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Sventiamo Gli Inganni Nel Disegno Di Legge Della Toscana Sulle Rinnovabili

Sventiamo Gli Inganni Nel Disegno Di Legge Della Toscana Sulle Rinnovabili

In Toscana, come in altre regioni italiane senza leggi sulle aree idonee agli impianti di energia rinnovabile, le società delle mega-rinnovabili industriali stanno presentando un numero esorbitante di richieste di autorizzazione direttamente al MASE, agevolate da una recente sburocratizzazione che apre le porte alle speculazioni, con il GAP legislativo.

“Chiediamo alla Regione Toscana che la legge regionale in discussione sia protettiva delle campagne e montagne della regione, le terre della cartolina d’Italia, evitando la costruzione di “Mega-Impianti delle Rinnovabili” ed esponendo vasti territori pregiati alla colonizzazione industriale.”

Motivazioni:

TESS LANCIA UNA PETIZIONE PER SVENTARE L’INGANNO NEL DISEGNO DI LEGGE DELLA TOSCANA SULLE RINNOVABILIChiediamo che la Regione Toscana che legiferi con prudenza e coscienza sulle “Aree Idonee ai Mega-Impianti delle Rinnovabili”

La Regione Toscana è osservata da tutto il mondo ora, mentre e’ chiamata a legiferare per tutelare il patrimonio paesaggistico e culturale italiano, simboleggiato dalla celebre “cartolina d’Italia” riconosciuta globalmente.

Attualmente, in Toscana e in altre regioni prive di normative specifiche sulle aree idonee o non idonee agli impianti di energia da fonti rinnovabili, le società energetiche stanno presentando un numero esorbitante di richieste di autorizzazione grazie una sburocratizzazione che e’ avvenuta lo scorso ottobre 2024. Questo fenomeno di assalto ai territori italiani è motivato principalmente dalla volontà degli speculatori di assicurarsi i terreni più vantaggiosi prima dell’entrata in vigore di eventuali leggi restrittive.

La nuova legge regionale sulle Aree Idonee agli impianti di rinnovabili industriali deve essere applicata esclusivamente in zone adeguate, già industrializzate o soggette a degrado. In caso contrario, i territori più pregiati della Toscana saranno esposti a una colonizzazione industriale incontrollata. Migliaia di ettari di pianure, colline, coste e montagne, che finora hanno garantito il sequestro del carbonio, la biocapacità, l’equilibrio idrogeologico, l’attrattività turistica e la biodiversità – elementi fondamentali per la salute e il benessere economico della regione – rischiano di essere compromessi dall’impatto di numerosi impianti industriali. La collocazione logica di tali impianti dovrebbe essere nelle aree urbane e industriali, dove si concentra il fabbisogno energetico e si può evitare il 50% di dispersione che avviene nel trasporto.

Questa petizione, promossa da oltre cento comitati e associazioni di TESS (Transizione Ecologica Senza Speculazione) e sostenuta dai sindaci toscani di ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e UPI (Unione Province d’Italia), fa appello ai consiglieri della Giunta Regionale Toscana affinché legiferino in modo trasparente ed efficace. È cruciale che la legge, per quanto ben concepita nei suoi principi, si applichi anche alle richieste di autorizzazione già in corso. In caso contrario, il suo impatto sarebbe vanificato, considerando che le numerose richieste attuali sono concentrate in aree dove i terreni hanno un minor costo per gli investitori, ma un alto valore per la salute della collettività e dell’ambiente.
Si richiede, inoltre, di prevenire con fermezza la riduzione e il declassamento delle 139 Zone a Speciale Conservazione (ZSC) della Toscana. Queste aree di inestimabile valore ecologico sono minacciate da lacune legislative che le rendono vulnerabili a modifiche potenzialmente dannose. La presenza di specie protette nelle ZSC non solo giustifica la loro preservazione, ma offre anche l’opportunità di proporre ampliamenti strategici e miglioramenti significativi nella loro gestione.

È imperativo agire ora, con determinazione e consapevolezza. Un’azione coordinata e incisiva garantirà che ogni singola ZSC riceva l’attenzione e la protezione che merita. Questo intervento tempestivo può giocare un ruolo cruciale nella salvaguardia del nostro inestimabile patrimonio naturalistico. È fondamentale assicurare che le decisioni regionali siano basate su dati aggiornati, completi e scientificamente validi, garantendo così un futuro sostenibile per le nostre aree protette e per le generazioni future.

Il futuro della Toscana non può dipendere da lacune legislative e incuria politica. Se la Toscana cede, l’intero Paese è a rischio: unisciti all’appello e firma subito la petizione per preservare il nostro patrimonio naturale e culturale!

 

TRANSIZIONE ENERGETICA SENZA SPECULAZIONE
Coalizione interregionale di associazioni e comitati del territorio italiano

firma Qui la petizione

 

Una botta di vita / Porco cane

Vladimir Vladimirovič Putin (in russo Влади́мир Влади́мирович Пу́тин?; AFI: [vlɐˈdʲimʲɪr vlɐˈdʲimʲɪrəvʲɪtɕ ˈputʲɪn],  (Leningrado, 7 ottobre 1952) è un politico ed ex militare russo, già funzionario del KGB, primo ministro (1999-2000, 2008-2012) e attuale presidente della Russia (2000-2008, 2012-2018, 2018-2024, 2024-presente)

Porco cane

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L’Estonia vieterà il russo nelle scuole: lo parlano “solo” 400 mila estoni su un milione

L’Estonia vieterà la lingua russa nelle scuole entro il 2030: lo parlano “solo” 400 mila estoni su un milione.

Bilinguismo significa convivenza
Cosa potrebbe succedere se improvvisamente il Parlamento italiano dovesse decidere, per qualche strana ragione, di vietare l’utilizzo della lingua tedesca come lingua madre nelle scuole del Sudtirolo? E cosa potrebbe succedere se decidesse, allo stesso modo, di vietare anche la lingua francese nelle scuole della Valle d’Aosta, vicino al confine francese? Si andrebbe a violare l’articolo 6 della Costituzione italiana, creato appositamente per “tutelare le minoranze linguistiche storiche”, con la conseguenza che decine di migliaia di persone, cittadini italiani, potrebbero sentirsi in qualche modo discriminate o marginalizzate a causa della loro lingua madre.

I casi di bilinguismo e di minoranze linguistiche in Italia sono un chiaro esempio di come la lingua sia uno dei tratti più importanti e distintivi all’interno di una comunità. In Italia, oltre all’italiano e ai vari dialetti che si stanno purtroppo perdendo, si parlano storicamente altre 12 lingue riconosciute a livello amministrativo come lo sloveno e il croato (a confine con Slovenia e Croazia), l’albanese (in alcune decine di comuni sparsi in Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise e Abruzzo), il greco (concentrate in Puglia salentina e in Calabria nella zona del massiccio dell’Aspromonte e nella città metropolitana di Reggio Calabria, oltre alle due isole linguistiche della Bovesia), il catalano (una varietà è parlata ad Alghero, città nella Sardegna nord-occidentale). Questo avviene per motivi storici e di confine, indicando come il bilinguismo sia una condizione naturale per la creazione di una cultura di convivenza.

Estonia: dichiareremo il russo una lingua “straniera” entro il 2030

Questa nozione non sembra essere stata appresa dal governo estone il quale ha dichiarato pochi giorni fa la fine di una politica linguisticamente “inclusiva” (se mai c’è stata): in un clima sempre più ostile tra Stati Baltici e Russia, la Repubblica di Estonia ha infatti deciso di eliminare completamente la lingua russa dalle scuole entro il 2030, sostituendola con l’estone e rendendo il russo una lingua “straniera”, come materia scolastica, o da utilizzare solamente in casa o in conversazioni private. Questo cambiamento è previsto in seguito a una riforma del sistema scolastico e andrà a colpire circa 370-390mila persone, con oltre il 40% dei russofoni che vive nella Capitale Tallin e la restante parte che vive invece nella zona Nord-Est del Paese, vicino al confine russo, con città come Narva dove i russofoni sono fino al 90% dei residenti.

Una riforma assolutamente razzista e russofoba che mira a generare conflitti e guerra sul piano linguistico. I Paesi baltici hanno una significativa minoranza russofona che in Estonia tocca fino al 30% della popolazione di 1 milione e 37mila individui circa. Non si tratta solo di russi “etnici”, ma anche di persone le cui famiglie hanno origini in Bielorussia e in Ucraina, o anche semplicemente di famiglie miste: persone che oggi conoscono la lingua russa come lingua madre, che viene anche utilizzata come lingua di insegnamento in alcune scuole.

Apartheid dei russi e dei russofoni in Estonia

Non è il primo provvedimento che il governo estone prende nei confronti della lingua russa. È la politica istituzionale dell’Estonia, indipendentemente dal governo al potere, ad opprimere tutti i russi e i russofoni, poiché “rappresentano storicamente gli occupanti”. Subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, i nazionalisti estoni hanno iniziato a molestare apertamente i russi, sperando che se ne andassero semplicemente. Già qualche anno fa, l’Estonia ha istituito un organo oppressivo chiamato “ispezione linguistica” con il fine di multare le persone per l’uso di qualsiasi lingua straniera (principalmente russo, ovviamente) in un cartello o in qualsiasi altro testo pubblico.

Ad oggi, la discriminazione contro i russi in tutti gli aspetti della vita è socialmente accettata e normalizzata. La cittadinanza estone è stata estesa solo ai cittadini dell’Estonia prebellica e ai loro discendenti. Di conseguenza, quasi il 40% della popolazione dell’Estonia è diventata apolide: questo significa che le persone che erano nate o che si erano trasferite nell’Estonia sovietica sono diventate cittadini di seconda classe senza diritto di voto. Circa 70.000 persone nate su questa terra hanno ricevuto un “passaporto di straniero” in Estonia che gli impedisce di votare alle elezioni parlamentari o europee, di lavorare e viaggiare liberamente nell’Unione Europea (i “valori europei” in cui la propaganda dell’UE vorrebbe farci credere). Inoltre, alle persone “apolidi” è vietato essere membri di partiti politici e ricoprire posizioni nella pubblica amministrazione. Questo sarebbe ampiamente condannato da diverse ONG e dalle Nazioni Unite.

La nuova linea sull’eliminazione della lingua russa appare infatti come l’ennesima mossa politica pensata per cercare di “cancellare” o fingere che non esista una minoranza linguistica russa in Estonia. Una “linea dura” contro Mosca, ma che andrà a colpire centinaia di migliaia di cittadini estoni che, verosimilmente, non hanno legami diretti o di natura politica, né con Mosca, né con il Cremlino, e tantomeno Vladimir Putin. Basti pensare che il noto performer e cantante Tommy Cash che rappresenterà l’Estonia a Eurovision 2025 con il discusso brano “Espresso macchiato”, è parte di quella stessa minoranza linguistica russofona, avendo origini estoni, russe, ucraine e kazake, per cui oltre alla lingua estone, parla correntemente anche il russo.

Del resto, le iniziative ostili degli Stati Baltici nei confronti di tutto ciò che è “russo” non sono certamente una novità di questo periodo, e spesso vengono giustificate con la minaccia della “futura annessione” da parte della Russia, con la conseguente adesione degli stessi alla NATO e la sua espansione ad Est. Eppure, in uno scenario internazionale sempre più instabile, in cui l’Europa è poco coesa e politicamente debole di fronte alle trattative di Donald Trump con la Russia rispetto al conflitto in Ucraina, ci si chiede se sia davvero necessario inasprire ulteriormente questo clima, soprattutto in questo momento. Un’escalation, in una fase così delicata, può solo alimentare le divisioni interne, compromettendo la già fragile capacità dell’Europa in preda invece alle illazioni guerrafondaie di Ursula Von der Leyen.

Cover: Wikimedia Commons

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Un romanzo da leggere: «Alma» di Federica Manzon

Un romanzo da leggere: «Alma» di Federica Manzon

Un romanzo da leggere: «Alma» di Federica Manzon

Una giornalista di nome Alma, protagonista del romanzo di cui vogliamo parlare (Feltrinelli 2024), torna a Trieste dov’è nata e vissuta per una ventina d’anni per prendere possesso di un’eredità lasciatale dal padre. È aprile, ci resta tre giorni – un triduo pasquale indicano i titoli di tre capitoli -, tre giorni incorniciati all’inizio e alla fine da una breve sosta su un’isoletta istriana che fu il luogo di residenza del Maresciallo Tito.
La configurazione circolare dell’intreccio tuttavia non chiude. Certo, nel romanzo una storia sentimentale termina generando un sentimento di pienezza per un incontro finalmente riuscito, ma lo scioglimento non cancella l’impressione di provvisorietà che impregna la narrazione anche alla fine, come se tutto potesse riprendere e continuare. «Quanti inizi possono avere le storie? Dipende da chi le racconta o da come sono andate a finire» osserva Alma, e nel libro, più che una conclusione l’epilogo sembra piuttosto una sosta, un’interruzione.

Ogni giorno è un capitolo con un blocco di ricordi e di fatti che si affollano sotto una luce particolare. La città, inseparabile dai suoi dintorni, disegna uno spazio mentale e il racconto scivola dalla terza persona alla prima, dalla realtà fattuale esterna a quella interiore della memoria, dal presente al passato, ai diversi momenti del passato, in uno scambio senza soluzione di continuità. La causalità tipica del romanzo classico è assente. Il movimento narrativo si allunga, si distende e allarga in un susseguirsi di episodi e accadimenti come in un caleidoscopio. La sua durata cancella i limiti del corto segmento temporale che racchiude il romanzo e porta il lettore in paesi limitrofi, devastati dalla guerra.

Intorno alla protagonista gravitano i familiari e Vili, un ragazzo d’une decina d’anni di origine serba, che il padre di Alma ha portato un giorno a vivere definitivamente con loro sottraendolo ai rischi incorsi dagli intellettuali comunisti dissidenti come i genitori di Vili suoi amici, caduti in disgrazia presso il presidente dei “Comunisti di Serbia“. Le vicende individuali si mescolano e si formano nella storia con la S maiuscola.

L’etichetta incollata a Trieste come città di confine, città a mosaico, di culture, di religioni e di tradizioni diverse per quanto giusta è diventata uno stereotipo inerte. Sotto la penna di Federica Manzon lo stereotipo si anima, prende corpo e vivacità in una sottile corrispondenza tra la gente e i suoi luoghi.

Lungomare di Barcola

Le asperità del Carso, gli scogli di Barcola, la piazza grande che si apre sul mare e invita a lanciarsi senza pezze d’appoggio (non sapevo che fosse la piazza con un lato marino più grande d’Europa), il Viale dei Platani, il Viale per antonomasia dove abitavano i nonni di Alma e dove lei da piccola trascorreva l’estate…. Il nonno, buon borghese che continua a vivere nell’aura del mitico passato austro-ungarico, rappresenta un punto fermo nella vita familiare disordinata della bambina, scandita dalla presenza aleatoria e imprevista del padre. L’asperità del paesaggio si ritrova in una certa angolosità e irrequietezza dei personaggi. La geografia ha sempre il sopravvento, decide di tutto, pensa Alma che vive «di qua» in un riferimento continuo al «di là» oltre il confine, dove corrono i pensieri, i sogni, gli ideali e i passi del padre. Ricerca e fuga si sovrappongono e si confondono e i due motivi governano tutto il romanzo.

Piazza Unita d’Italia

Una condizione di alterità caratterizza i personaggi, ma è un estraneità per così dire familiare e connaturata. Gli anni della fanciullezza di Alma sono anche quelli dell’antipsichiatria, a Trieste Franco Basaglia aveva aperto le porte e i cancelli dell’ospedale psichiatrico, sostituendo a quel luogo chiuso le microaree, perché i cosiddetti matti sono solo un po’ diversi dagli altri, basta saperli trattare. In  quell’area, la Città dei Matti della finzione, lavora la mamma di Alma. Viene in mente a proposito una curiosa espressione del dialetto triestino, che esisteva ben prima di Basaglia, secondo la quale «el mato» indica un tizio qualsiasi («el mato me ga dito», il matto mi ha detto), come a dire che l’estraneità, per lo meno nella parlata triestina, sembra una condizione generale.

Terzo elemento che caratterizza nel romanzo la città e quasi tutti i suoi personaggi è una vitalità colorata e luminosa che ovviamente contrasta con lo squallido grigiore di Belgrado durante la guerra. Tra il Carso e il mare si raggrumano i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. «Il mare della città, come un pub irlandese, riunisce tutti: mescola ricchi e poveri, quelli con il letto rifatto dalla cameriera, e quelli con il padre che lavora in Germania, quelli con la madre da tenere d’occhio perché non combini guai, chi ha la merenda e chi no». Alma ci andava a tuffarsi con una banda di ragazzini eterogenei, come in un’istantanea il ricordo si fissa: «spicchiamo il volo nel cielo intensamente blu per poi cadere avvolti in schizzi schiumosi. Apparteniamo tutti a questa scogliera. Qui siamo stati tutti, almeno una volta, degli dèi».

Nella liturgia religiosa del triduo pasquale il sabato santo rappresenta una pausa, un momento di attesa fiduciosa. Non così nel romanzo; al contrario, nel lungo capitolo centrale intitolato al sabato santo domina la centralità del negativo. Nell’ex-Jugoslavia le guerre hanno riacceso antagonismi ancestrali, riportato distruzione e odio, massacri e sofferenze. Crollano gli ideali di fratellanza e di unità, del voler vivere insieme per dirla con Jaurès, che la recente Repubblica Socialista Federale sembrava voler e poter attuare. Una mattina del settembre 1991, l’anno in cui la Slovenia si dissocia dallo Stato jugoslavo, il padre di Alma torna a casa sconvolto. «Arriva che l’alba scollina livida dal Carso». È riuscito a scappare, agitato racconta della situazione di là con frasi inceppate e confuse. Vukovar, la città croata che mescola tutti, «Vukovar, città dei matrimoni misti» è sotto assedio. Senza più speranza. Del resto, pochi mesi prima c’erano stati i fatti di Polog nei pressi di Mostar con il blocco dell’armata popolare jugoslava. «Sulla strada di Polog è finito il comunismo» aveva concluso laconico.

Anche nella storia particolare di Alma e Vili il capitolo rappresenta un’acme, è il momento del massimo equivoco tra i due giovani, dell’incomprensione che da sempre ha insidiato i loro rapporti. Di nuovo la narrazione intesse salvezza e negativo.

Cinque fotografie in bianco e nero sottolineano punti precisi del racconto. Non saprei dire se sono necessarie al testo come un suo complemento. Di sicuro creano un legame che va oltre la semplice illustrazione. Vili è un fotografo per passione e vocazione. Tramite il padre di Alma aveva ricevuto in regalo dal suo una macchina fotografica che portava sempre con sé. Era un ragazzo chiuso, come murato in se stesso, e ostinato, non lasciava mai trapelare nulla che avesse a che fare con il suo passato, con le sue sofferenze. Le foto parlano per lui, ma possono essere mal interpretate, immagine e vettore della realtà sono o sembrano comunque più oggettive dei discorsi. Sono un documento che inserito nel romanzo garantisce la verità della finzione mentre avvalora l’enigmaticità e la qualità letteraria della scrittura. Insomma un libro che avvince e fa conoscere una città, una storia e richiama tragicamente un passato prossimo che sembra il presagio di una guerra attuale.

