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Il silenzio uccide, La gentilezza salva.
Una proposta di legge per “istituzionalizzare” la gentilezza

Il silenzio uccide, La gentilezza salva!
Presentata dal MIG una proposta di legge per “istituzionalizzare” la gentilezza.

(Foto di MIG)

La gentilezza nasce da gesti semplici, ogni giorno. La gentilezza è attenzione agli altri, è coltivare l’equilibrio tra il proprio benessere e quello della comunità, è rispetto delle regole, quale fondamento di una convivenza serena e civile ed è cura per ciò che ci circonda e ci rigenera. Essere gentili significa partecipare quotidianamente e con responsabilità alla vita della Comunità, trasformando le intenzioni in azioni e contribuendo a costruire insieme, passo dopo passo, un domani migliore, riconoscendo che la ricchezza nasce dall’incontro delle differenze. La gentilezza è portare in armonia mente, cuore ed emozioni e richiede l’esercizio dell’ascolto e il rispetto della diversità di pensiero. Sono questi alcuni dei valori del Movimento Italiano per la Gentilezza-MIG, nato a Parma nel 2000 grazie ai coniugi Aiassa e oggi guidato da Palermo con l’impegno di Natalia Re, quale punto di riferimento italiano del World Kindness Movement,

L’obiettivo del Movimento Italiano per la Gentilezza è semplice e ambizioso: rendere la gentilezza protagonista della quotidianità, nella convinzione che la gentilezza non sia fragilità, ma energia trasformativa, capace di cambiare relazioni, comunità e persino intere città. Con il programma “Il Valore della Gentilezza”, ispirato all’Agenda ONU 2030, il MIG agisce in ambiti cruciali, quali: sanità fatta di umanità e non solo di tecnica; giustizia come equità e dignità per tutti; spazi urbani accoglienti e sostenibili; educazione che forma cittadini consapevoli; uguaglianza globale nei diritti e nelle opportunità. Volontari, ambasciatori e testimoni portano avanti questo messaggio ogni giorno. Qui il Decalogo della Gentilezzamesso a punto dal Movimento Italiano per la Gentilezza.

Quest’anno il MIG celebra un traguardo importante: il 25° anniversario dell’Assemblea Costitutiva. Un percorso fatto di passione, di impegno civile, di piccoli gesti che nel tempo hanno costruito fiducia e speranza. E proprio in questi giorni si celebra la Settimana della Gentilezza (la Giornata della Gentilezza si è celebrata ieri 13 novembre in tutto il mondo), diventata molto più di sette giorni: un tempo diffuso, un abbraccio collettivo che si allunga e si moltiplica nelle piazze, nelle scuole, nelle istituzioni e nei cuori. Gentilezza che quest’anno è stata già celebrata a Palermo, Cirò Marina, Napoli, Genova, Castelfranco, Santena (TO), Tordandrea (PG), Fabriano (AN) e in tante altre occasioni dove la gentilezza si è fatta incontro, dialogo e testimonianza viva e che il 15 Novembre farà tappa a Roma e a Milano.

E nei giorni scorsi su impulso del MIG (la presidente Natalia Re è stata in audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, il 15 ottobre scorso), è stato presentato un disegno di legge sulla gentilezza come strumento sociale e antidoto alla violenza e l’istituzione del Servizio Nazionale degli Educatori di Strada, figure professionali dedicate alla prevenzione delle condotte violente e alla ricostruzione del tessuto sociale nei contesti più fragili.

La proposta di legge punta ad introdurre la gentilezza come 13° indicatore BES (Benessere Equo e Sostenibile), al pari degli altri parametri che definiscono la qualità della vita dei cittadini. Alla proposta di legge si affiancano anche due testi collegati, il primo rivolto al mondo dell’istruzione e che ha l’obiettivo di promuovere la gentilezza come metodo educativo e di prevenzione del bullismo anche online e l’altro rivolto al mondo del lavoro e alla pubblica amministrazione in particolare, con l’obiettivo di favorire ambienti professionali inclusivi e rispettosi, liberi da molestie e discriminazioni. Come parte integrante della proposta è stata sviluppata anche una “Carta dei Sei Valori della Gentilezza” composta da sei principi fondamentali: rispetto, ascolto, solidarietà, equità, pazienza e generosità. La Carta è stata pensata per essere usata per orientare le politiche pubbliche, dalla gestione dei servizi sociali alla promozione della cultura, fino alla definizione delle politiche economiche.

L’“istituzionalizzazione” della gentilezza è già avvenuta in alcuni Paesi che hanno normato il tema. E’ il caso del Giappone che ha adottato leggi che promuovono il rispetto reciproco e l’inclusione culturale, come ad esempio, il Programma di Educazione alla Tolleranza nelle scuole che punta a insegnare ai giovani l’importanza della gentilezza e del rispetto verso gli altri, in particolare verso le minoranze e le persone con disabilità. In Canada, invece, dal 1988 c’è il Multiculturalism Act, una legge federale che promuove la multiculturalità come un valore fondamentale per la società canadese. In Bhutan è stata introdotta la Felicità Interna Lorda (GNH), una misura di benessere volta a guidare le politiche pubbliche, in alternativa al prodotto interno lordo (PIL) tradizionale, che si concentra su 4 aree principali: sviluppo economico, conservazione culturale, protezione ambientale e governance buona. In Australia sono in vigore il National Day of Action Against Bullying and Violence e diverse leggi e iniziative locali per combattere il bullismo e la violenza, in particolare nelle scuole. Nei Paesi Scandinavi, infine, la gentilezza, il rispetto e l’inclusione sociale sono promossi come parte integrante delle politiche pubbliche.

Qui l’audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della presidente del Movimento Italiano per la Gentilezza-MIG, Natalia Re.

