meloni, approvato dalla Camera o ora in discussione al Senato.

In questo articolo, in cui iniziamo ad esplorare alcune parti del disegno di legge, proponiamo l’elenco dei temi dal nostro punto di vista più significativi contenuti nel ddl:

  • Repressione del dissenso
  • Stretta su carcere e cpr
  • Maggiori tutele per le forze di polizia
  • Revoca della cittadinanza, niente sim senza permesso di spggiorno 
  • Limitazioni all’uso della cannabis legale
  • Benefici per le vittime delle mafie, pentiti più protetti

Repressione del dissenso

Il ddl (art. 14) vuole punire i manifestanti che bloccano con il proprio corpo le strade o le ferrovie, trasformando quello oggi è un illecito amministrativo in illecito penale. E quindi, ad esempio, gli attivisti del clima che agiscono in gruppo rischiano ora la reclusione da 6 mesi a 2 anni, oltre al pagamento di una multa fino a 300 euro.

Ambiente, così i governi europei mettono a tacere gli attivisti per il clima

Condanne più pesanti anche per chi, durante le manifestazioni che si svolgono in luoghi pubblici o aperti al pubblico, si rende colpevole del reato di danneggiamento. Nello specifico, il ddl (art. 12) prevede due diverse fattispecie di danneggiamento: la prima, “semplice”, è punita con la reclusione da 1 a 5 anni; l’altra, con violenza alla persona o minaccia, è punita con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 annie con la multa fino a 15mila euro.

Il testo (art. 19) prevede una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Un’ulteriore aggravante è prevista se il fatto è commesso per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, come ad esempio il ponte sullo Stretto di Messina o la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, Tav.

Attivisti per il clima: la protesta che divide, un racconto a fumetti

Pugno di ferro anche per chi occupa un immobile di proprietà altrui, con il ddl (art. 10) che mira a introdurre il nuovo reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, oltre a una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la sua restituzione.

Stretta su carcere e cpr

Un nuovo reato, il delitto di rivolta, mira a punire chi organizza e partecipa a proteste e rivolte dentro carceri o Cpr

L’articolo 26 del ddl prevede una serie di misure per garantire “maggiore sicurezza” nelle carceri. Fra queste, l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi (se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute) e, soprattutto, l’introduzione nel codice penale (art. 415-bis) di un nuovo reato: il delitto di rivolta all’interno del carcere. Ciò significa che i detenuti che facciano “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”, anziché ricevere provvedimenti discliplinari, come avviene ancora oggi, saranno punibili sul piano penale. Perché scatti il reato, basta che al gesto parceipino almenotre detenuti.

Rivolte nelle carceri e reato di tortura: tutti i fronti aperti

La pena “base” è la reclusione da 2 a 8 anni, che in determinate circostanze aggravanti può aumentare. E così, l’aver commesso il fatto con uso di armi è punito con la reclusione da 3 a 10 anni;  l’aver causato una lesione personale implica l’aumento della pena fino ad un terzo; l’aver causato la morte è punito con la reclusione da 10 a 20 anni. È inoltre specificato che le stesse pene si applicano anche se la lesione personale o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di quest’ultima. La sola partecipazione alla rivolta è invece punita con la reclusione da 1 a 5 anni.

Riguardo ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), l’articolo 27 introduce anche in questo caso un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente. È punito con la reclusione da 1 a 6 anni chi promuove, organizza e dirige una rivolta, mentre la sola partecipazione prevede una pena da 1 a 4 anni. Nel caso in cui vi sia un utilizzo di armi, si rischiano da 2 agli 8 anni, mentre se nel corso della rivolta qualcuno rimane ucciso o riporta lesioni gravi o gravissime (anche nel caso in cui l’uccisione o la lesione personale sia avvenuta immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di quest’ultima) la reclusione prevista va dai 10 ai 20 anni.

Centri per il rimpatrio dei migranti, ordinaria ferocia

Il ddl sicurezza intende anche semplificare le procedure per la costruzione di nuovi Cpr, nonché quelle per la localizzazione, l’ampliamento e il ripristino dei centri esistenti. Il primo passo per la costruzione di nuove strutture di detenzione amministrativa, già promesse dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Non sono risparmiate neppure le donne incinte o madri di figli che hanno meno di un anno. L’articolo 15 apre la possibilità del carcere anche per chi prima ne era esclusa: non sarà più automatica l’esclusione della detenzione per donne incinte e madri, che quindi potranno scontare la pena istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Nessuna possibilità di evitare il carcere, invece, se per la giustizia esiste il grave rischio che la donna commetta altri reati. In questi casi i neonati resteranno in carcere con le loro madri.

Maggiori tutele per le forze di polizia

Il ddl prevede una serie di misure che tutelano le forze di polizia. L’articolo 20, in particolare, vuole introdurre il nuovo reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza che svolge le sue funzioni, con pene da 2 a 5 anni nel caso di lesioni semplici; da 4 a 10 anni nel caso di lesioni gravi; da 8 a 16 anni nel caso di lesioni gravissime. Una differenza sostanziale rispetto a oggi, con il reato circoscritto alle sole lesioni personali subite da agenti di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive. Inoltre, viene introdotta una specifica sanzione (da 2 a 5 anni) per le lesioni semplici.

Stanziamento per le bodycam degli agenti

Il governo ha intenzione di stanziare più di 23 milioni di euro nel triennio 2024-2026 per dotare le forze di polizia (polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria) di dispositivi di videosorveglianza indossabili – le cosiddette bodycam – per registrare l’attività operativa e il suo svolgimento durante i servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno. La novità (art. 21) rischia di ledere il diritto alla privacy, tant’è che già nel 2021 il garante per la protezione dei dati personali aveva precisato che le videocamere indossabili potevano essere attivate solo in concrete situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico.

I codici identificativi in polizia sono ancora un tabù

Il garante aveva quindi aggiunto che non è ammessa la registrazione continua delle immagini, né quella di episodi “non critici”, fissando a sei mesi il periodo massimo di conservazione dei dati. Vietato, invece, dotare i dispositivi di tecnologie che consentano il riconoscimento facciale della persona. Il comma 2 dell’articolo prevede poi che i dispositivi di videosorveglianza possano essere utilizzati nelle carceri e nei cpr. In questo caso la strumentazione può essere sia portatile che fissa.

Più fondi per le spese legali degli agenti

Per le forze di polizia e le forza armate il ddl mira a introdurre, a partire dal 2024, un beneficio economico per le spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti accaduti in servizio. Il beneficio ha un importo massimo di 10mila euro per ciascuna fase del procedimento e in caso di condanna, chi ne usufruisce può essere costretto a restituire il denaro ricevuto. La norma specifica poi che possono accedere al beneficio anche il coniuge, il convivente di fatto e i figli del dipendente deceduto. Per la copertura legale, lo Stato ha previsto di stanziare 860mila euro all’anno.

L’articolo 28, che ha scatenato un acceso dibattito, autorizza gli agenti di pubblica sicurezza (carabinieri, poliziotti, finanzieri e agenti penitenziari) a possedere armi senza licenza quando non sono in servizio. È curioso come il riferimento normativo sia il Regio decreto n. 773 del 1931, che comprende “arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri”. Fra le altre figure che possono detenere armi senza alcuna licenza per la difesa personale vi sono il capo della polizia, i prefetti, i viceprefetti, gli ispettoriprovincialiamministrativi, gli ufficiali di pubblica sicurezza, i pretori e i magistrati addetti al pubblico ministero o all’ufficio di istruzione.

Infine, l’articolo 24 prevede pene più severe per chi deturpa e imbratta beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche. Più nel dettaglio, qualora il fatto abbia la finalità di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro” dell’istituzione, il colpevole rischia la reclusione da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.

Revoca della cittadinanza, niente sim senza permesso di soggiorno

L’articolo 9 intende revocare la cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo, eversione e altri gravi reati. La norma stabilisce che non si può procedere alla revoca nel caso in cui l’interessato non possieda un’altra cittadinanza. Inoltre, si estende da 3 a 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca.

In tema di diritti, l’articolo 32 modifica l’articolo 30 del codice delle comunicazioni elettroniche, disponendo la chiusura dell’esercizio o dell’attivitàda 5 a 30 giorni per i negozianti che vendono schede sim senza procedere all’identificazione dei clienti. Ma, soprattutto, il ddl dispone che il cittadino di un paese che non fa parte dell’Unione europea, sprovvisto di permesso di soggiorno in Italia, non possa stipulare un contratto di telefonia mobile. In altre parole, un migrante in condizione di irregolarità viene privato dell’unico strumento che gli permette di comunicare con la famiglia lontana.

Limitazioni all’uso della cannabis legale

Il governo ha precisato che “il ddl sicurezza non criminalizza né incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale della canapa”. Produttori e commercianti però non la pensano così e hanno già preannunciato azioni legali per tutelare i loro affari

L’articolo 18 prende di mira la canapa legale – con thc al di sotto dello 0,2 per cento – e mette al bando i cannabis shop attraverso il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti le infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii derivati.

Per i trasgressori si applicano le pesanti sanzioni previste dal Titolo VIII del dpr n. 309/1990 (che, ad esempio, punisce con la reclusione da 8 a 20 anni chi coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, sostanze stupefacenti o psicotrope). Il governo ha giustificato il provvedimento, spiegando che “l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire, mediante alterazioni dello stato psicofisico, l’insorgere di comportamenti che possono porre a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale”.

Caos cannabis

Un chiarimento del Ministero datato 10 settembre 2024, ha quindi aggiunto che “il ddl sicurezza non criminalizza né incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale della canapa, in quanto non vieta, né limita la produzione della cannabis”. Nello specifico, dal Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri sostengono che “con l’entrata in vigore della legge 242/2016 è stata avviata, illecitamente, anche la produzione e la commercializzazione, nei cosiddetti ‘cannabis shop’, di inflorescenze e suoi derivati, acquistati per un uso ricreativo, insinuando nella collettività la falsa idea di legalizzazione di una cannabis definita, erroneamente, ‘light’”. Secondo il ministero, l’emendamento al ddl non rischia di limitare la produzione dei derivati dalla cannabis e non incide sul mercato, consentendo la prosecuzione delle attività di chi ha investito nel settore. Produttori e commercianti però non la pensano così e hanno già preannunciato azioni legali per tutelare i loro affari.

Benefici per le vittime delle mafie, pentiti più protetti

L’articolo 5 del ddl, accogliendo la sentenza della Corte costituzionale dello scorso 21 maggio, stabilisce che i parenti delle vittime innocenti delle mafie e del terrorismo possano accedere ai benefici economici previsti dallo Stato, anche se hanno rapporti di parentela con persone condannate o coinvolte in un procedimento penale. “Con questa pronuncia lo Stato non ha più scuse – aveva commentato dopo la sentenza Daniela Marcone, responsabile dell’area memoria di Libera – ora c’è una carta d’appoggio e nessuno può ignorarla. Attraverso i benefici alle vittime si riconosce il diritto al lutto e al dolore, non si tratta come dice qualcuno soltanto di soldi”.

Il disegno di legge contiene una serie di provvedimenti che offrono maggiori tutele ai collaboratori di giustizia. In particolare, al fine di garantire la sicurezza, la riservatezza dei pentiti e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a uno speciale programma di protezione, che non sono detenute o internate, viene consentita l’utilizzazione di un documento di copertura, nonché di identità fiscali di copertura, anche di tipo societario.

Il documento di copertura potrà essere utilizzato anche dai collaboratori (e loro familiari) che si trovano agli arresti domiciliario che fruiscono della detenzione domiciliare. È utile chiarire che mentre gli arresti domiciliari intervengono prima della sentenza definitiva di condanna, la detenzione domiciliare interviene dopo e rappresenta una misura alternativa alla detenzione carceraria.

Articolo originale su Lavialibera.it

In copertina: Roma. La protesta di Exctintion Rebellion. Foto di Ylenia Sina.

Elin e gli altri: un libretto con figure e parole,
Sabato 12 aprile alle ore 10.30 alla Biblioteca Niccolini

Elin e gli altri: un libretto con figure e parole

Care scrittrici e scrittori,

finalmente Elena ed io abbiamo realizzato un libretto con le immagini e le storie del nostro laboratorio Elin e gli altri.

Racconti scritti attraverso le suggestioni del gioco dei tre cappelli associato ai ritratti dei bambini: ricordate vero?!

Lo presentiamo sabato 12 aprile alle ore 10.30 alla Biblioteca Niccolini, dove tutto è iniziato.

Ci piacerebbe tanto che voi ci foste in questa occasione per ritrovarci e perché possiate leggere il vostro racconto o quello di un altro/a partecipante.

Il libro è dedicato a Daniele Lugli, uno degli autori del nostro laboratorio, maestro di pace e di nonviolenza caro a tanti e tante di noi.

Durante la presentazione sarà possibile acquistare il libro. Il ricavato andrà al Movimento Nonviolento, di cui Daniele è stato tra i fondatori, per sostenere la Campagna di obiezione alla guerra, cioè poi gli obiettori di coscienza e i resistenti nonviolenti in Russia, Ucraina, Bielorussia, Israele, Palestina.

Che dite?

Vi aspettiamo numerosi nonostante il tempo passato.

Vi preghiamo di rispondere a questa mail e… passate parola! Amici, familiari, appassionati di storie saranno i benvenuti.

Un abbraccio,

Elena Buccoliero e Miriam Cariani 

“Voci e suoni da un’avventura leggendaria”:
dal 7 al 12 aprile al Centro Teatro Universitario di Ferrara

Lo spettacolo di Teatro Ragazzi “voci e suoni da un’avventura leggendaria” alla conclusione del progetto teatrale “Sguardi Diversi” 2024 – 2025.

Giunto alla conclusione la dodicesima edizione del progetto teatrale “Sguardi Diversi”, finanziato con i fondi regionali dei Piani di Zona, promosso dal Comune di Ferrara, Assessorato alle Politiche Giovanili e la collaborazione del Centro Teatro Universitario di Ferrara. Il percorso ha coinvolto gli alunni delle prime classi medie della scuola secondaria “T. Tasso” ed è stato condotto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro.

Il progetto “Sguardi Diversi” si concluderà con cinque repliche dello spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendariariservate alle scuole di Ferrara e Provincia e una replica riservata ai familiari e il pubblico adulto. Tutte le repliche si svolgeranno presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara (via Savonarola 19).

Lo spettacolo di Teatro Ragazzi voci e suoni da un’avventura leggendaria è diretto da Michalis Traitsis con le musiche a cura di Martina Monti, ed è tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi. Eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontate con leggerezza e ironia dagli allievi del laboratorio: Lena Abate, Ziyu Chen – Matthew, Ada Colombari, Pietro Gilioli, Claudia Grechi, Niccolò Grechi, Luca Pistone, Edwin Yesid Menegatti Fregnan.

il programma delle repliche:

Lunedì 7 Aprile, ore 10.15, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Martedì 8 Aprile, ore 9.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Giovedì 10 Aprile, ore 09.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Venerdì 11 Aprile, ore 9.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Sabato 12 Aprile, ore 17.00, Centro Teatro Universitario di Ferrara, replica per adulti e familiari

Il progetto di pedagogia teatrale di Balamòs Teatro attuato alla scuola secondaria “T. Tasso” di Ferrara a partire dall’anno scolastico 2013-2014, nonostante tutte le difficoltà che affronta il mondo della scuola oggi, rappresenta un’ottima opportunità di formazione attraverso le pratiche di laboratorio teatrale per le giovani generazioni.

L’anima della proposta è il desiderio di stare insieme, di raccontarsi più che mostrarsi, di mettersi alla prova, di navigare insieme per scoprirsi e scoprire altri orizzonti possibili, di affrontare insieme paure, giudizi, conflitti.

Con una metodologia che tende, attraverso stimoli precisi, a rendere ciascuno protagonista del proprio percorso, dei propri personaggi e delle proprie interpretazioni.

Con il regista che si propone come pedagogo teatrale, accompagnatore, facilitatore, disponibile a navigare con i ragazzi tra i moti calmi e ondosi del lavoro teatrale, tra scoperte e frustrazioni, tra le bonacce e tempeste della crescita.

Lo spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria con gli alunni delle seconde classi medie della scuola “T. Tasso” di Ferrara e un gruppo di persone detenute, è stato presentato Giovedì 27 Marzo 2025 alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia e in occasione della Giornata Mondiale del Teatro (International Theatre Institute – Unesco) e la Giornata Nazionale di Teatro in Carcere (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere).

Locandina voci e suoni da un’avventura leggendaria – Aprile 2025

programma di sala voci e suoni da un’avventura leggendaria – Ferrara – Aprile 2025

Vite di carta /
Anno 2025: quanta povertà

Vite di carta. Anno 2025: quanta povertà

Palazzo Naselli Crispi, sabato 5 Aprile: Monsignor Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, sta esponendo il recente Rapporto sulla povertà di Caritas Italiana e vengono i brividi a sentire certi numeri e a condividere le relative riflessioni. Il titolo del rapporto, Fili d’erba nelle crepe, mi pare indicativo dell’opera che svolge la Caritas a livello nazionale.

A fine mattinata alla Caritas Diocesana verrà assegnato il Premio Stampa 2025, a cura della Associazione Stampa Ferrara che celebra i 130 anni dalla fondazione.  Nel seminario che precede il momento della premiazione, intanto, viene posto al centro del dibattito cittadino il tema delicato delle vecchie e nuove povertà e il ruolo svolto dalla informazione.

Nel primo dei quattro interventi previsti tocca a Monsignor Perego fornire le cifre e fornirne una prima lettura critica: un dato nazionale vale per tutti e riguarda il numero record di famiglie, oltre due milioni e duecentomila, che vivono in condizioni di povertà assoluta.