Una volta di sfuggita la narratrice ricorda il presente della scrittura menzionando l’Ucraina. Affiora allora un’associazione d’idee con un episodio evocato, avvenuto sette anni prima della secessione delle repubbliche federate. A una festa nazionale jugoslava i gruppi etnici ballavano separati, senza mescolarsi; per il lettore pare quasi un annuncio non percepito del futuro imminente. «Il tempo – noterà Alma – è un concatenamento di blocchi separati e stagni, escono da uno e entrano in un altro dove non c’è traccia di quello che è stato prima».

Federica Manzon
Federica Manzon

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Uomini e cani

“Un ragazzo non ha bisogno dell’intelligenza per essere bravo: a volte mi sembra che l’intelligenza fa il contrario. Prendi uno davvero sveglio, è difficile che sia una brava persona”
Uomini e topi, John Steinbeck

Uomini e cani

Due gangster conclamati e sodali che sono contemporaneamente al comando delle due principali nazioni imperiali (USA e Russia); gli imperi minori (GB e Francia) che provano a riprendersi un loro spazio coloniale di ritorno. La speranza che non i buoni, ma i gangster si mettano d’accordo tra di loro per far partire la tregua nella guerra russo-ucraina, tragica reviviscenza di uno dei filoni di odio atavico tra “fratelli”. Anche perché i “buoni” hanno fatto di tutto per tagliarsi fuori, e adesso hanno deciso – senza consultare il Parlamento, cosa degna di un’autocrazia con i fiocchi – che bisogna aumentare la dotazione di armamenti per difendersi da uno dei due gangster, essendo stati appena mollati dall’altro.

(Nota dello scrivente: di seguito il testo dell’art.122 Trattato di funzionamento dell’UE, poi valutate voi:   “1. Fatta salva ogni altra procedura prevista dai trattati, il Consiglio, su proposta della Commissione, può decidere, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia. 2. Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo in merito alla decisione presa.”)

In Italia, uno scrittore divenuto celebre per la sua pentalogia antifascista scrive un articolo chiamando alla “resistenza” contro il nuovo invasore e lamentando l’assenza di nuovi “guerrieri”, letteralmente “… giovani uomini (e donne, se volete)”  disposti a combattere per difendere l’Europa “da eventuali, future aggressioni, purtroppo sempre più verosimili…”. Combattere al suo posto, e per lui. Non è dato sapere se lui si chiami fuori perchè troppo vecchio, oppure se scrivere sia semplicemente più comodo che farsi ammazzare, cosa sulla quale concordo senz’altro con Scurati. Ciò per cui dissento da lui non è il giudizio sulla minor rischiosità dello scrivere, ma il fatto che troverei osceno chiamare alle armi per me i “giovani” dell’Europa, come chiunque altro. O lo faccio io, oppure sto zitto. I giovani di ogni nazione, etnia e provenienza che non abbiano completamente perso il senno dovrebbero disertare tutti, per quanto mi riguarda.

Questo impazzimento della geopolitica e del buon senso del pianeta Terra mi ha portato al riflusso nel privato, fenomeno analizzato sociologicamente negli anni ottanta, e da me praticato individualmente attraverso una sempre più lunga passeggiata con i miei cani.  Mentre ero appunto a spasso con i miei cani in un giardino pubblico, mi sono guardato attorno. Come me, c’erano molte persone che portavano a spasso il loro cane. La scena era sempre la stessa: il cane annusava e perlustrava, compreso e assorto, il suo rettangolo di mondo; l’umano aveva la classica postura ricurva, il viso rivolto allo schermo dello smartphone.

Nell’evoluzione della specie, tra le due quella canina è considerata la meno evoluta. Un cane fatica a procurarsi il cibo da solo, vive in media per un tempo sei volte più breve rispetto all’umano, non ha sviluppato un linguaggio verbale, non riesce a guidare un’automobile, non possiede case e terreni, non è andato sulla Luna e non andrà su Marte. Tuttavia, io osservo il cane. Il cane al guinzaglio calpesta il terreno, lo annusa, sposta il muso da un ciuffo d’erba all’altro, sniffa tutti gli odori, li copre col proprio. Mentre compie queste operazioni, ogni fibra del suo essere cane è concentrata su questo: non c’è un prima, non c’è un dopo, esiste solo un adesso. Il cane non ha rimpianto per il passato, non ha preoccupazione per il futuro. Vive la sua esistenza qui e ora: passeggia, gioca, piscia, caga, dorme.  Qualsiasi cosa stia facendo, è concentrato su quella. E’ sempre attento, completamente immerso nell’attività in cui è impegnato, qualche volta all’erta. Un cane non è mai distratto. Può essere colto di sorpresa, ma non è mai distratto.

Poi osservo l’essere umano, quello che lo porta al guinzaglio. Attorno a lui potrebbe crollare un palazzo, cadere a terra una persona, accanto a lui potrebbe scoppiare una bomba. Attorno a lui in effetti scoppiano tante bombe, e l’umano le vede scrollando lo schermo del cellulare, tra un commento sul campionato di calcio e la pubblicità di un oggetto che ha cercato su internet e da allora non lo abbandona più. La sua famiglia può essere fatta prigioniera, la sua casa può bruciare mentre lui guarda il cellulare, perché l’umano che scrolla lo smartphone è sempre distratto.

Ovunque mi giri vedo cani profondamente concentrati nelle loro attività, grati all’umano che li sfama, disposti per lui a qualunque cosa, con un disinteresse totale per ogni convenienza. Al cane bastano le premure ed il cibo: chi provvede a questo riceve in cambio il suo affetto totale, incondizionato.

Ovunque mi giri nel giardino vedo esseri umani che scrollano lo smartphone. Oltre il giardino è pieno invece di umani che tentano di prevaricare altri  umani. Persone che vogliono sopraffare altre persone, per affermare concetti come la superiorità di una famiglia, di una etnia, di una nazione, di una religione. La massima espressione della competizione umana è la guerra. La guerra per avere qualcosa più di te, la guerra per entrare in possesso di qualcosa che è tuo. Mi metto nei panni di un cane (lo so che non è possibile, ma può essere un buon esercizio).  Cosa vuol dire mio? Cosa vuol dire tuo? Cosa è una nazione? Cos’è una proprietà? Perché dovrei volere più di quello che mi serve?

Un cane non sarà mai in gara con un altro cane, perché non sa cos’è una gara. Le gare di velocità, i concorsi di bellezza, gli agility: la competizione è tra i padroni dei cani, non tra i cani. (Provo pena anche per i cani che vengono agghindati in modo da assomigliare a degli osceni membri della specie umana, e provo rabbia per chi lo fa).

Non si può fare, perché le regole umane vietano di lasciare libero un cane sulla pubblica piazza. Ma se due cani si incontrassero liberamente, senza guinzaglio, inizierebbe una danza, non una guerra. Uno scambio di feromoni, non un dialogo di cortesie affettate. Si annuserebbero il sedere, subito. L’essere umano punterebbe anch’esso al tuo sedere, ma non sta bene mostrarlo subito. Deve fingere di essere interessato alle tue passioni, e quindi prima ti porta a cena. Sotto quella cena comincia a ribollire, come una lava incandescente, la faida umana.

La direzione in cui evolve la specie umana è una domanda che sarebbe priva di senso per qualunque altra specie, se non fosse che l’evoluzione della specie umana si tira dietro per forza una marea di problemi per la fauna e la flora di questo tribolato pianeta. E’ stato un membro della specie umana ad inventare gli antibiotici, senza i quali forse sarei già morto. Il cervello di un fisico che scoprì l’equivalenza tra massa ed energia fu l’unica parte del suo corpo a non essere cremata, ma viceversa conservata dal patologo in un contenitore sotto formalina. Poi lo stesso fisico ebbe bisogno di uno scambio con un famoso psichiatra – il più famoso degli psichiatri – per darsi una ragione del perché la specie umana era così incline alla guerra. Lui stesso non previde che, alcuni anni dopo, a partire dalla sua equazione, l’umanità sarebbe arrivata a creare la più distruttiva delle armi: la bomba atomica. E a lanciarla su due città.

Cosa dobbiamo intendere per intelligenza di una specie? Da un certo punto di vista la specie umana appare come la più intelligente: ha prodotto e produce esemplari umani dotati di una materia grigia talmente densa, di processi cognitivi talmente raffinati, da riuscire a venire a capo, da soli o con un gruppo di fidati collaboratori, di problemi, enigmi o patologie che apparivano irrisolvibili, insolubili o inguaribili. La stessa specie ha prodotto e produce degli esemplari dotati di un egotismo e di una brama talmente spaventosi da essere proiettati su scala planetaria, fino a generare guerre e distruzioni al posto di “normali” conflitti interpersonali. L’intelligenza tecnica, matematica, può essere chiamata tale se disgiunta da un profilo etico? Può essere definita tale se addirittura viene utilizzata per distruggere su vasta scala flora, fauna, intere parti della propria stessa specie, fino a insidiare l’esistenza stessa del pianeta che abita, almeno nei termini in cui possa essere definito vivibile proprio per sè? Perché è ben vero che l’aggressività alberga in tante specie animali (tutte?), ma non esiste una specie talmente aggressiva da ritenersi superiore alla natura di cui fa parte, e nello stesso tempo talmente incosciente (paradosso, per essere la specie che ha sicuramente coscienza di sè) da non rendersi conto che distruggere il proprio ambiente significa distruggere se stessi, tirandosi dietro la propria vanagloria e smania. Pulsione di morte, non mi viene in mente niente di meglio; quindi, di peggio.

A questo punto mi sono venute le vertigini. Se non ci sono riusciti Einstein e Freud a darsi una risposta sul perché della pulsione di guerra (cioè di morte) della specie umana, non posso farcela nemmeno io. Allora mi metto davanti allo specchio con i miei cani, che allo specchio non si riconoscono. Mi fanno tenerezza e invidia: vorrei avere la loro stessa incapacità di vedere la mia immagine riflessa.

 

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C’È UN FUTURO PER IL NUCLEARE IN ITALIA ?

C’è un futuro per il nucleare in Italia?

A periodi alterni la questione dell’uso della tecnologia nucleare per la produzione di energia si ripresenta. Ne ha parlato qualche mese fa alla COP29 di Baku la premier Giorgia Meloni dicendo che “l’Italia è impegnata in prima linea sul nucleare da fusione” e che “l’intenzione del Governo è di proseguire nelle attività di sviluppo di questa tecnologia”.

Ne hanno dato conferma anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani e quello dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin in occasione della riunione inaugurale del World Fusion Energy Group (WFEG), prima riunione del gruppo mondiale per l’energia da fusione, promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dallo stesso Governo italiano.

La Presidente del Consiglio, alla Abu Dhabi Sustainability Week tenutasi a metà gennaio, e come riportato da RAI Radio3 in Tutta la città ne parla del 17 gennaio scorso, aveva affermato che “la fusione nucleare può cambiare la storia, perché trasforma l’energia da arma geopolitica in risorsa accessibile”.

Nella trasmissione radiofonica il conduttore Pietro Del Soldà ha chiesto a Piero Martin, fisico dell’Università di Padova ed esperto di fusione nucleare per uso civile, quali possibilità ci sono a livello tecnologico ed economico, per il nucleare, e che differenza di prospettive tra fusione e fissione.

Ma è la telefonata con cui si apre la trasmissione ad essere molto interessante e a dar luogo a dubbi e interrogativi. L’ascoltatore intervenuto si presenta come ricercatore ENEA occupato nella sperimentazione sulla fusione nucleare. Attualmente, dice, non è possibile parlare di fattibilità e di tempi nel nucleare da fusione, si è infatti ancora nella fase dimostrativa concettuale e in mancanza delle condizioni di messa a punto di una tecnologia, dato che va risolto il problema fondamentale, cioè rendere continuo e autosostenuto il processo fisico, che nelle stelle è spontaneo mentre ovviamente sulla Terra non lo è.

Introducendo la trasmissione Del Soldà dà notizia dell’intenzione, da parte del Ministro Gilberto Pichetto Fratin, di presentare e portare in consiglio dei ministri entro il mese di febbraio un disegno di legge quadro [1] per la realizzazione, la gestione e il controllo di centrali nucleari a fissione di nuova generazione.

Il 28 febbraio il Consiglio dei ministri, come annunciato, ha dato il via libera al nuovo decreto energia e, su proposta del Ministro Pichetto Fratin, ha inoltre approvato un disegno di legge per conferire una delega al Governo sul nuovo nucleare sostenibile.

“Abbiamo una grande responsabilità verso le future generazioni, ha detto il Ministro, e dobbiamo garantire loro energia più pulita, economica e sicura per un’Italia che vuole crescere ed essere più competitiva. Un progetto ambizioso su cui siamo aperti a confrontarci con tutti coloro che, al di là di ogni impostazione ideologica, hanno davvero a cuore il futuro, la sicurezza e la crescita del Paese”. (https://www.mase.gov.it/comunicati/nucleare-sostenibile-mase-il-consiglio-dei-ministri-approva-la-delega)

Il Ministro ha poi proseguito spiegando che si tratta di una completa rottura rispetto alle esperienze precedenti: avendo come obiettivo quello di raggiungere i target di decarbonizzazione e sicurezza energetica, “si guarda a fusione e a fissione di nuova generazione con strumenti completamenti diversi rispetto alle grandi centrali”, usando il nucleare, fonte di energia green, programmabile e continua, che dovrà garantire energia sufficiente a prezzi accessibili, riducendo i costi e migliorando la competitività”.

Il Governo intende regolamentare tutto il ciclo di vita dell’energia nucleare, creando un programma nazionale che include la sperimentazione, la costruzione e gestione dei nuovi impianti e quella del combustibile, seguendo un approccio di economia circolare, ma anche lo smantellamento degli impianti esistenti e la gestione dei rifiuti.

A proposito del nucleare e del ddl del governo di notevole interesse è l’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano lo scorso 3 febbraio da Nicola Armaroli, dirigente di Ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche e uno dei massimi esperti italiani di questioni energetiche.

Secondo Armaroli il ddl che il ministro Gilberto Pichetto Fratin intendeva portare in Consiglio dei ministri, e che poi ha effettivamente portato, certifica “che il nucleare in Italia non si farà” in quanto “si mette nero su bianco che il nucleare dovranno pagarlo i privati”.

Non esiste un solo Paese al mondo, dice Armaroli “in cui il nucleare non sia sussidiato dallo Stato. La legge prescrive addirittura che le aziende energetiche si facciano carico della gestione dei rifiuti, incluso il deposito geologico”.

Ma è difficile pensare che qualcuno possa investire a queste condizioni, anche perché, continua Armaroli, “essendo l’Italia uno dei luoghi più difficili al mondo per fragilità idrogeologica, rischio sismico e vincoli paesaggistici, la localizzazione diventa un rebus”, un problema rilevante.

Manca inoltre un quadro economico realistico (si parla di oltre cento miliardi di investimenti): si consideri a questo proposito che nel 2022 per evitare la bancarotta il colosso nucleare francese EDF è stato nazionalizzato. I piccoli reattori modulari SMR e AMR (50-300 MW) poi, sono solo a livello di progetto e “non vi è un’azienda al mondo che li venda e non esiste un quadro regolatorio”[2]. Dei reattori avanzati AMR di cui si parla nel ddl governativo nessuno sa se e “quando sarà disponibile un prototipo, figuriamoci una produzione su scala industriale”, aggiunge Armaroli.[3]

Il problema è sicuramente intricato dal punto di vista economico e sociale, ma anche tecnico e, ovviamente, politico. Il governo di tutto ciò è consapevole, e dato che potrebbero esserci sviluppi in campo nucleare, questa è la motivazione che ha portato ad elaborare il disegno di legge in modo preventivo. Ma i problemi sul tappeto sono tanti.

Già è stato detto che i reattori che vuole il governo non esistono, un ostacolo importante è l’accettazione da parte dei territori. “Di recente, argomenta Armaroli, il consiglio regionale del Veneto si è espresso contro la possibilità di installazioni nucleari a Marghera”. Ma “il vero ostacolo è che oggi lo Stato italiano non può dedicare risorse economiche significative a questa operazione e quindi chiama in causa i privati”. E questo, più di tutti gli altri fattori, è una sorta di pietra tombale sugli sviluppi futuri del nucleare da fissione.

Oltre all’intervista di Armaroli interessante e utile (a cominciare dal titolo, Il nucleare non fa bene al clima, Einaudi 2024), il libretto scritto da Hervé Kempf, giornalista francese, fondatore del quotidiano ecologista Reporterre, e militante ambientalista, che aveva iniziato la carriera lavorando per Le Monde.

Nelle prime pagine del libro di Kempf si legge quanto per anni sia stato forte in Francia il lavoro di lobbying per orientare l’opinione pubblica a credere alle assurdità dei nuclearisti.

Francois de Rugy, nei pochi mesi in cui ha ricoperto il ruolo di ministro della Transizione ecologica e solidale tra il settembre 2018 e il luglio 2019, ha dichiarato di aver dovuto scontrarsi in particolare con alcune lobby: oltre a quelle dell’auto e della caccia, con EDF (Eletricité de France), la maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia.

Spesso in Italia il paese vicino è preso ad esempio per aver scelto il nucleare per risolvere i problemi legati all’approvvigionamento energetico. Pochi dicono invece del declino di questa tecnologia negli ultimi anni; dal 2022 infatti quasi la metà delle centrali nucleari francesi è ferma ed EDF non sembra in grado di portare avanti i progetti previsti per il futuro.

Kempf, sempre all’inizio del suo saggio, espone un interessante ragionamento, premettendo che, prima di effettuare qualsiasi scelta indirizzata alla soluzione dei problemi energetici, è necessario “liberarsi della propaganda e ragionare sulla base delle informazioni”. Lo chiama “il sofisma del nucleare”: tutto ciò che emette anidride carbonica “fa male al clima”, mentre tutto ciò che non ne emette “fa bene al clima”, quindi bene le energie rinnovabili, il risparmio energetico e anche l’energia da nucleare. Ma è così?

“Per fare la scelta giusta – dice Kempf – non ci si può concentrare solo sul problema delle emissioni di gas serra, perché ciascuna opzione è ugualmente valida”. Vanno invece considerati altri criteri e altri fattori, come la pericolosità delle tecnologie che si intendono adottare, la loro fattibilità, i costi economici e infine, ma estremamente importanti, le conseguenze sulla vita quotidiana e il tipo di società che tali scelte implicano.

Tra quanto scrive Kempf riguardo al fattore pericolosità del nucleare e, nello specifico sull’incidente di Černobyl’, cito solo il rapporto che dovrebbe essere pubblicato entro l’anno in corso da UNSCEAR, il Comitato scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti, sulla relazione tra basse dosi di radiazioni e malattie cardiovascolari, a riprova degli effetti protratti nel tempo della pericolosità delle sostanze emesse dalle centrali in caso di incidenti. Kempf parla di “incidenti che non finiscono mai.

Un aspetto interessante è poi la vulnerabilità degli impianti nucleari al riscaldamento globale. Molto banalmente l’aumento delle temperature “prevedibilmente andrà a influire sulle risorse idriche“ – di cui le centrali hanno grande necessità per il loro funzionamento – e creerà le condizioni per eventi estremi che gli impianti dovranno sopportare.