… grazie a Carlotta, che mi ha invitato a scrivere di Gentilezza

In copertina: Foto di Lucas Cabello da Pixabay 

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L’Europa non crolla sotto le bombe. Si sta svuotando dall’interno

L’Europa non crolla sotto le bombe. Si sta svuotando dall’interno

Santiago del Cile – da pressenza del
Quest’articolo è disponibile anche in: SpagnoloFrancese
(Foto di Smowl)

L’Europa non sta crollando a causa di missili, invasioni o città ridotte in macerie. La frattura viene dall’interno. Ciò che sta accadendo è più lento e pericoloso di una guerra, e milioni di giovani europei se ne vanno perché non c’è futuro per loro dove sono nati. E mentre tutto questo accade, Bruxelles discute regolamenti che nessuno legge. L’emorragia non fa rumore, ma sta svuotando il cuore del continente.

Dietro questa migrazione silenziosa si cela un modello esausto. Le economie europee sono cresciute senza condivisione, hanno incorporato senza inclusione, hanno promesso sicurezza ma hanno consegnato precarietà. In Italia, Grecia e Portogallo, intere generazioni vivono con salari insufficienti a sostenere una vita dignitosa. In Francia, lo stato sociale è diventato un campo di battaglia. In Germania, la prosperità non è più sufficiente a sostenere la propria narrazione. Il continente sta invecchiando, diventando isolato e burocratico, e il suo peggior nemico non è esterno; è la disillusione.

Questa disillusione sta rimodellando la politica europea. In Ungheria, Polonia, Paesi Bassi e Francia, i partiti ultranazionalisti stanno crescendo nel vuoto lasciato dalle socialdemocrazie. Al nord, Svezia e Finlandia si stanno orientando verso la militarizzazione. Al sud, Spagna e Italia brancolano tra stanchezza e rabbia. L’Europa non teme più il futuro, ma lo evita. Il continente che un tempo dettava il corso del mondo ora si chiede come sopravvivere alla propria disillusione. La frattura europea non sarà un’esplosione, ma una lenta scomparsa demografica, morale e politica.

L’esodo silenzioso che l’Europa nasconde

Negli ultimi dodici anni l’Europa ha perso più di 8,3 milioni di giovani. Non si tratta di una stima soggettiva, ma di dati ufficiali forniti da Eurostat e dalla Banca Mondiale. La sola Romania ha visto emigrare 3,7 milioni di persone dal 2007, il più grande esodo civile dalla Seconda Guerra Mondiale. La Lettonia ha perso il 25% della sua popolazione tra il 2000 e il 2023. La Bulgaria ha perso più di 2 milioni di abitanti in trent’anni e non ci sono stati bombardamenti. C’è un’evacuazione economica al rallentatore.

Nel 2023, oltre 400.000 spagnoli sotto i 35 anni vivevano fuori dalla Spagna. Il Portogallo ha il 10% della sua popolazione totale che vive all’estero. L’Italia registra oltre 1.200.000 emigranti qualificati dal 2008, per lo più medici, ingegneri e personale sanitario. L’Europa non sta perdendo turisti. Sta perdendo coloro che sostengono il suo domani.

La cosa più rivelatrice è che non fuggono dalla Russia o dalle guerre, fuggono dal costo degli alloggi, dai salari stagnanti, dal lavoro precario e da un sistema in cui l’energia e la tecnologia costano più che in qualsiasi altra area del pianeta. Mentre Bruxelles gioca a regolamentare il futuro, il futuro sta uscendo dalla porta.

I 13 paesi che stanno già retrocedendo

Nell’Europa orientale, la fuga umana ha le dimensioni di un’intera economia. La Romania ha perso quasi il 20% della sua popolazione e oltre 60 miliardi di dollari in talento produttivo accumulato dal 2007.

La Lettonia ha perso l’equivalente di 12 miliardi di dollari all’anno in capitale umano, con l’evaporazione del 25% della sua forza lavoro dal 2000. La Lituania, con un PIL di appena 76 miliardi di dollari, ha visto evaporare una popolazione equivalente a 15 miliardi di dollari in produttività futura e la Polonia ha perso lavoratori qualificati per un valore stimato di 100 miliardi di dollari in tasse non riscosse dal 2010.

Il sud vive un altro livello di collasso. La Grecia ha un debito superiore ai 400 miliardi di dollari, con più di 500.000 giovani emigrati in seguito alla crisi; il Portogallo supera i 280 miliardi di dollari di debito pubblico, mentre 1,5 milioni di portoghesi vivono all’estero, pari a oltre il 15% del PIL perso in produttività. La Spagna supera i 32 miliardi di dollari all’anno in fuga netta di giovani che emigrano e non tornano. In Italia si sono persi professionisti qualificati per un valore di oltre 200 miliardi di dollari nell’ultimo decennio, tra cui 70.000 medici e tecnici sanitari.

L’energia industriale in Europa è arrivata a costare 300 dollari per MWh nel 2022, mentre negli Stati Uniti non supera i 70 dollari. L’Italia ha un debito pari al 140% del PIL, equivalente a 3,1 trilioni di dollari; e in Grecia, Portogallo e Romania i salari minimi superano di poco gli 800 dollari al mese. Non se ne vanno a causa di una guerra, se ne vanno perché il modello è crollato di fronte al costo della vita e della produzione e l’Europa continua ad esistere sulle mappe, ma non più nelle decisioni vitali.

Il centro crolla. Germania e Francia già ne risentono

La fuga non è più solo umana. È industriale. La Germania ha perso oltre 90 miliardi di dollari in investimenti industriali diretti tra il 2022 e il 2024, dirottati verso Stati Uniti e Cina. BASF ha trasferito 10 miliardi di dollari in un nuovo mega impianto chimico a Zhanjiang. Volkswagen, BMW e Mercedes hanno confermato che oltre 50 miliardi di dollari in nuovi impianti per veicoli elettrici saranno installati fuori dall’Europa, principalmente in Texas e Shanghai, e non si tratta di speculazioni.

L’attrattiva degli Stati Uniti è puramente energetica e fiscale. Lo Stato federale sovvenziona fino a 7.500 dollari per ogni auto elettrica prodotta localmente. L’elettricità industriale in zone come il Texas costa 30 dollari per MWh, contro i 90-120 dollari per MWh della Germania post-Nord Stream. Ogni megafabbrica che sceglie il Texas invece dell’Europa rappresenta tra i 5 e i 10 miliardi di dollari di PIL futuro annuo che svanisce dal continente.