Segue l’ intervento di Monsignor Massimo Manservigi sulla attività svolta dalla Caritas di Ferrara dalla sua fondazione nel 1973 a oggi, nel ricordo particolare di Don Paolo Valenti. Non poteva mancare, conoscendo le sue competenze in fatto di cinema, un bel video che mostra il lavoro quotidiano dei volontari.

Don Marco Pagniello, Direttore della Caritas Nazionale, presenta subito dopo l’importante progetto di microcredito della Caritas per il Giubileo, Mi fido di noi, in sostegno delle persone e delle famiglie in difficoltà.

Mi colpisce la coppia di parole esclusione finanziaria, ne afferro al volo la portata e la aggiungo alle altre di cui sto sentendo parlare nella galassia lessicale della povertà. Papa Francesco chiama “lavoro povero” quello che non garantisce di vivere decorosamente a un 8% di lavoratori.

Figuriamoci quanto debbano pesare gli altri elementi che determinano la povertà, intermittente o costante che sia. Assoluta o relativa. Associata a povertà culturale, a sfiducia e depressione, attaccata a una percentuale in paurosa crescita di bambini e di anziani soli, di stranieri, di persone che non hanno una dimora fissa o hanno condizioni abitative precarie.

Mentre ascolto l’intervento conclusivo del giornalista economico Matteo Nàccari e recepisco le difficoltà in cui si dibattono molti gruppi editoriali negli anni della intelligenza artificiale e sotto la pressione della informazione digitale, realizzo in quali termini anche la qualità dell’informazione vada preservata proprio perché non è esente da rischi. Povera la retribuzione riconosciuta ai precari, ma non solo; a rischio la qualità dei testi prodotti, tra il bisogno economico che impone di puntare sulla quantità e la concorrenza di testi standardizzati creati dalla I.A.

I miei due sogni, essere insegnante e giornalista, in quali mondi mi hanno cacciata. Letteratura mia, soccorrimi.

Riportami la voce atona di Génie la mattache mi arriva dal libro che ho letto in questi giorni. L’ha scritto Inès Cagnati, l’autrice francese di origine italiana morta nel 2007 di cui Adelphi ha recentemente pubblicato due romanzi, Génie nel 2022, Giorno di vacanza nel 2023 e nel 2024 la raccolta di racconti I pipistrelli.

Una scrittrice nata nel 1937 a Monclar, figlia di contadini immigrati dal Veneto nel sud ovest della Francia insieme a migliaia di altri italiani in fuga dalle persecuzioni fasciste e senza lo sbocco dell’America in seguito alle politiche migratorie transoceaniche restrittive.

Génie la matta è il suo secondo romanzo, uscito in Francia nel 1976 e solo da poco immesso nel panorama della narrativa italiana con la traduzione dal francese di Ena Marchi. Le recensioni che ho letto esprimono l’intensità dell’impatto.

Il libro ha una scrittura essenziale e scabra e racconta il dramma di una bambina: potrebbe chiamarsi Nedda, come la protagonista della celebre novella verghiana, e invece si chiama Marie. In una natura bellissima e spietata, Marie vive esclusa dal villaggio con sua madre Eugénie, che tutti chiamano Génie la matta.

Vittima di uno stupro, Génie è stata ripudiata dalla famiglia, “la migliore famiglia del paese”, dopo che ha dato alla luce la bambina concepita da quell’abuso. Vive con la piccola in una casupola sperduta e si chiude nell’isolamento e nel silenzio. “Non ho avuto niente, io” è ciò che ripete spesso Génie la sera, prima di coricarsi sfinita dalla giornata di lavoro nei campi. Nel microcosmo crudele del villaggio e delle fattorie attorno fatica dall’alba al tramonto per un po’ di cibo e qualche abito dismesso con cui nutre e ricopre sé stessa e la figlia.

Marie la ama visceralmente. La segue come può di giorno, quando non è a scuola. La aspetta di sera lungo il sentiero della casupola, costantemente terrorizzata di non vederla tornare. Una madre anaffettiva ma adorata è tutto quello che Marie possiede per attraversare l’infanzia.

Nella storia di entrambe, narrata pagina dopo pagina con lo stile segmentato di Inès Cagnati, con frasi ripetute e immagini che tornano ossessive, non c’è possibilità di riscatto. Nessuna via di fuga verso le felicità che potrebbero realizzarsi: avere la compagnia di un animale, trovare un compagno che conosce terre bellissime in cui andare a vivere, essere oggetto di amore in seno a una famiglia.

Per fortuna, la letteratura pare farsi più alta quando dà voce allo straniamento di lingua, cultura, classe sociale e genere, come è stato per Inès Cagnati da bambina. Quando trova le parole per accedere a squarci di verità e bellezza.

Nota bibliografica:

  • Inès Cagnati, Génie la matta, Adelphi, 2022
  • Inès Cagnati, Giorno di vacanza , Adelphi, 2023
  • Inès Cagnati, I pipistrelli, Adelphi, 2024

Cover: foto dell’autrice presenta i relatori del Seminario “Vecchie e nuove povertà: il ruolo dell’informazione” – Ferrara, Palazzo Naselli Crispi, 5 Aprile 2025. Da sinistra il moderatore Alberto Lazzarini, vice Presidente dell’Ordine dei giornalisti E.R., Matteo Nàccari, giornalista economico, Mons. Gian Carlo Perego, Don Marco Pagniello e Mons. Massimo Manservigi.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Il Cuore e la bottiglia, di Oliver Jeffers

Isolarsi per un grande dolore non è mai la soluzione. Il Cuore e la bottiglia, di Oliver Jeffers, edito da Zoolibri, ci spiega il perché.

Il libro “Il cuore e la bottiglia” di Oliver Jeffers è una storia commovente e malinconica che affronta i temi dell’affetto e della perdita.

La protagonista è una bambina curiosa che si incanta davanti ad ogni nuova scoperta e pone mille domande sul mondo. Condivide allegramente le sue scoperte con una persona a lei molto cara, un adulto speciale. Dalla bellezza del mare ai colori dei disegni.

Un giorno, però, nel buio di una notte triste, trova la sedia di questa persona vuota e, persi ogni slancio e curiosità, il dolore la porta a isolare il suo cuore in una bottiglia per proteggersi. Meglio mettere il cuore in un posto sicuro, legandosi quella bottiglia al collo e non farlo più uscire. Almeno per un po’. Meglio smettere di prestare attenzione al mare e dimenticarsi del cielo e delle stelle.

Tuttavia, questa soluzione mostra presto i suoi limiti, poiché la bambina non riesce più a osservare il mondo con lo stesso stupore e meraviglia del passato. Nulla è più come prima. Fino a quando arriva qualcuno di più piccolo e ancora più curioso…

Il libro esplora, con delicatezza e dolcezza, il legame speciale che si instaura tra i bambini e certi adulti, e come la perdita di una persona cara possa influenzare profondamente la vita di un bambino che cresce.

Con delicatezza e tenerezza, Jeffers ci parla di come tornare a tirare fuori il nostro cuore, di come liberarlo e non isolarlo più per ritrovare la meraviglia per tutto ciò che, nella sua infinita bellezza, ci circonda. Semplicemente.

 

Dopo l’alluvione: firma la petizione per salvare il Mugello

Dopo l’alluvione: firma la petizione per salvare il Mugello

Francesco Tagliaferri, Sindaco del Comune di Vicchio, tra i più colpiti durante l’ultima ondata di maltempo, ha dichiarato che il territorio è in una situazione straordinaria e che è urgente che il Governo riconosca lo stato di emergenza nazionale: “La situazione a Vicchio e in Mugello è sotto gli occhi di tutti: alluvioni. frane e pezzi di territorio che non ci sono più, strade dissestate, cittadini isolati. Siamo stati duramente colpiti: territorio, cittadini, aziende agricole, imprese e realtà produttive. I danni sono ingenti, incalcolabili al momento, siamo in ginocchio.”

Il Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali liberi, Coalizione Ambientale TESS Transizione Energetica Senza Speculazione, si associa al Sindaco nella sua urgente e accorata richiesta dello stato di emergenza e si appella a tutte le Istituzioni perché si fermi la cementificazione dei crinali di Monte Giogo di Villore Corella, Vicchio e Dicomano, per l’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore, ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi.

I crinali fragili e franosi, se deforestati e cementificati, rappresentano un disastro ambientale che porta visibilmente ad una catastrofe i cui danni non sono controllabili né calcolabili. Inutile e tragico invocare l’emergenza dopo, quando non si è più in grado di fare le scelte giuste atte a prevenire i danni alla collettività.

Nei giorni del 14 e del 15 marzo il Mugello è andato sott’acqua.

Alluvione-crinali-coperti-da-cemento
Alluvione-frana-Villore
Alluvione-crinale-con-plocche

La Sieve che attraversa la valle è esondata e i torrenti sono tracimati; la viabilità principale interrotta in più punti e le linee ferroviarie ferme.

Infrastrutture sono franate lasciando isolate abitazioni e interrompendo collegamenti viari.

Abitazioni, aziende, centri commerciali, campi agricoli e campi sportivi alluvionati, veicoli danneggiati.

Frane ovunque, ben visibili anche ad occhio nudo sull’Appennino mugellano.

In molte abitazioni è mancata l’elettricità, anche l’acqua, perché gli impianti hanno riportato criticità a causa dell’alluvione.

Il Mugello mostra in questi giorni la sua estrema fragilità e vulnerabilità.

Dai crinali scivolano smottamenti e frane, fiumi di fango e acqua si riversano rapidi, impetuosi e veloci a valle alimentando i corsi d’acqua.

I crinali boscati dell’Appennino Mugellano sono soggetti a tutele e vincoli perché data la loro natura fragile e instabile, non franino a valle, causando morte e distruzione.

I vincoli paesaggistici esistono per la sicurezza del territorio e della popolazione, per fini ambientali e culturali, che hanno rilevanza turistica e ricaduta sociale ed economica. Non sono inutili lacci e vincoli, come vengono troppo spesso definiti, da chi orbita negli interessi degli speculatori.

A Vicchio si contano oltre 30 frane, 11 sfollati e 32 persone che sono rimaste isolate. Molte imprese sono state sommerse dall’acqua e dal fango.

E’ esondato il torrente Arsella nella zona del Mulino e si è prodotta una frana sulla strada per Rupecanina, oltre a varie altre frane e smottamenti.

Il Sindaco lancia un appello alle Istituzioni per la richiesta dello stato di emergenza nazionale.

A Ponte a Vicchio la Sieve è esondata allagando le abitazioni e la zona artigianale all’ingresso del Paese.

A Corella e a Villore, territori del Comune di Dicomano e Vicchio, frazioni interessate ai lavori per l’impianto industriale Monte Giogo di Villore, si sono verificati numerosi eventi franosi.

Sulla  strada da San Bavello a Corella movimenti franosi per i quali la strada è stata chiusa per alcuni giorni e la circolazione è stata deviata da Pruneta a Corella.

A Villore sono state evacuate 6 persone dalla loro abitazione; si sono verificate numerose frane segnalate sia sulla viabilità principale che secondaria di accesso alle marronete dove una  frana ha ostruito il passaggio verso le marronete del Solstretto che, già dal maggio 2023, hanno segnalato una frana a meno di 800 metri dal luogo dove il Progetto prevede un’enorme torre eolica di 170 metri (alta come due Campanili di Giotto uno sopra l’altro) e un ampio basamento di cemento armato e fondazioni prossima alla rete idrografica del torrente del Solstretto che alimenta l’acquedotto pubblico comunale di Vicchio.

La drammatica situazione del Mugello e dei territori interessati al Progetto eolico ci conferma nel richiedere l’urgente tutela del Monte Giogo di Villore dalla cementificazione di grandi opere per la realizzazione dell’impianto industriale eolico che comportano deforestazione, declassamento e degrado di preziosi ecosistemi naturali a siti industriali, causa di erosione e consumo del suolo e di grave conseguente dissesto idrogeologico.

 Gli eventi attuali ci consegnano visibilmente e indiscutibilmente un Appennino instabile, fragile e franoso i cui crinali devono rimanere boscati, non modificabili, soprattutto non industrializzati, a tutela degli ecosistemi naturali, delle comunità montane e della popolazione a valle.

Per tali motivi vi invitiamo

a firmare subito la Petizione per salvare il Monte Giogo di Villore sui confini del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi al seguente link:

https://www.openpetition.eu/…/fermiamo-la-devastazione…

E per chi non l’avesse già firmata nei giorni scorsi la Petizione della Coalizione Ambientale TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione –

Sventiamo Gli Inganni Nel Disegno Di Legge Della Toscana Sulle Rinnovabili in Unione europea:

https://www.openpetition.eu/%21wzssv

Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali Liberi – TESS Transizione Energetica Senza Speculazione.

In copertina: Mugello, montagna sbancata dall’alluvione

Gli effetti dei dazi di Trump

Gli effetti dei dazi di Trump

Coi dazi sembra sia davvero finita la globalizzazione americana, la delocalizzazione di molte imprese in Cina e altri paesi poveri per fare più profitti, ma che ha reso anche più poveri gli operai americani e quasi completamente dissolto la manifattura in patria. Trump cerca di tornare al passato: far tornare le fabbriche.

I dazi sono calcolati in base al rapporto tra surplus commerciale del singolo Stato con gli Usa (export meno import) e l’import dagli Usa. L’Italia esporta in Usa 76 miliardi, ne importa 22 e il suo surplus è di 54. Se fosse da sola avrebbe un dazio del 24%. Poiché siamo nella UE è di 20. Una formula che avrebbe l’intento di portare il surplus a zero. Come? Facendo tornare molte imprese che se ne sono andate.

Dalla tabella dei dazi si capisce dove è avvenuta la delocalizzazione delle imprese americane: Cina, Vietnam, Cambogia, Messico, Irlanda, India, SriLanka, Bangladesh, Taiwan,...

I dazi dovrebbero fornire circa 500 miliardi di maggiori entrate agli Stati Uniti (80 dalla UE). Secondo le banche d’affari e molti economisti faranno crescere anche l’inflazione (fonte Università di Yale) del 2,3%, circa 3.800 dollari a famiglia e si ridurrà il PIl di un punto nel 2025.
Molto però dipenderà da quanti continueranno ad acquistare merci straniere e quante imprese torneranno. Un azzardo enorme e senza confronti storici.

Per fare un esempio, il parmigiano italiano sale da 44 euro al kg. a 52 (da noi costa 15 euro al kg.), ma se le ditte straniere calano i prezzi, l’inflazione sale meno. Sostituire con beni americani l’agroalimentare straniero di qualità è impossibile, ma per altri prodotti (come le auto) è più facile, anche se per le stesse ditte americane ci saranno aumenti in quanto molti semilavorati provengono dall’estero.

Per questo l’obiettivo vero pare sia riportare più lavoro possibile delle stesse ditte americane negli Stati Uniti. Ciò spiega il calo del 44% in borsa di Nike nell’ultima settimana, ma anche di Apple e molte altre. Un secondo obiettivo è avere delle concessioni negoziali o assicurazioni di acquisto dello stratosferico debito pubblico americano che ha raggiunto i 23mila miliardi e che necessita ogni anno di una sottoscrizione monstre.

La speranza è che altre imprese estere investano negli Stati Uniti pur di vendere e non subire i dazi, bloccando la crescita mostruosa del deficit commerciale salito dai 396 miliardi del 2016 ai 1.130 del 2024, causato dalla globalizzazione americana, ma anche dalle politiche di austerità dell’Europa che da 20 anni basa la sua crescita su export e austerity (contenimento dei redditi, della domanda interna e dell’import).

Se funziona nel medio periodo (non certo subito) ci sarà un aumento dell’occupazione e della manifattura made in Usa, la riduzione del deficit commerciale, del debito pubblico, maggiori entrate. Molto dipenderà dal livello dell’inflazione e se il dollaro si svaluterà, come, peraltro, sta avvenendo, (passato da 1,08 a 1,10 euro).

I dazi nascono dagli effetti disastrosi descritti dal vicepresidente USA J. Vance nella sua autobiografia di successo (Hillbilly, Elegia americana) che racconta le sofferenze degli operai della “rust belt”, la periferia americana colpita dalla globalizzazione e delocalizzazione della manifattura industriale. Questo spiega perché erano presenti operai e sindacalisti all’annuncio dei dazi.

La finanza (borse e Wall Street) non tifa certo per i dazi e hanno avuto un forte calo nei primi due giorni dall’annuncio, ma è curioso che molti (anche a sinistra) tifino per le borse e la finanza che ci “penserà lei a far rinsavire Trump con un bagno di realtà”. Il calo delle borse è una minaccia seria per Trump in quanto molti americani, investendo i propri risparmi in finanza (molto più di europei e italiani), possono avere perdite che incidono sulle assicurazioni sanitarie, i mutui casa, le pensioni.

Nessuno sa davvero cosa succederà nel medio periodo anche perché dazi universali di questa entità sono una novità storica (la legge protezionistica Smoot-Hawley Act del 1930 aveva dazi molto minori). In Europa i paesi più colpiti saranno Germania e Italia che hanno un surplus in USA di 83 e 54 miliardi nel 2024. Molto dipenderà anche dalla capacità di trovare altri mercati. L’Italia nel 2024 aveva già perso (sul 2023) 2,4 miliardi di fatturato in Usa, 3,8 in Cina, 5 in Germania, ma aveva guadagnato altri 12 miliardi di export sul 2023, in quanto era cresciuto verso altri paesi meno “avanzati”: Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Messico, Brasile, etc. e anche in occasione dei primi dazi di Trump del 2018 l’export italiano era cresciuto negli stessi Stati Uniti, a dimostrazione della grande flessibilità dei nostri imprenditori nel diversificare le esportazioni.