Alla fine del breve saggio Kempf titola l’ultimo capitolo “Dobbiamo scegliere: nucleare o sobrietà”, affermando che “la questione dell’energia nucleare è non solo scientifica, ma anche politica”. Non solo è una tecnologia antitetica ai principi democratici per le inevitabili implicazioni con gli usi militari, ma principalmente perché “centralizza” la produzione di energia che vi viene prodotta in grande quantità ma in un luogo solo, e quindi – come per tutte le centrali – diventa necessario trasferirla nei luoghi di utilizzo.

L’energia da rinnovabili prevede invece impianti di dimensioni di gran lunga ridotte e una struttura produttiva diffusa territorialmente e autonoma. L’autore conclude dichiarando che “il dibattito sul nucleare non è che un paravento al rifiuto di affrontare la questione delle disuguaglianze, nel suo paese come negli altri, e il rifiuto di chiedersi in quale società vogliamo vivere”, a maggior ragione se si considera, da un lato la situazione geopolitica attuale, e dall’altro le difficoltà causate dalle ricadute del riscaldamento globale che l’umanità è chiamata ad affrontare.

In conclusione vorrei ricordare un libro uscito parecchi anni fa, nel 1981, Siti impossibili. Una geografia improbabile del nucleare, scritto da Virginio Bettini, uno dei padri dell’ambientalismo scientifico italiano. Scomparso da pochi anni, Bettini ha insegnato Fondamenti di ecologia e geografia allo IUAV-Università di Venezia, è stato parlamentare europeo nel gruppo dei Verdi e tra i principali promotori della rivista La Nuova Ecologia. E’ anche autore del libro Contro il nucleare. Ecologia e centrali nucleari uscito nel 1977.

Nella presentazione del libro Siti impossibili si legge che “a voler rispettare i parametri stabiliti dallo stesso Comitato Nazionale dell’Energia Nucleare (CNEN) non è possibile alcuna localizzazione di centrali elettronucleari in Italia” [4].

La serie di fattori che rendono problematica la scelta della tecnologia nucleare porta Bettini a giudicare la politica di localizzazione delle centrali da parte dell’Ente elettrico nazionale “un’orgia di falsi ideologici e scientifici e di ricatti nei confronti dei ricercatori e degli ‘addetti ai lavori’ che non si allineano”.

E poi, rispetto agli incentivi previsti per le comunità disposte ad accettare sul loro territorio le centrali scrive: “di sicurezza non si discute, parliamo di soldi. Questo lo slogan proposto dall’ENEL e dalla Democrazia Cristiana per rendere accettabile dalle popolazioni la logica del sito impossibile”.

Più avanti Bettini, riportando un intervento di Marcello Cini [5] pubblicato sul Manifesto del 19 aprile 1979, affronta il tema della “convivenza con la tecnologia, ovvero fidarsi degli esperti”. Afferma Cini: “al consumatore non si danno conoscenze, ma istruzioni per l’uso. Non gli si forniscono criteri di scelta, ma dépliants pubblicitari. Non si cerca di metterlo in condizione di acquisire strumenti di sapere, ma lo si ingozza di pareri di esperti. […] Certo la conoscenza senza potere non serve […]. Per questo è necessario opporsi alle centrali nucleari. Perché le centrali nucleari non sono un passo avanti verso la convivenza con la tecnologia. Sono il contrario. Sono l’asservimento della gente alla tecnologia. Sono l’utilizzazione della tecnologia per rafforzare gli attuali rapporti di potere”.

Bettini infine motiva l’esigenza di scrivere Siti impossibili anche dalla “convinzione che autore e suoi collaboratori (“ricercatori scalzi”) presso il corso di laurea in urbanistica del IUAV si sono fatti circa l’impossibilità di individuare siti nucleari in Italia. Con la ricerca sul terreno ed un lavoro sperimentale di anni hanno definito la geografia impossibile del sito nucleare, nella convinzione di rendere un servizio utile alla intera comunità nazionale”.

Tante sono le concordanze con il libro di Kempf scritto quasi cinquant’anni dopo.

Note

[1] Ne dà notizia il 23 gennaio il portale QualEnergia.it (https://www.qualenergia.it/articoli/nucleare-ecco-ddl-ritorno-atomo/), mentre AGEEI, L’agenzia di stampa sull’energia e le infrastrutture, il 18 gennaio scrive “Pronta la bozza del DDL Nucleare sostenibile” (https://ageei.eu/nucleare-pronto-il-ddl-nucleare-sostenibile-6-pagine-e-4-articoli-il-testo/).

[2] I reattori nucleari di 4ª generazione reattori sperimentali o dimostrativi secondo i criteri selezionati dal GIF (Generation IV International Forum) dovrebbero permettere di migliorare la sicurezza nucleare, ridurre la produzione di scorie, sottrarsi alla proliferazione nucleare (uso militare), minimizzare gli sprechi e l’impiego di risorse naturali e diminuire i costi di costruzione e di esercizio degli impianti; questi sistemi offrirebbero significativi vantaggi di redditività economica, eliminazione del plutonio impiegabile in armi nucleari e protezione fisica sia passiva sia attiva dell’impianto. https://it.wikipedia.org/wiki/Reattore_nucleare_di_IV_generazione

[3] https://www.linkiesta.it/2023/01/potenzialita-dubbi-e-rischi-del-nucleare-di-quarta-generazione/

[4] Il Comitato Nazionale dell’Energia Nucleare è stato un ente per la promozione dello sviluppo dell’energia nucleare per usi civili in Italia. Istituito nel 1960, nel 1982 si è trasformato nell’attuale ENEA https://it.wikipedia.org/wiki/Comitato_nazionale_per_l%27energia_nucleare.

[5] Fisico e ambientalista italiano, autore di l’Ape e l’Architetto, 1976, testo che aprì un acceso dibattito sul ruolo della scienza per grande parte del mondo della cultura scientifica italiana, e uno dei testi di formazione del movimento ambientalista allora agli albori.

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Milano, Extinction Rebellion occupa il Tesla Store di Piazza Gae Aulenti

Milano, Extinction Rebellion occupa Tesla Store di Piazza Gae Aulenti

La mattina del 7 marzo il Tesla Store di piazza Gae Aulenti a Milano è stato pacificamente invaso da Extinction Rebellion, per denunciare l’enorme potere, e l’influenza mediatica e politica, esercitata da Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio personale di oltre 400 miliardi di dollari.
Dopo essere entrate nel negozio, diverse persone si sono incatenate alle auto in esposizione e hanno aperto uno striscione con scritto “Ecologia per tutte, non fascismo green”. All’esterno intanto altri si incollavano alle vetrine, cantavano, parlavano con i passanti spiegando le ragioni della protesta e esponevano un secondo striscione “Make millionaires pay again”. Una parafrasi ironica del MAGA trumpiano, di cui Musk negli ultimi mesi è diventato una delle voci più influenti. “L’apparentamento con Musk di molte forze politiche della destra globale, incluse quelle al governo in Italia, equivale di fatto a una svendita della sovranità nazionale a favore di società private che, come è ovvio, hanno come obiettivo il loro personale profitto” spiega Lorenzo, uno degli attivisti di Extinction Rebellion all’esterno dello store.

Una dichiarazione che riecheggia il dibattito aspro avutosi alla Camera il giorno prima, con l’approvazione del Ddl Spazio, che viene da più parti criticato per aprire le porte alla gestione delle comunicazioni satellitari nazionali a un soggetto non europeo, la StarLink di Elon Musk, con potenziali ripercussioni sulla sicurezza nazionale.

La protesta di Extinction Rebellion si inserisce, inoltre, in una contestazione di dimensione globale nei confronti del patron di Tesla e del suo sostegno all’estrema destra internazionale, percepito da una parte dell’opinione pubblica europea come un pericolo per la democrazia e i diritti civili. In Europa e negli Stati Uniti, nelle scorse settimane, sono state numerose le proteste di fronte agli store della casa automobilistica. E in Europa le vendite di Tesla sono crollate, in particolare in Francia e Spagna, rispettivamente del 63,4 e addirittura del 75,4%.
Sotto accusa anche il divario crescente tra i molto ricchi e il resto della popolazione. Un problema scottante anche in Italia, dove la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro – al ritmo di 166 milioni di euro al giorno – raggiungendo un valore complessivo di 272,5 miliardi di euro detenuto da 71 individui.

E sono proprio i super ricchi a contribuire in maniera sproporzionata alla crisi ecoclimatica: l’1% più ricco della popolazione mondiale produce più emissioni climalteranti del 66% più povero.

Extinction Rebellion

In copertina; Milano, 7 marzo 2025,, Extinction Rebellion occupa il Tesla Store di Piazza Gae Aulenti (Foto di Zazoom)

Sotto il fiume

Sotto il fiume

Appena dopo l’assunzione avevo cominciato a intuire qualcosa, ma fu durante quell’inverno che tutto divenne chiaro e lampante. Erano passati dieci anni da allora e capii che l’azienda non aveva mai avuto bisogno di me. Seriamente. Appena imbarcato, per così dire, ero arrivato in porto: alla WineMouse Inc. non servivano le mie mani per costruire mouse. Le mani, per così dire, furono le prime parti del corpo a morire.

Gli attrezzi, come giocattoli abbandonati nella mia stanzetta da bambino, erano lì sul banco da lavoro a impedire il movimento piatto proprio di quell’oggetto, il mouse, accucciato nei pressi dello schermo. Si scorgevano, a terra i segni dello sgabello sul quale mi ero ingobbito ben bene come Snoopy in una sua celebre imitazione. Tra quei segni, mi sembrava di riconoscere le centinaia di impronte lasciate dalle scarpe che si erano succedute ai miei piedi, dalle adidas che mi portavo da casa nei primi anni, fino agli ultimi modelli aziendali sempre più protettivi con i puntali rinforzati e le suole rigide. Anche i piedi cominciavano a morire.

La casa, dove io e mia moglie Anna vivevamo, si trovava più in basso del livello del mare, gettandoci in un’angoscia soffocante e lagunare dall’umore grigio e salmastro come quello del fiume che immaginavamo passare, a pochi chilometri di distanza, sopra le nostre teste. Era inverno, neanche un po’ di neve per lasciare un’orma, e per tutta la stagione le strade sarebbero rimaste zuppe di nebbie impolverate e rimasugli di fiume, il cielo vuoto di stelle e luce, gli alberi fradici e sgocciolanti.

La città così piatta da non produrre ombre si era distesa ancora più in basso della nostra casa e mi ricordava, ancora una volta, il mouse fermo sul suo tappetino. Per tutto l’inverno le luci della festa rimasero sospese tra il frontone del duomo e la torre del comune in un inverosimile Gran Pavese.

Dal nostro balcone si vedeva la sagoma del liquidambar che abbracciava la facciata e la casa di fronte sfarinata dalla nebbia. La gente continuava a parlare di un inverno più umido del solito e in effetti il sole stentava ad asciugare le lenzuola. Il fiume gonfio si riversava dal cielo al mare. Gli impianti del polo industriale sbuffavano un affanno stanco. Le fabbriche stentavano a convertirsi. I topi scappavano; i… mouse pure.

Il nostro piccolo appartamento si trovava al secondo piano di un palazzo di mattoni, poco lontano dal fabbricone, come veniva chiamata da tutti, in città, l’area industriale. Ora anche noi, come gli altri condomini, avevamo il nostro problema di lavoro. Erano già tanti quelli che non riuscivano a pagare l’affitto. Al piano ammezzato c’era un uomo che percepiva il reddito di cittadinanza. Di sera lo vedevamo affacciato alla finestra accanto al portone di ingresso intento a fumare e alle sue spalle la televisione accesa. L’uomo aveva le dita ingiallite e una maglia, molto intima, dello stesso colore.

Al primo piano viveva una coppia di anziani. Non si sentivano. Non si vedevano. La donna telefonava per lamentarsi del rumore dei nostri passi per casa che disturbavano il marito che riposava. Sempre. A qualunque ora della notte o del giorno noi provassimo a muoverci per casa, puntuale arrivava lo squillo. Niente da dire: ci sentivano bene. Ogni settimana un volontario portava loro delle scatolette di legumi, qualche biscotto e del latte.

Da una settimana stavamo sperimentando, buoni ultimi, l’appartenenza ad una nuova categoria sociale. Mia moglie disoccupata, io in cassa integrazione, una bambina piccola ed un’altra in arrivo. Avevamo notato che le persone del palazzo non erano più le stesse. Ad esempio l’anziano dell’ultimo piano, che prima di me aveva perso il lavoro in fabbrica, nelle ultime mattine ci salutava più calorosamente. Da quando era in pensione non riusciva a starsene con le mani in mano ed ogni mattina si alzava, prendeva la bicicletta e girava per tutta la città. Fino a poco tempo prima , sentirmi uscire di casa per andare a lavoro, lo teneva in uno stato di mal dissimulata invidia, ma ora che mi sapeva disoccupato era scattata in lui una insospettabile solidarietà.

Tutto, apparentemente, sembrava procedere allo stesso modo delle precedenti passate stagioni,  ma le aziende cominciavano a chiudere davvero, i macchinari a fermarsi per tempi sempre più lunghi e anche la WineMouse Inc., che fino a poco tempo prima sembrava – così recitava lo slogan aziendale – “stringere il mondo in una mano”, stava tagliando il personale. Come qualunque altra risorsa, quella umana era la prima ad essere sfruttata e ad esaurirsi.

Pure se quasi tutto e tutti soffrivano l’inverno umido, nessuno faceva cenno alla primavera: di illudersi anticipatamente non se ne vedeva ragione.

Ma nell’ultima settima, la prima da disoccupato e con una seconda figlia in arrivo, dal nostro balcone io e Anna potevamo accorgerci dell’arrivo della primavera, perché… stavamo guadagnando tempo da perdere. All’inizio fu una nebbia più scucita con un’aria che filtrava dallo strappo proveniente dai colli lontani. Poi furono i rami del liquidambar che cominciarono a inzupparsi di un verde muschioso e a rigonfiarsi alle estremità apicali. Il cielo cominciò ad alleggerirsi e a stare decisamente più in alto – era la primavera, nessun dubbio. Per noi, poi, questa anticipazione era ancora più evidente per via del taglio di luce in cucina che colpiva la credenza per quasi tutta la sua altezza.

La primavera stava arrivando ma, nel resto della città, questo non faceva differenza. Eppure tutti ricordavano troppo bene una delle precedenti stagioni stagnanti e, in fondo in fondo, erano terrorizzati dal fatto di doverla rivivere. Nel passaggio dai campi agricoli alle ciminiere industriali non si erano preoccupati per le nuove necessità, ma solo a salvaguardare e conservare i loro svaghi: la caccia, i viaggi, le cene esclusive nei circoli. L’aperitivo serale.

Nessuno sembrava nutrire dubbi: tutto sarebbe ripartito un’altra volta. Il buono e il cattivo tempo non si mischiano tra loro, si alternano in cicli, a volte caotici, ma si alternano. Eravamo lì sotto il fiume, tutti a guardare la primavera arrivare come la grande onda di Hokusai.

Sabato mattina non uscimmo a fare la spesa come avevamo sempre fatto. Affacciati al balcone aspettavamo Piergiorgio che arrivò con una macchina scintillante per portarci nella sua casa di campagna. Ci mostrò quanto fosse veloce la sua nuova macchina aziendale e ci spiegò tutte le funzioni del computer di bordo. Poi scendemmo per una stretta strada di campagna e girammo intorno ad un enorme olmo che nascondeva completamente un viale d’accesso ricoperto di ghiaia.

Il casale di mattoni a vista, con il fiume a sinistra e il frutteto che arrivava quasi al fiume, era completamente ripulito e ordinato. Le pietre sembravano più squadrate e non v’erano tracce degli arbusti e dei fiori spontanei che un tempo spuntavano dalle fessure. Le api e altri insetti si accalcavano sui fiori alle finestre che la moglie di Piergiorgio aveva sistemato. Eleonora venne alla porta passando il dorso delle mani sul grembiule azzurro e toccò il pancione di Anna, poi si inginocchiò per abbracciare nostra figlia. Un calabrone che ci ronzava intorno la fece alzare di scatto. Agitando le mani disse che la primavera era arrivata e imprecò contro gli insetti.

Il cielo era così grande da riempire ogni cosa. Gli uccelli lo attraversavano come fossero miracoli. Alla fine del fiume, lì in fondo, sopra la nostra casa, sopra la città ogni cosa era ferma. I topi annegavano nei canali. In fabbrica nessuno più verificava il funzionamento dei mouse. Le finestre erano tutte chiuse.

Eleonora disse che la primavera era tornata e si accese nervosamente una sigaretta – Sì, è primavera – sussurrò felice Anna, muovendo dolcemente la mano sul pancione, quasi a voler aprire una nuova finestra sul mondo.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/

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Né putiniani, né trumpiani

Né putiniani nè trumpiani

Né putiniani nè trumpiani

Possiamo dialogare rispettandoci sia nelle idee che come persone. Molte cose che ci sono state narrate per vere, si sono dimostrate pura propaganda (del resto i direttori dei giornali rispondono a chi li finanzia). Se vogliamo farci manipolare basta leggere media e tv mainstream, che da anni cercano di imbonirci (ben prima della guerra Ucraina/USA-Russia).

Viviamo un’epoca di grandi cambiamenti (anche geopolitici, una Nuova Yalta?) che avrà notevole influenza anche su noi europei. Questa volta saremo esclusi (per nostri gravi errori) dal nuovo ordine internazionale.

Ho spesso criticato Putin come nuovo “zar”: ha avvelenato oppositori e impedito si sviluppasse in Russia un libero confronto democratico. Mi auguro che prima o poi anche in Russia si sviluppino più libertà e diritti. Ma è facile capire le ragioni del consenso a Putin:
–  il disastro provocato per 10 anni dalle politiche liberiste dei neocon americani dal 1991 al 2000, che ha portato in miseria il 40% dei russi e svenduto a stranieri tutte le più importanti ricchezze,
–  l’enorme crescita del tenore di vita in Russia da quando c’è Putin, cioè diritti sostanziali (lavoro, salario, welfare, salute) e non formali e la speranza di vita è salita da 65 a 71 anni (mentre in Usa calava).

Né sono un fan di Trump e lo giudicherò sulla base dei fatti, ma non ho neppure pregiudizi su uno che dice di voler chiudere tutte le guerre.

Compito di questo quotidiano credo sia dare ai lettori analisi “oggettive” di quanto sta accadendo, senza pregiudizi, senza fare sconti né a nuovi politici forti (Trump, Putin, Xi Jinping), né alla narrazione mainstream che vorrebbe le democrazie europee e i politici Dem USA difensori del Bene contro il Male.

Da quando è crollata l’URSS (1991), il neoliberismo ha avviato un progetto di dominio planetario a colpi di soft power (cambi di regime) e di guerre contro chi si opponeva a questo disegno,  guidato apparentemente dai politici (presidenti USA in primis), ma di fatto dalle élite finanziarie e dalle grandi company anglosassoni.
Non ci piacciono i dittatori, ma neppure quelli che, dietro le false buone maniere, prendono ordini dalla finanza e dalle grandi company e che lavorano per addormentare il popolo col consumismo materialista e la propaganda.