La Francia, dal canto suo, non esporta più talenti, ma li importa. Nel 2023 ha reclutato più di 25.000 medici stranieri, principalmente dal Marocco, dalla Tunisia e dal Senegal, per sostenere un sistema ospedaliero collassato per mancanza di personale locale. Il deficit previsto supera i 12 miliardi di dollari all’anno per la sostituzione di lavoratori qualificati. Le università francesi formano meno ingegneri di quanti ne richieda l’industria del Paese. L’Europa non solo ha perso il monopolio produttivo, ma sta perdendo anche la capacità umana di ricostituirlo con la propria gente.

L’Europa è un luogo che viene abbandonato

Il simbolo più evidente non è nelle frontiere, ma negli aerei in partenza. Più di un milione di portoghesi vivono oggi in Francia, generando oltre 15 miliardi di dollari all’anno di PIL per un altro Paese e più del 70% non intende tornare, secondo i dati dell’Osservatorio Portoghese sull’Emigrazione. Il Portogallo ha già perso in capitale umano l’equivalente del 20% della sua economia attuale.

La Lettonia è il caso più estremo del Baltico. È passata da 2,3 milioni di abitanti nel 2000 a soli 1,8 milioni nel 2023. Una perdita del 25% della sua popolazione attiva, valutata in oltre 30 miliardi di dollari in produttività futura evaporata. Si tratta di una scomparsa demografica non causata da guerre. Il Paese esiste sulle mappe, ma non sarà più in grado di sostenere da solo la sua piramide lavorativa e fiscale.

La Spagna subisce una fuga silenziosa e strategica. Ogni anno se ne vanno più di 100.000 professionisti qualificati, tra cui medici, scienziati e ingegneri che generano in altri paesi un output stimato superiore a 25 miliardi di dollari all’anno in valore aggiunto perso. Germania, Regno Unito e Svizzera accolgono questi talenti senza pagare per la loro formazione.

Gli Stati Uniti e la Cina vincono. L’Europa si limita a osservare

Gli Stati Uniti stanno assorbendo l’industria che l’Europa non è più in grado di sostenere. Dal 2022 le aziende europee hanno annunciato oltre 200 miliardi di dollari di investimenti industriali trasferiti sul suolo statunitense, attratti da energia tre volte più economica e sussidi federali diretti dall’Inflation Reduction Act per 369 miliardi di dollari. La sola Germania ha dirottato 100 miliardi di dollari in progetti chimici, automobilistici e farmaceutici verso il Texas, la Louisiana e l’Ohio. Washington non sta conquistando le fabbriche, le sta ricevendo senza resistenza.

La Cina gioca su un altro piano. Acquista energia quattro volte più economica rispetto all’Europa grazie a contratti con la Russia e l’Arabia Saudita inferiori a 10 dollari per MWh e, con questo divario, sta sostituendo l’Europa come esportatore globale. Nel 2024 il surplus commerciale cinese con l’UE ha superato i 400 miliardi di dollari, e Pechino sta attirando i giovani ricercatori europei che non riescono più a trovare finanziamenti locali. Solo nel 2023 la Cina ha attirato più di 12.000 scienziati europei con contratti superiori a 120.000 dollari l’anno, cosa inaccessibile nelle università europee in regime di austerità.

Nel frattempo, Bruxelles investe migliaia di ore nella legislazione sui caricabatterie USB e sulle quote di emissione, ma non è riuscita a fissare un prezzo energetico stabile per la sua industria né un piano reale per trattenere i talenti. La discussione è normativa e la fuga è globale. L’Europa continua a parlare e i suoi figli non ascoltano più.

2030: l’UE può continuare ad esistere… ma vuota

L’Unione Europea può arrivare al 2030 istituzionalmente intatta, con un parlamento funzionante, una commissione che emana direttive e vertici diplomatici impeccabili. Ma dietro questa facciata potrebbe esserci un continente vuoto, senza tessuto industriale, senza forza lavoro giovane e senza un reale potere strategico. Il rischio non è il collasso istituzionale, è l’irrilevanza.

Se l’attuale tendenza continuerà, l’Europa perderà più di 1,5 trilioni di dollari in investimenti industriali accumulati tra il 2024 e il 2030 a favore degli Stati Uniti e dell’Asia e più di 15 milioni di lavoratori potrebbero uscire dal sistema produttivo europeo senza essere sostituiti dalle nuove generazioni.

L’età media in Italia e Germania supererà i 50 anni, mentre in paesi come l’India è di 29 anni. Non è solo un problema demografico, è una rottura della spinta economica.

Il continente può trasformarsi in quello che molti analisti definiscono già il suo destino silenzioso, in altre parole un museo globale, con città da cartolina che accolgono turisti cinesi, arabi e statunitensi che contribuiscono con oltre 600 miliardi di dollari all’anno alla spesa turistica… mentre anche l’industria europea si riduce a pezzi da museo. L’Europa può continuare a esistere, senza forza, senza progetti e senza un proprio futuro.

L’Europa si sta dissolvendo

L’Europa non sta affrontando un’invasione né un crollo improvviso. Sta affrontando qualcosa di più pericoloso. Si sta dissolvendo silenziosamente, non a causa della guerra, ma dell’irrilevanza. Per aver delegato l’energia alla Russia, l’industria alla Cina e la strategia agli Stati Uniti. Per aver insegnato al mondo la democrazia e i diritti, ma aver dimenticato di difendere con lo stesso rigore la propria sovranità materiale.

C’è ancora margine. Forse cinque anni, non di più. Se l’Europa riuscirà a riprendere il controllo del prezzo e dell’origine della sua energia, se deciderà di produrre dove vive e non solo di consumare ciò che altri producono, se tornerà a considerare il talento giovane una priorità invece che una risorsa da esportare, allora potrà non solo sopravvivere, ma rinascere, ma l’orologio non segna più decenni, bensì cicli elettorali.

