AVERE FEGATO (“Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!”)
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AVERE FEGATO (“Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!”)
La parola ‘fegato’ è per me ansiogena. Forse perché mi è chiaro che è un organo vitale essenziale per la sopravvivenza. Senza il suo corretto funzionamento la vita non può continuare. Premessa impegnativa, direi.
Gli organi vitali sono cuore, cervello, polmoni, fegato e reni. Pezzi del nostro corpo essenziali di cui va monitorata la funzionalità con impegno e dedizione. Se uno di questi organi si ammala, insorgono problemi di salute fino ad arrivare a diagnosi che possono essere infauste. Con un fegato ammalato, si rischia di morire.
Questa è la consapevolezza che mi fa associare a questa parola uno stato di apprensione sistematico e spiacevole. Quando sento nominare questo organo marrone, posizionato nella parte superiore destra dell’addome, appena sotto il diaframma, mi sento a disagio, come se stesse arrivando da lontano un vento pericoloso che porta appresso la precarietà del vivere. Arriva una corrente gelida che mi trafigge un fianco come un grosso ago.
Purtroppo mi è già capitato di vedere persone morire a causa di questa ghiandola esocrina/endocrina ammalata. Quest’organo bruno, vitale e nascosto, non suscita in me sorrisi come i piedi o i capelli, ma mi coinvolge in riflessioni di tipo più esistenziale che, pur essendo importanti, non sempre rasserenano la vita.
In questo percorso autoriflessivo che ognuno di noi intraprende attraverso i sentieri della vita e anche attraverso le vie tortuose dei suoi pensieri e delle sue emozioni, c’è il senso ultimo di quel che facciamo, del nostro esistere. Come sempre, il significato letterale, personale, simbolico, metaforico e linguistico di una parola si mescola in un tutt’uno gestaltico, suscitando in ciascuno di noi una sorta di reazione emotiva “a valanga” che è tanto unica quanto interessante.
Il fegato è l’organo del nostro corpo che filtra, purifica e trasforma. È un organo fondamentale con molte funzioni. È essenziale per il metabolismo, aiuta a trasformare i nutrienti derivati dal cibo in energia e sostanze utili per l’organismo. È fondamentale per la detossificazione, filtra e neutralizza sostanze tossiche come alcool, farmaci e prodotti di scarto. Produce la bile, un liquido che aiuta a digerire i grassi. Accumula riserve, conservando glicogeno. Fa la sintesi delle proteine plasmatiche come l’albumina che regola il colesterolo controllandone i livelli nel sangue.
Davvero importante e impegnativo il suo lavoro, ognuno di noi si augura che lo sappia svolgere al meglio. Anche in questo preciso momento in cui il fegato è al centro dei miei pensieri, mi auguro che stia lavorando con molta efficienza.
Facendo una deviazione dalle funzioni fisiologiche a quelle rappresentative, che sono imprescindibili dal nostro modo di pensare e dal nostro essere umani, possiamo dire che metaforicamente il fegato ha un ruolo essenziale anche per quanto riguarda le nostre emozioni. Lavora in silenzio per non farci scoppiare di rabbia, per non farci avvelenare dal rancore. Ci aiuta a digerire ciò che la mente rifiuta, una ingiustizia subita, una parola tagliente e una sconfitta amara.
Nel suo libro Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari utilizza il fegato di Prometeo come simbolo della sofferenza e della resistenza umana. In questo contesto il fegato diventa un feticcio narrativo, rappresentando la parte dell’essere umano che, pur tormentata, continua a esistere e resistere.
Prometeo, che nell’antica mitologia greca ruba il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini, viene qui utilizzato per sottolineare l’importanza della resistenza, della perseveranza e della ricerca di un significato più profondo anche in situazioni di sofferenza e dolore.
In Memorie da una casa di morti Dostoevskij introduce il narratore con una frase emblematica «Io sono un uomo malato … un uomo cattivo. Credo di essere malato di fegato. Però non capisco una mazza, della mia malattia, e forse non so neanche cos’è che mi fa male».
Questa dichiarazione non solo riflette la condizione fisica del protagonista, ma suggerisce anche una connessione tra malattia fisica e tormento interiore, un tema ricorrente nella straordinaria opera di Dostoevskij.
Memorie da una casa di morti è il racconto dell’esperienza carceraria dell’autore in Siberia. Un’esperienza decisiva nella sua maturazione letteraria.
Condannato a quattro anni di deportazione seguiti da sei di confino, nella colonia penale Dostoevskij si ritrova a toccare con mano il male, non soltanto nella sua forma metafisica, ma anche nella sua espressione più concreta e brutale.
È inoltre in quel periodo che sperimenta la presenza di un abisso incolmabile tra sé, intellettuale nobile, e i detenuti comuni. Nella canzone Don Raffaé, Fabrizio De Andrè usa questo verso: «Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!»