Purtroppo l’Europa ha seguito come un cagnolino gli americani neocon in questo progetto di dominio e guerre e ha stravolto tutte le speranze di una Europa umanistica e in difesa dei suoi lavoratori. Oggi si trova orfana e nuda con l’arrivo di Trump, del quale possiamo dire tutto il male, ma non che non stia facendo quello che aveva promesso. Come scrive Federico Rampini, che non è certo né putiniano né trumpiano, America First è uno slogan di tutti i precedenti Presidenti (Clinton, Bush, Obama, Biden), ma poi tutti si sono rivolti altrove, facendo guerre su guerre, che hanno regolarmente perso. Trump è il primo che prova a fare quello che ha detto: vuole chiudere le guerre, rendere più ricchi gli americani, disegnare un nuovo ordine mondiale in cui, come è sempre stato nella storia, i vincitori si accordano. A Yalta furono USA, URSS, Inghilterra. Oggi sono USA, Russia, Cina (anche se Trump vuole staccare un po’ la Russia da Cina, come fecero Nixon-Kissinger nel 1972 aprendo a Mao, che favorì dopo 17 anni il crollo dell’URSS). Facile capire come si sposterà il tenore di vita nei prossimi 20 anni: inglesi ed europei lo sanno, da qui prima la guerra per una pace “giusta” e ora il riarmo.

Sulla guerra e la pace. Io ed altri su Periscopio avevamo avvertito gli “europeisti democratici” che volevano sconfiggere il Male (la Russia, così la dipinge il mainstream da 3 anni, spargendo russofobia a gogò) che era impossibile (lo disse meglio di noi il capo delle forze armate Mark Milley nel 2022). Che era saggio cercare subito la pace (come stava avvenendo a Istanbul nella primavera 2022). Che è interesse dell’Europa dialogare con la Russia per ragioni economiche, storiche e culturali. Che solo dialogo, commerci, riconoscimento dei reciproci interessi aiuta a cambiare e non invece fare la guerra.

L’abbiamo detto in mille modi. Purtroppo chi non si arrende alla realtà vuole continuare a farsi male, cioè continuare la guerra per la pace “giusta” e il macello (degli altri però). Che durerà, così dice Zelensky “molto, molto a lungo” e Trump risponde “quel tizio non vuole la pace”.
Chi sosterrà il riarmo si farà male perché gli elettori europei (ma anche americani) sono contrari da sempre (anche se i media non lo dicono). La prossima puntata, dopo un riarmo nazionalistico, è che i partiti di estrema destra (che sono contro il riarmo) avranno una schiacciante vittoria. Purtroppo non stiamo combattendo, come ci vogliono far credere, per alcuna libertà o diritti, ma solo per far parte di un “tavolo” dove chi si siede godrà dei prossimi guadagni.

L’Europa (e dicendo Europa intendiamo l’élite europea) dovrebbe prendere atto di una sconfitta storica, perchè anziché lavorare per la guerra, avrebbe dovuto lavorare per la pace, nei suoi interessi e anche per i suoi valori. Ma prima si è sdraiata sulla politica guerrafondaia degli americani e ora, rimasta nuda, parla di riarmo a vanvera, forzando il patto di stabilità, usando i fondi russi congelati all’estero, racimolando i soldi non spesi del PNRR, usando i fondi di coesione, riformando il mercato dei capitali per la felicità dell’industria bellica. Un modo per restare ancora più soli e sciocchi, gettando al vento gli ideali fondativi di pace e prosperità per tutti che sono il vero compito dell’Europa nel mondo, non di scimmiottare politiche guerrafondaie, proprio ora che gli Usa le dismettono.

Non ci rimane che sperare in un’altra Europa, della pace e dello sviluppo umano, forse più piccola e saggia, che non esporta armi, ma i suoi valori migliori (libertà sostanziali e non solo formali, welfare, fratellanza, eguaglianza) che significa tagliare via l’ americanismo consumista che abbiam fatto crescere negli ultimi 30 anni dentro di noi e diventare esempio di buona vita nella pace nel mondo (che è la missione spirituale dell’Europa). Per questo crollò il muro di Berlino, perchè i cittadini dell’Est volevano stare all’Ovest. E’ l’unica via sia per la democrazia nella Russia, sia per migliorare noi stessi (che non stiamo proprio così bene): incontro e dialogo tra culture e popoli. Le armi portano solo tempesta e, in un mondo in cui saremo sempre più piccoli (4,5% della popolazione nel 2050), saremo percepiti come ricchi privi di valori e falsi, perché parliamo di giustizia con doppi standard.

In copertina: immagine di Istituto di Studi di Politica Internazionale con licenza Creative Commons

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Per certi Versi /
La poesia sorgeva

La poesia sorgeva

 

Lo spirito poetico

si inchina ai suoi amanti

Un tempo ogni uomo era un poeta

raccoglieva rosa selvatiche

e di spine ne faceva collane

Le donne contavano le lune

e la poesia sorgeva

dalle sorgenti.

 

Cover: sorgente dell’Aniene – immagine da romanoimpero.com

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

8 marzo. Liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

8 marzo. Liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

8 marzo. Liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

Il secolo corrente deve essere il tempo in cui le donne, in ogni parte del mondo, prendono in mano le loro sorti e lottano insieme per liberarsi dal patriarcato.

Noi donne del CISDA che da oltre 25 anni lavoriamo a fianco delle donne afghane di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), sappiamo che la loro lotta non è altro che un tassello delle lotte delle donne che in ogni angolo del pianeta si ribellano all’oppressione e al patriarcato in tutte le sue forme.

Sotto il regime dei fondamentalisti talebani le donne afghane sono oggi tra le più oppresse al mondo: non possono studiare, lavorare, uscire di casa da sole, e quando escono devono coprire il proprio corpo da capo a piedi. Un vero e proprio apartheid di genere, con l’obiettivo di annientare sistematicamente le donne e la loro volontà di lotta, che è un esempio di coraggio e resistenza.

Ovunque il fondamentalismo crea apartheid di genere. L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale.

Noi lottiamo con loro, ma sappiamo anche che fino a che ci sarà anche una sola donna schiava e oppressa nessuna sarà libera.

Viviamo un tempo disperante, in cui il sistema capitalista e patriarcale sta facendo passare come inevitabili militarizzazione della società, guerre, cambiamenti climatici, disumanizzazione e genocidio di interi popoli, dei migranti e delle persone razializzate. Il fascismo, ormai dilagante in tutto il mondo occidentale e non solo, ha come primo target le donne, a cui viene chiesto di ridurre il proprio ruolo a quello di fattrici e forza di lavoro gratuita, o sfruttata e sottopagata.

Questa disperazione, soprattutto per noi donne, deve trasformarsi in una lotta comune contro la violenza, il femminicidio, il fascismo, le politiche genocide e le guerre, tutti tasselli di un medesimo disegno di un sistema in profonda crisi.

Contro l’apartheid di genere in Afghanistan e ovunque nel mondo.
Contro tutti i fondamentalismi che imprigionano le donne

Cover: immagine di CISDA

8 marzo, omaggio alle Madres de Plaza de Mayo

8 marzo, omaggio alle Madres de Plaza de Mayo

Come alle volte succede, il caso mi ha fatto incontrare Hebe de Bonafini a Ferrara proprio mentre lavoravo ad un testo: “La madre terra”. Siamo nella primavera del 2013 Hebe de Bonafini era rappresentante e leader delle Madres de Plaza de Mayo, era allora una donna di 85 anni, una madre antica, collegata intimamente alla storia della sua terra: l’Argentina.

Potente, calda, solare ed ombrosa insieme, le sue parole di dolore, di amore e di lotta mi sono arrivate fino nel profondo. Parla con semplicità, ma le sue parole si trasformano con grande naturalezza in sentimenti, cose, persone che rivivono, con noi, nella stanza dell’incontro.

Le sue mani di lavoratrice richiamano la ruvidità e la tenerezza dei gesti di cura che una madre del popolo sa donare. Nelle neuroscienze l’empatia viene definita come simulazione incarnata, questo incontro ha testimoniato che generatività e trasformazione passano per il corpo. Qui, in particolare, il corpo femminile.

Madreterra 

di Hebe de Bonafini

«Madreterra, quante cose racchiude questa parola composta
Madre: partorire, aprire, donare, dare alla luce, lacerare, sanguinare, vita, moltiplicare, nuovo, crescere
Quando sento nelle mie mani la terra fertile del mio giardino che mi si infila nelle unghie,quando l’annaffio e mi schizza sulle gambe, entro in comunione con la vita che sarà la nuova pianta.
La terra dell’aperta campagna, quella che sta sotto i grandi alberi, è protetta e al tempo stesso nutrita dalle proprie foglie,…
Ed è in quella terra di aperta campagna che ritrovo il senso reale dei simboli, lì ci sono i nostri, quelli che hanno lottato per difenderla, li’ c’è il loro sangue.
Noi tramite i nostri figli che hanno amato tanto la terra da aver donato la propria vita per lei, siamo le madri di Plaza de Mayo
Che, aperte le nostre viscere come la terra dell’aperta campagna,
tagliate a pezzi come solchi fertili
dritte come alberi,
sentiamo che a volte sono pochi i rami per proteggere
tanti figli.
Ma aggrappate alla terra continuiamo
A essere eternamente giovani
Per continuare a partorire.»

(Da Il cuore della scrittura. Poesie del laboratorio di scrittura delle Madres de Plaza de Mayo, ed. Sima Milano , 2003, pag. 73)

Le Madres de Plaza de Mayo sono le madri dei 30.ooo desaparecidos argentini. Esse dicono di essere state partorite dai loro figli perché la loro lotta è nata per mantenere in vita gli ideali dei loro figli, perché il loro essere vive e combattive è necessario per la speranza di un mondo migliore, solidale e giusto. Ognuna di loro si sente madre non solo del proprio figlio biologico, ma di tutti i 30.000 scomparsi.

Dopo il golpe militare del marzo 1976, un gruppo di madri argentine ebbe il coraggio di affrontare la dittatura per ritrovare i figli scomparsi, dando vita alla storica marcia che ancor oggi continua ogni giovedì in Plaza de Mayo, forti solo del fazzoletto bianco che si annodano sotto il mento e che è diventato il loro simbolo.

I militari avevano sequestrato e ucciso trentamila oppositori politici, ragazzi e ragazze torturati nei campi di concentramento clandestini. Anche dopo la caduta della dittatura militare l’impegno delle madres non si è fermato e hanno continuato negli anni a sviluppare in molte direzioni il valore e la forza fertile della loro maternità, come potere capace di generare sogni progetti relazioni.

“Si allarga il cuore
Per albergare l’amore per trentamila figli.
Trentamila figli nati
In anni di sofferenza
Quando la morte cercava di uccidere la vita.
Trentamila figli che ci hanno insegnato
Con lezioni di vita
A vincere il sentimento di dolore che ribolle nell’anima
Trasformandolo in vita.
…Trentamila figli vincitori della morte “
da Trentamila figli, Hebe De Bonafini

“Socializzare la maternità” gridano nelle piazze, essere madre ha un significato che supera il possesso o il dato biografico, ma è la qualità profonda del prendersi cura, del nutrire e del proteggere e per questo è una caratteristica universale che può appartenere a chiunque, anche agli uomini e alle donne che non hanno generato.

Le madri fondatrici del movimento , foto flickr
In marcia. Le madri fondatrici del movimento , foto flickr

La loro scelta è stata di non fermarsi al ricordo, al pianto doloroso legato alla perdita e hanno trasformato il vuoto lasciato dai loro figli in uno spazio fertile per generare nuovamente quel processo di libertà e di giustizia che la morte aveva interrotto.

Le Madres hanno riprodotto il processo naturale della rinascita per cui ogni nuovo germoglio è il risultato di un seme che è stato interrato. La vita nasce dalla morte.

La lotta delle Madres vive e si nutre dei semi coltivati dai loro figli e tutti i desaparecidos rivivono in questa realtà trasformata.

Per questo hanno rifiutato ogni forma di riparazione del governo argentino, le Madres non volevano cadaveri da seppellire ma continuare a far vivere i loro figli attraverso le loro idee.

Aparicion con vida”. È il suo grido di battaglia.

“Non ci si rende conto di come si cresce, o a che ora si cresce, ma a volte, quando qualcosa fa molto male, (…) ci si rende conto che dopo il grande dolore risulta imprescindibile sognare, percorrere la propria vita e la vita insieme, lasciar volare l’immaginazione, ripercorrendo il cammino più volte.” … “ Ho un dolore che adesso è lotta, in cui pulsano tutte le vite che non ho potuto salvare. Nei miei sogni li sento vivere, li vedo vivere negli altri. I loro sogni sono i miei sogni, quelli che ho imparato quando ho cominciato a crescere insieme a loro”.

La maternità è collegata al nutrimento e la terra fornisce i prodotti per continuare a crescere i figli. Così non rinunciando alla propria identità, le Madres inventano anche Cocinando politica. Partendo dal cibo, dalla terra e dai suoi prodotti si insegna la politica.

La scelta stessa dei piatti è rivoluzionaria: contro le tendenze di mercato e della globalizzazione cucinano piatti in cui si utilizzano i prodotti della terra, i più popolari, i più genuini, i meno costosi, coltivati nel proprio orto e mentre i prodotti della terra si trasformano in cibo per il corpo contemporaneamente diventano alimento per l’anima.

Hebe de Bonafini, ottobre 2022. Ph. Wilimedia Commons

Ebe muore a 93 anni, il 21 novembre 2022, è una delle personalità più importanti dell’Argentina e del mondo intero per la sua stenua difesa dei diritti umani, aveva ottenuto il Premio Unesco per l’Educazione alla Pace nel 1999.

Le Madres continuano nel loro impegno politico ancora oggi, 46 anos de lucha”:

Buenos Aires, 21 feb 2025 (Prensa Latina): l’associazione argentina Madri di Plaza de Mayo ha espresso oggi la sua solidarietà ai lavoratori repressi dalla polizia, quando hanno cercato di manifestare nei pressi del Ministero del Capitale Umano.

Attualmente sono più di una decina i nipoti- i figli dei figli scomparsi- che collaborano in maniera attiva con l’associazione delle «abuelas», le nonne. Su di loro grava non solo il compito di sollevare le nonne dalla preoccupazione del «dopo di noi», ma anche la responsabilità di custodire e diffondere la memoria di quel che è accaduto.

Le Madres de Plaza de Mayo ancora oggi attendono di conoscere che fine abbiano fatto i propri figli e di certo non sarà il governo Milei a sollecitare, quanti ancora sanno, a parlare.

Il 27 febbraio appena passato, giovedì, si è svolta la marcia numero 2.446.

In copertina: El mural es un Tributo a las Madres de Plaza de Mayo. El boceto fue realizado por el muralista Lucas Quinto y fue pintado por alumnos de la Escuela de Adultos Nº 29 de La Boca, junto al profesor Leonardo Reitman. Se ubica en la Plazoleta Bomberos Voluntarios (calles Lamadrid y Garibaldi), en el barrio de La Boca, en Buenos Aires. – immagine di Flickr con licenza Wikimedia Commons.

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Torna a Roma dal 20 al 23 marzo la V edizione del Festival del Cinema Tedesco

Apre in anteprima italiana “Another German Tank Story opera prima di Jannis Alexander Kiefer ospite del festival, primo film a concorrere per il premio del pubblico

Torna a Roma la V edizione del Festival del Cinema Tedesco dal 20 al 23 marzo 2025 al Cinema Quattro Fontane.

A volere l’iniziativa German Films che, da oltre 25 anni, promuove il cinema tedesco nel mondo. Il Festival si svolgerà in collaborazione con Goethe-InstitutAmbasciata della Repubblica di Germania a Roma e da quest’anno con la collaborazione di Accademia Tedesca Roma Villa Massimo.

Nei quattro giorni di programmazione saranno presentate alcune tra le opere più interessanti scelte a partire dalle recenti produzioni cinematografiche tedesche per le quali il pubblico romano sarà chiamato a votare il proprio film preferito.
Quella presente a Roma è una selezione di opere di autori e registi all’attenzione della critica e dei festival internazionali, accuratamente selezionati dalla giuria composta da Cristiana Paternò, Mauro Donzelli e Miriam Mauti.

Ad aprire il festival, in anteprima italiana, Another German Tank Story, opera prima di Jannis Alexander Kiefer che sarà presente al festival per incontrare il pubblico in sala.

Il film già presentato al 41° Munich International Film Festival e in concorso all’International Film Festival di Shanghai (SIFF), è stato selezionato alla Berlinale Talent, piattaforma di networking che raccoglie i migliori giovani autori che si affacciano alla regia cinematografica.

In un tranquillo villaggio tedesco, l’arrivo di una troupe americana che si stabilisce lì per girare una serie sulla Seconda Guerra Mondiale sconvolge la vita dei suoi abitanti. La sindaca sogna di rilanciare il paese, un giovane vede un’occasione per emergere e un giornalista senza più lavoro cerca di approfittarne.

Another German Tank Story, di Jannis Alexander Kiefer, credits AGTS_Stills_HellFürAuswertung_LQ
Another German Tank Story, di Jannis Alexander Kiefer, credits AGTS_Stills_HellFürAuswertung_LQ

Tra ambizioni e segreti e un carro armato comparso dal nulla, la commedia nera di Jannis Alexander Kiefer racconta con ironia le speranze e le contraddizioni di una comunità sospesa tra passato e futuro. Il film sarà presentato in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Il Festival del Cinema Tedesco è promosso da German Films Service + Marketing GmbH, in collaborazione con il Goethe-Institut, l’Ambasciata della Repubblica di Germania a Roma, da quest’anno in partnership con l’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo, con il supporto del Cinema Quattro Fontane.

 

Foto in evidenza da ‘Another German Tank Story’ di Jannis Alexander Kiefer, credits AGTS_Stills_HellFürAuswertung_LQ

Immagini cortesia Storyfinders

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La stoffa delle donne

La stoffa delle donne

Carmen Mondragón, conosciuta anche come Nahui Olin (Tacubaya, 8 luglio 1893 – Città del Messico, 23 gennaio 1978), è stata una pittrice, poetessa e modella messicana.

Mi presento: sono Caterina e ho pensato di creare una rubrica (su Periscopio a partire da aprile 2025, n.d.r.)  per far conoscere al maggior numero di persone possibile le “storie” di figure femminili , famose o sconosciute,  che hanno suscitato il mio interesse e stimolato la mia curiosità e creatività.

Marta Abba (Milano, 25 giugno 1900 – Milano, 24 giugno 1988) è stata un’attrice italiana.

Lucia Anna Joyce (Trieste, 26 luglio 1907 – Northampton, 12 dicembre 1982) è stata una ballerina italiana, figlia dello scrittore irlandese James Joyce e di Nora Barnacle

Si tratta spesso di donne che inizialmente si distinguono perché dotate di una bellezza fuori del comune  impreziosita da intelligenza, inventiva, creatività, talento e sostenuta da un carattere forte ed indomabile.

Il più delle volte però il loro destino esita tragicamente  e le loro straordinarie doti se per un verso sono inizialmente fonte di successo e fortuna per l’altro divengono poi causa di sventura ed indicibili sofferenze.

Donne libere, consapevoli del proprio valore e potenziale, pioniere coraggiose e depositarie di fondamentali insegnamenti, oggi più che mai preziosi.