L’Europa non è condannata a scomparire. È condannata a scegliere se continuare ad amministrare rovine gloriose o ricostruire un futuro che non dipenda da nessun altro. E questa decisione non sarà presa dai discorsi ufficiali. Saranno quelli che oggi stanno facendo le valigie a prenderla.

Bibliografia:

. Eurostat, Demographic Trends & Migration Report 2023–2024
. FMI, Regional Outlook on Europe — Structural Decline Indicators
. Banco Mundial, Global Talent Drain & Human Capital Flight in the EU
. IEA, Energy Price Divergence between EU–US–China 2022–2024
. Comisión Europea, European Industrial Competitiveness Report 2024
. OECD, The Silent Migration Crisis in Southern Europe
. Bloomberg & Financial Times, Factory Exodus & IRA vs EU Analysis 2023–2024
. McKinsey Global Institute, Industrial Relocation and Talent Flows 2030 Risk Model


Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.

Parole e figure / Il tempo che volevi

In uscita il 20 novembre, con Kite edizioni, “Il tempo che volevi”, di Michela Nodari, porta il lettore nell’attimo presente. Quello che conta davvero.

Tempus fugit. Non è un semplice aforisma che riporta alle Georgiche di Virgilio ma la dura e cruda realtà. E noi umani-umanoidi ormai non lo sappiamo più riconoscere.

Gli africani dicono che loro hanno il tempo, mentre gli occidentali l’orologio. Come dar loro torto. Noi scalpitiamo, ci affanniamo, pianifichiamo, corriamo, ma dove?

Esiste un tempo macrocosmico, quello della vita, indipendente dal potere e dal volere dell’uomo, che evolve nel cambiamento delle stagioni, nello scorrere dei giorni suddivisi in secondi, minuti e ore, in giorno e notte. Un tempo dettato dalle regole e dai calendari. Quello che nessuno oggi ha mai, soprattutto gli adulti.

Ma c’è anche il tempo in senso microcosmico, che è il tempo come spazio storico di vita realmente e personalmente o collettivamente vissuto da un individuo o da una comunità, secondo le proprie esigenze particolari, il sapere specifico, le conoscenze, gli strumenti, le esperienze. Quello dettato dai sentimenti, dalle paure e dai dolori, dai momenti felici e tristi, dalle emozioni e dalle sensazioni. Dai battiti del cuore.

Ogni giorno ricordo a me stessa che il dono più prezioso che possiamo fare è il nostro tempo, fatto di attenzione e di ascolto. Il tempo per un genitore anziano, per un bambino che ci chiama a giocare, per una carezza e un abbraccio spesso rimandati.

Michela Nodari, in Il tempo che volevi, ci riporta ad un altro tempo, quello vero, quello che conta, quello che non si dimentica e che aiuta ad andare avanti.

il tempo che volevi

In un mondo in cui tutti corrono senza mai fermarsi, esiste, infatti, un tempo diverso. È il tempo dell’infanzia, quello che i grandi spesso dimenticano di cercare. Quello che deve esserci ancora e sempre, quello che non è mai perduto. Prima che sia tardi.

Michela Rodari ci presenta un albo delicato che è una meravigliosa riflessione sul nostro rapporto con il tempo e un autentico ed accorato invito a rallentare, osservare e a vivere pienamente il presente, lontano dalla frenesia che scandisce le nostre giornate.

Perché il tempo che davvero conta è sempre qui, in attesa di essere riconosciuto. Amato, desiderato e abbracciato.

Perché ci vuole tanto tempo per diventare giovani. E il momento giusto è sempre adesso.

Michela Nodari, Jesús Cisneros (illustratore), Il tempo che volevi, Kite, Padova, 2025, 32 pp.

il tempo che volevi

Le voci da dentro / Dove sono finiti tutti i fiori?
Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza della violenza

Dove sono finiti tutti i fiori?
Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza della violenza

Diffondo una comunicazione a cura di C.A.R.P.A. aps (Centro Artistico di Ricerca Periferie Attive) che invita alla partecipazione allo spettacolo teatrale  Where have all the flowers gone?” (“Dove sono finiti tutti i fiori?”). Comunque la pensiate, buona partecipazione.
(Mauro Presini)

Saranno dieci detenuti, partecipanti al percorso “Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere”, a presentare lo spettacolo “Where have all the flowers gone?“, con drammaturgia e regia di Marco Luciano, in collaborazione con Veronica Ragusa e Andrea Zerbini. Gli appuntamenti sono per giovedì 4 e venerdì 5 dicembre 2025 alle 18:00 e sabato 6 dicembre 2025 alle 17:00 all’interno della Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara.

Lo spettacolo è un viaggio poetico e corale tra fragilità e resistenza, ispirato al libro “L’intelligenza dei fiori” di Maurice Maeterlinck.

Il tema centrale è la capacità dei fiori di crescere in condizioni avverse, offrendo un’immagine di resistenza silenziosa e stimolandoci a ripensare il rapporto tra fragilità e forza.

Where have all the flowers gone?porta in scena dieci detenuti che, come fiori resilienti, cercano spiragli di luce nel terreno arido della guerra, vista da un luogo di reclusione.

Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza del cemento, in un canto collettivo che è un atto di insubordinazione contro la violenza.

Dieci corpi, dieci voci provenienti da diversi angoli del mondo portano la stessa domanda: dove sono finiti i fiori?
Attorno a questo quesito si sviluppa un viaggio teatrale che mostra come, persino nei luoghi più chiusi, l’umanità coltivi sempre il desiderio di sbocciare.


Prenotazione necessaria:

I posti sono limitati e su prenotazione da effettuare all’indirizzo mail carpa.redazione@gmail.com entro mercoledì 19 novembre 2025, allegando una copia fronte-retro di un documento di identità valido.

Il costo del biglietto è di 10 euro; a coloro che invieranno l’iscrizione sarà poi indicata via mail la piattaforma su cui effettuare il pagamento.

Il Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere, diretto da Marco Luciano, coinvolge stabilmente due gruppi: un primo gruppo formato da circa venti detenuti di diverse nazionalità, impegnati in ruoli attoriali, musicali e tecnici; un secondo gruppo, composto da detenuti in regime di detenzione protetta. Quest’ultimo è attualmente impegnato nella realizzazione di un podcast in tre puntate dal titolo “Se non son gigli…”, che sarà presto presentato sulle piattaforme social di C.A.R.P.A. aps.