Potrebbe quindi essere che alcune previsioni pessimistiche (per Italia: Pil -0,6%, recessione, 60mila occupati in meno, imprese che chiudono; per USA recessione e inflazione alle stelle) si rivelino fallaci. Di certo è che si avvia una nuova fase commerciale nel mondo del tutto inedita in cui c’è minor libero scambio, ma non è detto che ciò incida negativamente sull’occupazione in quanto potrebbe crescere il consumo dei prodotti del proprio paese. E’ anche la prima volta da 30 anni che la “Politica” prende decisioni in contrasto con l’élite finanziaria ed economica che ha guidato la globalizzazione e che puntava sul libero scambio.

L’idea di ritorsioni europee immediate (altrettanti dazi) non è buona, in quanto gli Stati Uniti sono una sorta di “monopsonio” (monopolio dal lato del consumatore), esportano molto meno rispetto all’Europa (10% del loro Pil rispetto, per esempio, al 30% dell’Italia). Il saldo commerciale (export USA meno import da tutto il mondo) è negativo per 934 miliardi, ancor più per le sole merci, mentre in attivo è l’export di finanza e tecnologie digitali (anche verso l’Europa).

Gli effetti della globalizzazione si sono tradotti in una devastazione di intere comunità industriali (Hillbilly…), mentre il surplus di finanza e digitale ha arricchito una ristretta oligarchia di ricchi (passata dai Democratici a Trump) che non sarà molto contenta, da qui il possibile licenziamento, prima che poi, di Elon Musk. E’ sulla base di ciò che il “bullo” Trump piace ai suoi elettori (per ora).

Per l’Europa (se si fosse costruita come Stato federale) sarebbe stata un’occasione straordinaria di accrescere la propria indipendenza, il proprio mercato interno aumentando i salari (a partire dalle fasce più povere), avvantaggiando le proprie imprese, l’occupazione, i redditi, le entrate fiscali e il proprio welfare. Ma questo implica una visione del bene comune e della comunità locale (che usa anche Trump) su base umanistica, egualitaria alla Adriano Olivetti e Jacques Maritain e non individualistica e “funzionale al sistema” come nella cultura anglosassone.

La Commissione europea ha deciso di rispondere ai dazi entro un mese, evitando ritorsioni immediate, cercando di negoziare e rafforzando i rapporti commerciali con altri paesi (Brics inclusi che ora diventano una risorsa) e decidere solo dopo aver visto quello che accadrà.

Si è aperta una nuova era internazionale cui sono in discussione non solo la pessima globalizzazione americana, ma una nuova regolazione dei mercati, le valute di riserva, la sicurezza reciproca e la necessità di creare nuove Istituzioni a livello internazionale di cooperazione e multilateralismo in cui non ci siano solo i 5 Stati vincitori della 2^ guerra mondiale (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Cina e Russia, membri permanenti dell’ONU), ma anche altri (l’Europa dov’è?).

Una fase in cui la via diplomatica è la più saggia per evitare una escalation della guerra commerciale.
L’Europa, in enorme ritardo per farsi Statualità, anziché riarmare i singoli Stati nazionali, potrebbe favorire l’enorme domanda interna europea inevasa (investimenti in infrastrutture, dissesto idrogeologico, politiche di risparmio energetico -dalle case al resto-, salute, scuola,…).

Cover: immagine da The Watcher Post

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La Passione: Il concerto nel mio flusso di coscienza

La Passione – Oratorio Laico-Spirituale
Musica e Pensieri dal Carcere in tempo di Quaresima
Il concerto nel mio flusso di coscienza

Sono seduta su un gradino, c’è tanta gente, tantissima. Chi arriva dopo di me fa una barriera di corpi che non mi permette di vedere l’orchestra. Pazienza. L’importante questa sera non sono gli occhi ma “sentire”.
Inizia il concerto, un’Ave Maria struggente, in questa chiesa affollata, che affascina. Un pianoforte, un violoncello. Rapita dalla musica e dalla voce non c’è posto per pensare che sono commossa dal risultato di una bugia. Un falso storico, una bugia ben orchestrata che è diventata più potente della verità.

Hosanna a daJesus Christe Superstar, potente, gridato. E’ una folla che grida :
Osanna, ehi sanna, sanna sanna oh
(…)Ehi, GC, moriresti per me?
Sanna oh, sanna ehi, superstar!

Parole sul carcere di San Vittore ma non riesco a seguire bene. Testimonianze, rispecchiamenti tra i carcerati e il vangelo della passione

Vincent_Willem_van_Gogh, La ronda dei carcerati

Il sax, un assolo, la chiesa si riempie di un suono caldo, profondo. Poi una voce femminile e il coro dietro lei. Il sax non li abbandona, protettivo.
Un organo?
Osanna!
L’ultima cena…
Testimonianze
E adesso un tenore Nelle tue mani “ Credi in te, in ogni attimo tu potrai scegliere e non dimenticare che dipende da te.”
Forse mi sbaglio, delirio onirico ma il canto mi porta ad immaginare la disumana condizione degli schiavi il riscatto del gladiatore. All’interno di ognuno di noi vi è la possibilità di creare la pace e la felicità, ma anche il potenziale per creare dolore e sofferenza. Da che parte andare?

La punteggiatura è fatta di testi scritti dalle persone detenute.

E Giuda che ritorna nelle letture, misero!

Sascha Schneider – Judas Iscariot, 1923

Una affermazione :“Noi insegniamo ai bambini la nostra morale” ma, ci dice Gaber:
“Non insegnate ai bambini
(…) la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita.”
Violini che si librano e archi come in paradiso.
“Giro, giro tondo casca il mondo” No. Insiste la canzone Giro giro tondo cambia il mondo.

Lacrymosa di Mozart, le lacrime sono anche le mie.

Un violino adesso, che canta dolente: morte, dolore, schiavitù senza redenzione.
In carcere si muore, suicidi che non cessano anzi crescono per la disperazione. Non è il corpo ma la mente che non ce la fa più. Non è fuga, è ricerca di pace, finalmente. Amen.

Un soprano, gorgheggi barocchi, il pubblico è in silenzio, le viole abbracciano consolatorie.
“Misero in croce Gesù”, Barabba vs il re dei Giudei
Ecce homo. Anche noi vogliamo lavarcene le mani?
Batteria insistente, il parlato del coro: “Dio è…” le parole si perdono, rimane l’interrogativo.
La paura del giudizio degli altri.

La tastiera batte i bassi, inizia un blues. La voce solista intona, il coro risponde a bocca chiusa e con ripetuti ostinati.
“Senti la libertà che chiama?
Continuerò ad andare avanti
Mi alzerò”
Poi si cambia ancora, un assolo di chitarra prepara il crescendo, le percussioni lo sostengono “tengo la musica al massimo”
“E il tempo scorre di lato ma non lo guardo nemmeno
E mi mantengo sedato per non sentire nessuno
Tengo la musica al massimo
E volo
Che con la musica al massimo
Rimango solo”

La crocifissione.
E quando il mio corpo morirà
fa’ che all’anima sia data
la gloria del Paradiso.
Amen.
Gesù tra i due ladroni. “Dio mio, perchè mi hai abbandonato”, “Tutto si è compiuto”

Niccolo dell’Arca, Compianto sul Cristo Morto-Bologna, Santuario di Santa Maria della Vita

Canto di donne, lamento di dolore e sconforto.
“Pio Gesù, Signore, dona loro il riposo Pio Gesù, Signore, dona loro il riposo Dona loro il riposo Signore, dona loro il riposo Riposo eterno”

Ancora Bach solenne e tragico come solo i tedeschi e un coro sanno essere.

“Gli stranieri”, il sogno d’oro dei migranti che non porta a vivere onestamente
Adesso si sente nuovamente il violino.

La deposizione, solo un’immagine, Mascagni l’ Ave Maria :Ave Maria! In preda al duol, Non mi lasciar, o madre mia, pietà!
O madre mia, pietà! In preda al duol, Non mi lasciar, non mi lasciar.Dicono:“Nessuno deve finire nella tomba o in carcere”

Mission esplode.
L’orchestra rompe il silenzio con un crescendo, in pochi secondi l’ingresso del coro e l’oboe che tesse commosso l’armonia del brano.
Testi in latino e percussioni tribali, musica coraggiosa, è l’incontro, lo scontro tra due culture: si chiude il cerchio laico-spirituale del concerto.
Vita, castigo,grida, punizione, rabbia, le nostre lacrime, la nostra fede.

Sulla scena:


Ex detenuti, Pazienti SerD, Volontari
Accademia Corale Vittore Veneziani
Coro Amici della Nave
di San Vittore
Coro I Cantori del Volto
Orchestra Antiqua Estensis
Concerto nella Chiesa della Conversione di San Paolo (FERRARA)Solisti
cantanti:
Francesca Cavallini,,Viviana Corrieri, .Raffaele Talmelli,
chitarra: Roberto Formignani,
sax:Roberto Manuzzi,
oboe: Roberto Valeriani,
violino: Paolo Ghidoni

 

 

Nota:
Il flusso di coscienza (noto come stream of consciousness in lingua inglese) è una tecnica narrativa consistente nella libera rappresentazione dei pensieri di una persona così come compaiono nella mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi Consiste in frammenti di pensieri e salti associativi, cerca di catturare la spontaneità e il disordine della coscienza umana, che non segue una logica lineare ma si muove in modo fluido tra ricordi, sensazioni e riflessioni. Si intuisce la correlazione con le libere associazioni nella psicoanalisi.

Cover: Chiesa-di-San-Paolo – Ferrara

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

In bilico

Per certi Versi / In bilico

In bilico

Forse meglio cadere che rimanere in bilico
mi aggrappo all’illusione
non cado
mi lego all’orizzonte marcio della sera
è forse meglio un orizzonte corrotto dagli occhi
che una certezza marcia

corteggiata da un immaginare
che distorce anche l’aria
i colori
la luna

La luna

lei è sola in bilico sul mio sguardo

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

 Cover: da pixabay

La stoffa delle donne /
Carmen Mondragon “Occhi color smeraldo”

Carmen Mondragon “Occhi color smeraldo”

Lei è Carmen Mondragon, in arte Nahui Olin. E’ stata una pittrice, poetessa e modella messicana, considerata la donna più bella di Città del Messico, dove era nata nel quartiere di Tacubaya.
Siamo nel 1893, figlia di un ricco generale messicano, Manuel Mondragon,  progettista del primo fucile semiautomatico della storia. Fu una bambina precoce, dotata di un’intelligenza fuori dal comune, ebbe il privilegio di ricevere una buona educazione scolastica, leggeva i Classici, suonava il pianoforte ed andava a cavallo.

Provocatrice nata, da giovane cavalcava nuda nella tenuta di famiglia al solo scopo di scandalizzare i parenti. Nonostante il suo carattere indomito, a vent’anni si fidanza senta trasporto alcuno, con il cadetto Manuel Rodriguez Lonzano, pur così diverso per carattere e stile di vita. Convoglieranno a nozze ma non sarà il classico “e vissero felici e contenti”. La morte misteriosa di un figlio appena nato, getterà ombre su Carmen, che verrà ingiustamente accusata di infanticidio.

La sua vita da romanzo è appena all’inizio, quando decide di trasferirsi a Parigi, dove convergono gli spiriti migliori della sensibilità creativa, per dedicarsi alla pittura e dove frequenta artisti del calibro di Matisse, Man Ray e Pablo Picasso, che unitamente a celebri fotografi fanno a gara per immortalare la sua bellezza e catturarne la magia dello sguardo.

Anticonformista, libera e consapevole della potenza espressiva che spigionava il suo corpo, nel 1927 presenta nella sua casa-studio di Parigi una scelta di foto di suoi nudi molto audaci per quel periodo, amando dare scandalo nel mostrarsi in tutta la sua conturbante bellezza.  Gli uomini cadevano ai suoi piedi, i più affascinanti bohemien di Montmartre erano letteralmente stregati dai suoi occhi color smeraldo.

Carmen però è una donna irrequieta, curiosa e desiderosa di sperimentare, forse Parigi nel le basta e sente il forte richiamo del Messico, ben più stimolante dell’ambiente artistico del vecchio continente. Riapproda definitivamente ai luoghi d’origine, desiderosa di rinascere a nuova vita. Ed ecco che il destino la porta ad incontrare il vulcanologo, pittore, romanziere e rivoluzionario Gerardo Maurillo, in arte Dr. Atl. Ebbe con lui una passionale e scandalosa storia d’amore, una relazione tormentata, fatta di passione, tradimenti e violente scenate di gelosia. Fu lui a darle il nome di Nahui Olin, che nell’ antica lingua Nahuatl sta a significare il “quarto movimento rinnovatore dei cicli del cosmo” ossia il moto perpetuo, un’energia che irradia luce e la diffonde attorno a sé secondo l’antica cultura precolombiana.

L’epoca in cui si trova a vivere Nahui Olin è il Messico in fiamme dei tumulti operai e contadini, delle rivoluzioni tradite di Zapata e Pancho Villa. L’arte fa da ecco a questi fermenti, uscendo dai musei e dagli atelier, riscoprendo le tradizioni indigene, i muri e le strade si colorano di splendidi Murales, diventando strumenti e testimoni di lotta.  L’arte è concepita per il popolo, sono gli anni di Frida Kalo, Tina Modotti e Diego Rivera. Quest’ultimo immortalò Nahui promettendole “l’eternità in un affresco”.
E’ un’epoca di straordinaria creatività culturale, in cui le donne erano protagoniste della vera rivoluzione. La stessa parola “femminismo” nasce in Messico, quando si formano le prime Ligas Feministas., “non ricordateci tristi: ci siamo divertite, nei nostri giorni luminosi. Abbiamo appassionatamente preso a morsi la vita”.

Dopo aver trascorso una vita di eccessi e provocazioni, iniziò a sentirsi sola, le donne che avevano condiviso con lei la stagione dei tabù infranti e della libertà sessuale, erano volate altrove, Carmen uscì di scena prima della fine dello spettacolo. Si trasferì a Veracruz, armata solo di un cavalletto, di colori e pennelli. Inizia a ritrarre la vita quotidiana dei villaggi, le case umili, i pescatori, le feste patronali, donne e uomini dai volti allegri, cogliendo gli aspetti più semplici e diretti della realtà circostante.

Ben presto si ritrovò avvolta dal tepore di rapporti umani veri e genuini, iniziarono a chiamarla “La Pintora”, la bella pittrice arrivata da Città del Messico. Finalmente Carmen si sta riappacificando con il Mondo intero, assapora la vita lentamente, senza più quella voracità che ne aveva contraddistinto gli anni giovanili. E’ in questo ritrovato clima di pace interiore che un giorno, mentre era intenta a dipingere sul molo di Veracruz, vede scendere da una grande nave da crociera un uomo elegante, impeccabile nella sua uniforme blu oltremare. Grandi occhi scuri, il viso dai tratti marcati, lo sguardo abituato a scrutare orizzonti oceanici.

Era il Capitano di lungo corso Eugenio Agacino, una forza sconosciuta fece incontrare i loro sguardi, gli occhi color smeraldo di Carmen possedevano ancora la potenza di un tempo. Il loro fu un amore intenso, totalizzante e gioioso, che a causa di un destino infausto duro solo cinque anni. La notte di Natale del 1934 il Capitano Eugenio Agacino purtroppo non sopravvisse ad un’intossicazione da ostriche avariate, gettando nella disperazione assoluta la sua Carmen. Da quel momento si aggira per il molo di Veracruz aspettando di veder spuntare la nave del suo Capitano.

Con l’aria di chi ha perso tutto dopo aver posseduto molto, decide di ritornare a Città del Messico, si circonda di gatti, alcuni vivi ed altri impagliati, che accudisce quotidianamente.  Per raccimolare qualche soldo vaga per le strade sonnambolica, dentro un abito logoro, i capelli tagliati alla garçonne, gli occhi color smeraldo “abbastanza grandi da contenere tutto il mare”, avvicinando i passanti e vendendo per pochi pesos vecchie foto in bianco e nero che la ritraevano nuda e bellissima.
La notte la trascorre avvolta in un lenzuolo, nel quale lei stessa ha dipinto a grandezza naturale il suo Capitano, che la cinge così in un eterno abbraccio.

 

Gian Carlo Suar: dalla “Maremma amara” alla Solvay a Ferrara, una storia che attraversa quasi un secolo

Cosa ci rende un paese in crisi demografica e come provare a uscirne

Cosa ci rende un paese in crisi demografica e come provare a uscirne

Di Alessandro Rosina*
Pubblicato da Comune-info il 2 aprile 2025

La transizione demografica si è trasformata in crisi, in Italia, dal 1984. Invecchiate anche le “generazioni abbondanti”, abbiamo pochi potenziali genitori e pochi potenziali lavoratori. Per uscirne, ci sono due strategie, da attuare contemporaneamente.

La transizione demografica

Per un lungo periodo nella storia dell’umanità, fino a poche generazioni fa, il tasso di fecondità è stato attorno o superiore alla media dei cinque figli per donna. Un valore elevato? No, necessario per dare continuità alla popolazione compensando gli elevati rischi di morte. Al momento dell’Unità d’Italia, oltre un nato su cinque non arrivava al primo compleanno e solo meno della metà dei figli raggiungeva l’età dei propri genitori.

Il passaggio dagli alti livelli di mortalità e natalità del passato a quelli bassi attuali è noto come transizione demografica. Si tratta di un cambiamento di coordinate del sistema demografico a cui corrisponde un abbassamento da cinque (e oltre) a due del livello di fecondità necessario per un equilibrato ricambio generazionale. Quando i rischi di morte dalla nascita fino all’età adulta scendono su livelli molto bassi, infatti, sono sufficienti due figli in media per sostituire i due genitori.

I paesi con tasso di fecondità sceso a due figli per donna e stabilizzato attorno a tale soglia tendono a perdere la struttura per età fatta a piramide (molti giovani e pochi anziani) e ad acquisirne una con base e parte centrale simile a un rettangolo. La punta in età avanzata si allarga e si alza, per effetto della longevità, ma la base rimane solida. Questo consente di investire risorse sulla qualità degli anni in più di vita grazie a una popolazione in età lavorativa che non si indebolisce.