Per rendere omaggio alla loro vita, ho scelto di accostare al racconto delle loro storie tanto travagliate quanto coinvolgenti l’immagine di un “manufatto” che dia al lettore la possibilità di coglierne al meglio l’essenza stessa.

Si tratta, nello specifico, di lavori eseguiti su vecchi tessuti di cotone, canapa o lino meglio se ingialliti dal tempo. Partendo dall’osservazione della foto della protagonista, magicamente si attiva in me una sorta di comunicazione empatica, che di volta in volta mi ispira la creazione di un “quadrito” in stile messicano, per illustrare e tramandare le loro esperienze di vita.

Tutti o quasi i materiali usati vengono scovati nei mercatini di robivecchi in diverse città italiane, e consistono in pizzi, passamanerie, bottoni, merletti e quanto altro riesca a stimolare la mia fantasia.

E così, come per incanto, si origina un forte connubio tra passato e presente, un ponte ideale tra le loro creazioni  giunte fino ai giorni nostri “a miracol mostrare” e le mie creazioni ad esse ispirate.

 

 

Carmen Mondragón, conosciuta anche come Nahui Olin (Tacubaya, 8 luglio 1893 – Città del Messico, 23 gennaio 1978), è stata una pittrice, poetessa e modella messicana.

 

In copertina: Caterina Orsoni, tecnica mista, particolare: dedicato a Lucia Anna Joyce (Trieste, 26 luglio 1907 – Northampton, 12 dicembre 1982). 

L’incontro tra Trump Zelensky e l’avvento del turbocapitalismo spettacolare

L’incontro tra Trump Zelensky e l’avvento del turbocapitalismo spettacolare

Homo non intelligendo fit omnia
Gli uomini agiscono prima di comprendere

 

Nel 1979, Guy Debord aveva esplicitato la visione di una trasformazione in atto: quella del mondo economico capitalistico in mondo spettacolare. “Lo spettacolo – egli nota – non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini, (…) il modello della vita socialmente dominante. È l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario”. L’essere degradato in avere si è tramutato in apparire. Egli aveva intuito che l’economia aveva predato l’estetica, provvedendo a imprimerne il segno, quello della “bellezza”, sui mezzi della produzione e della comunicazione. L’oggetto merce, che vale per la sua riproduzione in immagine desiderante, desidera essere posseduto dall’uomo, e non viceversa.

Di qui la nascita del marchio come valore: non è più l’oggetto prezioso in sé, bensì la sua appartenenza a un brand, a un marchio capace di produrre merci desideranti, cioè creature che si fanno belle per sedurre. Un mondo a rovescio, in cui l’uomo diviene oggetto e non più soggetto del mercato, consumatore di un sistema che provvede a generare un nuovo tipo di umanità, quella oggetto di attenzione da parte dei marchi, dei brand.

L’umanità viene divisa o raggruppata, secondo il target di appartenenza, in gruppi di consumatori aventi caratteristiche simili, appetibili. L’universo del capitale desidera la felicità globale, assume il piacere come fine e non come mezzo della produzione delle merci, propaggini e simulacri di bellezza che continuamente si rinnovano e splendono attraverso un corpo con un unico organo: il Brand, ma che proiettano anche, contemporaneamente, sugli idoli, eidola, in simulacri umani, la felicità realizzata, sul corpo raggiante delle leggende del cinema, dell’industria, della politica. Ogni individuo appartiene allo spettacolare, è predatore e preda del sistema della felicità edonistica.

Che cos’è un mondo cosiffatto se non il mondo dei balocchi, il mondo dei sogni realizzato in terra? C’è un solo ostacolo all’instaurazione della religione dell’edonismo spettacolare, manca ancora un tassello affinché il mosaico di questa fede possa essere privo del sospetto del peccato originale: bisogna distruggere la Moneta.
Il possesso della Moneta, in quanto fondamento della società, potrebbe far cadere tutto l’impianto della Finzione Capitalspettacolare, ed ecco allora l’invenzione della moneta virtuale, l’avvento delle carte di credito, della criptovaluta e i conseguenti scambi, che avvengono in luoghi immaginari, al tempo in cui le banche, inutili, chiudono gli sportelli.

D’altronde, la società capitalspettacolare aveva già attraversato una primaria fase di virtualizzazione. Borse con speculatori di contrattazioni fondate su false basi, società ramificate in una sequenza infinita di scatole cinesi delocalizzate in paradisi fiscali, generatrici di esportazioni finte garantite dal “giro della piazza” e di fatture per operazioni inesistenti, proprietari fantasmi rimpiazzati da anonimi prestanome… Un mondo con un’identità fittizia, in cui la verità è definita come il risultato di una produzione di illusori giochi di scambi, acquisti, vendite. Un percorso che viene da lontano, dai primi ominini fino alla vittoria finale dell’homo faber, il quale ha spodestato ogni altra figura, e soprattutto si è fatto agente e simbolo dell’ordine morale.

Esiste un’alternativa all’homo faber? L’uomo è quel che fa e solo secondariamente quello che pensa, immagina, ama?

La riduzione dell’uomo a essere di penuria, privo di difese, bisognoso di ricorrere all’uso dell’ingegno per garantirsi la sopravvivenza, concezione darwinista e materialista, tende a privare di fondamenti morali il lungo cammino che l’umanità ha compiuto per liberarsi dalla schiavitù della sopravvivenza. Se l’attività fabrile viene concepita come realizzazione e concretizzazione (o sostituzione) di ciò che è impeto morale e filosofico, si è di fronte a una resa dell’umanesimo morale di fronte alla necessità primaria, all’animalità. L’invasione del pianeta da parte di otto miliardi di creature, troppe per un minuscolo satellite del sole, comporterebbe la distruzione di ogni progetto qualitativo e di ogni idealità, di ogni principio morale a favore di un funzionalismo tecnologico e virtuale. La cancellazione di ogni principio teleologico e redentivo porta fatalmente verso l’estinzione, pronta a scaturire da qualsiasi avvenimento, guerra atomica, epidemia morbilica, catastrofe ecologica.

Osserva a tal proposito Debord: “Nello spettacolo, immagine dell’economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso. Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppantesi per se stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori”.

A che cosa stiamo assistendo negli ultimi tempi se non a un’accelerazione del turbocapitalismo spettacolare?

La sparizione della Realtà provoca, come un domino, la caduta di tutti i tabù. Sparisce l’identità, diviene liquida, transgender, aperta, virtuale. L’A.I. compie l’ultimo passo: la sparizione di ogni morale e di ogni rapporto tra causa ed effetto. Quel che è, è quel che viene manipolato. La rivisitazione del vero diventa il modo di intervenire sul reale per modificarlo a proprio modo, non importa se in modo plausibile, perché è comunque un pezzo dello spettacolo che interviene con la stessa forza del reale.

La storia implode, diviene una forma dello spettacolo creato dall’I.A.: Trump Gaza, lo scontro tra Trump e Zelensky, che potrebbe benissimo essere stato inventato: beato chi ci crede! In una condizione di assenza o di azzeramento dello storico, la politica è sostituita dall’opinionismo, la rivolta popolare dal complottismo, forme in cui si manifesta lo spettacolo, il potere è un mezzo usato per generare mode effimere. E il soggetto? L’individuo? È ridotto a un’ombra, ovvero al narciso che si specchia nelle dinamiche della società dello spettacolo, il portato dei vari ambiti del marketing, risucchiato dalla “fantasmagoria delle merci” di benjaminiana memoria. Un Io indebolito, dai risvolti aggressivi, in cui prevale “la visione rispetto all’azione e alla riflessione. Il suo mondo è quello in cui la restrizione dell’autonomia soggettiva si accompagna alla progressiva perdita del principio di realtà”.1

Nella società attuale, la figura del padrone, il capitalista, scompare, la sua azione non è più individuabile, la causa di crisi o dei licenziamenti è dovuta a motivi esterni e non alla sua volontà. In virtù di tale meccanismo, egli non è più responsabile, e se sostiene qualche verità, è l’unica, quella del soggetto che detiene il potere. L’ideale della società, infatti, coincide con il suo, configurato come un “servizio ideale” in favore della massa, per la quale si adopera al fine del godimento collettivo (consumo dei beni).

L’apparato “culturale” massmediale e informativo è velocissimo e giocato sulla soddisfazione del desiderio: le masse si rivolgono al sapere scientifico e tecnologico per la produzione di sempre nuovi oggetti del consumo. Lacan suppone che tale velocità include il consumarsi della macchina capitalistica stessa e il suo consumarsi annovera la sintomatologia contemporanea delle tossicodipendenze, di anoressie e bulimie, dello shopping compulsivo, ecc.. Insomma, in una società del genere il Capitalista (il Padrone) immette (non tanto materialmente quanto ideologicamente) beni di consumo che non vanno a soddisfare la domanda, bensì tendono ad alimentarla compulsivamente.
L’individuo infatti pensa che non esista per lui nessun padrone, nessuna radice, ma solo la libertà assoluta di godere. In verità, all’interno di questa pseudolibertà di azione in un mondo senza confini, il soggetto è schiavo dell’oggetto, e più che consumare diventa ciò che lo consuma.

L’incontro tra Trump e Zelensky è uno spettacolo spaesante. Consumato l’evento, torna ad essere irreale. Una volta consumato non lascia più nessun segno sulla realtà, essendo spettacolo, e dunque pronto per essere usato e gettato, e dimenticato: c’è bisogno di un altro spettacolo.
Ogni personaggio assume su di sé l’immaginario proiettato dai mass media, non a caso l’incontro è circondato da televisioni e giornalisti: gli spettatori. Non c’è niente di reale, è un gioco spettacolare a cui si assiste, e in cui ciascuno – il consumatore – può vederci quel che vuole, e cioè il proprio desiderio di consumo delle narrazioni in atto. Una delle interpretazioni più diffuse dai mass media è quella del buon padre che riprende il figlio scapestrato, che evidenzia una latente ideologia patriarcale insita nel consumismo (generatrice di una violenza diffusa esercitata sul più povero, ovvero su quello escluso dal consumo o dal consenso organizzato fondato sulla soddisfazione del desiderio).

Tu che cosa vuoi? Io ti do la pace ma in cambio, per compiere il mio desiderio, dovrai offrire le “terre rare”. Sembra di assistere a un episodio biblico, in realtà siamo nella Casa Bianca e si sta giocando in televisione la vita di tanti, ma ciò che conta non sono i contenuti, bensì lo spettacolo.

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1 ) Pasquale Stanziale, Dell’immaginario col simbolico e il reale, 2014, p. 3.

Cover: turbocapitalismo, immagine di Scenari economici

 

Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Nel 2023 (non si hanno ancora dati affidabili per il 2024), la spesa militare dei paesi NATO è stata circa 13 volte superiore a quella della Russia. Considerando solo i paesi europei membri della NATO, la spesa è risultata circa 4 volte quella della Russia.

Tuttavia, ci viene ripetuto che per garantire la sicurezza è necessario spendere molto di più. In realtà si tratta di propaganda e di una strategia di marketing delle industrie militari. È sufficiente visitare le loro pagine web per rendersene conto. Già l’espressione “investire nella difesa” è fuorviante.

L’ideologia secondo cui più armi portano sicurezza non è sostenibile, soprattutto dopo il fallimento della politica di invio di armi in Ucraina, che ha buttato benzina sul fuoco, non ha fermato l’invasore, ha prolungato la guerra, ha contribuito a distruggere un popolo e indebolito e diviso l’Europa.

In effetti, più armi e forze armate forti non garantiscono la sicurezza; al contrario, producono instabilità e insicurezza, favorendo l’insorgere di conflitti armati.
D’altronde, come dimenticare la resistenza nonviolenta della Danimarca al nazismo! Resistenza che ha causato poche vittime e ha permesso di salvare in proporzione il più alto numero di ebrei tra i paesi europei.

Più armi non portano alla pace, ma alla guerra.
È una grande menzogna affermare che la guerra porta alla pace!

La vera sicurezza e la pace si raggiungono investendo in dialogo e cooperazione, attraverso un ripensamento radicale delle attuali politiche, percorsi che rimangono sconosciuti agli attuali leader europei.

Oggi di tutto abbiamo bisogno tranne di più armi!

Ormai siamo in una Europa per la guerra, ma non per questo dobbiamo rinunciare al nostro ideale di una Europa per la Pace, un’Europa dei popoli, non quella dei burocrati e delle banche.

Europe for Peace

L’idea di realizzare questa campagna è nata a Lisbona nel Forum umanista del novembre 2006, durante i lavori di un tavolo sul tema della pace. Partecipavano diverse organizzazioni e le differenti opinioni convergevano con molta chiarezza su un punto: la violenza nel mondo, la ripresa del riarmo nucleare, il pericolo di una catastrofe atomica e quindi la necessità di cambiare con urgenza la direzione degli avvenimenti. Ci risuonavano nella mente le parole di Gandhi, di M. L. King e di Silo sulla importanza della fede nella vita e della grande forza che è la non-violenza. Ci siamo ispirati a questi esempi. La dichiarazione è stata presentata ufficialmente a Praga il 22 febbraio 2007 durante una conferenza organizzata dal Movimento Umanista. La dichiarazione è il frutto del lavoro di piu’ persone e organizzazioni e cerca di sintetizzare le opinioni comuni e concentrarsi sul tema degli armamenti nucleari. Questa campagna è aperta a tutti e tutti possono dare il proprio contributo per svilupparla. www.europeforpeace.eu

UCRAINA, IL TEMPO DELLA FORZA

Ucraina, il tempo della forza

Sembra proprio che ci sia toccato di vivere, ahinoi, in un tempo basato sulla menzogna, sulla forza e sull’interesse.

Abbiamo visto la scena in mondo visione dello scontro del presidente Usa, Donald Trump, che insieme al suo vice, JD Vance, venerdì 28 febbraio scorso nello studio ovale della Casa Bianca a Washington, hanno umiliato il presidente ucraino Volodymir Zelenskyj.

Una cosa mai vista, un tranello, un agguato, una trappola tesa in piena regola a tiro di telecamere e microfoni.

Sono solo alcune definizioni usate per definire quell’incontro completamente deragliato dai binari della diplomazia.

Si è detto che Trump, con i suoi modi rozzi da cowboy, che pare uscito da una stalla e perennemente con il broncio, avrebbe solo tolto il velo di ipocrisia a una politica che non è mai stato uno sport per signorine.

Forse, però, c’è molto altro in quello che stiamo vedendo da quando egli è diventato il presidente numero 47 degli Stati Uniti.

C’è, per esempio, un ricorso sistematico alla menzogna fino all’iperbolica cifra che gli Usa avrebbero sborsato fra aiuti e armi per sostenere l’Ucraina in questi tre anni di guerra, quando anche i più distratti sanno che la somma reale è inferiore a quella sostenuta dagli europei, Gran Bretagna compresa.

Falsità ripetute milioni di volte sui social ci trasportano nel mondo della post-verità, come si dice con espressione elegante.

Dunque, benvenuti nel mondo delle falsità, verrebbe da dire, senza contare che questo potrebbe essere solo un assaggio in attesa che l’intelligenza artificiale faccia il suo corso.

C’è, poi, il tema dell’interesse.

Sulla trattativa statunitense cucinata per chiudere la partita con Mosca, passa in secondo piano costruire una pace sicura, durevole e giusta. Quel che conta, da un lato, è il banchetto delle terre rare ucraine e presentare il conto della spesa, anche se è assai poco elegante.

Dall’altro lato, c’è da assicurare all’impero a stelle e strisce una fornitura sicura di materie prime, nella sfida strategica globale che si gioca sulla scacchiera della Tavola di Mendeleev.

Il fatto che nel conflitto iniziato nel febbraio di tre anni fa ci sia chiaramente un aggressore e un aggredito, non ha importanza.

Conta poco anche il Memorandum di Budapest, come ricorda Francesca Mannocchi a Propaganda Live, siglato il 5 dicembre 1994 con Russia, Regno Unito e Usa, col quale l’Ucraina si impegnava a smantellare il suo arsenale nucleare (il terzo al mondo) in cambio di sicurezza, indipendenza e integrità territoriale, perché ciò che conta adesso sono gli affari.

E se questo deve implicare una sbalorditiva riammissione di Vladimir Putin sulla scena internazionale, responsabile dell’invasione ucraina per inseguire il suo disegno imperiale di Novorossiya, includendo Russia Bianca (Bielorussia) e Kiev (che sta a Mosca -Terza Roma come Gerusalemme sta alla Città Eterna), qualcuno se ne farà una ragione.

Gli affari sono affari e Trump è stato rieletto alla Casa Bianca per fare quelli degli Usa: la nuova età dell’oro, appunto.

Infine, c’è il tema della forza. Dice bene Nadia Urbinati (Il Domani, 4 marzo) che, secondo la logica del “palazzinaro di New York”, “non ci si mette in guerra con uno più forte. La colpa è dei deboli che si mettono in testa di resistere ai forti e causano la guerra”.

A Otto e mezzo da Lilli Gruber (3 marzo), è stato detto che al fondo di questa logica glaciale c’è una partita imperiale a tre: Usa, Cina e Russia. Il resto sono dettagli.

I tre colossi della Terra hanno paura a sfidarsi in campo aperto e porterebbero avanti la loro cinica mano di poker in un pericoloso equilibrio fatto di sfere d’influenza, come le ha richiamate alla memoria Sergio Mattarella nel suo discorso-monito a Marsiglia il 5 febbraio scorso.

In particolare, secondo il punto di vista di Trump ci sarebbe il tentativo di rilanciare un rapporto con Mosca per allontanarla dalla Cina. Strategia simile, ma di segno opposto, a quella messa in atto dagli Usa quando cercarono di allontanare Pechino dall’allora Unione sovietica.

Il dunque della questione ucraina è quasi una cartina tornasole.

La strategia di armarla nella convinzione di vincere la guerra e fiaccare la Russia pare tramontata e di fronte a un probabile disimpegno americano la strada si infila in un vicolo cieco.

Ha senso poi continuare il massacro, magari con il solo aiuto europeo, quando lo stesso presidente Zelenskyj sta ammettendo che non ci sarà vittoria?

L’Europa, appunto.

Come ha detto Lucio Caracciolo dalla Gruber, potrebbe essere il quarto giocatore al tavolo mondiale, l’unico rimasto a calare le carte delle libertà, dei diritti, della giustizia e della democrazia, per un equilibrio diverso dalla deriva.

Ma troppo tempo è stato perso, troppe le divisioni, e l’Ue dimostra di non avere la consapevolezza, la statura (vedi il governo dell’immigrazione), né la forza di reggere da sola il compito di dimostrare la ragione dell’aggredito (il debole) e il torto dell’aggressore (prepotente).

Altrimenti questo diventa, agli occhi del mondo intero, un pesante ed ennesimo precedente.

Se, per esempio, si materializzasse nello scenario ucraino il disimpegno americano, diventerebbe a forte rischio la sola copertura satellitare che l’Europa, indietro di 10 anni, non è in grado di sostituire. Con tutte le conseguenze del caso.

È come un brusco risveglio quello in un mondo nel quale anche la terra della nuova frontiera americana, in una sorta di torsione autoritaria, si affida consensualmente ai pilastri della menzogna, della forza e degli affari.

Un ordine-disordine che si regge su questi presupposti non è per niente chiaro a quali equilibri possa condurre, ma questa, a quanto pare, è la spiacevole realtà.