Where have all the flowers gone?” è parte del Festival “Trasparenze di teatro carcere”, appuntamento annuale di restituzione, formazione e dialogo fra artisti, detenuti, educatori, operatori penitenziari e pubblico.

Il festival è organizzato dal Teatro del Pratello in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Chiesa Valdese.

Il Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere a cura di CARPA è realizzato con il contributo del Comune di Ferrara e del Ministero della Giustizia.

Le foto della copertina e nel testo sono state scatta da Mauro Presini durante un precedente spettacolo del gruppo. 

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Le mille luci di New York, al centro di un mondo dal cuore di tenebra

Le mille luci di New York, al centro di un mondo dal cuore di tenebra

Un immigrato di origine indiana e ugandese nato a Kampala, 34 anni, musulmano, che si autodefinisce socialista, è appena diventato sindaco di New York. Il suo nome è Zohran Kwame Mamdani.

Prova a rileggere la frase sopra. Leggila lentamente. Presta attenzione alle origini, al credo religioso, all’età, all’ideologia professata, alla città. Prova a pronunciare il suo nome. Vai a vedere dov’è l’Uganda.

Se qualcuno avesse ipotizzato una cosa del genere solo un anno fa, gli avrei riso in faccia. Avrei ritenuto molto meno fantascientifico che una fumata bianca annunciasse un Papa nero. New York è la città in cui, 24 anni fa, un gruppo di musulmani suicidi ha costretto due aerei di linea a fare rotta contro le Torri Gemelle del World Trade Center e a schiantarvisi contro, causando quasi tremila morti, l’immagine tragica più iconica del ventunesimo secolo. New York non è una città capitalista, è la città capitalista. New York è la città in cui risiede il più elevato numero di miliardari in dollari, i billionaires. New York è la città al mondo, fuori da Israele, in cui risiedono la maggior parte delle persone di ascendenza ebraica: circa due milioni. La parola “socialismo” in questa città è sempre suonata più blasfema della parola “fascismo” . New York è la città di Donald Trump, il politico-imprenditore-presidente bianco più ricco, gaglioffo e capitalista del pianeta, la cui elezione è sembrata meno incredibile agli italiani che agli statunitensi, semplicemente perché noi ci siamo passati prima di loro.

Un anno fa Mamdani godeva dell’uno per cento dei consensi nella corsa a sindaco. E’ riuscito a conquistare il consenso del 51% dei votanti, che sono andati alle urne in massa, come non succedeva da 50 anni. Tutto questo è accaduto nonostante, durante la campagna elettorale, Mamdani sia stato accusato di ogni nefandezza: di essere comunista (negli Stati Uniti è un insulto),  jihadista, antisemita, immigrato.

Di fronte a queste accuse, Mamdani non ha annacquato nessuna delle sue convinzioni. Ha ribadito di essere un socialista, ma non ha mai detto di essere comunista. Ha rivendicato con orgoglio il suo essere musulmano, ma non ha mai parlato di sharia. Ha precisato che riconoscerebbe Israele così come riconoscerebbe ogni stato che assicurasse pari diritti a ognuno dei suoi cittadini, a prescindere da razza e religione, e non praticasse l’apartheid (nota: qualcuno chiese di “riconoscere” il Sudafrica razzista che teneva in galera Mandela? Il Sudafrica esisteva, e basta. Non aveva, al tempo, bisogno di riconoscimenti, piuttosto di boicottaggi e sanzioni). Quanto all’immigrato, ricevere quest’accusa da gente che è immigrata per definizione, perchè se non lo fosse sarebbe il discendente di un Navajo, di un Apache o di un Seminole, è veramente comico: ma di questi tempi l’ICE distingue tra immigrati bianchi, i buoni, e colorati, i cattivi (compresi i nativi americani, a volte oggetto di espulsione dalla terra che i loro antenati abitano da millenni). Tra i buoni, annoveriamo Donald Trump, Elon Musk (che non è nato negli Stati Uniti, esattamente come Mamdani), David Zuckerberg. Tra i cattivi, tutti i colored, a meno che non siano ricchi. Negli Stati Uniti il colore della pelle è sempre un problema, a meno che non diventi ricco e di successo: allora, la pelle si sbianca.

Che la comunità musulmana della Grande Mela lo abbia votato in massa non sorprende, ma ovviamente non sarebbe bastato per vincere. Si stima che un ebreo newyorchese su tre abbia votato per lui, e che i 3/4 dei giovani sotto i trent’anni abbiano votato per lui. Il suo programma è incentrato sulla restituzione di New York a tutti i suoi cittadini, anziché solo a quelli che se la possono permettere, che sono sempre di meno: congelamento degli affitti, asili nido universali, trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare – 200.000 immobili in dieci anni. Come trovare i soldi? Prevalentemente, attraverso un aumento delle tasse sui ricchi (tax the rich).

“Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza eguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l’efficacia dell’impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego del capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta.”  Sembra una frase di Mamdani che descrive la situazione nel 2025. Invece è di Franklin Delano Roosevelt, ed è stata pronunciata nel 1938.  Eppure, se pensi che sia stato semplice costruire un consenso di massa su un programma di redistribuzione di base del reddito – un programma quindi niente affatto comunista, ma piuttosto rooseveltiano – stai sottovalutando la potenza dei finanzieri e speculatori miliardari, alcuni ebrei, che hanno finanziato la propaganda contro Mamdani. Tutti contro Mamdani, tranne uno: George Soros. E’ incredibile come la definizione di “speculatore ebreo” ridiventi demoniaca quando riferita a George Soros e torni ad essere la naturale descrizione di abili uomini d’affari quando si parla di Bill Ackman o di Vanguard o di Blackrock. E’ incredibile come l’appoggio della famiglia Soros, ebreo ungherese, sia interpretato dai commentatori destrorsi come la prova che Mamdani è finto, è sostenuto dalla grande finanza ebraica, che improvvisamente ridiventa sporca e cattiva quando sostiene un candidato progressista, mentre è rappresentata come l’inevitabile “fine della storia” quando sta dalla parte del privilegio, della ricchezza insensata, della sperequazione priva di freni. E come improvvisamente l’antisemitismo complottista rispunti proprio dalle parti dei grandi difensori del regime e dello stato di Israele, quelli che accusano di antisemitismo chiunque si permetta di criticare l’ideologia sionista e segregazionista che comanda da tempo in Israele stessa.