Lo stesso risultato si può ottenere anche con un tasso di fecondità che scende poco sotto i due figli per donna, se la riduzione delle nuove generazioni è efficacemente compensata dall’immigrazione.

Da transizione a crisi

La “transizione” (passaggio da un vecchio a un nuovo equilibrio) diventa “crisi” demografica (squilibri crescenti) quando il numero medio di figli scende su valori molto bassi (sotto 1,5) e rimane a lungo sotto tale soglia. In tal caso, gli squilibri nel rapporto tra generazioni diventano sempre più ampi, dato che le nascite, oltre a diminuire per la fecondità molto bassa, vengono depresse dal fatto che i potenziali genitori sono sempre di meno. La struttura demografica perde la sua stabilità con una base che diventa via via più stretta rispetto alle fasce più mature.

L’Italia è in crisi demografica dal 1984, ovvero da quando il tasso di fecondità è sceso persistentemente sotto 1,5. L’impatto del crollo è stato tale che attorno alla metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui gli under 15 sono scesi sotto i 65enni e oltre. Al centro dell’età adulta c’erano però ancora le generazioni abbondanti nate quando il numero medio di figli per donna era sopra a due. L’abbondanza di popolazione in età lavorativa ha portato la politica, anzi la classe dirigente in senso ampio, a sottovalutare la crisi demografica. Ma era evidente che a un certo punto le generazioni abbondanti sarebbero diventate anziane e quelle demograficamente deboli sarebbero entrate in età lavorativa.

Fonte Istat

Quel momento è ora arrivato. Lo scenario però nel frattempo è ulteriormente peggiorato per due motivi. Il primo è che le dinamiche più recenti della fecondità anziché evidenziare una risalita verso e sopra 1,5 figli per donna, hanno visto una nuova diminuzione (da 1,44 del 2010 a 1,18 del 2024).
Il secondo è l’entrata in età riproduttiva delle generazioni figlie della denatalità passata, se così si può dire. La crisi demografica è, infatti, soprattutto crollo dei genitori, sia perché si riduce il numero delle persone in età da esserlo sia perché si riduce la quota di chi lo diventa. Ne derivano ancor meno nascite e genitori futuri.

Due strategie concomitanti

La riduzione dei potenziali genitori è anche riduzione dei potenziali lavoratori. La prima strategia da mettere in atto è quindi quella di consentire alle generazioni che entrano in età adulta e nel mercato del lavoro di trovare condizioni adeguate a realizzare in pieno i propri progetti professionali e di vita.
È un dato di fatto che sulle politiche che favoriscono tali condizioni (formazione professionale e terziaria, politiche attive del lavoro, investimenti in ricerca e sviluppo, costo degli affitti, strumenti di conciliazione tra vita e lavoro) i giovani italiani si trovano in situazioni sensibilmente peggiori rispetto ai coetanei europei. E il risultato è quello di accentuare nel paese non solo squilibri generazionali, ma anche di genere e sociali.

La seconda strategia è l’immigrazione, che consente di rafforzare la platea degli occupati, rispondendo alla carenza di manodopera in molti settori.

Non si tratta di due strategie alternative, ma concomitanti. Da un lato, l’immigrazione solo in parte è in grado di compensare gli squilibri nel rapporto tra popolazione anziana e attiva. D’altro lato, se non migliorano le politiche generazionali e di genere, giovani e donne con background migratorio si troveranno ancor più in difficoltà. I dati mostrano, del resto, una tendenziale convergenza della fecondità dei cittadini stranieri verso i bassi valori italiani.

Dobbiamo soprattutto essere consapevoli che finché rimarrà più debole la condizione delle nuove generazioni e (ancor più) delle donne in Italia rispetto al resto d’Europa, non solo la natalità rimarrà più bassa, ma saranno anche sempre più coloro che sceglieranno di diventare lavoratori e genitori altrove. I recenti dati pubblicati dall’Istat sono semplicemente coerenti con questo quadro.

Alessandro Rosina*
Alessandro Rosina è professore è ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, dove dirige il “Center for Applied Statistics in Business and Economics”. E’, inoltre, Consigliere esperto del CNEL, coordinatore scientifico dell’”Osservatorio giovani” dell’Istituto Toniolo, co-coordinatore di Alleanza per l’Infanzia, membro del comitato di direzione di Osservatorio senior e di Futura Network (ASviS).

LIBERIAMO FERRARA DA HERA
Rifiuti: arriva la Petizione. Firmiamola!

Care cittadine e cittadini di Ferrara,
continua la nostra iniziativa per sostenere la ripubblicizzazione del servizio rifiuti e, successivamente, il passaggio alla modalità di raccolta porta a porta e il dimezzamento dell’incenerimento.

Dopo la campagna di comunicazione, il flash mob realizzato il 22 febbraio scorso davanti allo sportello di Hera e l’importante convegno di approfondimento del 27 marzo, lanciamo ora una petizione online per dare forza a quegli obiettivi. 

La petizione si può firmare andando al seguente link http://www.change.org/Liberiamo_ferrara_da_hera

Vi chiediamo  non solo di sottoscriverla, ma anche di diffonderla a tutti i vostri contatti e promuovere la raccolta firme, via mail, social ( wa e pagine Fb). Pensiamo abbiate presente l’importanza di raccogliere migliaia di firme sotto la stessa, visto che il risultato che raggiungeremo costituirà non solo una verifica del consenso della nostra iniziativa, ma anche la possibilità che l’Amministrazione comunale riveda la propria posizione a favore della gara, e cioè riconsegnare ad Hera la gestione del servizio per i prossimi 15-20 anni.

Inoltre, venerdì 11 marzo dalle 11 alle 12 organizziamo un nuovo flash mob sotto il Volto del Cavallo per dare ancora più forza e risalto alla nostra iniziativa: vi invitiamo ad essere presenti e a far partecipare anche altre persone ( vedi volantino in allegato).

Infine, vi informiamo che abbiamo chiesto all’assessore Balboni, a mezzo stampa e direttamente a lui, che l’Amministrazione comunale organizzi un’assemblea pubblica rivolta a tutta la cittadinanza per discutere sulla politica dei rifiuti e sul futuro della gestione del servizio. L’abbiamo fatto anche perchè, nonostante l’invito che gli avevamo rivolto, l’assessore ha preferito non venire al nostro convegno del 27 marzo. Vedremo la sua risposta e così potremo valutare anche l’interesse che l’Amministrazione dimostra nel coinvolgimento della cittadinanza.

In attesa di una vostra forte partecipazione alle varie iniziative, un caro saluto.

FORUM FERRARA PARTECIPATA
RETE GIUSTIZIA CLIMATICA FERRARA

Brasile tra libero mercato, agrobusiness ed estrattivismo.
Intervista all’ambientalista Antonio Lupo

Brasile tra libero mercato, agrobusiness ed estrattivismo. Intervista all’ambientalista Antonio Lupo.

Il Brasile vive una crisi ecologica ed ambientale senza precedenti e le implicazioni politiche e geopolitiche sono più complicate di quello che appare. Ne parliamo con Antonio Lupo, oncologo ed ematologo ex-aiuto primario all’Ospedale Niguarda di Milano, membro di Medici per l’Ambiente -ISDE e del Comitato Amigos Sem Terra Italia. Ambientalista da molti anni a fianco del Movimento Sem Terra in Brasile, con cui ha avuto esperienza di medicina territoriale; del Movimento La Via Campesina, una delle più grandi organizzazioni contadine e ambientaliste del Sud del Mondo a cui aderiscono più di 200 milioni di contadini e di Navdanya International, organizzazione ecologista e contadina internazionale fondata dall’attivista indiana Vandana Shiva, che si occupa di agroecologia e conservazioni dei semi.

Nonostante la fine di Bolsonaro e la vittoria di Lula ormai due anni fa, come vedi il Brasile oggi?

La situazione in Brasile è difficile e complessa. Il Brasile è un Paese enorme, 850 milioni di ettari, grande 27 volte l’Italia, con relativamente poca popolazione, 203 milioni ( cens. 2022), e con una fortissima urbanizzazione 87,6 % (2022). Nelle megalopoli, le favelas (che non sono le periferie!) sono raddoppiate – dal 2010 al 2022 – da 6mila a 12mila, e nello stesso periodo gli abitanti da 6 a oltre 12 milioni.

Nei primi due anni del governo Lula la grave insicurezza alimentare, che ha colpito 17,2 milioni di brasiliani nel 2022, è scesa a 2,5 milioni, passando dall’8% all’1,2% della popolazione. Il Ministro dello Sviluppo Sociale e della Lotta contro la Fame (MDS), Wellington Dias, ha dichiarato che il reddito è migliorato: “Il reddito di tutte le persone è cresciuto dell’11,5% e il reddito dei più poveri è cresciuto del 38,6%”. La popolazione attiva è di 108 milioni di persone, quella femminile il 43,5% (dati 2023 del Calendario Atlante De Agostini 2025), ma il politologo Valério Arcary ha ricordato che “ci sono 38 milioni di lavori in regola, anche se la stragrande maggioranza di questi sono lavori mal pagati. Ma allo stesso tempo si assiste a un’espansione dell’informalità. Abbiamo già almeno 40 milioni di persone che lavorano nel settore informale”.

Nonostante le grandi distruzioni operate dal colonialismo dall’inizio ad oggi e gli effetti pesanti del riscaldamento globale, il Brasile ha ancora enormi ricchezze naturali, non solo in Amazzonia. Certamente ha un ruolo fondamentale in America Latina nel settore industriale, soprattutto in 3 settori: minerario, manifatturiero e dei servizi agroindustriali. Il Paese sfrutta minerali come ferro, oro, argento, petrolio, carbone, stagno e diamanti. Le più grandi compagnie minerarie del Paese – Anglo American, Vale e Alcoa – sono tutte private e multinazionali. L’unica industria ancora statale è Petrobras, che vuole essere un hub del carbonfossile per tutta l’America Latina, ma il Brasile (come l’Africa) è sotto il mirino dell’estrattivismo minerario e agricolo di tutte le grandi potenze, compreso quelle dei Brics, in primis la Cina.

Il modello BRICS è sicuramente un’alternativa all’unipolarismo atlantista a trazione USA, eppure si basa su export di materie prime contro l’import di tecnologia. E’ veramente una soluzione al modello capitalista ed estrattivista?

Possiamo far risalire al 2010 la nascita dei BRICS, quando il Sudafrica si aggiunse al Gruppo BRIC (Cina, Russia, India e Brasile), allargatosi nel 2024 a vari Paesi – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Dal 1 gennaio 2025 altri 9 Paesi – Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan – sono diventati partner in attesa di ammissione definitiva. Altri 4 Paesi – Algeria, Nigeria, Vietnam e Turchia – sono stati invitati ad aderire. Rappresentano circa 4 miliardi di abitanti, cioè la metà della popolazione del pianeta, su un territorio di 40 milioni di chilometri quadrati. Attualmente i BRICS rappresentano il 41,4% del PIL mondiale, il 37% del commercio globale ed il 40% della produzione petrolifera mondiale.

Non sono sicuramente Paesi né anticapitalisti né sovranisti né anti-globalizzazione: la maggior parte ha un forte estrattivismo di materie prime minerarie (petrolio, gas, metalli, minerali ecc) e agricole che esporta, ma questo non esclude che alcuni di loro abbiano una forte insicurezza alimentare. Per esempio l’India, il Paese con maggior popolazione al mondo, si è classificata al 111° posto su 125 Paesi nell’Indice Globale della Fame (GHI) 2023 e all’ultimo posto della graduatoria mondiale riguardo la malnutrizione “acuta” dei minori: il tasso infatti è del 18.7%. Impossibile definirli “Paesi democratici”, basta pensare alla persistenza delle caste e alla caccia ai musulmani del governo nazionalista-indù di Modi, al regime di Al-Sisi in Egitto o alla teocrazia in Iran. E anche dal punto di vista delle alleanze politiche, non tutti i Paesi BRICS sono anti-USA, ma sono concordi solo sul multipolarismo: ovvero tentare di allentare il giogo del monopolio del dollaro nei mercati e nella finanza, che tutti, più o meno, continuano a subire.

Qual è il ruolo attuale della Cina nei BRICS e soprattutto quale paradigma di sviluppo sta spingendo in Brasile?

A mio parere la Cina non è una democrazia, ma è l’unico Stato-Nazione che “governa”, cioè programma, decide e si relaziona in parte con le sue 22 provincie e le municipalità, pur rimanendo all’interno di una logica di capitalismo di Stato. Il suo ruolo nei BRICS è centrale, anche per rompere la dipendenza dei vari Paesi dal dollaro come moneta dominante, per l’equilibrio tra il suo import dei prodotti dell’estrattivismo minerario-agricolo, soprattutto dai Paesi dell’Africa e dell’America Latina, e l’export e gli investimenti e la fornitura di prodotti tecnologici di vario livello, anche molto alto.

Riguardo al Brasile, basta tenere ben presente che la Cina nel 2024 ha importato 69 milioni di tonnellate di soia OGM dal Brasile: i due terzi dei 92 milioni di tonnellate che il Brasile ha esportato, sul totale di 147 milioni prodotte in quell’anno (solo 52 milioni sono state consumate in Brasile!). E per produrre ed esportare soia OGM, il Brasile – con il maggior consumo di pesticidi a livello mondiale – utilizza più del 50% di tutti gli antiparassitari venduti nel Paese. I prodotti chimici più utilizzati sono gli erbicidi a base di glifosato, ma anche altri prodotti di Syngenta (Svizzera -Cina), Bayer e BASF (Germania) messi al bando in Europa. Vengono usati anche insetticidi come il Larvin, prodotto da venduto da Bayer Brasile, e contenente l’agente nervino e cancerogeno Thiodicarb, non approvato in Europa.

In Brasile su una superficie totale coltivata di 88 milioni ettari, 44 milioni di ettari sono utilizzati per coltivare soia OGM, soprattutto in Amazzonia, nel Cerrado e nel Mato Grosso di Blairo Maggi, il re della soia. Nel 1992 la soia rappresentava circa l’8% dei raccolti del Brasile. Nel 2022 si sono prodotte 120 milioni di tonnellate di soia all’anno su 40 milioni di ettari, con un raddoppio della terra utilizzata rispetto al 2008, 21,2 milioni di ettari, e un aumento di oltre 10 milioni ettari anche rispetto al 2015. Il Brasile è uno dei pochi Paesi che esporta in Cina molto più di quello che importa, con un saldo decisamente positivo: fino a 43,4 miliardi di dollari nel 2021.

Attualmente Brasile e Cina stanno collaborando anche per progetti e di produzione e utilizzo in Brasile di trattori e biofertilizzanti già prodotti e utilizzati in Cina.

Lula è sicuramente un anticorpo al fascismo e all’imperialismo USA nella regione, ma non ha una cultura contadina e ciò si vede anche nelle sue posizioni sugli accordi di libero scambio tra UE e Mercosur. Cosa sta succedendo?

Lula (Presidente dal 2002 a fine 2010 e dal 2023 ad oggi) è stato operaio metalmeccanico, sindacalista e tra i fondatori del PT (Partito dei Lavoratori) nel 1982. Ha vissuto sempre in città, ma era sensibile ai problemi della fame del popolo e della realtà della produzione agricola: uno dei suoi primi atti da Presidente fu il meraviglioso programma “FAME ZERO”, che andò ad esporre all’ONU. Nel maggio 2010, il Programma Alimentare Mondiale (PAM) delle Nazioni Unite ha conferito a Lula da Silva il titolo di “campione del mondo nella lotta contro la fame”

I negoziati tra l’UE e il blocco commerciale del Mercosur (che comprende Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay) sono iniziati nel 2000 e si sono conclusi a dicembre 2024, firmati anche da Milei, il Presidente fascista ed anarcocapitalista “trumpiano” dell’Argentina. L’accordo Mercosur è contrastato dai movimenti popolari dell’America Latina, compreso l’MST, da alcuni Stati europei, che temono l’export dell’agrobusiness brasiliano (carni bovine ecc.), ma anche da Via Campesina Europea, il movimento ecologista di piccoli contadini europei che fa parte di Via Campesina Internazionale, il grande movimento mondiale di 200 milioni di piccoli contadini. Alcuni governi europei, come la Francia, si oppongono al Mercosur per protezionismo, l’Italia della Meloni è ambigua, pensando di promuovere i prodotti made in Italy, ma i piccoli contadini sanno bene che il Mercosur è una vittoria dell’agrobusiness e della grande distribuzione, che strozza i piccoli contadini, come fa da moltissimi anni il Parlamento Europeo e la sua politica, con la PAC, che finanzia per l’80% i grandi produttori, l’agrobusiness e obbedisce ai produttori europei di pesticidi.

Lula probabilmente lo ha firmato anche per cercare una sponda in Europa e per sottrarsi in parte al dominio degli USA, che ha hanno sostenuto il golpe e il governo del fascista Bolsonaro, ma questo non inverte l’espansione dell’agrobusiness in Brasile e in tutta l’America Latina. Dobbiamo tenere ben presente che in Brasile Lula è Presidente, ma la maggioranza dei due Parlamenti è anche adesso del centro e della destra di stampo neoliberista. Nell’attuale governo di Lula ci sono un Ministro dell’Agricoltura Carlos Favaro, ex allevatore, legato all’agrobusiness da sempre, mentre Paulo Teixeira è il Ministro dello Sviluppo Agrario e dell’Agricoltura Familiare ed è del PT. Insomma un caos enorme!

Per quanto Lula abbia annunciato la riduzione della deforestazione e serie politiche ambientali, purtroppo il Prè-Sal continua ad esserci e l’Amazzonia continua ad essere falciata per lasciar spazio a monoculture intensive in mano a multinazionali che portano con sé l’uso intensivo di pesticidi (tra cui il glifosato), allevamenti intensivi, emissione di gas-serra, farmaco-resistenza ai fitosanitari a cui inevitabilmente la Natura reagisce. Qual è la situazione oggi?