È il poco che questo tempo a corto di speranza sembra offrire, come se ci stesse presentando il conto dei troppi errori commessi da tanti nel passato.

Un’ultima cosa si può aggiungere.

Davanti alla scena dei ministri del governo Usa in preghiera attorno al loro presidente, si contrappone l’immagine di un pontefice sempre più senza respiro in una stanza di ospedale nel lanciare i suoi appelli alla pace, tutti inascoltati.

Forse l’urgenza di questo tempo che spaventa richiederebbe che le grandi religioni monoteiste del ceppo semita (Cristianesimo, Ebraismo e Islam) si prendessero per mano e, condividendo il secondo comandamento biblico in un sussulto ecumenico, intimassero alla politica, qualunque essa sia: “non nominare il nome di Dio invano”.

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Parole a capo /
Nicoletta Zucchini: «Tre poesie per non dimenticare»

Nicoletta Zucchini: «Tre poesie per non dimenticare»

Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace.
(Jimi Hendrix)

…e all’improvviso

…e all’improvviso
nella canicola estiva
il gelato divenne amaro
e il gusto si tramutò in disgusto
come potevo godere
di quell’innocente piacere
quando bimbi inermi
a migliaia
erano cinti e sono cinti d’assedio
fino alla carestia totale
fino alla morte per fame?
…e all’improvviso
non potevo più dire
non ho visto, non sapevo…

(10 agosto 2024)

 

Teniamo presente

Noi educati alla religione della memoria
delle efferatezze dei regimi passati
teniamo presente
che anche il presente
diverrà presto passato
e il nostro silenzio sull’oggi
diverrà memoria
di tempi futuri
e sulle nostre pietre tombali
sarà inciso:
hanno taciuto sulla verità
della menzogna
evidente ad ogni giusto di cuore,
hanno taciuto sulla propaganda quotidiana
spacciata per obiettività di notizie
dove, ogni parola
scelta con cura
risuonava mendace
come il suono
di una campana fessa
e la banalità del male
ancora una volta
galleggiava sulla memoria.

 

Le vestali della guerra

Le vestali della guerra non dormono mai,
dalla notte dei tempi sotto le ceneri
custodiscono carboni ardenti.
Sotto montagne di carta stampata
celebrano testarde
la tortura perpetua della pace
innalzano canti strabici
ai fautori di verità parziali.
La pace langue e geme
in ogni cuore sincero
che sa la verità
che non abita in una parte sola
né sui teleschermi:
la verità è pudica, si mostra a chi
ha desiderio autentico di giustizia.
Una giustizia che non abita in una parte sola.
Giustizia va reclamando e urlando
chi, impostore, si mantiene cieco
alle sofferenze dell’altro.
E si perpetuano le morti dei figli
da una e dall’altra parte.
Le vestali della guerra non dormono mai
insonni fabbricano verità parziali
utili ad incendiare le pire funebri
dei figli dell’una e dell’altra parte.
Le vestali della guerra
amano il chiacchiericcio
che con la scusa di discernere
testimonianze false da quelle vere
alimentano alte e orride fiamme.
La pace giace abbracciata alla morte
e la ragione si stringe stretta
all’interesse di parte.
La storia avanza cieca
e non trova pace duratura.
Le vestali della guerra non dormono mai
usano armi “intelligenti” di distrazione di massa.
Le vestali della guerra sono i sacerdoti,
della difesa armata ad oltranza.

(30/10 2024)

 

Nicoletta Zucchini Sono nata in campagna a metà del secolo scorso. Dopo alcune parentesi lontano da Ferrara, sono ritornata, fortunatamente, a vivere in campagna. Ho trascorso tutta la mia vita lavorativa ad insegnare nella scuola primaria. A chi mi chiede cosa insegnavo, rispondo: “Insegnavo tutto, i primi dieci anni pensavo di dover essere io a pagare lo Stato, facevo ciò che mi realizzava con grande piacere. Poi le cose iniziarono a mutare, ma mutò soprattutto l’organizzazione, poi mutò il clima antropologico/culturale. Nel Tempo Pieno insegnavo le materie letterarie, poi nel Tempo Prolungato (i Moduli) a volte materie letterarie e finito un ciclo, per mantenere vivo il mio interesse, sceglievo le materie scientifiche.” Se nutrito di curiosità e sperimentazione attiva, tutto il conoscere è meraviglioso. Stimolare il desiderio di conoscere e narrare mi risulta naturale, così dopo il pensionamento mi sono ritrovata a percorrere vie simili, ma ora le percorro insieme ad altri adulti.”

Ha pubblicato La crosta e la mollica, ovvero le avventure di Cesarino, NUOVE CARTE ed. 2013.
Ha pubblicato sull’Ippogrifo rivista del Gruppo scrittori ferraresi Aps recensioni, racconti e poesie.

NOTA: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

In copertina: foto di Gerd Altmann da Pixabay.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 274° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Siamo certi che il problema siano le spese militari?

(Foto di Elaborazione Europe for Peace)

Nel 2023 (non si hanno ancora dati affidabili per il 2024), la spesa militare dei paesi NATO è stata circa 13 volte superiore a quella della Russia. Considerando solo i paesi europei membri della NATO, la spesa è risultata circa 4 volte quella della Russia.

Tuttavia, ci viene ripetuto che per garantire la sicurezza è necessario spendere molto di più. In realtà si tratta di propaganda e di una strategia di marketing delle industrie militari. È sufficiente visitare le loro pagine web per rendersene conto. Già l’espressione “investire nella difesa” è fuorviante.

L’ideologia secondo cui più armi portano sicurezza non è sostenibile, soprattutto dopo il fallimento della politica di invio di armi in Ucraina, che ha buttato benzina sul fuoco, non ha fermato l’invasore, ha prolungato la guerra, ha contribuito a distruggere un popolo e indebolito e diviso l’Europa.

In effetti, più armi e forze armate forti non garantiscono la sicurezza; al contrario, producono instabilità e insicurezza, favorendo l’insorgere di conflitti armati.
D’altronde, come dimenticare la resistenza nonviolenta della Danimarca al nazismo! Resistenza che ha causato poche vittime e ha permesso di salvare in proporzione il più alto numero di ebrei tra i paesi europei.

Più armi non portano alla pace, ma alla guerra.
È una grande menzogna affermare che la guerra porta alla pace!

La vera sicurezza e la pace si raggiungono investendo in dialogo e cooperazione, attraverso un ripensamento radicale delle attuali politiche, percorsi che rimangono sconosciuti agli attuali leader europei.

Oggi di tutto abbiamo bisogno tranne di più armi!

Ormai siamo in una Europa per la guerra, ma non per questo dobbiamo rinunciare al nostro ideale di una Europa per la Pace, un’Europa dei popoli, non quella dei burocrati e delle banche.

Europa per la Pace

Cover: Caccia della Nato in volo sull’Europa, foto L’indipendente con licenza Wikimedia Commons.

Trump-Zelensky, il pasto nudo:
l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta

Trump-Zelensky, il pasto nudo: l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta

Chi ha rivisto i 49 minuti del dialogo in mondovisione tra Trump e Zelensky avrà notato che nei primi 30 minuti c’era un clima apparentemente disteso, che sembrava portare alla firma di un pre-accordo sullo sfruttamento comune sulle terre rare ucraine e un passo deciso verso il cessate il fuoco. Ad un certo punto però Zelensky ha sostenuto che voleva delle garanzie di sicurezza e cioè che gli Stati Uniti garantissero una copertura aerea delle zone di confine, onde evitare future invasioni russe. Una richiesta che i russi non vogliono accettare. Ciò ha fatto infuriare Trump e Vance, che hanno visto sfuggire la possibilità di un rapido cessate il fuoco, anche perché Zelensky ripeteva (in mondovisione) che Putin è un criminale e non rispetta gli accordi.

Lucio Caracciolo, fine analista geopolitico, afferma che la “rissa” non era stata certo programmata, che Zelensky ha fatto un errore tattico, in quanto rompere con gli Stati Uniti pone l’Ucraina in una situazione di ulteriore debolezza, tanto più se gli Stati Uniti dovessero interrompere gli aiuti in corso. Quasi tutta l’élite europea si è schierata a favore di Zelensky e in particolare i paesi che più hanno sostenuto l’Ucraina: Inghilterra, Polonia, paesi confinanti con la Russia. Il primo ministro inglese, nonostante sia uscito dall’Unione Europea, ha convocato Zelensky per assicurare il suo sostegno incondizionato (altri 2 miliardi) e intende svolgere un ruolo di coordinamento degli europei a sostegno dell’Ucraina.

Le domande a questo punto sono le seguenti:

se Trump, come appare, non intende più sostenere spese a favore dell’Ucraina, trova consenso tra gli americani?

se gli USA non aiutano, riusciranno inglesi ed europei da soli a sostenere l’Ucraina? E per quanto?

Alla prima domanda è facile rispondere: Gallup sonda gli americani periodicamente e prima delle ultime elezioni il consenso all’invio di armi in Ucraina era ulteriormente sceso (dal 45% dell’inizio della guerra al 40%). Consenso che è sempre stato minoritario.

Anche alla seconda domanda è facile rispondere. Inglesi ed europei non sono in grado in pochi mesi (neppure in pochi anni) di sostituire gli aiuti militari americani, tantomeno di produrre le munizioni e il resto degli armamenti che si consuma ogni giorno nella guerra. Gli ucraini si trovano in enorme difficoltà – anche a reperire giovani che vadano al fronte – e si va ampliando giorno dopo giorno la sproporzione di forze sul campo. Il tempo non gioca a favore dell’Ucraina. Se quindi Trump non riuscisse a fermare la guerra per trarre benefici per gli americani dal cessate il fuoco e si profilasse una prosecuzione della guerra con un sostegno più diretto dell’Europa (ma con meno supporto militare), il rischio sarebbe il cedimento del fronte ucraino e che la Russia conquistasse anche l’ambita Odessa, che impedirebbe all’Ucraina l’accesso al Mar Nero. Non credo sia interesse della Russia conquistare tutta l’Ucraina perché dovrebbe sostenerne l’intera ricostruzione avendo, peraltro, una popolazione in maggioranza ostile: ma Odessa è sicuramente ambita.

Per capire alcuni risvolti della rivoluzione geopolitica che è in atto – in cui gli Stati Uniti sono intenzionati a ridefinire le aree di influenza nel mondo con un accordo diretto con Cina e Russia, da cui trarre vantaggi per gli americani, lasciando ai margini l’Europa e gli altri alleati occidentali – riportiamo alcuni estratti  di una recente intervista resa a un giornale tedesco da Michael von der Schulenburg, membro del Parlamento Europeo, una carriera da diplomatico per ONU e OSCE.

Chi parla di moralità finisce in guerra, chi parla di interessi cerca una soluzione

Dalla sconfitta in Vietnam i cittadini americani sono sempre stati contrari, in larga maggioranza, alle guerre condotte dai propri Governi. La democrazia americana pare sia in crisi per i nostri media, ma per alcuni aspetti mi pare che non lo sia affatto e che i cittadini americani siano più saggi dei propri Governi e forse non sono i soli (vale per l’Italia e credo anche per la Russia). Peccato che su questi dati ci sia un’ampia censura da parte dei nostri media, i quali criticano la “democrazia” quando i cittadini fanno scelte che certi direttori dei giornali non condividono.

Nella sua lunga carriera diplomatica ha mai assistito a uno sconvolgimento così rapido come quello che sta avvenendo attualmente per quanto riguarda la guerra in Ucraina?

Sono stato molto tempo in Iran e Iraq; i negoziati per il cessate il fuoco per la prima guerra del Golfo si sono svolti nella mia casa a Teheran. Per molto tempo si è detto che la guerra sarebbe stata sicuramente vinta. Poi le cose si sono susseguite molto rapidamente: in quel momento, non era prevedibile che Khomeini un giorno avrebbe cambiato idea e avrebbe improvvisamente deciso di accettare la risoluzione di cessate il fuoco del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia, le azioni degli Stati Uniti in relazione alla guerra in Ucraina mi ricordano di più le dinastie del XVIII secolo, quando arrivava un nuovo re e all’improvviso cambiava qualcosa di fondamentale.

Vuoi dire che Re Donald Trump, il Secondo, sostituirà Re Joe Biden, il Primo?

Sì, hanno opinioni molto diverse sugli interessi internazionali degli USA. Joe Biden era un neoconservatore che voleva proteggere il mondo in modo unilaterale controllando questo ponte tra Asia ed Europa. Gli Stati Uniti lo fanno fin dai tempi di George Bush Junior. All’improvviso arriva qualcuno e dice: No, non è affatto questo che ci interessa. Ho vissuto questa esperienza in Afghanistan, conosco le persone coinvolte lì, come il negoziatore afghano prima del ritiro degli Stati Uniti e l’allora presidente Ashraf Ghani: gli americani sono giunti alla conclusione che non potevano vincere la guerra con questo governo, che avevano installato loro stessi e che non era stato realmente eletto liberamente. Poi hanno iniziato a negoziare con i talebani. Il presidente Ghani ne venne a conoscenza dal giornale, così come gli europei. Gli americani sono molto egoisti in questo senso, dicono che è troppo costoso per noi e che non ne verrà fuori più nulla. E’ successo anche in Ucraina: la svolta è iniziata con Biden, quando gli ucraini cominciarono stupidamente ad attaccare gli impianti nucleari russi. Era troppo e sapevano che non potevano fidarsi degli ucraini e che non avrebbero potuto vincere la guerra con loro senza rischiare una guerra mondiale. Tutto è cambiato da un giorno all’altro. E ora i grandi perdenti sono gli ucraini, i tedeschi, gli europei.

Alcuni osservatori affermano che fin dall’inizio gli Stati Uniti non avevano l’interesse primario o la convinzione di poter vincere militarmente questa guerra.

No, non credo proprio. Sono stato coinvolto nel processo di negoziazione di Istanbul 2022, un processo che è stato bocciato da inglesi e americani. All’epoca pensavano che sarebbe stato facile sconfiggere i russi. Non bisogna dimenticare come si parlava della Russia prima della guerra, quando i media europei scrivevano che la Russia non era un paese ma una stazione di servizio, o i resoconti sulla lentezza dell’esercito russo: la gente pensava che sarebbe stato molto facile vincere. … Ma il fatto che le cose siano andate in questo modo è anche dovuto al fatto che l’Ucraina è stata sopravvalutata.

Cosa dicevano le bozze del trattato dell’aprile 2022 poi naufragato?

Dal punto di vista dell’ONU, non c’è altro esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, in cui i paesi in guerra, chiunque l’abbia iniziata, abbiano concordato sui punti importanti di un trattato di pace nel giro di un mese. Tutti questi trattati di pace sono registrati presso l’ONU e se chiedete ai colleghi ONU vi diranno: non abbiamo mai visto niente di simile, con quale rapidità e qualità i russi e gli ucraini abbiano raggiunto un accordo. In quel momento gli ucraini non cedettero un solo metro quadrato di terra. Hanno ammesso solo che la Russia può controllare la Crimea per 15 anni prima di risolvere la questione diplomaticamente. Ciò avrebbe ovviamente significato che la Crimea sarebbe rimasta russa, ma tutti gli altri territori no. Putin l’ha accettato, Zelensky l’ha accettato, entrambe le parti l’hanno siglato, come si fa prima di stipulare un trattato di pace. Sarebbe stata una cosa grandiosa, un’Ucraina neutrale entro i confini del 1991, ad eccezione della Crimea. L’Ucraina avrebbe tratto grandi vantaggi dalla neutralità e avrebbe svolto la funzione di ponte tra l’UE e i paesi BRICS, il che avrebbe potuto avere effetti molto positivi dal punto di vista economico. Tutto questo è ormai perduto, non accadrà più e la colpa del saccheggio di questi dieci punti di Istanbul ricade esclusivamente sull’Occidente, che voleva continuare la guerra. Le guerre non riguardano la moralità, riguardano gli interessi. All’ONU abbiamo sempre detto che quando una parte parla di moralità, si finisce in guerra, mentre chi parla di interessi cerca una soluzione. I negoziati di pace sono così: sono duri.

In che misura è nell’interesse della Russia condurre negoziati di pace, data la sua posizione vantaggiosa sul campo di battaglia?

In genere, chi vince è felice di negoziare, mentre chi perde non ha molta voglia di farlo, finché riesce a sopportarlo. La Russia è molto interessata a questo. Inoltre, Trump darà ai russi tutto ciò che vogliono. Ma l’interesse russo è sempre stato chiaro. Quando si negozia, si cerca di verificare se tutte le parti si comportano in modo razionale. Il più razionale è Putin perché sa esattamente cosa vuole e si comporta di conseguenza. Durante le negoziazioni è sempre difficile confrontarsi con persone che non sanno esattamente cosa vogliono e non si comportano in modo chiaro. Putin non vuole la NATO o gli americani in Ucraina, vuole assicurarsi l’accesso al Mar Nero attraverso la Crimea e si tratta di coloro che nell’Ucraina orientale parlano russo e circa il 70% dei quali ha votato per partiti filo-russi. Ciò che trovo interessante ora è che Trump non si aspetta che ci sia un cessate il fuoco finché non sarà firmato tutto. In realtà, questa è una pratica comune. Posso anche spiegarvi il perché: questo gioca a favore dei russi, che sono in avanzata.

Chi può garantire l’Ucraina su un confine lungo più di 2.000 chilometri?

Forse un contingente dell’ONU.

Con vari paesi dei BRICS?

Si, in quanto i BRICS si sono schierati con la Russia: all’incontro a Kazan, in Russia, c’erano 22 capi di governo. Non vogliono un’espansione della NATO. La Turchia ora è un membro dei BRICS: anche loro non vogliono gli americani nel Mar Nero. In Germania, ci piace pensare che se siamo di nuovo gentili con i russi, loro torneranno ad abbracciarci perché amano molto i tedeschi, ma non credo che accadrà. Perché la Russia ha un’alternativa. Prima noi avevamo la tecnologia e l’industria e loro le materie prime e tutto si incastrava. Ma ora hanno i paesi BRICS, il gasdotto per la Cina è terminato e sicuramente presto ne avranno anche uno per l’India. La Russia si è orientata verso le regioni in crescita dell’Asia, dove si registrano più innovazioni rispetto al gruppo G-7. E pagheremo un prezzo incredibile per tutto questo. Trump costringerà Ursula von der Leyen a una rapida ammissione dell’Ucraina nell’UE facendo sì che l’Europa paghi per la ricostruzione…. Lo so dall’Afghanistan, dall’Iraq. Noi europei siamo chiacchieroni. Nessuno ha mai vissuto la guerra o un figlio che sia stato in guerra. L’Unione Europea è nata come progetto di pace. Poi scoppia la guerra e fino ad oggi non c’è stata alcuna proposta di pace da parte dell’Europa. Nulla che riguardi diplomazia e negoziati. E’ una violazione del diritto internazionale. L’ONU afferma che dovremmo prevenire le guerre attraverso i negoziati. E una volta che ci sono, negoziare il più velocemente possibile per porvi fine. Questo è ciò che hanno fatto la Russia e l’Ucraina. Invece Friedrich Merz (attuale Presidente della CDU) pensa di usare i missili Taurus per ricattare un paese dotato di 6mila armi nucleari!