Dopodiché: vincere delle elezioni, per quanto avere vinto questa elezione appaia già, a me, un’impresa eccezionale, è meno complicato che governare una città come New York.  Alcuni dei punti del programma del neosindaco sono ineccepibili socialmente e moralmente, ma di ardua attuazione. L’aumento dell’aliquota dell’imposta sulle società per allinearla all’11,5% del New Jersey, che farebbe introitare 5 miliardi di dollari; la tassa del 2% in più sulle persone che guadagnano più di 1 milione di dollari, che secondo le sue stime farebbe incassare 4 miliardi di dollari; sono misure che devono fare i conti anzitutto con la governatrice dello Stato,  la democratica e sicuramente progressista (nel capo dei diritti civili) Kathy Hochul, che è in corsa per la rielezione il prossimo anno, la quale ha già escluso di voler tassare i ricchi. Poi deve fare i conti con Trump, che ha dichiarato di voler trasferire il minimo di fondi federali a New York per rendere la vita impossibile al finanziamento dei programmi sociali della città; contro questo ricatto Mamdani ha ingaggiato un plotone di avvocati per contrastare in punta di diritto le minacce del presidente. Infine c’è la possibilità che i billionaires se ne vadano da New York, cercando riparo in qualche paradiso fiscale o semplicemente in qualche località della Florida dove l’obbligo fiscale sarebbe decisamente più blando. Si sa: i ricchi possono spostarsi facilmente, i poveri restano, la classe media anche. In realtà sono già anni che questo “esodo” avviene, e si calcola che abbia eroso la base imponibile di New York di circa 500 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.

Appare quindi già chiaro a chiunque non sia pazzo che la corrispondenza, almeno parziale, tra le “promesse” di Mamdani e la loro concreta attuazione passerà necessariamente per dei compromessi. Servirà una gigantesca opera di instaurazione di relazioni diplomatiche con la parte meno avida dell’establishment, per non vanificare le aspettative generate nell’enorme movimento di rinascita dell’entusiasmo per la politica che Mamdami è stato capace di generare attorno alla sua figura.

 

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Horacio Oliveira e la finzione come verità dell’esperienza: Cortázar con Chiaromonte

Horacio Oliveira e la finzione come verità dell’esperienza: Cortázar con Chiaromonte

Come abbiamo più volte ripetuto nelle precedenti puntate, nel suo saggio Credere e non credere, Nicola Chiaromonte afferma che la storia non è solo l’insieme degli eventi che accadono, ma anche – e soprattutto – ciò che accade agli uomini e alle donne che li vivono.

La verità dell’esperienza umana, secondo Chiaromonte, non si lascia catturare dalla cronaca o dalla storiografia ufficiale: essa si rivela piuttosto nella finzione, nella letteratura, nella capacità dell’immaginazione di restituire la complessità dell’esistenza. La verità ha più chance di essere catturata dai personaggi paradigmatici dei romanzi di Stendhal (Fabrizio del Dongo, Julien Sorel, Lucien Leuwen) o dalle protagoniste dei romanzi di fantascienza di Doris Lessing, Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood

Scrive Chiaromonte:

«La verità dell’esperienza umana non si lascia mai ridurre a un concetto astratto o a una formula storica. Essa si manifesta, se mai, nella finzione, là dove l’immaginazione riesce a cogliere ciò che nella realtà resta nascosto».

Questa concezione trova un’eco profonda nell’opera di Julio Cortázar, e in particolare in Rayuela, romanzo-labirinto che si offre come un esperimento radicale di scrittura e di lettura. Cortázar non intende raccontare una storia nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto mettere in scena un’esperienza: quella di un uomo, Horacio Oliveira, che cerca un senso nel caos del mondo, e che proprio attraverso la finzione tenta di afferrare la verità della propria esistenza.

La struttura stessa del romanzo è una sfida alla linearità narrativa (e dunque della cosiddetta Storia con la S maiuscola). Rayuela è composto da 155 capitoli, ma può essere letto in almeno due modi: in sequenza tradizionale (capitoli 1–56) o seguendo un ordine “alternativo” suggerito dallo stesso autore, che include anche i “capitoli prescindibili”.

Questa struttura a salti – da cui il titolo stesso, Rayuela, cioè “il gioco del mondo” o “campana” – non è un semplice espediente formale, ma una dichiarazione di poetica: la realtà (e dunque la “Storia”) non è un continuum ordinato, ma un insieme di frammenti, di vuoti, di possibilità.

E così in un tale esperimento Cortázar  invita il lettore a partecipare attivamente, a costruire il proprio percorso, a vivere la lettura come esperienza esistenziale.

In questo senso, Rayuela non è solo un romanzo, ma un dispositivo epistemologico. Oliveira, il protagonista, è un intellettuale disilluso, un flâneur metafisico che si muove tra Parigi e Buenos Aires, tra la riflessione astratta e il disordine della vita. La sua relazione con la Maga, la sua partecipazione al  circolo intellettuale parigino chiamato il Club del Serpente, la sua deriva solitaria, sono tutte tappe di un percorso che non mira alla verità come possesso, ma come esperienza vissuta, spesso fallimentare.

In un passaggio emblematico, Oliveira si chiede:

«E se cominciassimo a non dire più parole, a lasciare che le cose parlassero da sole, che scivolassero come pesci tra le nostre mani?»[Rayuela, cap. 21]

Questa immagine del pesce che sfugge tra le mani è straordinariamente vicina alla visione chiaromontiana della verità come qualcosa di elusivo, che non si lascia afferrare con la forza del concetto. Le “parole” qui non sono solo linguaggio, ma anche ideologie, sistemi, narrazioni precostituite. Oliveira intuisce che la realtà più profonda si manifesta solo quando si rinuncia al controllo, quando si accetta di lasciar parlare le cose stesse, nella loro opacità e nel loro silenzio. È un invito a un ascolto radicale, che Chiaromonte avrebbe riconosciuto come autentico atto di conoscenza.