La deforestazione in Amazzonia in questi 2 anni di governo Lula, con l’obiettivo “deforestazione zero entro il 2030”, al fine, tra l’altro, di tenere “stoccate” 6 miliardi di tonnellate di CO2 (una quota superiore alle emissioni annue degli Stati Uniti) è diminuita del 30,6% rispetto al 2023 e del 45,7% rispetto al 2022. in Pantanal del 77,2 e nel Cerrado del 48,4% nel 2023 rispetto al 2024. La vera sfida, per il Brasile che mette al centro l’ambiente, sarà poi nel conciliare gli obiettivi di conservazione con i piani decennali per la “reindustrializzazione” del paese.

Recentemente, tra le comunità indigene di Mato Grosso e del Pará è dilagata la protesta contro la costruzione della ferrovia EF-170 o “Ferrogrão” (detta anche “ferrovia della soia”, per l’uso commerciale a cui dovrebbero essere destinati i quasi mille chilometri di infrastruttura), per la quale si stima la distruzione di 25mila ettari di foreste pluviali tra i bacini dello Xingu e del Tapajos. I problemi più gravi e importanti sono la siccità, gli incendi, il 98% appiccati da allevatori di bestiame per disboscare le foreste, e il degrado, che colpisce già un’area tre volte più grande di quella afflitta dalla deforestazione.

Il Brasile è il più grande esportatore al mondo di carne bovina. Gli allevamenti intensivi e i macelli industriali sono inoltre responsabili di oltre l′80% della deforestazione del suo territorio. Il WWF afferma che un quinto (17%) della carne bovina importata in Unione europea dal Brasile è legato alla deforestazione illegale. L’Italia, con oltre 1 milione di tonnellate, è il primo importatore europeo di carne bovina dal Brasile, utilizzata anche per realizzare prodotti come la bresaola della Valtellina IGP.

In Brasile le principali fonti di energia sono: energia idroelettrica, petrolio, carbone e biocarburanti, oltre ad altri utilizzati su scala ridotta, come il gas naturale e l’energia nucleare. Il 75% dell’energia elettrica prodotta in Brasile proviene da centrali idroelettriche, che rappresentano il 42% della matrice energetica brasiliana.

Il Pre-Sal è un altro problema enorme. La Petrobras scoprì il Pre-Sal nel 2006, con cui il Brasile aprì un nuovo capitolo nella sua storia energetica., diventando uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. Il Pre-Sal ha raggiunto a settembre 2024 l’81% della quota di produzione nazionale di petrolio, con il record di 3,6 milioni di barili prodotti al giorno.
Ma dov’è il Pre-Sal? L’area è stata definita da un poligono di 149 mila km², tra gli stati di Santa Catarina e Espírito Santo, che comprende gran parte dei bacini di Santos e Campos, i maggiori bacini produttivi del Paese. Il giacimento di petrolio si trova in acque molto profonde, fino a 7 mila metri sotto la superficie dell’acqua. Evidentemente il Pre-Sal è una orribile violenza al mare e agli oceani, che sono il 70% della superficie del globo, che assorbono i gas serra con il fitoplancton, contrastpetrolioando il surriscaldamento globale di origine antropica, cioè sono i veri padroni del Pianeta, insieme all’atmosfera. Lula da sempre è stato favorevole al Pre-Sal, come motore dello sviluppo in Brasile e America latina e l’anno scorso si è dichiarato favorevole anche all’estrazione Lula al largo dell’Amazzonia, di fronte le coste dello Stato di Amapá, scontrandosi con la posizione di Marina Silva e il Ministero dell’Ambiente, che ha invece espresso “preoccupazione” per i possibili rischi ambientali.

Dal 8 al 11 maggio 2025 … UTOPIE IN MOVIMENTO

Dal 8 al 11 maggio 2025 si svolgerà on-line il Decimo Simposio Internazionale del Centro Mondiale di Studi Umanista dal titolo UTOPIE IN MOVIMENTO – Cammini verso la Nazione Umana Universale.

Parteciperanno oltre 110 relatori e tavole rotonde da tutto il mondo con un’assistenza prevista di 2.500 persone. Oltre alle attività on-line si svolgeranno sessioni presenziali in 14 luoghi in Europa e nelle Americhe il 10 e l’11 maggio 2025.

In Italia la sessione presenziale si svolgerà il 10 maggio 2025 al Parco di Studi e Riflessione di Attigliano (Terni) sul tema Oltre la vendetta con la presenza di Gherardo Colombo, Marcello Bortolato, Luciano Eusebi, Stefano Tomelleri e altri.

Vedi tutto il Programma

Oltre a comprendere in profondità la crisi che stiamo vivendo,  il Decimo Simposio  vuole essere d’ispirazione per delineare possibili traiettorie future che possano guidarci oltre il limite imposto dalla cultura dominante e verso un reale cambiamento in campo personale, sociale, culturale e sociale.

Partendo da sogni e visioni di utopie possibili, la sfida sarà quella di aprire spazi inesplorati, ispirandoci alle esperienze profonde e comuni che hanno permesso all’umanità di evolvere nel corso della storia. In questo modo gli elementi più evoluti delle diverse culture saranno la base della prima civiltà planetaria della storia umana.

Quali immagini possono guidare questo processo?

Quali esperienze permettono agli individui e ai popoli di tentare il cammino della riconciliazione e della resistenza alla violenza?

Quale mito può dare lucidità e forza a queste immagini?

Quale tipo di spiritualità può dare profondità, significato e permanenza a questo nuovo capitolo della storia?

Come portare questo proposito nel cuore delle generazioni creative e di quelle oggi in preda alla disperazione?

Nel momento storico attuale, in cui le possibilità di un orizzonte futuro sembrano chiudersi, il Simposio si propone come uno spazio costruttivo e creativo per ispirare una società aperta al futuro, nonviolenta e solidale: una Nazione Umana Universale.

Instagram: @simposioumanista
Facebook: @simposiointernazionale

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Iscrizione gratuita

Parole a capo
A Forlì nella cornice della VERNICE: «Viaggi di versi»(1)

A Forlì nella cornice della VERNICE: «Viaggi di versi» (1)

Nella cornice affollata della 22a Edizione di “VERNICE – Art Fair alla Fiera di Forlì, allo stand dell’artista ferrarese Isabella Guidi, l’Associazione Culturale Ultimo Rosso ha realizzato il Reading poetico “Viaggi di versi”. In esordio, pubblichiamo due “fogli di Bretagna” di Isabella Guidi tratti dal suo libro “Avrei voluto dire… “Bonjour Ms. Gauguin!“(Edisai Srl – Ferrara, 2020). I quadri esposti alla Fiera “parlavano” di un viaggio dell’artista in Bretagna. Segue un primo gruppo di poesie lette durante l’evento.

E’ proprio quando
il vento si sente e si vede
malgrado l’oscurità
che immagino.
Immagino il bosco piegato indietro
l’oceano che soffia.
Immagino la terra pettinata
e il granito liscio delle rocce.
Immagino i pensieri
che sbattono ovunque senza sosta.
Poi
quando si ferma
il vento
l’aria torna calma
e il bosco si riposa

Penso all’onda lunga delle alghe
E Vedo l’albero rosso.

*

Cammino con il cuore

mentre i piedi battono
il respiro scende verso la spiaggia.

L’onda.
La prima raggiunge il piede

la seconda si infrange vicino agli occhi
la terza mi trascina al largo.

L’anima
come un relitto
preda del vento e della marea
dà un ultimo sguardo
al verde chiaro in cima alla scogliera
e poi
si abbandona.

*

 

FIORI NEL DESERTO

Ed ora cosa accade
tra le rocce…un fiore,
un ciuffo d’erba,
nonostante il caldo,
annunciano la vita:
la notte li ha nutriti.

Deserto verticale
appare intorno, ci

sembra scomposto, ma
nasconde la speranza.

Il divino si manifesta qui con
la parola che salva, con ordine…
Da quell’anfratto ogni
azione diviene per noi preghiera.

(Cecilia Bolzani)

 

*

 

ROTTA DRITTA

tra gli sterpi pieni d’insetti
ripulisco gli occhiali d’osso
mentre le colline
donano latte a vuoto.
ma cos’è questa fertilità
senza committenza…
o forse è un ambiente
troppo lontano
oltre i tropici incrociati
perché impotenti
e incapaci di scegliersi
le parti?
occasione di svago
storpiata dal giorno
mentre la notte
ti coglie all’equatore
incerto
se andare verso il Baltico
o sulla notte
di Magellano.
Ma chi m’aiuterà
a costruire una barca
non legata,
non levigata
dalle miserie
di questo tempo?

(Pier Luigi Guerrini)

 

*

 

CAMMINO

e non so
dove arrivi la strada
né quanto tempo duri.
Cammino
con un riflesso d’oro
nel cuore
e il faro di occhi ridenti.
Cammino
e scorre il mondo
tra spettacolo e miseria
nel respiro
degli affetti più veri.
Ho camminato e camminato
finché
è rimasto solo il cammino.

(Anna Rita Boccafogli)

 

*

 

IO SONO NAVE

Io sono
mille farfalle cieche
che volano alte su giardini di carta
sono
il fiocco di neve sulla bocca
che scioglie il gelido alfabeto
sono
la nave leggera sul soffio
che è ombelico all’orizzonte
sono aurora
sono fame
sono l’acqua fonda che inghiotte
sono l’ago perduto della bussola
sono
la donna dalla chioma di sole
e dentro gli occhi di buio
Io sono
le mani giunte a preghiera
nella notte cupa del porto.

(Rita Bonetti)

 

*

 

UN VIAGGIO SENZA VOCE


Racconta il mare
di bottiglie senza messaggi

incastrate tra gli scogli

raccontano gli scogli
di acque in lacrime
e malinconiche onde

raccontano le onde
di viaggi di sale
in abissi senza voce

racconta una voce
nel silenzio di cielo

l’unico che sa la verità

(Maggie – Maria Mancino)

 

*

 

il passato,
un viaggio salato
di lacrime.
Il ritorno,
finito il giorno,
al comodo ascolto
dello stolto
che dentro di noi
ripete consolanti parole
che da sole,
non riporteranno alla memoria
la nostra storia.

(Mariangela Malacarne)

 

(In copertina, foto della Bretagna)

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 278° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Fermati quando devi, riparti quando puoi:
viaggio in bicicletta per gestire l’artrite reumatoide

Fermati quando devi, riparti quando puoi: viaggio in bicicletta per gestire l’artrite reumatoide.

“Sarò ancora capace di viaggiare in bicicletta, in solitaria, con tenda al seguito, macinando chilometri e dislivelli?”

Questa domanda e tante altre mi frullano in testa negli anni duri della malattia pensando a tutti quegli aspetti della vita che amo e che esprimono la mia personalità.

Dopo 4 anni di convivenza con l’artrite reumatoide, 2 trascorsi tra dolore e immobilità e 2 passati a rimettermi in forma, voglio dare, ora, una risposta alla domanda di allora.

Come una catena ben oliata e deragliatori regolati alla perfezione, anno dopo anno, ho ingranato i rapporti giusti e, grazie a medici e professionisti che mi sanno indirizzare e seguire, un farmaco biotecnologico sperimentale, esercizio fisico costante, dieta, terapia forestale, ayurvedica, pazienza, curiosità e perseveranza, rimonto in sella alla mia bici MTB “La Bianchina”, 25 anni lei, 50 io, per girovagare insieme per l’Italia Centrale.

Cinque regioni più una Repubblica: Marche, Umbria, Lazio, Toscana, Emilia Romagna e San Marino, per dormire in tenda, andar per boschi ricchi di biodiversità e biocomplessità, “passare le acque”, pedalar per strade bianche e gustare prodotti tipici…il cicloturismo è una vera goduria.

Ma l’artrite è poco incline al piacere, portata piuttosto per la dinamicità e la suspence: oggi accumulo chilometri di strada e metri di dislivello con facilità e in volata, domani usare le mani per aprire la cerniera del sacco a pelo e uscire dalla tenda in modo dignitoso potrebbe equivalere ad un sudato Gran Premio della Montagna, …e dopodomani? Un mistero!… una tappa sconosciuta avvolta nella nebbia autunnale anche in piena estate…e via così per una vita intera, è una malattia cronica.

Tre mesi di tempo: giugno, luglio, agosto per pedalare, ma anche per riposare e se l’artrite lo chiede: fermarmi e interrompere momentaneamente il viaggio.

Negli ultimi anni, l’artrite reumatoide, sta acquisendo un superpotere: l’invisibilità. I nuovi farmaci la rendono meno invalidante di un tempo e le altre persone ignare, nulla sospettano.

In me vedono una donna magra, con un fisico sportivo, perfino giovanile e con una mente vivace. Ma la malattia continua ad esserci, si devono compiere quotidianamente scelte ben precise per distribuire le proprie forze e non peggiorare la stanchezza cronica fisica, mentale ed emotiva, si fanno i conti con un abilismo continuo e con richieste che alle volte sono troppe.

Perdere atleticità e vivacità è un attimo, è come forare la ruota, inutili toppe, mastice o lattice, rimani a terra.

In questo viaggio, voglio portare visibilità e sensibilizzazione sia alla mia “compagna di viaggio dinamica e invisibile”, sia a quei progetti, servizi e strutture, che permettono che la vacanza sia un diritto di tutti. Lavoro nel campo della disabilità da 27 anni, da 5 nel turismo accessibile, voglio conoscere e studiare certe soluzioni adottate nelle varie Regioni, perché la disabilità non è solo quella motoria, l’accoglienza non è mera ospitalità e la relazione sociale è a monte e a valle delle nostre vite e dei nostri viaggi.

Sono un’attacca bottone patentata, in questo viaggio snocciolerò tutte le mie competenze personali e professionali in merito, preparatevi, siete stati avvisati.

Non so come andrà, quanto sarà dura o piacevole, se arriverò in fondo o meno, ma ripenso che la mia domanda iniziale me la feci a letto, dolorante, confusa e insicura di quello che avrei saputo e potuto fare; ora guardo i miei quadricipiti delineati, le ruote grasse della Bianchina, le borse capienti da riempire e comprendo di essere già on the road.

Cover: Umbria in biciletta – foto life in Travel

CAPELLI CAPELLI CAPELLI

CAPELLI CAPELLI CAPELLI

Avere i capelli, non avere i capelli, pochi o tanti, lunghi o corti, ricci o lisci, un vero dilemma che si presta a diverse soluzioni, alcune concrete e altre interiori. Ad una riflessione superficiale sembra strano che i capelli abbiano sempre avuto un ruolo importante nella vita degli esseri umani, eppur è così. Dall’antichità fino ai giorni nostri questi fili che ci crescono sulla testa sono simbolo di appartenenza sociale, indice di personalità ed espressione del gusto estetico imperante. Sono anche un simbolo di giovinezza e un chiaro segnale di malattia.

“Pierino Porcospino” di Heinrich Hoffmann. 1844 ; Prima edizione italiana: Hoepli, 1882.

Le cure per i pazienti oncologici spesso distruggono i capelli fino a rendere la testa del malato completamente calva. Le acconciature e le parrucche che camuffano tale situazione sono un salasso (il “dio mercato” imperversa anche qui) e i tentativi di smarcare la calvizie come status accettabile, se non privo di fascino, si susseguono con esiti molto più positivi per gli uomini che per le donne.

Sono più i maschi che si rassegnano a non avere i capelli e che riescono a proporre questo without hair come uno status accettabile se non affascinante. Mi vengono in mente a questo proposito il Principe William, Mike Tyson, Jason Statham, Michael Jordan, Floyd Mayweather, John Travolta, Bruce Willis.

Per le donne è più difficile legittimare le calvizie come espressione di fascino femminile e i commenti maschili a riguardo sono poco incoraggianti. Non a caso la modella Bianca Balti, ammalata di cancro, si è presentata all’ultimo festival di Sanremo completamente calva. C’è voluta la sua fama, la sua sicurezza e il suo coraggio per provare a legittimare le calvizie come status femminile accettabile, anzi apprezzabile in una prima serata di RAI 1.

Nel 1997 un sorprendente Niccolò Fabi scrive un motivo che si intitola proprio Capelli. La prima strofa è questa: “Io senza capelli/ Sono una pagina senza quadretti/ Un profumo senza bottiglia/ Una porta chiusa senza la maniglia/ Biglia senza pista/ Un pescatore sprovvisto della sua migliore esca/ Don Giovanni senza una tresca/ Io senza te uno scettro senza re […]”.

Mi sembra che questa canzone esprima bene il rapporto che c’è tra una persona e i suoi capelli. In questo motivo è racchiusa una consapevolezza affatto banale e una capacità di analisi introspettiva non indifferente.  È risaputo che Niccolò Fabi ha una chioma folta, questo probabilmente ha facilitato la costruzione di una immagine corporea in cui i capelli rappresentano una componente imprescindibile.

Interessante quanto l’auto-percezione che uno ha di sé stesso sia significativa e quanto possa condizionare le relazioni umane, non solo quelle occasionali. Il concetto di Sé può essere definito come una struttura psichica centrale che racchiude una serie di componenti personali, consentendo l’auto-definizione. Per questo è fondamentale anche nella costruzione dell’autostima. Sono molti gli psicologi che ne hanno studiato lo sviluppo, tra cui James, Cooley, Mead, Shavelson e Harter.

Mi sembra determinante il fatto che i capelli sono un organo del nostro corpo, un prodotto del follicolo pilifero terminale, un organo specializzato che si trova nello spessore della cute. Sono composti al 95% da cheratina e hanno una struttura complessa, formata da più strati. La parte visibile, lucida e morbida, è biologicamente morta. I capelli crescono dall’unica loro parte viva, cioè la radice all’interno del cuoio capelluto.