Cosa dovrebbe fare l’Europa?

Dire che ha commesso un errore e che da ora in poi agirà diversamente. Vogliamo davvero spendere così tanti miliardi in armamenti, crediamo seriamente a questa assurdità secondo cui la Russia ci attaccherà? Dovremmo finalmente capire che le guerre riguardano gli interessi e l’America ormai ha perso il suo interesse, all’improvviso ci ritroviamo soli e ne pagheremo le conseguenze. Ora dobbiamo cambiare la nostra politica. Uno dei risultati di questi negoziati sarà che la Russia controllerà l’intero confine, dal Mare di Barents fino al Mar Nero. Ora controllano l’accesso all’Asia per conto nostro. Eppure, rispetto alla rotta transatlantica, questa rotta transasiatica è per noi molto più importante: per le materie prime, per i mercati, per il dinamismo. E lo abbiamo tagliato! Poi ci auto-applaudiamo e facciamo un ulteriore passo avanti con le nostre sanzioni. Come possiamo liberarci dalle sanzioni? La ragione consiglierebbe di cercare di confrontarsi con la realtà nella politica estera e di sicurezza e non con argomenti ideologici o moralistici.

Vede qualche possibilità che si possano instaurare relazioni pacifiche e prospere tra Germania e Russia nel prossimo futuro?

Dovremmo ricostruire i nostri rapporti con la Russia. Ne abbiamo più bisogno noi di quanto ne abbia bisogno la Russia. Dobbiamo liberarci di tutta questa moralità, di tutta questa arroganza, di questo guardare dall’alto in basso. Entro il 2050, l’UE rappresenterà solo il 4,5% della popolazione mondiale e la nostra quota nell’economia globale scenderà al 9%. Non ci rendiamo conto di non essere più al centro del mondo. Pagheremo per questa arroganza.

Come valuta la prospettiva dell’annuncio di Donald Trump di negoziare con Cina e Russia sul disarmo, in particolare quello nucleare?

Penso che le prospettive siano buone. Per la Cina, la pace con la Russia è inizialmente una cosa positiva, poiché non voleva assolutamente un’espansione militare degli USA e della NATO in Ucraina e nel Mar Nero, cioè alle sue spalle. Anche Taiwan imparerà una lezione dal fiasco ucraino, ovvero che in ultima analisi non può fare affidamento sugli Stati Uniti, e in futuro agirà con più moderazione. Trump aveva invitato il vicepresidente cinese al suo insediamento. Penso quindi che sia giunto il momento per la Cina di parlare con gli Stati Uniti di sicurezza comune. Inoltre, una costellazione USA-Cina-Russia non sarebbe schiacciante per la Cina: i negoziati si svolgerebbero su un piano di parità.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

 

Le voci da dentro /
La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia

La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia.

Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ha curato i testi che seguono sul tema dei colloqui intimi in carcere. Questo aspetto degli affetti negati alle persone ristrette, come tutti quelli che riguardano il carcere, appartengono alla cosiddetta sfera della complessità e mi rendo conto che, per chi è abituato ad ascoltare con la pancia, sia difficile affrontarli e condividerli. In questa situazione, purtroppo diffusa, può diventare utile cambiare i modi dell’ascoltare e provare a pensare in termini di umanità. Comunque ci proviate, buona lettura.
(Mauro Presini)

 
Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni.

Gentile ministro Nordio,
quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. 

Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all’interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all’affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti.

In collaborazione con il dipartimento di architettura dell’università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti.

Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto.

(…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell’atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all’indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l’incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all’interno degli istituti di pena”.

Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo.

Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale?

Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri.

Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”.
E adesso, che succede?

Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare.

Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi.

Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro.

Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte
di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti

Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli.

Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto?
Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più.

Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella
di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti
  
Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi mette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari.

Gentile Dottor Nordio, quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia.

Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a mi viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri.

Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia
di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti

Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso.

Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli.

Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano?

Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”.

Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica.

Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società?

C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più.

È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli
di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti

Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019. Nel 2022, dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli, ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto.

Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima.

Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli.

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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MEDITERRANEA DI NUOVO IN UCRAINA PER SOSTENERE CHI FUGGE DALLA GUERRA

MEDITERRANEA DI NUOVO IN UCRAINA PER SOSTENERE CHI FUGGE DALLA GUERRA

Continua l’impegno della rete solidale italiana a sostegno della popolazione ucraina. Il 1° marzo è partita dalla regione Emilia-Romagna la diciottesima missione umanitaria dell’associazione di promozione sociale Mediterranea Saving Humans, diretta a Leopoli per consegnare alcune tonnellate di aiuti essenziali.

La spedizione, composta dagli equipaggi di terra delle principali città dell’Emilia-Romagna tra cui anche Ferrara, attraverserà l’Europa con un convoglio di mezzi carichi di beni di prima necessità, medicinali e attrezzature sanitarie, destinati a strutture e comunità locali che operano in condizioni sempre più difficili a causa del protrarsi del conflitto. Da Ferrara gli attivisti sono partiti con un furgone messo a disposizione dalla parrocchia Sant’Agostino, e trasporterà beni di prima necessità destinati ai rifugiati accolti in diversi centri nell’oblast di Leopoli, situati lontano dai teatri di guerra sul confine orientale. Il rientro in Italia è previsto per il 10 marzo.

Secondo gli attivisti di Mediterranea Saving Humans, questa nuova missione rappresenta un ulteriore tassello nel costante impegno umanitario portato avanti dall’associazione sin dai primi mesi dell’invasione russa. “Non possiamo restare indifferenti di fronte alla sofferenza delle persone che vivono sotto i bombardamenti e nella precarietà assoluta. La nostra presenza sul campo vuole essere un segnale di solidarietà concreta”, hanno dichiarato i volontari “specialmente in tempi in cui l’attenzione è rivolta più alle terre rare che agli esseri umani”.

Negli ultimi due anni, l’organizzazione ha effettuato numerosi viaggi verso l’Ucraina, garantendo il trasporto di aiuti e collaborando con realtà locali per la distribuzione diretta alle persone più vulnerabili, tra cui sfollati interni, bambini e anziani. L’Emilia-Romagna si conferma così un territorio attivo nella mobilitazione civile a favore della popolazione colpita dal conflitto, grazie al contributo di decine di volontari e volontarie che, ancora una volta, metteranno a disposizione il loro tempo e le loro competenze per sostenere chi ha più bisogno.

Tra i volontari in partenza, sono presenti anche alcuni attivisti del progetto Music and Resilience, un’iniziativa attiva dal 2013 che utilizza la musica come strumento di supporto psicologico e di aggregazione per le persone colpite da situazioni di crisi. Attraverso laboratori e attività musicali, i musicoterapeuti cercheranno di portare un momento di sollievo e normalità nelle vite di chi vive in condizioni di forte stress e vulnerabilità.

Mediterranea Saving Humans, nota anche e soprattutto per le sue missioni di soccorso nel Mar Mediterraneo, ha ampliato negli ultimi anni il proprio raggio d’azione, intervenendo in diverse crisi umanitarie e dimostrando che la solidarietà non conosce confini. Con il conflitto ancora in corso e una situazione umanitaria sempre più critica, la diciottesima missione umanitaria dell’associazione rappresenta un nuovo importante gesto di vicinanza e aiuto concreto al popolo ucraino. Mediterranea continua così a ribadire il valore dell’azione diretta e della solidarietà internazionale come strumenti per non voltare le spalle alle vittime della guerra.


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In copertina: MED ER Missione Ucraina

 

«Origine», i bambini indigeni raccontano il loro popolo

«Origine», i bambini indigeni raccontano il loro popolo.

Nata nel 1982 a Parigi, Nat Cardozo lavora come illustratrice in Uruguay. Ha viaggiato e vissuto a lungo tra America, Europa e Australia, per realizzare su pannelli di legno i ritratti dei bambini incontrati.

Nat Cardozo, Origine, L’ippocampo edizioni, 2024.

“Origine”, l’opera prima di Nat Cardozo, è un libro favolosamente illustrato, frutto di un lavoro di molti anni, sui popoli indigeni che abitano la Terra, che dà voce a 22 bambini di popolazioni di tutti i continenti. Questi bambini ci raccontano le loro abitudini, leggende e credenze.

Uno sguardo ecologico, umanistico e spirituale che comprende umanità e natura, rendendo omaggio alla resistenza e alla saggezza di culture secolari che hanno molto da insegnare sulla cura del nostro pianeta, vivendo in armonia con la Natura e con “tutto ciò che cresce sotto l’immenso cielo“.

Dai Moken delle isole Surin agli Evenki che allevano le renne nella Siberia orientale, passando per i Kung che leggono le orme degli animali nel deserto del Kalahari: ognuno racconta una storia diversa narrando un’origine comune.

Tutti i popoli indigeni raccontano di un “diluvio universale” come di quando eravamo polvere di stelle, ma soprattutto tutti – dall’Amazzonia alla prateria degli Cherokee – venerano e benedicono i sette punti cardinali: il nord, il sud, l’est, l’ovest, il sopra, il sotto e il centro.

Un’immersione di sensazioni, di umanizzazione, di sentimenti, di “democrazia delle culture” come la chiamerebbe Raimon Panikkar, e soprattutto di desiderio di gioire per la ricchezza di ciò che si è e si ha già senza aggiungere nient’altro.

MOSUO
SAMI
ARANGU

Un’educazione al tempo, un eterno qui-e-ora lontano da fretta, frenesia e mancanze, dove tutto sparisce e si può solamente vivere in pace.
Perché, come diceva Hehaka Sapa (Alce Nero), grande Wichasha Wakan Lakota Sioux: “È ignorante colui che vede più cose laddove ce n’è Una”.

INUIT

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frammento sull’amore

frammento sull’amore
fragment uber die liebe
L’equazione pianto
Infelicità
È stato un infelice
Gesto
Del senso comune
Non un matematico
Non si sarebbe mai
spinto a tanto
L’infelicità
Produce
secchezza di fauci
Labbra sperdute
Io ho pianto
Per te
Con te
Non ero infelice
Non lo sono
non si è mai
tutto o niente
L’amore
Non sa nulla
Della felicita
L’amore
Non è mai
a posto
Non ha un posto
Non si prenota
L’amore
è Raro
Non è nemmeno un faro
Non segnala la scogliera
È sempre in alto mare
L’amore prima
o poi
Fa sempre piangere
L’unica forza
Che dribbla
la morte
non fa mai gol
In copertina: Faro di Goro (Ferrara) – Foto di Valerio Pazzi,
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New York: inaugurata la settimana per l’abolizione delle armi nucleari

di Sandro Ciani

La Nuclear Ban Week in New York è iniziata domenica 2 marzo con un incontro degli attivisti membri di ICAN presso l’iconica Riverside Church, a New York un giorno prima del 3MSP (Conferenza degli Stati Parte) presso le Nazioni Unite.

Tale incontro si prefigge di preparare gli attivisti dell’ Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN) ad una settimana di eventi ad alto livello per fronteggiare l’urgente minaccia costituita da tali armi.

La direttrice esecutiva di ICAN Melissa Parke, dando un saluto caloroso ai quasi 300 attivisti ICAN presenti (quasi il triplo rispetto al precedente incontro del 2023), ha paragonato le atroci sofferenze che vengono inflitte ai bambini palestinesi a quelle che ricevettero gli attuali Hibakusha, bambini sopravvissuti alle terribili esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, sottolineando come il diritto internazionale nonché i diritti umani siano oggi costantemente e continuamente calpestati ed umiliati.

La parola viene data ad Hideo Asano, un giovane attivista giapponese che si sta impegnando a far firmare e ratificare il trattato al Giappone, con lo scopo di mediare gli incontri pianificati nella mattinata con alcuni attivisti o membri ICAN.

Dopo un breve cenno sulla storia degli ordigni nucleari da parte di Ivana Nikolić Hughes la parola viene data al Dr. Lee Taejae un Hibakusha sudcoreano di seconda generazione presente nella delegazione Nihon Hidankyo – vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2024 – ed a Hinamoeura Morgant-Cross, che aveva appena 7 anni quando sulla Polinesia Francese fu eseguito nel 1996 l’ultimo test atomico. Entrambi sono testimoni viventi dei gravi impatti sulla salute delle esplosioni atomiche: il Dr. Lee Taejae è costretto ad operarsi regolarmente per rimuovere i carcinomi che si formano a seguito delle radiazione delle due bombe sganciate sul Giappone, mentre la famiglia di Hina è stata quasi tutta sterminata sempre dal cancro a seguito dei test nucleari francesi.

Il loro impegno è quello di trasmettere alle nuove generazioni il loro vissuto per tenerne vivo il ricordo: i loro interventi si concludono con il seguente grido unanime che si alza dalla platea: no more Hiroshima, no more Nagasaki, no more Hibakusha!!

Per dialogare sui 5 miti della deterrenza nucleare, ossia “il mantenimento della sicurezza e della pace, il suo utilizzo solo a scopo difensivo, la normalità di conviverci e la convinzione che tutto il genere umano creda nella sua efficacia”, vengono invitati sul palco Sven Clement, deputato del Partito dei Pirati in Lussemburgo, Molly McGinty, direttrice internazionale di IPPNW, Marthinus Van Schalkwyk, rappresentante del Sudafrica presso l’ONU, Edwick Madzimure, direttrice internazionale della WILPF, ed il Dr. Rhys Crilley, accademico di Glasgow che studia l’ansia atomica nelle nuove generazioni.

Sven Clement, invita tutti gli attivisti presenti nei vari Paesi a rivolgersi alle proprie classi politiche utilizzando tutti i mezzi legali possibili per convincerli dell’assurdità delle deterrenza nucleare argomentandola anche dal punto di vista economico: si spendono al momento circa 18$ al minuto per tali armamenti!

Molly McGinty lavora a stretto contatto con i medici per spiegare agli studenti le catastrofiche conseguenze sulla salute delle esplosioni nucleari e delle relative radiazioni.

Marthinus Van Schalkwyk considera la deterrenza una follia priva di senso ed il trattato di non proliferazione un fallimento: il Sudafrica lavora alacremente all’universalizzazione del TPAN e al suo ampliamento tra tutti i Paesi che non hanno ancora firmato e/o ratificato.

Il Sudafrica si conferma uno dei Paesi più virtuosi al mondo!

Il Dr. Rhys Crilley enfatizza il ruolo delle nuove generazioni, se saranno in grado di utilizzare i social media come mezzo di propaganda per uscire dall’era atomica.

Infine Edwick Madzimure ci mette in guardia proprio dai social media, in quanto ci sono gruppi che inneggiano all’uso di ordigni nucleari per risolvere controversie come quelle tra Russia e Ucraina e/o Israele e Palestina: occorre evitare che la deterrenza venga usata per giustificare qualsiasi equilibrio geo-politico, in quanto nel genere umano sta aumentando la percentuale di coloro che non hanno una percezione del pericolo legato ad una detonazione nucleare.

Nel pomeriggio il programma di ICAN prevede due sessioni simultanee in stanze separate nella stessa fascia oraria:

  • Nuclear Justice

  • Connecting Campaigns

a seguire:

  • Stigmatizing of nuclear weapons

  • Universalization and implementation

In tutte e quattro le sessioni, gli incontri avevano lo scopo di creare un momento di condivisione tra i vari gruppi di attivisti, in piccole sessioni di 10’, su azioni e temi sviluppati nel proprio lavoro di associazioni riguardo ai 4 temi elencati sopra: le domande poste dai moderatori di Ican volevano spingere gli attivisti ad essere pro-attivi nelle tematiche legate alle sessioni per portare alla luce le proprie esperienze e renderle condivise.

Queste condivisioni e riflessioni sono state una dimostrazione di quanto siano importanti il confronto e la valutazione dei molteplici punti di vista altrui rispetto al proprio e di quanto sia questo l’unico esercizio importante da attuare ogni giorno, per poter affrontare ogni tipo di conflitto: il dialogo.

La giustizia, la connessione delle attività, la stigmatizzazione di tali armi, l’universalizzazione e l’implementazione del trattato necessitano del dialogo e del riconoscimento dell’altro.

Si è parlato anche del nuovo studio dell’UNGA sugli effetti della guerra nucleare e del 80° anniversario dell’invenzione delle armi nucleari. Ai partecipanti viene chiesto di condividere i loro piani per l’anno a venire, momenti specifici da celebrare al fine di considerare i modi in cui si possono sfruttare queste opportunità per promuovere gli sforzi di ciascuno. Uno dei temi più discussi è stata l’importanza del ruolo economico, il quale si profila come “il” problema centrale in relazione alla difficoltà di gestione delle armi che il TPAN vuole contrastare; interventi europei, messicani e americani hanno enfatizzato il problema dell’ambiente, nello specifico di quanto gli effetti chimici delle armi nucleari compromettano la sicurezza delle persone a livello globale. Dunque ambiente e sicurezza sono diventati aghi della stessa bilancia.

La deterrenza tra i Paesi nucleari e gli affiliati tramite il nuclear-sharing costituisce un impedimento all’universalizzazione e all’implementazione del trattato: in particolare i Paesi europei interessati al trattato, ma membri della NATO, si trovano con le mani legate; ho chiesto personalmente al moderatore ICAN quali strategie si potrebbero mettere in atto per rimuovere tale problematica e la risposta risiede nell’uso delle vie legali, ossia riferirsi all’ottimo lavoro degli avvocati di IALANA International Association of Lawyers Against Nuclear Arms.

L’incontro si chiude verso le 16:30 con l’arrivo del Presidente designato a presiedere i lavori del 3MSP, l’ambasciatore del Kazakhstan Akan Rakhmetullinil quale accende l’entusiasmo dell’intera platea annunciando l’imminente incremento sia dei Paesi firmatari che di quelli ratificanti.

Vedremo nei prossimi giorni di chi si tratta: vi anticipo che senza sorpresa anche questo anno l’Italia ha declinato l’invito come Paese osservatore, confermandosi come uno dei Paesi meno virtuosi.

Sandro Ciani
, membro della delegazione italiana

Cover: New York, 2 marzo 2025, l’incontro dell’ICAN inaugura la Nuclear Ban Week (Foto di Screenshot da MSP-TV)

 

Zelensky cambi rotta: dal conflitto militare (perdente) alla resistenza civile nonviolenta

Zelensky cambi rotta: dal conflitto militare (perdente) alla resistenza civile nonviolenta

Lo scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky offre uno spunto di riflessione importante su un conflitto armato che, dopo tre anni, appare sempre più avvitato in una dinamica militare sbilanciata a favore della Russia e senza sbocchi reali per l’Ucraina. È importante notare che Trump, pur essendo un personaggio politicamente inquietante e discutibile sotto molti aspetti, abbia chiarissimo un punto cruciale: la strategia attuale non sta portando alla pace, ma solo a un prolungamento del conflitto a danno della stessa Ucraina.

L’azzardo di Zelensky

Abbiamo più volte documentato su PeaceLink come Zelensky abbia giocato con il fuoco, spingendo per un coinvolgimento diretto della NATO, come dimostrato dalla sua richiesta di una no-fly zone che, se accettata, avrebbe significato il rischio di uno scontro diretto tra potenze nucleari. È stato lo stesso Biden a trattenere l’Ucraina dal compiere mosse ancora più azzardate.