Un’altra citazione significativa è:

«Forse a furia di cercarmi, a furia di cercarla, ci eravamo persi irrimediabilmente» [Rayuela, cap. 41]

Qui si coglie la consapevolezza tragica del fallimento della ricerca di senso. Ma è proprio in questo fallimento che si apre lo spazio della finzione come conoscenza. La perdita non è solo personale, ma storica: è la condizione dell’uomo moderno, smarrito in un mondo che ha perso i suoi riferimenti. Oliveira e la Maga si cercano, ma non si trovano; eppure, è in questo smarrimento che si rivela la verità dell’esperienza. Come scriveve Chiaromonte:

«La finzione non è un modo per evadere dalla realtà, ma per penetrarla più a fondo, per coglierne il senso umano, che sfugge alla pura registrazione dei fatti».

Come si è detto, Nicola Chiaromonte individua in alcuni personaggi della grande narrativa europea (in particolare di Stendhal) esempi di figure che, pur immerse nella storia, non si lasciano ridurre a essa. Sono uomini che vivono gli eventi non come semplici comparse, ma come soggetti attraversati da tensioni morali, da dilemmi interiori, da una ricerca di senso che li rende paradigmatici. In questo senso, Horacio Oliveira può essere considerato il loro erede moderno, o meglio, il loro equivalente in un’epoca in cui la crisi del senso ha raggiunto una radicalità inedita.

Fabrizio del Dongo, protagonista de La Certosa di Parma, è l’archetipo dell’uomo che si getta nella storia con entusiasmo, ma che finisce per sperimentarne l’assurdità. La sua partecipazione alla battaglia di Waterloo è emblematica: crede di vivere un momento epico, ma si ritrova spaesato, incapace di comprendere ciò che accade intorno a lui. È un personaggio che incarna la distanza tra l’ideale e il reale, tra l’immaginazione e la concretezza degli eventi.

Allo stesso modo, Oliveira attraversa la storia del suo tempo – la Parigi esistenzialista, la Buenos Aires della repressione – senza mai sentirsi davvero parte di essa. Come Fabrizio, è un testimone disorientato, un uomo che cerca nella letteratura e nella riflessione filosofica un ordine che la realtà gli nega.

Julien Sorel, il giovane ambizioso de Il rosso e il nero, rappresenta invece la tensione tra l’ascesa sociale e la fedeltà a se stessi. La sua intelligenza e la sua sensibilità lo pongono in conflitto con un mondo che premia la mediocrità e punisce l’autenticità. Julien è un personaggio tragico perché consapevole della propria finzione: sa di recitare un ruolo, ma non può farne a meno.

Anche Oliveira è un uomo diviso: tra il desiderio di comprendere e l’incapacità di agire, tra l’ironia e la disperazione, tra l’intellettualismo e la fame di vita. Come Julien, è un personaggio che si muove in un mondo che non riconosce più come proprio, e che cerca nella finzione – letteraria e personale – una via di fuga, o forse una forma di resistenza.

Infine, Lucien Leuwen, protagonista dell’omonimo romanzo incompiuto di Stendhal, è forse il più vicino a Oliveira per la sua natura di uomo “in bilico”. Lucien è un giovane brillante, ma costantemente sospeso tra l’azione politica e la riflessione interiore, tra l’ambizione e il dubbio. La sua storia è segnata da un continuo oscillare tra possibilità e rinuncia, tra desiderio e disillusione.

Anche Oliveira vive in una condizione di sospensione: incapace di scegliere, di aderire, di appartenere. La sua esistenza è una “rayuela”, un gioco di salti e di cadute, di tentativi e di fallimenti. Ma è proprio in questa instabilità che si manifesta la sua verità: una verità che, come per i personaggi di Stendhal, non si lascia ridurre a una morale o a una lezione, ma si offre come esperienza vissuta, come interrogazione aperta.

In definitiva, Horacio Oliveira si inserisce in una genealogia di personaggi che, secondo Chiaromonte, incarnano la possibilità di pensare la storia non come successione di fatti, ma come campo di esperienza. Se Fabrizio, Julien e Lucien sono i testimoni di un’epoca in cui l’individuo cercava ancora di misurarsi con la “Storia”, Oliveira è il testimone di un tempo in cui la storia sembra aver perso ogni centro, e in cui solo la finzione può restituire la profondità dell’umano.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/amic_-47306316/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9290162″>amic</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9290162″>Pixabay</a>

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Per certi Versi / Il verso del lupo

Il verso del lupo

Seduta su un freddo gradino
conto i miei anni

uno stormo di uccelli
tinge di nero miei occhi
poi fugge via
avanza la sera
con l’abito a lutto
ha perso la luce
sul sentiero del giorno

si mescola al buio
il male del cuore
divento io notte
nel verso di un lupo
che non riesce a tacere

In copertina: Foto di Himel Deb Nath Apu da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Perché MPS conquista Mediobanca (e Generali)?

Perché MPS conquista Mediobanca (e Generali)?

La più antica banca italiana, MPS (Monte dei Paschi di Siena), quasi fallita, ha conquistato Mediobanca, la più prestigiosa banca d’affari italiana, formando il 3° polo bancario italiano.
Procede così la concentrazione bancaria anche in Italia dove ormai sono quasi tutte banche private. La Germania ha 4 volte il numero delle banche italiane e ciò spiega perché in Italia il 43% dei Comuni sia rimasto senza banche e soffrano le piccole imprese con meno di 50 addetti che contribuiscono al valore aggiunto nazionale per il 47% rispetto al 33% della Germania e al 30% della Francia.