È evidente a tutti quanto sia difficile privarsi di un proprio organo e ritrovare una armonia corporea aldilà della mancanza. Certo ci sono organi vitali e organi che non lo sono, ma comunque la presenza o assenza di una componente corporea influisce sulla nostra personale sensazione di armonia. Penso alle velociste che corrono con una sola gamba e con un secondo arto di titanio e, così attrezzate, riescono a vincere un’olimpiade. Non oso immaginare che sforzo fisico e interiore sia stato il riadattarsi alla nuova situazione, ricostruire una immagine armonica di loro stesse.

Tutta la storia umana ci testimonia tentativi, anche balzani, di ricostruire l’armonia perduta, dovuta alla morte dei capelli. Ad esempio, i Vichinghi provavano a resuscitarsi i follicoli cospargendosi la testa di escrementi d’oca. Questo esperimento falliva puntualmente e allora ricorrevano ai noti copricapi in ferro che, ispirati a quello di Odino — Hjálmberi (colui che porta l’elmo) — li hanno resi quelle fenomenali “testa di metallo” che tutti ricordiamo, ignari antesignani della poetica del “capo liscio” che Andre Agassi per il tennis e Mastro Lindo per l’economia domestica, hanno traghettato fino a noi.

E siamo così giunti al tempo dei grandi CEO non piliferi come Jeff Bezos, il cui cranio lucidissimo riflette l’ammirazione del mondo intero, facendolo assurgere al ruolo di Bruce Willis della globalizzazione. Nel caso di Bezos ha vinto la sicurezza di riuscire a fare tutto quello che gli altri uomini fanno coi capelli, senza averli. Anzi di saper fare molto di più.

La prossima estate Jeff Bezos e Lauren Sanchez convoleranno a nozze e lo faranno in Italia. Secondo il New York Post il matrimonio sarà celebrato a Venezia e, precisamente, nelle acque della Laguna a bordo del Koru, lo stesso mega-yacht da 500milioni di dollari su cui nell’agosto 2023 la coppia festeggiò il fidanzamento al largo di Positano con ospiti d’onore eccellenti tra cui Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire, Andrew Garfield, la regina Rania di Giordania, Kris Jenner e Bill Gates. Tutto ciò è un chiaro segnale di status e di appartenenza sociale. Discutibile la tipologia di appartenenza, ma esteticamente ed economicamente vincente.

Mi pare si noti adesso, forse più che mai, la differenza fra maschi e femmine a proposito dei capelli. Facciamo tutti fatica a immaginarci CEO, dirigenti d’azienda, team leader, scienziate che se ne vanno tranquillamente in giro senza capelli, riuscendo a fare di questa mancanza una fonte di fascinazione per il genere soggettivamente appetibile. La psicoanalisi dà una interpretazione molto chiara di questa situazione. Tale disciplina riconosce nei capelli un simbolo molto potente di sessualità, riconducendo la chioma femminile agli organi genitali.

Sigmund Freud accostò l’immagine dei capelli (e dei peli femminili) a quella della tessitura, individuando nella relazione tra le tendenze femminili e la scoperta della filatura, una simbologia inconsueta che interpreta l’invenzione della tecnica sartoriale da parte delle donne come un tentativo inconscio di proteggere la propria sessualità grazie ad un groviglio di fili, proprio come i peli che celano alcune parti del corpo.

L’angoscia legata alla perdita dei capelli da parte di una donna, dunque, potrebbe esprimere la paura inconscia di denudare la propria sessualità e di perderne il controllo, mostrando vulnerabilità. La passione femminile per la moda, l’abbigliamento e per alcune tipologie di tessuto, come il velluto, la lana e la seta (così come per una chioma lunga e voluminosa), sarebbe così da interpretare come un’espressione del senso di sicurezza che tali materiali, coprenti ed avvolgenti, assicurerebbero al corpo e, inconsciamente, alla più profonda intimità femminile.

Non so se sia proprio così, però questa interpretazione ci consegna la consapevolezza che il rapporto con i nostri capelli non è sicuramente banale, che il modo in cui li agghindiamo e li esibiamo è un mezzo attraverso il quale costruiamo un’immagine di noi stessi da proporre agli altri per trovare un intorno sociale accettabile.

Le ballerine di danza classica, i militari, i punk e i metallari sono tutti esempi che ci testimoniano come l’acconciatura dei capelli sia un segnale di status, un modo per riconoscersi all’interno di un gruppo di simili. I capelli si vedono, si possono toccare, disegnare, rappresentare, fotografare senza eccessive invasioni di privacy. Sono fili che ci crescono sulla testa e che si prestano bene alla costruzione di un perimetro sociale da una parte visibile e quindi molto efficace, dall’altra facilmente mutabile e quindi armonico.

Ritornando alla canzone di Niccolò Fabi il ritornello fa così: “Io vivo sempre insieme ai miei capelli, oh-oh/ Vivo sempre insieme ai miei capelli, oh-oh/ Io vivo sempre insieme ai miei capelli, oh-oh/ Io vivo sempre insieme ai miei capelli”.

Il brano è stato scritto da Fabi con Cecilia Dazzi e Riccardo Sinigallia ed è un manifesto della filosofia del cantautore, che utilizza il termine capelli (in riferimento alla propria capigliatura rasta), come simbolo di disobbedienza “pacifica” ai canoni e agli standard. È stato presentato da Fabi al Festival di Sanremo 1997 nella sezione “Giovani”. Pur non trionfando nella manifestazione, Capelli ha ottenuto il Premio della Critica e ha contribuito a promuovere il cantante all’edizione successiva del festival nella categoria “Campioni”.

I nostri capelli sono davvero importanti perché stanno sempre con noi, anche la loro assenza sta sempre con noi. Che ci siano o non ci siano, con la loro presenza/assenza scandiscono il trascorrere dei nostri giorni, anche in termini identitari. Evviva i nostri capelli! La loro consistenza, forma e colore rende più bello il mondo, mentre la loro assenza scatena tendenze volte al ripristino dell’armonia perduta.

Cover: la copertina del celebre Kinderbuch Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann, 1844 ; prima edizione italiana: Hoepli, 1882. Dalla filastrocca: Egli ha l’unghie smisurate / Che non furon mai tagliate; / I capelli sulla testa / Gli han formata una foresta / Densa, sporca, puzzolente. / Dice a lui tutta la gente: /  «Oh, che schifo quel bambino! / È Pierino il Porcospino».

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Una forza che ha cara la vita

Una forza che ha cara la vita

American primitives è la quinta raccolta poetica di Mary Oliver pubblicata negli Stati Uniti nel 1983 e tradotta in Italia nel 2022 da Paola Loreto per la bianca Einaudi con il titolo Primitivo americano.

La lirica di Mary Oliver rientra nel  movimento letterario conosciuto come ecopoetry. Nata nel 1935 a Maple Hills Heights, un sobborgo di Cleveland nell’Ohio, la Oliver ha vissuto a Provincetown, Massachusetts e Hobe Sound in Florida fino al 2019, anno della sua morte.

Oliver è una voce poetica molto apprezzata negli Stati Uniti: il suo pensiero ecologista, erede della migliore tradizione americana partita da Whitman, Thoreau, e proseguita dai poeti della beat generation fino ad arrivare ai contemporanei Mark Strand e Louise Gluck (Nobel per la letteratura nel 2020), ha sempre ricevuto ampi consensi tanto da trasformare le sue raccolte in veri e propri bestsellers, e lei nel « poeta americano di gran lunga più venduto»(New York Times).

Il ritardo con il quale l’abbiamo scoperta qui in Italia è quasi sicuramente dovuto al gusto (e al retrogusto) del panorama poetico nazionale: rivolto più a chi scrive e meno a chi legge (quanti, quanti concorsi poetici!); sempre devoto e ossequioso alle solite chiese chiuse e sempre più auto (auto)-riferito (esibito).

La poesia della Oliver è stata probabilmente considerata troppo semplice, diretta e poco sperimentale per i palati raffinati nostrani i quali, evidentemente, non riescono a vedere nella poesia ciò che la Oliver, così semplicemente, vede e ci fa vedere : «una forza che ha cara la vita [e che] richiede una visione» ( M. Oliver, A Poetry Handbook , Houghton Mifflin Ed., 2024).

È una visione che Paola Loreto, nella sua magnifica prefazione, ha definito dionisiaca:

Primitivo americano è un libro dionisiaco, … un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollata della natura […]. Le poesie [di Primitivo americano] celebrano sensazioni fisiche primordiali come la percezione del pericolo del freddo estremo, o dell’appagamento nel nutrirsi di altra materia naturale che è al tempo stesso diversa e uguale a sé […].

Oliver mette in scena sia la metamorfosi del non-umano in umano – quando, folgorata dalla meraviglia, descrive una cerva che partorisce come una donna bellissima – sia dell’umano nel non-umano, quando descrive se stessa come un orso che rapina un favo di miele o se ne riempie la bocca con una grossa zampa…”

Si avverte nella poesia della Oliver questa forza, che non può essere identificata né catturata, ma che pare esistere allo stesso modo di un… mito e, si sa, il mito è una miniatura di un evento reale o fittizio. Il processo di poetare (creare), riducendo una “cosmologia” alla scala dei propri pensieri e sensazioni, è di fatto un processo di miniaturizzazione: «Potrei mostrarti l’infinito in un guscio di noce», dice Amleto.

Secondo questo criterio il segreto del tempo storico non è rappresentato dal suo scorrere e che, nel trascorrere, il tempo passi fino a diventare passato. No, non è questo. Il vero segreto del tempo è rappresentato dal suo diventare sempre più piccolo, fino a ridursi a un puntino e a rendersi invisibile alla nostra vista.

In questa sorta di prospettivismo, per così dire, mitico, la morte umana non è uno svanire nel nulla, ma il compimento di una necessità:  iniziare una nuova rigenerazione nelle “cascate di un interminabile cambiamento” (“Unending/waterfall of change”). E la Oliver, in ogni suo verso, pare sussurrarci proprio questo, smuovendo ricordi umani e animali, ponendoci in una prospettiva tale da consentire la vista non solo della noce, ma anche dell’universo in essa racchiuso .

In questa revisione del rapporto fra io e mondo, tipica del pensiero ecologista contemporaneo, la vecchia e “catastrofica” prospettiva antropo-centrica lascia il posto a quella eco-centrica e relazionale tra umano e non umano ed è per grazia di tale prospettiva che la Poesia di Mary Oliver manifesta quella forza cara alla vita che potremmo chiamare semplicemente fede.

TECUMSEH*

Sono scesa, non molto tempo fa,
al Mad River, mi sono inginocchiata sotto i salici
e ho bevuto alla sua corrente increspata,
qualsiasi pazzia sia stata c’è una malattia
peggiore del rischio di morire ed è dimenticare
quello che non dovremmo dimenticare mai.
Tecumseh viveva qui.
Le ferite del passato
sono ignorate ma restano attaccate
come i rifiuti impigliati tra i rami gialli,
giornali e sacchetti di plastica, dopo le piogge.

Dove sono gli Shawnee adesso?
Lo sai? O dovresti
scrivere a Washington, e anche allora,
qualsiasi cosa ti dicessero,
ci crederesti? A volte
vorrei dipingermi il corpo di rosso e uscire
nella neve brillante
a morire.

Il suo nome significava Stella Cadente.
Dalla regione del Mad River a nord fino al confine
raccolse le tribù
e le armò ancora una volta. Giurò
di tenere l’Ohio e ci mise
più di vent’anni a perderlo.

Dopo lo scontro finale e cruento, al Thames,
fu finita, salvo che
il suo corpo non si riusciva a trovare.
Non fu mai trovato,
e puoi farne quello che vuoi, dire

che la sua gente venne tra le foglie nere della notte
per trascinarlo a una tomba segreta, o che
si ritramutò in un ragazzino e saltò
in una canoa di betulla e se ne tornò
a casa remando giù per i fiumi. Comunque,
almeno di questo sono sicura: se lo incontriamo
lo riconosceremo,
sarà ancora
così arrabbiato.

* ) Tecumseh (“Stella cadente” o “Cometa fiammeggiante”) fu un capo Shawnee, a cui si deve una strenua resistenza all’espansione americana nell’odierna regione dei Grandi Laghi organizzando una confederazione delle tribù dei nativi nord-occidentali. Nato a Springfield, nell’Ohio, intorno al 1768, morì nel 1813, nella battaglia presso il fiume Thames, in Canada.

E davvero la storia potrebbe essere come una … cometa fiammeggiante, che si riduce a un puntino freddo e buio quando si allontana per rigenerarsi nuovamente in una stella splendente quando ritorna.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/

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Lavoro povero e lavoro ricco, un divario da colmare

Lavoro povero e lavoro ricco, un divario da colmare

 

Negli Stati Uniti quando ci si presenta si fa anche capire quanto si guadagna. Un’usanza che non esiste in Europa e nelle altre culture. In Cina si dice quanti figli si hanno. Gli americani, condizionati da una religiosità calvinista ed evangelica, giudicano le persone in base ai talenti (che si devono tradurre in soldi), premiati dalla “grazia” e, come tali, meritevoli. I poveri hanno così uno stigma: è colpa loro. Il cristianesimo, alla base della cultura europea, non ha nulla a che vedere con questo approccio e si basa su principi di fratellanza, uguaglianza, amore, e rispetto dei poveri. Forse per questo negli Stati Uniti c’è una forte disuguaglianza tra i salari e ancor più tra redditi e patrimoni che si riscontra così intensa solo nei paesi poveri, mentre normalmente più un paese si arricchisce, più le differenze tra i salari si riducono.

La tabella sottostante tratta dal rapporto ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) di fine 2024 mostra i principali indici salariali nei paesi ad alto reddito, medio-alto, medio-basso e basso. L’indice di Palma mostra come esso diminuisce più un paese diventa ricco. Tra i poveri è 5,28, tra i ricchi è 1,44. Così è per gli altri indici (D9 diviso D1, significa il rapporto tra il 9° decile e il 1° -il 10% più povero- nella distribuzione dei redditi). Dal 2008 al 2024 ILO mostra una crescente tendenza nel mondo all’eguaglianza salariale, nel senso che tutti questi indici si riducono per quasi tutti i paesi, ma non per gli Stati Uniti dove il 10% dei lavoratori più pagati aumenta ancora rispetto ai meno pagati. In Europa avviene il contrario e ciò mostra una delle qualità dell’Europa: una crescente cultura egualitaria a favore del fatto che i salari (che hanno differenze anche forti) sono sempre meno sperequati.

Vale anche per l’Italia, la quale però ha visto ridursi i propri salari reali (post inflazione) dal 2008 al 2024 dell’8,7%, mentre tutti gli altri paesi del G-20 (escluso UK, Giappone e Messico) hanno visto una crescita che è stata molto forte soprattutto tra i Brics.

La forte crescita dell’occupazione in Italia dopo il 2021, proprio a causa dei bassi salari, non riesce ad aumentare il reddito netto reale delle famiglie che è infatti sceso da valore 92 del 2019 a 88 nel 2023 (fatto=100 il 2003) e scende anche dal 2022 al 2023, come si può notare dalla figura. (https://www.istat.it/comunicato-stampa/condizioni-di-vita-e-reddito-delle-famiglie-anni-2023-e-2024/)

L’Italia ha subito come Spagna, Portogallo e Grecia due ferite: a) l’allargamento del 2004 che ha fatto entrare nella UE 100 milioni di lavoratori a basso salario dell’est; b) la recessione “americana” di 4 anni dal 2008 al 2012. Come si desume anche da Eurostat (dati non deflazionati) il salario mensile è attorno ai 2.500 euro, lontano dai 3.127 dei tedeschi o 4.582 della Norvegia. Sono cresciuti molto quelli dei polacchi e dell’est Europa. Se la Germania ovest ha aiutato la Germania est, il Sud Europa ha aiutato l’Est. Una conferma viene anche dai dati OCSE che confrontano il 3° trimestre 2024 col 1° trimestre 2021: per Italia e Spagna c’è un calo reale del -7,4% e -4,5%; per Polonia e Ungheria un aumento reale di +7,4% e +12,2%. Maggiori dettagli si trovano anche sull’ultimo Rapporto INPS di settembre 2024 (https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiii-rapporto-annuale.html).

Bisogna però fare alcune precisazioni per l’Italia. I dati ILO considerano la retribuzione oraria contrattuale che in Italia è crollata a partire dal 2020 per la mancanza di rinnovo di moltissimi contratti. C’è anche una buona parte di lavoratori (le nostre 4mila mini-multinazionali a forte export e molte imprese di Lombardia ed Emilia-R., che da sole depositano più della metà dei brevetti in Italia) che hanno salari reali molto sopra il 2008. Qui si parla infatti di media, il che significa che altrove e nelle imprese deboli i salari sono davvero miseri. Una tendenza negativa dell’Italia (con Francia, Regno Unito e Usa) è che i salari dei più pagati (1% e 5% sul totale) sono cresciuti sopra la media, al contrario di quanto avvenuto nel resto d’Europa (dove sono cresciuti meno).

La media salariale non dice inoltre molte cose, tra cui quanti sono quelli pagati pochissimo. Nei 27 paesi europei i “super sottopagati” sono pochi sul totale di chi lavora (Italia 0,9%, max Danimarca con 4,5%, a parte l’Estonia con 10,2%.). Mentre UK con 5,5% e USA con 9,3% mostrano la tendenza anglosassone ad una forte disuguaglianza salariale (a carico di immigrati). Ancora di più sono i sottopagati in Cina (14%). In Brasile sono 6,5% e in Africa 20-30% (fonte ILO, mentre la tabella è fonte Eurostat). Dati utili per capire come sta l’Italia rispetto ad altri, ma va precisato che per Istat a rischio di lavoro a basso reddito sono il 20% (1 su 5).