Trump, rimproverato per la sua apparente morbidezza con Putin, ieri ha replicato con una frase emblematica: “Vuoi che sia duro? Posso essere più duro di qualsiasi essere umano tu abbia mai visto, potrei essere durissimo, ma così non otterrai mai un accordo, ecco come stanno le cose”.
Qui Trump coglie un dato di fatto: se non si inverte la rotta, l’Ucraina rischia di arrivare al tavolo delle trattative in una posizione di debolezza ancora maggiore di quella attuale.

La guerra simmetrica favorisce il più forte

Questo ci porta al nodo centrale del problema: un conflitto militare simmetrico tra un forte e un debole vede sempre vincitore il più forte. La Russia ha una capacità militare superiore, una produzione bellica che non si esaurisce e il tempo gioca a suo favore. L’Ucraina, invece, si trova in un logoramento crescente, con risorse che si assottigliano e un Occidente sempre meno efficace nel sostenere una guerra senza prospettive.
A questo punto la domanda è: ha senso proseguire su tale linea?

Se l’Ucraina avesse dalla sua un forte consenso popolare ma una intrinseca debolezza militare, allora la soluzione potrebbe non essere la guerra simmetrica, bensì un cambio strategico verso la strategia di resistenza civile diffusa. E qui entra in gioco la riflessione sulla resistenza nonviolenta, che ha dimostrato storicamente di funzionare meglio della risposta armata quando si ha un forte sostegno popolare.

Dalla logica militare a quella della resistenza civile

La strategia militare di Zelensky sta portando l’Ucraina verso un vicolo cieco.
L’alternativa sarebbe trasformare il conflitto simmetrico in uno asimmetrico spostandolo dal piano militare a quello della resistenza civile
e della delegittimazione dell’occupante.
Non è un discorso astratto: esistono numerosi esempi storici di lotte nonviolente che hanno sconfitto eserciti più potenti senza ricorrere alla guerra convenzionale. Se Zelensky avesse il consenso potrebbe pensare a una “intifada” nei territori occupati, esponendo ovunque la bandiera ucraina e facendo sit-in popolari dimostrativi sotto le telecamere in mondovisione. Sempre che vi sia consenso verso Kiev nelle zone occupate.

Il problema è che il modello dominante è ancora quello della guerra tradizionale, con una narrazione che impedisce di pensare fuori dagli schemi classici, in questo caso perdenti. Ed è proprio su tale punto che il movimento pacifista può essere efficace per proporre un’alternativa credibile alla guerra.

L’Ucraina oggi ha due strade davanti a sé: continuare un conflitto bellico che la sta logorando rendendola sempre più debole o rivendicare una soluzione che possa fermare la distruzione e aprire a una vera trattativa. Zelensky sembra voler proseguire sulla prima, ma la storia insegna che la seconda potrebbe essere l’unica via per salvare davvero il suo paese.

Che fare?

Quale strada rivendicare? Quella di un ritorno agli accordi di Minsk per dare autonomia alle aree contese e di conflitto.
Occorre far votare le popolazioni e sostituire i colpi di cannone con le schede elettorali. Tutte le soluzioni devono essere basate sul consenso e non sulla logica del più forte. E anche se vincesse “genuinamente” il più forte con le schede elettorali, senza brogli elettorali, occorre che il più debole venga tutelato dallo spirito di autonomia che era alla base degli accordi di Minsk. Il debole ha diritto alla sua lingua, alla sua cultura, alle sue tradizioni, alla sua storia e alla sua visione della storia.

Bisogna porre fine alla cancellazione culturale dell’avversario e ripristinare la convivenza e il pluralismo. La vera prospettiva non è la guerra giusta ma la giusta convivenza fra popoli in conflitto. Perché, lo si voglia ammettere o no, quella in Ucraina è principalmente una guerra civile.

Questo articolo è uscito con il titolo “La lite fra Trump e Zelensky” su PeaceLink l’1 marco 2025 

In Copertina: Zelensky in visita al fronte – foto licenza Creative Commons

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Un’Europa spiazzata e schiacciata tra le democrature

Un’Europa spiazzata e schiacciata tra le democrature

Donald Trump ha determinato un enorme disorientamento nelle élite che guidano l’Europa. Un figlio (in questo caso 27 figli) con un genitore che, anziché proteggerlo, lo traumatizza. In un prima fase un individuo ripensa alla propria identità e al suo rapporto col mondo esterno per non andare in “frantumi”. L’ideale sarebbe cambiare, andare via di casa, cambiare relazioni e darsi vita nuova in un ambiente diverso. Però la possibilità di trovare luoghi diversi per l’Europa non esiste.

Nella psicoanalisi il primo passo dopo un trauma è “prendere atto della realtà”. Per l’Europa significherebbe prendere atto che l’idea coltivata (ispirata da americani e inglesi) di sconfiggere la Russia si è rivelata sbagliata. Quello che Beppe Severgnini diceva nell’estate 2022: che è impossibile per un paese povero come la Russia prevalere contro 40 democrazie ricche e avanzate, avendo, peraltro, un Pil 30 volte inferiore. Sappiamo com’è andata a finire. Perché? La Russia ha non solo 6mila testate nucleari, ma un popolo che crede nei suoi valori e disposto a battersi al fronte.

Già questo basterebbe a suggerire all’Europa che, per ripensarsi, la via del riarmo non è proprio l’ideale. Semmai imparare a dialogare in un mondo multipolare, in cui esercitare un ruolo importante non sulla base delle armi ma delle idee, della cultura, dei diritti sostanziali (prima che formali), avviando anche una profonda rivisitazione di quello che non va da noi. Che poi significa spiegare ai propri cittadini come mai un sistema basato sul denaro e sull’accumulazione predatoria della Natura dia sempre più infelicità ai suoi 440 milioni di residenti.

Problema che hanno anche gli americani, le cui condizioni non sono mai state giudicate da loro stessi così insoddisfacenti. Gallup infatti ci informa qui che nelle settimane che hanno preceduto l’elezione di Trump, il tasso di soddisfazione degli americani (calcolato su svariati indicatori) mai era giunto ad un livello così basso (38%); nel 2001 era al 54%. Una discesa costante durante tutte le “magnifiche sorti e progressive della globalizzazione” che si è accentuata proprio negli ultimi 4 anni di Biden. Altro che neo liberalismo trionfante.

Vediamo di cosa soprattutto si lamentano gli americani (tra parentesi la percentuale su 100 di cittadini soddisfatti): il modo in cui sono distribuiti il reddito e la ricchezza negli Stati Uniti (29%), la disponibilità di assistenza sanitaria a prezzi accessibili (29%), l’importo che gli americani pagano in tasse federali (26%), la dimensione e l’influenza delle grandi aziende (25%), la qualità dell’istruzione pubblica nel Paese (24%), il clima morale ed etico (22%), gli sforzi della nazione per affrontare la povertà (16%). Esisteva ed esiste quindi ampia possibilità per un partito che vorrebbe dirsi “democratico” per vincere le prossime elezioni, in quanto, come ha ampiamente spiegato Emmanuel Todd, gli Stati Uniti sono molto più fragili di quello che crediamo, non solo per i fondamentali dell’economia (il grande deficit commerciale e il debito pubblico, la scomparsa della manifattura), ma perché hanno una società civile in via di crescente disgregazione. La reazione di Trump nel post voto indica la ricerca di vie nuove (vedremo quanto efficaci) per ridare fiducia agli americani, a costo di danneggiare gli altri.

L’Europa invece appare incapace di ripensarsi. Le elezioni in Germania porteranno ad una riedizione dell’alleanza CDU-SPD che ha la maggioranza dei seggi (328 su 630, 52%), ma la Große Koalition è giunta alla fine della sua parabola (una volta governava col 70-80% dei voti) e deve la sua fortuna al fatto che BsW, il nuovo partito di sinistra (che vuole dialogare con Russia e limitare l’afflusso di immigrati illegali) ha mancato il quorum per lo 0,03% (4,97%) e ciò consente agli altri partiti di redistribuirsi i circa 37 deputati persi da BsW per un soffio. Con BsW in parlamento non sarebbe stato possibile infatti il riarmo voluto da CDU-SPD. La destra di AFD inoltre ha raddoppiato i voti ed è il primo partito in tutta la Germania est.

Come mai? Per ragioni soprattutto economiche: la Germania ha frenato la domanda interna e puntato su una riduzione del debito pubblico (da 80% del Pil del 2012 al 60% di oggi) per favorire la bilancia dei pagamenti (meno importazioni, più esportazioni). A fronte del surplus commerciale e corrente la posizione netta della Germania verso l’estero è divenuta creditoria, fino alla somma abnorme di 3,7 trilioni di dollari, oltre il 70% del Pil. Gli operai, delusi, hanno mollato la Spd: i salari, specie nell’industria, sono stati calmierati dai tanti, odiati immigrati disposti ad accettare bassi salari. Nella Germania est lo scadimento degli investimenti pubblici ha invertito la tendenza alla riduzione del divario rispetto alla Germania Ovest (oggi il reddito medio pro capite a Est non arriva al 60% di quello a Ovest), favorendo AFD e BsW che vogliono dialogare con la Russia, memori che buona parte dei tedeschi dell’Est sa quanto l’Ostpolitik li abbia aiutati.

I prossimi 5 anni (sempre che la coalizione duri) saranno difficili: sia perché i due partiti alleati la pensano in modo diverso su molte cose, sia perché col riarmo aumenterà l’impoverimento dei ceti più deboli in cui pescano sia AFD che BsW. Per armarsi inoltre bisogna indebitarsi (a carico delle generazioni future) e il paradosso è che la Germania ha inserito nella Costituzione il Schuldenbremse (freno all’indebitamento). Non potrebbe quindi fare deficit, se non con il voto di 2/3 del Parlamento. Ma ciò significherebbe avere il voto di AFD. Il resto dell’Europa sarà al traino e si creerà così un’Europa molto più armata nel 2029, quando sarà possibile che le destre vincano le elezioni. A quel punto… “che Dio ce la mandi buona”: é già avvenuto con Biden che ha tirato la volata a Trump.

I re magi venivano da est e si orientavano con la stella d’oriente (la saggezza), il disorientamento viene da ovest con il denaro (la stupidità). Gli Stati Uniti sono stati per 200 anni la principale democrazia al mondo e sono diventati nel XX secolo il nuovo imperatore: ricchi, belli, bianchi e liberal. Ma negli ultimi decenni si sono lentamente trasformati in una sorta di democratura, in cui il “capo” (ricco e bianco) comanda e decide sulla base di una logica d’affari e di potere su altri paesi – all’interno ci sono invece balance and rules, sempre meno efficaci per la verità. I media e molti analisti attribuiscono questo fenomeno all’ascesa di Trump ma, a ben vedere, in questo processo Trump sembra più l’effetto che la causa.

La “buona America” è sparita negli ultimi 40 anni. “Buona” fu quella del coraggioso presidente Roosevelt che dopo 4 anni di crisi (1929-1933) lanciò il New Deal seguendo le indicazioni dell’ economista progressista Keynes, facendo uscire finalmente il suo paese dalla grande crisi con un rilancio degli investimenti pubblici. “Buona” fu l’America della vittoria sui nazisti (insieme ai russi) nella 2^ guerra mondiale e quella del dopoguerra che tassava i ricchi con un’aliquota del 92% sui redditi annui oltre 400mila dollari e che farà dire al miliardario Walt Disney “se non ci fossero state le tasse, poveri come me non sarebbero stati aiutati e non sarei diventato ricco”. L’America della società aperta accoglieva gli immigrati che hanno fatto grande quel paese, cresciuto dai 150 milioni di abitanti del 1950 agli attuali 334. Come si può ben capire, la popolazione statunitense è più che raddoppiata non per la fertilità delle donne americane ma per la straordinaria immigrazione.

Paradossalmente la “buona” America ha resistito, in mezzo a contraddizioni enormi – razzismo, maccartismo – nel periodo in cui (1945-1991) doveva competere con il comunismo reale e dimostrare che la società liberale e capitalistica era meglio del comunismo. Da quando l’URSS è crollata, è come se fosse venuto meno un contrappeso, per cui gli Stati Uniti hanno allentato tutti i “freni” trasformandosi (attraverso la globalizzazione e l’hybris della finanza) in un sistema di oppressione non solo verso l’esterno ma verso la loro stessa popolazione: sempre più povera, infelice, depressa e obesa, nonostante l’enorme ricchezza accumulata. L’Occidente non nutre più alcuna speranza nell’ avvenire, se non quella di fare delle guerre. La stessa Europa, che ha una cultura invidiabile, che ha costruito nel dopoguerra un welfare che non ha pari nel mondo (per le lotte dei lavoratori e delle donne), seguendo la via americana del consumismo e dell’individualismo sta gradualmente azzerando la propria dimensione sociale, spirituale e valoriale per cui oggi, ancor più degli Stati Uniti, si trova traumatizzata in un mondo che le appare sempre più ostile e incomprensibile.

Tra i media, politici e intellettuali si è andata affermando la logica materialistica e individualistica che il “dio PIL” poteva sostituire il Dio trino (la religione zero di cui parla Todd). Un nuovo Dio quattrino, oggi impersonato sia dal prezzo dell’oro (in forte ascesa), sia dalle criptovalute digitali di cui i comuni mortali non capiscono il reale controvalore, ma che comunque comprano, se è vero che le possiedono 30 milioni di europei.

Le società occidentali liberali hanno coltivato il mito della libertà senza limiti e dell’hybris consumistica individuale, “allontanandosi dalla via indicata… Mosè ridisceso dal monte bruciò il vitello d’oro col fuoco e la sua polvere gettò nell’acqua che dovettero poi bere (il fuoco dell’iniziativa e dell’amore e l’acqua dell’accoglienza e dell’armonia). Gridò poi di usare la spada per uccidere ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo”. Una rappresentazione dei nostri tempi, in cui alla sconfitta, la nostra società risponde non in base a valori (pace, dialogo, sviluppo umano per tutti) ma con il riarmo (la spada) che porterà solo ad uccidere il nostro fratello.

Con lo scudo atlantico dell’invincibilità americana è caduta anche la superiorità dei valori occidentali e liberali che si pensava fossero migliori di quelli degli altri.  Procediamo così, incapaci di riflettere sugli errori, verso un “suicidio assistito”. La crescita dell’autocoscienza negli occidentali e la crescente “ricchezza” individualistica fa crescere dentro di noi la paura. Paura di morire (la religione zero), paura di perdere il tenore di vita acquisito, paura della solitudine, paura dell’altro (enfatizzato dal Covid).

E’ in crisi lo stesso liberalismo, che alcuni pensavano essere l’unica ideologia sopravvissuta al comunismo e nazismo e l’unico modo giusto di vivere e produrre su questa terra. E’ vero che non sappiamo ancora cosa ci sia di meglio, come diceva Keynes, ma è probabile che qualcosa prima o poi emergerà, visto che questo sistema “liberale” produce guerre su guerre, ovviamente in nome della democrazia e del “benessere”. In tal senso il folle Trump potrebbe essere una grande opportunità di svegliarsi, di pensare e di cambiare.

 

Photo cover: riproduzione dell’opera “Democratura” di Fabrizio Loschi

 

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Sarai un sufi o non sarai nessuno. Rumi: «l’intero oceano in una goccia»

Sarai un sufi o non sarai nessuno.
Rumi: «l’intero oceano in una goccia»

Là fuori
oltre a ciò che è giusto e sbagliato
esiste un campo immenso.
Ci incontreremo lì.

sufi, sufismo
Una pagina del libro al-Munqidh min al-dalal di Al-Ghazali

 

La brezza del mattino ha segreti da dirti.
Non tornare a dormire.

L’anima è come uno specchio nitido,
il corpo è la polvere che lo ricopre.

Non si distingue la bellezza che è in noi
perché siamo sotto la polvere.

Il modo in cui ami è il modo in cui Dio sarà con te.
Solo dal cuore puoi toccare il cielo.

Felice il momento quando sediamo io e te nel palazzo,
due figure, due forme, ma un’anima sola, tu e io.

Nel momento in cui accettiamo i problemi
che ci sono stati assegnati,
le porte si aprono.

Non sei una goccia nell’oceano.
Sei l’intero oceano in una goccia.

L’oceano a Nazarè (Portogallo). Foto Pina Guarino.

In un giorno in cui il vento è perfetto,
basta solo spiegare le vele e il mondo si riempie di bellezza.

Oggi è un giorno come quello.
Se hai la passione per la sacra felicità,
getta via la tua arroganza e diventa un ricercatore di cuori.
Muoviti, ma non muoverti nel modo in cui la paura ti muove.

La luce della luna inonda l’intero cielo da un orizzonte all’altro;
quanto può riempire la tua stanza dipende dalle tue finestre.

Sei nato con ideali e sogni.
Sei nato con la grandezza. Sei nato con le ali.

Non sei stato concepito per strisciare, quindi non farlo.
Hai le ali. Impara a usarle e volare.
Diventa cielo.

Prendi un’ascia e rompi le pareti della tua prigione.
Fuggi.

Quando io sono con te, stiamo svegli tutta la notte.
Quando non sei qui, non riesco a dormire.
Ringrazio Dio per queste due insonnie
e per la differenza fra le due.
Ogni volta che riusciamo ad amare senza aspettative,
calcoli e negoziazioni, siamo davvero in paradiso.

Ieri ero intelligente, così ho voluto cambiare il mondo.
Oggi sono saggio, così sto cambiando me stesso.

Gialal al-Din Rumi

Leggere questo componimento lascia incantati. Non solo per la finezza della costruzione poetica, la bellezza delle sue immagini e l’arditezza delle sue metafore. C’è un messaggio filosofico ed esistenziale, prima ancora che religioso, che sembra interpretare la perdita di “un centro di gravità permanente”, di uno spaesamento che è la cifra più evidente della condizione del nostro tempo e della nostra vita. Oggi riceviamo posta, la lettera che Rumi ha scritto 8 secoli fa.

Gialal al-Din Rumi (1207 – 1273) è stato un poeta e mistico persiano. Nato nell’odierno Afghanistan, fu l’ideatore del sufismo , non una religione ma una corrente di pensiero musulmana nonviolenta, che apparenta l’esperienza mistica dei musulmani a quella di tutte le altre religioni, con un’apertura modernissima, ma oggi poco seguita in quel mondo, come nel nostro.

Rumi scrisse moltissimo, più di trentamila versi, oltre a sei libri contenenti 40.000 strofe; per trovare un paragone, la Commedia è composta (solo) di ventimila versi, divisi in terzine.

E’ interessante notare come la vita del grande Rumi, mistico e poeta del luminoso medioevo persiano. si intrecci idealmente con quella delle due figure più eminenti del medioevo europeo: San Francesco e Dante Alighieri. Rumi nasce infatti nel 1207, dieci anni prima della morte di Francesco di Assisi (1226), e muore nel 1273, otto anni dopo la nascita di Dante (1265). E forse Rumi li compendia e li supera entrambi, perchè Francesco, figlio di mercante, mistico e pauperista, era quasi analfabeta (anche il suo magnifico Cantico delle Creature è trascritto dai suoi primi compagni) mentre il sommo poeta Dante Alighieri rimane ancorato alla filosofia tolemaico-aristotelica e non può esplorare oltre i suoi cieli e le stelle fisse.

Cover: L’oceano dalla spiaggia di Nazarè (Portogallo). Foto Pina Guarino.

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