Come spesso succede nel linguaggio napoletano, in questo caso il termine ‘fegato’ è usato in modo ironico e popolare e rappresenta qualcosa da magiare ma anche da “tirar fuori” in senso di sfogo e ribellione.
Il brano denuncia la situazione critica delle carceri italiane negli anni Ottanta e la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata, attraverso il racconto dell’interazione tra Pasquale Cafiero, brigadiere dell’allora Corpo degli Agenti di Custodia del carcere di Poggioreale, e il boss camorrista ‘Don Raffaè’ che si trova incarcerato in tale struttura (personaggio che dà il titolo al brano).
La parola ‘fegato’ viene altresì usata in molte frasi di senso comune che ciascuno di noi ha sentito più volte. Bisogna ‘Avere fegato’ per affrontare situazioni difficili senza avere paura. Questo modo di dire risale agli antichi greci che consideravano il fegato la sede delle emozioni e del coraggio. La frase ‘Ha un bel fegato’, descrive qualcuno che è imprudente o sfrontato, capace di compiere azioni audaci senza esitazione.
‘Rodersi il fegato’ segnala che si è tormentati da sentimenti di rabbia, invidia o rancore, al punto da provare un disagio emotivo intenso. ‘Farsi il fegato grosso’ significa diventare più coraggiosi in situazioni difficili o per affrontare delle sfide.
Perfino in alcuni cartoni animati compare sovente la parola fegato usata in modo figurato. «Ci vuole fegato per sfidare Zenigata così!» lo dice Lupin III, un personaggio immaginario, il nipote del leggendario ladro gentiluomo Arsenio Lupin, che diventa il protagonista di una serie di fumetti e cartoni animati di grande successo. Lupin III è un ladro internazionale, celebre per le sue capacità di travestimento, la sua abilità nel maneggiare le armi e il suo spirito di avventura.
Anche in cartoni animati come Ken il guerriero e I cavalieri dello zodiaco si trovano espressioni enfatiche del tipo: «Non hai il fegato per affrontarmi!».
In psicanalisi, il fegato è un simbolo complesso e ricco di significato, che rappresenta la capacità di trasformare, elaborare, gestire e bilanciare le proprie emozioni e i propri conflitti interiori. La sua funzione biologica di trasformazione e purificazione si riflette nella psiche, dove il fegato diventa un simbolo di equilibrio, forza e vitalità.
Insomma, il fegato, sia come organo fisico, sia traslato in qualche sua rappresentazione, viene citato spesso e usato per descrivere situazioni tutt’altro che facili e prevedibili. Anche a me è capitato più volte di usare il termine ‘aver fegato’ per indicare un comportamento particolarmente virtuoso o che mi sembrava degno di essere evidenziato.
Se penso a ciò che assocerei all’espressione “avere fegato” mi viene in mente una persona che dice quello che pensa in una situazione in cui tutti i presenti sono di vedute differenti. Questo atteggiamento permette la rivendicazione della dignità di un pensiero avverso, cosa importante di suo. Tale dignità esiste di diritto a meno che il pensiero manifestato rivendichi posizioni violente o palesemente corrotte.
‘Avere fegato’ lo assocerei anche a chi fa un lavoro particolarmente rischioso. I chirurghi delle zone di guerra, i medici dei reparti di malattie infettive, le OSS delle case di riposo, i poveracci che puliscono i gabinetti delle stazioni dopo che sono passate tifoserie calcistiche estreme. Questi malpagati operai rischiano doppiamente la pelle: perché pulendo i bagni si è a rischio di contagio continuo di malattie e anche perché l’incontro con individui violenti è sempre pericoloso di per sé.
Direi anche che ‘ha fegato’ un insegnante che prova a parlare di democrazia, tolleranza e libertà, un sacerdote che apre un oratorio per bambini in una zona presidiata da qualche cosca mafiosa. Direi inoltre che ‘ha fegato’ un giornalista che scrive quello che pensa, affidando all’etere i suoi pensieri pur sapendo che non a tutti piaceranno.
‘Ha fegato’ una maestra che attraversa la strada con trenta bambini per portarli a vedere il museo civico del Paese, con le sue pietre, terrecotte e ossa rinsecchite di indubbio valore conoscitivo. ‘Ha fegato’ un sindaco di campagna e ‘ha anche fegato’ chi canta a squarciagola sotto la doccia pur sapendo di essere stonato.
Con la preghiera agli stonati di non esagerare con i gorgheggi serali, ringraziamo tutti coloro che ‘hanno così tanto fegato’ da farci pensare che questo mondo può ancora stupire e che ci confermano, con le loro azioni, l’esistenza del coraggio come dimensione auspicabile del vivere.
Il bene esiste finché ci saranno persone che ‘hanno il fegato’ di praticarlo. Un grande fegato, non ammalato.
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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Catina Balotta
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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