Tra il gruppo dei 30 paesi ad alto reddito, 19 sono membri dell’UE con un salario minimo legale (Italia esclusa), paesi in cui si applica l’articolo 5 della direttiva UE sui salari minimi (2022/2041) che richiede che gli Stati membri stabiliscano le procedure affinchè raggiungano il 50% del salario medio lordo o il 60% del salario mediano. Questa è l’Europa che ci piace: ancor di più se facesse una analoga direttiva per far pagare le tasse a tutti (anziché riarmarsi).

I paesi a redditi elevati hanno salari molto maggiori di quelli dei paesi poveri. Per poterli raffrontare ILO li trasforma in termini di potere d’acquisto nazionale (ppp). Nel 2021 in un ipotetico mondo senza nazioni, il 10% dei lavoratori coi salari più bassi guadagnava meno di 250 $ USA ppp al mese per un lavoro a tempo pieno, mentre il 10% dei lavoratori coi salari più alti guadagnava più di 4.200 $ USA ppp. I lavoratori mediani guadagnavano 846 $ USA ppp. I lavoratori dei paesi poveri che guadagnano molto sono paragonabili ai salariati dei paesi ad alto reddito che guadagnano meno. Ciò spiega la forte spinta all’emigrazione per es. di un ingegnere indiano o pakistano che pure guadagna molto nel suo paese.

La retribuzione mediana – la cifra sotto la quale sta la metà dei salariati – per i paesi a basso reddito è 201 dollari, quella nei paesi a medio e alto reddito è rispettivamente 630 e 3.333 dollari USA, tutti in termini di ppp. Ciò significa che il potere d’acquisto del lavoratore salariato mediano nei paesi a basso reddito è circa il 6% del potere d’acquisto del lavoratore salariato mediano nei paesi ad alto reddito.

Ma anche nei paesi a medio reddito, il potere d’acquisto del lavoratore salariato mediano è pari al 20% del potere d’acquisto del lavoratore salariato mediano nei paesi ad alto reddito. Le notevoli disparità di reddito tra paesi spiegano l’elevata diseguaglianza salariale nel mondo, la spinta all’emigrazione e le tensioni geopolitiche oggi di Russia e Cina che vogliono “vincere”, sfruttando gli errori degli Stati Uniti pre Trump (e degli Europei) nell’essersi spinti ad “abbaiare” in un modo che oggi appare un grave errore. L’ allargamento ad Est (fino all’Ucraina) ha spinto la Russia a invadere, rompendo (d’accordo con la Cina) l’equilibrio formatosi a Yalta nel 1945. (In attesa che la Russia sia formata da tanti piccoli Stati retti da filosofi e poeti, è opportuno convivere coi desideri di Putin di ampliare la sfera di influenza della Russia  – oltre che all’attuale Bielorussia – anche a parte dell’Ucraina. Questa “spinta” nasce dal fatto che sono storicamente tre le popolazioni slave della Russia: i “Grandi Russi, più numerosi che si insediarono nelle regioni attorno a Mosca; i “Piccoli Russi” o Ucraini, della regione di Kiev; i “Russi Bianchi” o Bielorussi della regione di Minsk).

Con la globalizzazione dal 2006 al 2021 son cresciuti sia il libero scambio che i salari reali nel mondo (ma non in Italia) e la disuguaglianza salariale è diminuita. Il salario reale mediano è aumentato da 525 $ ppp al mese per un lavoro a tempo pieno nel 2006 a 825 $ nel 2021, mentre il livello di disuguaglianza salariale (misurato dal rapporto D9/D1), è diminuito del 28%. Esaminando l’evoluzione della disuguaglianza salariale nella metà superiore e inferiore della distribuzione salariale globale, si scopre che la riduzione complessiva della disuguaglianza salariale è frutto della diminuzione della disuguaglianza nella parte superiore (misurata dal rapporto D9/D5) del 35%. Poiché nei paesi poveri ma anche in quelli a medio-alto reddito la disoccupazione è alta quando si passa dai salariati a tutti i cittadini la quota di persone povere aumenta diventando metà della popolazione. 

E’ tuttavia incoraggiante vedere che la disuguaglianza dei salari (reddito da lavoro) va diminuendo nei primi 24 anni del XXI secolo quasi ovunque. Nei paesi a reddito medio-basso il calo della quota di lavoratori a basso reddito è sceso tra il 4 e l’11%. Nei paesi a reddito medio-alto è sceso tra lo 0,1 e l’11%.

Ovviamente i livelli esistenti di disuguaglianza del reddito da lavoro rimangono inaccettabilmente elevati, così come sono inaccettabili i redditi dei ricchissimi al mondo e il fatto che non siano tassati almeno i grandi patrimoni.

In un mondo futuro, che speriamo sia multilaterale e in pace, i salari più bassi nei paesi poveri dovrebbero aumentare e ancor più se ci fosse un impegno, più che a farsi la guerra, a ridurre ovunque le disuguaglianze. I singoli Stati per aumentare i bassi stipendi, dovrebbero (secondo ILO) favorire la contrattazione collettiva e/o la fissazione di un salario minimo legale, oppure favorire un dialogo sociale tra Stati, sindacati e imprese, per favorire l’eguaglianza, l’equità e la non discriminazione. Di positivo c’è anche che si vanno riducendo le differenze salariali tra maschi e femmine. ILO propone di creare un ambiente favorevole per l’imprenditorialità e le imprese sostenibili, un migliore accesso al credito, un forte sostegno pubblico all’innovazione tecnologica e allo sviluppo delle competenze, istituzioni del mercato del lavoro forti ed efficaci e un dialogo sociale, una tassazione progressiva con sussidi ai poveri. Concetti che sono universalmente accettati da tutte le culture e che l’Europa potrebbe assumere come guida mondiale.

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Autoritarismo: un osservatorio sull’erosione della democrazia in Italia

Autoritarismo: un osservatorio sull’erosione della democrazia in Italia.

Libertà e Giustizia, 27 Marzo 2025

Nasce l’Osservatorio Autoritarismo per iniziativa dell’associazione di cultura politica Libertà e Giustizia e della casa editrice Castelvecchi in collaborazione con docenti e studenti di numerose università italiane, concordi sulla necessità di costituire spazi di analisi, dialogo e confronto sulla trasformazione in senso autoritario della democrazia nel nostro Paese, vista nel contesto europeo e globale.

Di seguito il manifesto costitutivo dell’Osservatorio che lancia tre giornate di studio all’Università La Sapienza di Roma, all’Università Statale di Milano e all’Istituto Universitario Europeo di Firenze.


Per la costituzione di un Osservatorio sull’autoritarismo aperto e permanente

Fino al 1924, scriveva Piero Calamandrei, resse «la generosa illusione della libertà che si difende da sé, come una forza di natura. Non fu «viltà o debolezza, fu disorientamento ed errore di gente onesta e civile» davanti all’insediarsi di «un’anemia critica», di una «stomachevole uniformità di tutti i giornali», di una «ributtante retorica, tracotante e menzognera, penetrata come un contagio», che aveva «reso insopportabile alle persone di buon gusto perfino il titolo di certi giornali».

Nello stesso disorientamento ed errore rischiamo di cadere oggi davanti ai continui spostamenti di soglia che erodono in molti modi lo spazio democratico: con la criminalizzazione del conflitto, l’incattivimento dei linguaggi, la compressione della libertà di espressione e manifestazione; con un’ideologia della sorveglianza che si vorrebbe pervasiva in scuole, università, esercizi pubblici e luoghi di lavoro; con un’ipertrofia punitiva che introduce ogni giorno nuovi reati e fattispecie di reato, per un totale di 417 anni di carcere aggiunti nell’ordinamento giuridico penale nei soli primi due anni di governo dell’attuale maggioranza. Misure che – dal decreto “Rave” al ddl “Ecovandali”, dal ricorso al “reato universale” alla disseminazione di “Daspo urbani” e “zone rosse” – conducono al coacervo di norme passibili di incostituzionalità raccolte nel ddl detto “Sicurezza”.

Ci preoccupano la palese insofferenza dell’esecutivo nei confronti dei limiti che la Costituzione pone all’esercizio del potere; la costruzione di riforme lesive della democrazia parlamentare, della Presidenza della Repubblica, del bilanciamento e della separazione dei poteri, dell’autonomia della Magistratura; l’uso reiterato della decretazione d’urgenza e di norme eccezionali come pratica di governo, fino a superare, con l’introduzione di 84 decreti legge, la precedente legislatura, dove tuttavia due governi (Conte-II e Draghi) si sono trovati ad affrontare la crisi pandemica.

Lo scivolamento da uno stato di emergenza temporaneo a uno stato di eccezione strutturale avviene sulla scorta di una raffigurazione mediatica che crea nemici e capri espiatori tra le persone meno tutelate ed enfatizza la percezione del rischio, giustificando e rendendo senso comune una politica di riduzione dei diritti e degli spazi di agibilità.

Per questo abbiamo deciso, in quanto cittadini, docenti, giuristi, intellettuali, operatori dell’informazione, di dar vita a uno spazio aperto e permanente di riflessione, analisi e testimonianza sulla progressione verso forme autoritarie in Italia, viste nel contesto europeo e internazionale.

Pensiamo a una costellazione di luoghi fisici e virtuali di presa di parola, raccolta documentale, messa agli atti storiografica del tempo che stiamo vivendo, che ci interpella e che ci affida una responsabilità davanti alle manifestazioni degenerative dell’autorità legittima.

Il primo passo saranno tre giornate di studio organizzate da Libertà e Giustizia e Castelvecchi Editore in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, l’Università Statale di Milano e l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, che vedranno come relatori studiosi ed esperti italiani e internazionali, per delineare letture capaci di connettere vari ambiti – storico, sociale, giuridico, costituzionale, culturale, mediatico – e individuare forme di resistenza culturale davanti alla crisi dello Stato di diritto.

In particolare, la giornata di Roma sarà articolata sulla crisi della democrazia rappresentativa, i fondamenti normativi della post-democrazia e la manipolazione della memoria storica nelle forme di populismo autoritario; la giornata di Milano sul rapporto tra sovranità e diritti umani, crisi dello stato di diritto, a-fascismo come progetto di svuotamento della democrazia costituzionale; la giornata di Firenze sulla democrazia al tempo dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi.

L’obiettivo è gettare le basi per la creazione di un archivio che raccolga documenti, materiali, analisi e proposte sulle tendenze autoritarie in atto: dai nuovi scenari posti dall’erosione dei principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà alle espressioni di una società della sorveglianza; dalla distruzione del welfare e delle garanzie del lavoro alla marginalizzazione dei poveri e all’incrudelimento delle politiche migratorie e di accoglienza; dall’avvento in Europa e nel mondo di regimi postdemocratici al progressivo restringimento degli spazi di libertà e partecipazione attiva.

Non pensiamo a un’iniziativa accademica, e nemmeno militante. Pensiamo l’archivio come strumento conoscitivo, apertura di spazi di analisi, formazione e informazione, capace di attivare e rendere accessibile a un pubblico più vasto il dialogo tra specialisti, intellettuali e società civile, con particolare attenzione alle nuove generazioni. L’obiettivo è giungere a sintesi condivise, progettualità, denuncia politica e, quando necessario, giudiziale, nel dialogo con le istituzioni democratiche europee e internazionali che vigilano sullo Stato di diritto.

La democrazia costituzionale, per riprendere Calamandrei, non si difende da sé, ma ci offre gli strumenti normativi per difenderla.

Per adesioni: osservatorioautoritarismo@gmail.com

Osservatorio
 Autoritarismo
Il luogo dove agire insieme per comprendere e fermare il processo di svuotamento della democrazia costituzionale e il progressivo attacco alla libertà di espressione e manifestazione. Sostieni il progetto

È ora di sbellicarsi.
Il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni

È ora di sbellicarsi.
Il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni

Assistere ad uno spettacolo di Alessandro Bergonzoni vuol dire ricevere in dono una quantità sorprendente di nuove parole, di immagini utopiche, di visioni alternative e di stimolazioni intellettuali che predispongono ad un profondo viaggio creativo.

È sempre un’esperienza unica che vorresti ripetere subito dopo essere uscito dal teatro per cercare di recuperare tutto ciò che hai perso per l’enorme quantità di sollecitazioni ricevute.

Il suo giocare con le parole crea situazioni surreali che aprono la mente; il suo continuo inventare e reinventare allarga gli orizzonti; il suo stare in equilibrio tra la realtà e nuovi significati è una scossa per il risveglio della coscienza collettiva.

Oltre ad essere un incredibile giocoliere sintattico, l’attore bolognese è un esploratore di mondi possibili, una guida fantastica verso un futuro più umano.

A proposito del suo ultimo spettacolo “Arrivano i Dunque”, Alessandro Bergonzoni ha detto in conferenza stampa:
I dunque sono quelli che si pone un altrista cioè chi fa teAltro. Questa è un’epoca nuova in cui non c’è più il teatro ma il teAltro: te e l’altro. Infatti non capisco come si riesca a lavorare nell’arte, in tutte le arti, senza l’altro. L’altrista attraverso il tealtro vuole contribuire alla c’realtà, il cui strumento fondamentale è la congiungivite; infatti mentre la congiuntivite fa offuscare l’occhio e non vedere bene, la congiungivite ha invece la visione e ti fa vedere gli offuscati.”.

“Per questo spero proprio che il pubblico smetta di applaudire con le proprie mani e cominci ad applaudire con la mano di quello di fianco per arrivare a quello che io chiamo l’unisono.”.

In “Arrivano i dunque (avannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca), Alessandro Bergonzoni parla di accoglienza, di non violenza, di pace e di carcere, accompagnando lo spettatore verso un importante cambio di prospettiva.

Anticipa che il suo è uno spettacolo escatologico, che parla anche del destino dell’uomo e, non sarà un caso, se lo comincia uscendo da una scatola enorme per poi terminare con lui che ci rientra.

La sua chioma vistosa ed un lungo camicie bianco che indossa per quasi tutto l’atto unico mi ha ricordato il dottor Emmett Brown, lo scienziato pazzo del film “Ritorno al futuro”, interpretato splendidamente da Christopher Lloyd.

Alessandro Bergonzoni si autodefinisce un “pazzo carrabile”, invita a non fare come “le mucche che pensano sempre alpeggio”, osserva che “l’Occidente sta diventando Uccidente”, ricorda che “se si cosparge il capo di cenere, il capo poi ti licenzia”, sottolinea che siamo noi che scegliamo “se decidere o decedere” e suggerisce di iniziare a praticare una nuova disciplina sportiva: “il salto con l’altro”.

Fa riflettere quando, parlando di umanità, dice che è fondamentale non accettare più soltanto la dimensione empatica e la dimensione solidale perché abbiamo bisogno anche e soprattutto della dimensione dell’immedesimazione.

Provoca quando grida: “Tutti dicono: torniamo umani, ma per tornare bisogna prima esserci stati”.

Ricorda Giovannino Perdigiorno di Gianni Rodari ne “Il paese con la esse davanti” quando, tornando dentro il suo “sepolcro” di cartone, conclude il suo spettacolo con una preghiera che contiene l’invocazione inequivocabile a “sbellicarsi” cioè a ridere a crepapelle, smettendo di fare la guerra”.

La comicità unica di Alessandro Bergonzoni, preziosa e terapeutica, riesce sempre a divertire, alimentando la speranza che un futuro semplice possa migliorare questo presente imperfetto.  Questa fiducia in un domani migliore può avvenire soltanto se si crede nella stupenda metamorfosi che può trasformare l’a/spettatore in spettatore e, quest’ultimo, in spett/attore.

Lo spettacolo “Arrivano i dunque”, con la regia di Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi, sarà dal 4 al 5 aprile al Teatro Toniolo di Mestre (VE), il 9 aprile al Teatro Santa Giulia di Brescia, l’11 aprile Teatro Chiabrera di Savona, il 15 aprile Teatro Politeama di Genova e il 17 a Medicina (BO).

Si ringrazia il Teatro Duse di Bologna per la cortese ospitalità.

In copertina: Alessandro Bergonzoni nel nuovo spettacolo “Arrivano i dunque”. Tutte fotografie sono state scattate da Mauro Presini.

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le filastrocche di Mauro Presini clicca sul nome dell’autore.

TABUCCHIANA 4. /
TABUCCHI, UNA POETICA COME AUTORITRATTO

TABUCCHIANA 4.  TABUCCHI, UNA POETICA COME AUTORITRATTO

Gérard Genette apre il suo libro, Seuils, dedicato a tutto ciò che dai margini affianca un testo senza farne direttamente parte, con la riflessione e la casistica che accompagna la ‘scienza dei titoli’, la titrologia. A contare, ci dice, sono la lunghezza, la presenza o meno di una doppia titolazione o di un sotto-titolo, ma anche il momento in cui il titolo appare, la sua funzione, il destinatario…

A dire il vero prosegue con esemplificazioni e distinzioni, ma qui (una volta detto che Tabucchi sarebbe stato per lui un caso più che esemplare per lo studio e classificazione di ogni tipo di paratesto) non mi interessa applicare la logica e i suggerimenti della sua intelligente e produttiva narratologia, ma soltanto riflettere, a partire dai titoli e non solo, su cosa abbia mosso uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento europeo a servirsi continuamente di ‘soglie’.

Per altro personalmente sono convinta che si trattasse di un gioco (ammesso che sia consentito chiamarlo così) non necessariamente ludico (Tabucchi ha insistito più volte nei suoi racconti sulla serietà e il significato esistenziale e formativo del ludus infantile), ma che rispondeva piuttosto alla necessità di non chiudere i sui testi permettendo, a partire dagli incipit, di lasciarli in qualche modo aperti, affidati a segnali, suggerimenti, ipotesi, insomma a un margine di permeabilità che induce il lettore a un  percorso più che a una presa d’atto, mettendolo nella condizione (lui sì, davvero!) di mettersi in gioco.

Chissà che non nasca anche da qui, a parte la suggestione e l’originalità delle storie, l’affezione del tutto particolare che circonda l’opera tabucchiana e il suo autore, e il piacere e le scoperte che ogni rilettura ci offre.

È nota l’attenzione che Tabucchi riservava ai titoli e alle immagini di copertina nella ricerca di una comunicazione che fosse insieme diretta e accessibile, criptica ed evocativa.

Si pensi a sintagmi-titolo che sembrano strappati dalle conversazioni casuali proposte dal racconto proemiale dell’Angelo nero quali si sta facendo sempre più tardi o il tempo invecchia in fretta, accompagnate per giunta, sulle cover, in un caso da un misterioso abbraccio produttivo altrove di congetture e depistaggi, nell’altro da un giovane issato su pericolosi socles à réflexion che di fatto appaiono antifrastici (a meno che non si voglia legarli a una dubbia serenità autoriale) con il titolo che sostituiva un originario e più difficile Controtempo.

Il caso più perturbante e clamoroso, ma forse più significativo per quello che sto tentando di dire è legato all’ultimo, postumo libro di saggi. Per mesi avevo lavorato con Antonio alla scelta dei pezzi e alla costruzione dell’indice con montaggi, smontaggi, spostamenti fino a giungere alla limpida partizione finale che suddivideva i materiali tra Orizzonti, Scrittori, Amici, Cinema, Scrittori di oggi, Commiati, prima di una Conclusione costituita da una lettera auto-indirizzata. A mancare non era che il titolo.

Quando provavo a introdurre il discorso Tabucchi si scherniva rinviando ogni decisione alla fine; per altro da parte mia non era facile insistere, giacché era come dichiarare che ben presto avrebbe potuto non esserci tempo. Mi sono trovata così, poco dopo il 25 marzo del 2012, a consegnare al direttore editoriale della Feltrinelli il libro concluso e approvato dall’autore nel quale spiccava, come clamorosa béance, la mancanza di un titolo.

A guidarci alla sua ricerca (giacché era a noi che spettava ormai intervenire) una frase detta nell’ultima telefonata dello scrittore ad Alberto Rollo nell’annunciare la fine del lavoro. Tabucchi ci invitava a cercare il titolo nel pezzo che in quella raccolta era dedicato a Carlos Drummond de Andrade. Inutile accennare al turbamento e al tremore nello sfogliare quelle poche pagine (che sarebbero diventate poco più di due cartelle a stampa) e all’emozione che ci fece soffermare su un sintagma di Residui: “di tutto resta un poco”.

In un momento clamorosamente segnato dall’assenza emergeva un frammento situato in un luogo dislocato (per giunta quasi alla fine di quel testo), di cui solo due persone erano in prima battuta destinatarie, la cui funzione, travalicando probabilmente necessità e uso, adombrava una sorta di augurio e speranza.

Quelli che affidano alle parole tracciate su carta che trasmettono il risultato di letture e ricerche o che nascono dall’invenzione e dall’insonnia, dalle nevrosi e da sogni ad occhi aperti la possibilità di sopravvivere alla dimenticanza e di lasciare nonostante tutto segni di una durata, tracce di un’esistenza.

Il sottotitolo (Letteratura e cinema), parimenti importante per uno scrittore che di sous-titres faceva ampio uso, deciso, dopo una serie di tentativi, assieme a Maria José de Lancastre, era invece tematico, giacché per un libro di saggi non c’era bisogno di riferimenti al genere o di declinazioni di tipologia.

Perché poi fosse esplicita fino in fondo la convinzione con la quale avevamo accolto il suggerimento dell’autore – un autore che ha disseminato i suoi libri di esergo – assieme a Zè decidemmo di evocarne noi uno, che riportava, nella traduzione di Tabucchi, un ampio stralcio della lirica di Carlos Drummond de Andrade a cui eravamo stati, nonostante la distanza spazio-temporale, condotti.

Come definire allora il paratesto di quel libro? quale peso dare al titolo dell’ultima sezione, quello sì autoriale, che esplicitava dall’interno, rivolgendosi e ricordando amici scomparsi, lo status anche biografico del congedo? A chi attribuire in ultima istanza il titolo del libro e l’esergo, certo non esplicitati direttamente dall’autore ma indicati ai primi destinatari e lanciati loro come un dono di coinvolgimento? Titolazione di terzi: direi di no; piuttosto titolazione per procura, giacché a volte il pudore, la difficoltà, può impedire di parlare direttamente.

Se rileggo ora a distanza di anni le righe su Drummond de Andrade a colpirmi è la concentrazione dei suggerimenti che quel testo nel suo complesso ci invia, quasi si trattasse di una mise en abyme destinata da quel punto a riverberarsi su tutto.

Tabucchi vi parlava della raccolta poetica che aveva tradotto, esigua e minuscola in confronto con la vastità dell’opera di Drummond, ma la considerava (a dispetto delle ridotte dimensioni) sufficiente per costituire una dichiarazione di poetica e un autoritratto. Anzi per la precisione parlava di “un autoritratto che a suo modo è anche una dichiarazione di poetica” e di “una dichiarazione di poetica che a suo modo è anche un autoritratto”.

Era una provocazione quel gioco di differenza e ripetizione operato dallo spostamento del soggetto (o della funzione soggettiva) e del suo complemento predicativo (che oltre tutto, nelle due direzioni, rafforzava il valore testamentario del prelievo, “di tutto resta un poco”, legandolo indissolubilmente all’immagine autoriale), o era fin dall’inizio un invito indirizzato ai lettori a riflettere sul rapporto tra poetica (e suoi segnali) e auto-rappresentazione dell’io?

Non era forse un modo per sottolineare, perfino in un ridottissimo specimen, il gusto tipicamente tabucchiano per lo sfumato, per l’attenuazione delle asserzioni, per la possibile postulazione del dubbio suggerita dal limite intrinseco di un’affermazione ridimensionata dall’anche e dall’a suo modo?

Insomma già in quell’avvio Tabucchi lanciava un segnale lasciandoci liberi di coglierlo o meno, di credervi oppure no, visto che “in una certa misura” (la locuzione con la quale potremmo sostituire gli “a suo modo”) prevedeva e riduceva lo spazio iniziale di movimento. Incorniciare quel suo libro fra i testi di Drummond de Andrade non ci aiuta forse “a mettere meglio a fuoco l’obiettivo, a ritenere un’immagine leggibile, o più ‘riconoscibile’” (sono parole sue) di chi aveva vergato quelle pagine?

Non ci aiuta forse a fare, partendo dalla poetica, l’autoritratto di un intellettuale capace di riconoscere le affinità, di non avere “paura della paura” mentre osservava “ciò che viene dalla vita quotidiana, da questo nostro dover essere, dal piccolo, dall’insignificante, dal niente […]. Un niente testardo […] che non muore, che resiste, che circola nei canali più ingrati della vita […]. Perché ‘di tutto resta un poco’ (Resíduo), ed è con questo poco, che poi è il nostro tutto, che dobbiamo fare i conti”.

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

L’ultima guerra.
(un racconto quasi vero)

L’ultima guerra.
(un racconto quasi vero)

“In conclusione (pausa) signori delegati (pausa prolungata) e amici carissimi (pausa infinita) devo confessarvi che abbiamo finito tutte le nostre cartucce”. Il rappresentante USA nonché Presidente del Super Consiglio di Sicurezza si lasciò sprofondare (non senza enfasi) nella sua ampia poltrona di finta pelle. Ci pensasse la Cina, con tutta la vomitosa retorica del suo fottuto Impero della Terra di Mezzo e i suoi due miliardi di musi gialli a trovare una soluzione. Ma Il delegato del Partito Paleocomunista Cinese, per la prima volta nella storia, non trovò di meglio che accodarsi allo scoramento statunitense. “Sarebbe a dire?” – ruggì il presidente onorario Peter MacNamara, spalancando le sue orbite color ghiaccio secco. “Sarebbe a dire – rispose il cinese con un placido sorriso confuciano – che anche noi abbiamo finito le cartucce.”. Nel linguaggio figurato del Super Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la gloriosa quanto fallimentare organizzazione che aveva appena celebrato in pompa magna i suoi primi centocinquant’anni di vita, le cartucce alludevano alle sterminate risorse militari a disposizione dell’Alleanza Planetaria e alle geniali trovate diplomatiche dei suoi strateghi.  Le ormai obsolete armi convenzionali, come  i nuovissimi droni micronucleari, stavano infatti dimostrando la loro totale inefficacia a fronteggiare l’emergenza.

A turno, davanti a un’assemblea ammutolita, presero la parola gli altri membri del Consiglio, ma solo per un dovere di rito, perché né la Grande Santissima Russia, né l’Unione Sudamericana, né l’Impero delle Indie, né il Santo Califfato Riunito avevano uno straccio di soluzione da proporre. Mancava all’appello solo la Federazione Europea degli Stati Disuniti, la vecchia e saggia Europa. Erano però più di vent’anni che gli Stati Federati d’Europa non riuscivano a mettersi d’accordo su un nome condiviso per rappresentarli nel Consiglio di Sicurezza.

Fu ancora il vecchio Peter Donald Benjamin W. McNamara a reagire. Aveva fatto il generale per tutta la vita ed era in pensione da tre lustri, ma vivaddio, da generale non ci si dimette mai. “Facciamo entrare gli esperti”, ordinò McNamara, ed esibendo uno dei suoi celebri sorrisi rassicuranti, continuò: “vorrei ricordare a tutti i colleghi delegati due fatti incontrovertibili. Prima di tutto, non dobbiamo mai dimenticare che noi siamo i Buoni e loro i Cattivi, in più abbiamo un grande vantaggio dalla nostra parte, perché noi…” – e qui la voce del vecchio generale infranse la barriera del suono minacciando l’integrità della grande vetrata della Sala Ovale – “noi, carissimi amici… NOI SIAMO VIVI! “.

Intanto nel campo avverso fervevano i preparativi per la battaglia. A dire il vero, fervevano anche troppo. Nello sconfinato salone del quartier generale regnava una sovrana baraonda. In piedi, o appoggiati con le mani o con i gomiti a un lungo tavolo malfermo, a voce altissima e difficilmente intellegibile, si confrontavano una trentina di uomini e una cinquina di donne. Erano gli alti ufficiali dell’Esercito di Liberazione Transumana, regolarmente eletti con l’antico e resuscitato metodo dei soviet.

Nel punto mediano della lunga frattina di noce – per intenderci, nella classica posizione del Nazareno nel Cenacolo di Leonardo – si scorgeva un po’ a fatica il comandante in capo. Vista la bassa statura, la trasandatezza dell’abito, la barba di una settimana e il viso a chiazze tipico dell’epatico, non si può dire che la sua figura dominasse la scena. Il generale di tutti i generali – riconoscibile solo per una benda rossa al braccio destro – non sembrava né Spartaco né un suo lontano parente, ma come non riconoscere al Piccolo Corso le qualità del grande stratega. Napoleone aveva già parlato, brevemente – ché lui era uomo del fare, non delle chiacchiere – e ora continuava a guardarsi intorno, unico a bocca serrata in quel tripudio inestricabile di voci. Sorrideva, forse sogghignava, sicuro di potersi finalmente prendere una definitiva rivincita sulla battaglia più nota dei libri di storia. Si scosse infine dal suo allucinato mutismo e prese a confabulare con chi gli stava più vicino, il secondo e il terzo ufficiale, gli unici a cui concedeva una qualche stima, il giovane Alessandro di Macedonia che lo affiancava a sinistra e uno spelacchiato Caio Giulio alla sua destra.

Era un problema di alta strategia? Bisognava indovinare la tattica vincente? O si trattava solo di azzeccare al minuto secondo l’ora X?
Per qualsiasi commentatore esterno alla congrega, anche se ferrato in storia militare, sarebbe stato difficile esprimere un giudizio.  L’unico dato evidente era che il Comitato Trapassati Riuniti sembrava lontanissimo dal trovare un accordo. In compenso, la sala traboccava ottimismo. Le parole con cui il Generale Giap aveva concluso il suo intervento, “Abbiamo dalla nostra un vantaggio incolmabile: NOI SIAMO MORTI!”, erano state salutate dal defunti delegati con una ola da stadio.

I morti, com’è noto, anche se presi a cannonate, non possono morire due volte. E c’era un ulteriore vantaggio, lo aveva ricordato il delegato Pitagora di Samo, sventolando un papiro zeppo di cifre davanti all’uditorio: “Non solo siamo morti, e tutti in buona salute, ma siamo anche molti di più di loro”. “E quanti siamo?”, aveva gridato uno sfacciato dal fondo della sala. E  Pitagora: “Ho fatto e rifatto i conti; abbiamo superato quattro volte il numero dei nemici viventi. Volete sapere il numero preciso?”. Sicuro che lo volevano sapere. Gli ottomila delegati presenti (tutti regolarmente eletti e tutti regolarmente morti) aspettavano da anni, da secoli o qualcosa in più, quel numero liberatorio, che Pitagora scandì sillaba per sillaba, numero per numero: 99miliardi730milioni322milanovecentotrantatrèUn bel numerone, non c’è che dire. Un numero che cresceva inesorabilmente di minuto in minuto. E i nemici, voglio dire, i vivi? Quelli avevano smesso di crescere da almeno vent’anni, e da veri imbecilli, continuavano ad ammazzarsi anche tra di loro.

Queste le forze in campo così come si presentavano alla vigilia della Grande Battaglia. Come andò a finire è scritto su tutti i libri, tanto da rendere superflua una cronaca dettagliata degli eventi. Basterà riportare qualche scarna notizia e qualche cifra. Fu una guerra lampo, durò una sola notte. I vivi morirono tutti, compreso il valoroso MacNamara, decisissimo a vendere cara la pelle. Ma la pelle gliela fecero eccome, a lui e a tutti gli altri. Nessun caduto invece tra le file dei morti.

L’arma letale? La escogitò il solito Odisseo: non c’era bisogno di incrociare le spade, sarebbe bastata un po’ di messa in scena. E far leva sulla paura. Paura dei fantasmi, paura del buio, paura dei morti e della morte. Fu la paura il Cavallo di Troia, il Tallone di Achille, l’Uovo di Colombo. Alla paura non scampò nessuno, neppure gli atei militanti, gli agnostici, gli ufficiali di carriera, i marines e le teste di cuoio.

Alla fine  la scena fu piuttosto  commovente, i morti vincitori e i vivi sconfitti – diventati all’istante ex vivi e morti novelli – si abbracciarono riconoscendosi fratelli. Il pianeta Terra trovava finalmente un po’ di pace. Eterna.

In copertina: Frame da “La notte dei morti viventi” (1990)  – Cineteca di Bologna.

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

 

L’avere ha il volto pulito

Per certi Versi /
L’avere ha il volto pulito

L’avere ha il volto pulito

Serve diventare involucri di bene
per vivere di un possesso
che non dà piacere

Anche l’avere ha il volto pulito
per chi lo ama

Ma chi non sente lacci legati
a ciò che tocca
si salverà con cosa

Varrà cercare in questo tempo
il deserto che arde dentro

Sarà un luogo di giacenza
il mio tormento
oppure sarà il niente

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

STOP THE WAR: a Gaza e in Cisgiordania muore l’umanità

STOP THE WAR: a Gaza e in Cisgiordania muore l’umanità

Se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU insieme ai Governi del mondo non fermeranno il governo israeliano, Netanyahu ed i suoi ministri non si fermeranno. Ormai è chiaro agli occhi di tutti: l’inazione o peggio ancora la complicità della comunità internazionale rappresentano un vero e proprio semaforo verde agli eccidi contro la popolazione palestinese e alla sottrazione della loro terra.

I nostri Governi non possono continuare a voltarsi dall’altra parte. Il progetto di deportazione dei palestinesi dalla striscia di Gaza si avvicina di più ogni giorno che la guerra miete vittime innocenti, che gli ospedali vengono distrutti, che gli aiuti umanitari sono tenuti fuori da una cintura ermetica nel tentativo di colpire con la sete, la fame e per assenza di medicinali la popolazione civile. La rottura della tregua, la ripresa delle ostilità pregiudica inoltre anche la vita stessa degli ostaggi, dei quali continuiamo a chiederne la liberazione così come chiediamo la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi illegalmente detenuti.

D’altronde la repressione delle manifestazioni dei familiari degli ostaggi da un lato e dall’altro la violenza e gli arresti indiscriminati in Cisgiordania – come nel caso del Premio Oscar 2025 Hamdan Ballal – evidenziano la volontà di affrontare con la violenza e il sopruso ogni dissenso: l’esatto contrario di ciò che ci si aspetterebbe da una democrazia.

Facciamo appello alla società civile italiana ed europea, ai Sindaci, alle forze democratiche ed associative, alle organizzazioni sindacali, agli intellettuali, artisti, uomini e donne di tutte le fedi, affinché levino forte la propria voce e si mobilitino in ogni città per costringere governi, Unione Europea e Onu ad assumere una immediata iniziativa politico-diplomatica per fermare il massacro.
Mobilitiamoci in ogni città per:

  • un cessate il fuoco immediato e duraturo
  • la fine del blocco degli aiuti e l’assedio alla popolazione da parte israeliana
  • il varo di sanzioni economiche nei confronti d’Israele e la sospensione dell’accordo di partenariato Ue/Israele
  • il blocco reale di tutte le commesse di armamenti
  • il riconoscimento da parte dell’Italia e della Ue dello Stato di Palestina
  • l’adozione di “provvedimenti ombrello da parte della Ue” a protezione dei giudici internazionali della Corte e del tribunale dell’Aja dalla sanzioni e dalle ritorsioni decise dall’amministrazione US

Rete Italiana Pace e Disarmo

In copertina: Fermate la guerra, fermate Israele (Foto di Rete Pace Disarmo)