MPS è sempre stata nell’orbita della sinistra che governava la Toscana.
E’ diventata statale nel 2017 dopo essere mezzo fallita, avendo sbagliato ad acquistare Antonveneta nel 2007. Venne ricapitalizzata sotto il Governo Renzi con 5,3 miliardi (2/3 delle azioni vanno al MEF, Ministero dell’Economia e Finanze, ma l’esborso dello Stato si stima sia stato attorno ai 10 miliardi), con la benedizione al salvataggio di Stato della UE. Si riprende pian piano e nel febbraio 2022, con l’inizio dei grandi profitti delle banche, chiama Luigi Lovaglio, già banchiere a Unicredit che ha salvato 3-4 banche, tra cui il Credito Valtellinese che poi rivende a Credit Agricole per un miliardo.

Mediobanca fa gola al Governo Meloni e il ministro Giorgetti non lo nega. E’ il salotto buono della finanza italiana, che incide da sempre sul capitalismo italiano e il ruolo che svolse nelle privatizzazioni delle PPSS (Partecipazione Statali) e lo scontro (vincente) che ebbe con Craxi, nonostante fosse primo ministro negli anni ’80.
Banca d’affari di rango internazionale con azionisti potenti come il fondo finanziario speculativo Black Rock (5%) e imprenditori emergenti come Delfin (Essilux Del Vecchio 17,9%), Caltagirone (10,2%), imprenditore edile romano (vicino da sempre a Meloni), che cercano di scalzare il Ceo Alberto Nagel da anni ma senza riuscirci, pur col 30% delle azioni Mediobanca.

Giorgetti, in accordo con Lo Vecchio e Caltagirone, convince così Lovaglio a scalare Mediobanca. Gli altri imprenditori e fondi seguiranno il Governo, anche perchè Mediobanca controlla (col 13%) Assicurazioni Generali (700 miliardi di asset). L’aumento delle azioni e bonus fiscali delle due banche darà poi solo a Lo Vecchio e Caltagirone una plusvalenza di 1,2 miliardi, in un momento in cui le banche fanno i massimi extraprofitti dell’ultimo ventennio che il Governo tassa in minima parte, nonostante le promesse di quando era all’opposizione. Insieme fanno 8 miliardi di ricavi e 3 miliardi di utile (profitti impensabili per una manifattura).

Il Ceo di MPS è il lucano Luigi Lovaglio (1955), laureatosi a Bologna, che inizia al Credito Italiano (gruppo Unicredit) e farà strada risanando banche in Bulgaria e Polonia. I suoi amici di Bologna lo consideravano un “cattocomunista”. Ora però il Governo è di destra e dietro l’operazione c’è la regia del Ministro del Tesoro Giorgetti (Lega, laurea alla Bocconi) che vuole creare un 3° polo bancario italiano (dopo Unicredit e Intesa San Paolo), saldamente italiano e controllato dallo Stato, mostrando che, al momento opportuno, più che il libero mercato contano gli “amici”. Come mai?

Si è capito da tempo quanto la finanza conti sullo sviluppo della manifattura e dei singoli Paesi. Senza prestiti le imprese non vanno da nessuna parte, anche se hai idee brillanti e la finanza conta sempre di più. Da 40 anni si cerca di favorire il “libero” mercato ma, di fatto, oltre alla Cina, dove lo Stato governa eccome, molti Stati liberisti (USA in primis e specie con Trump) intervengono sempre più nell’economia e nelle imprese, perché lasciar fare solo al libero mercato non porta più vantaggi sociali, ma solo arricchimenti a pochi.

Un esempio tra tanti l’obbligo imposto a Nvidia da Trump di dare allo Stato il 15% dei propri profitti che fa vendendo in Cina, ma anche il ritorno dello Stato al mercantilismo (dazi) per portare nuove manifatture in Usa o partecipare con soldi pubblici ad investimenti privati dove lo Stato vuole avere l’ultima parola. La Germania ha varato un piano da mille miliardi e di riarmo e ha metà banche statali e la Francia è andata consolidando asset strategici in cui lo Stato è ben presente.

L’Italia ha smantellato tutta la sua presenza pubblica nelle banche e l’unica che rimaneva un po’ pubblica era MPS (con 5% di azioni, una minoranza che potrebbe però “dare la linea” e vigilare). La conferma che la Politica se vuole conta è che tutti gli azionisti sia industriali che finanziari (Vanguard, Fidelity, Black Rock) hanno seguito il Governo (la Politica) lasciando in brache di tela Nagel.

La nuova strategia del Governo Meloni non credo sia quella delle vecchie Partecipazioni Statali e dell’IRI. Il Governo vuole un polo bancario-finanziario privato, ancorato all’Italia, in cui avere voce in capitolo. Pur rimanendo azionista di minoranza, vuole presidiare interessi lasciando che sia il mercato (leggi borsa) a garantire il controllo principale come si è fatto anche con Poste e alcune grandi utilities (Hera,…), dove il mercato si combina con la vigilanza pubblica, essendo in gioco il futuro del capitalismo italiano.

Il Governo “ha quindi una banca”, anzi due e forse tre con Generali.
Nel 2025 le grandi banche italiane (solo quelle quotate in borsa) arriveranno a un fatturato di 75 miliardi di euro e 27,5 miliardi di utili. Una redditività netta di settore monstre, circa dieci volte quella del settore manifatturiero a cui le banche fanno prestiti. E ciò spiega il pericolo di una finanza che perde di vista il sottostante (manifattura e veri valori), in un mondo dove il debito globale è 54 volte il Pil mondiale.

L’Italia ha la gestione del risparmio più cara al mondo (per i clienti, imprese e famiglie) e non mancano sospetti di collusione sulle condizioni di credito in cui il nostro Antitrust sembra seguire l’antica massima: forte coi deboli e debole coi forti.

Adesso il governo è entrato negli assetti di controllo di MPS e Mediobanca (e dunque di Generali). La svolta è storica, dopo decenni di ritirata dello Stato dalle banche. Si tratta di vedere se svolgerà un ruolo di sostegno davvero di imprese e famiglie o proseguirà in quelle logiche finanziarie, separate dall’economia reale, che hanno indebolito Italia, UE e Usa e fatto crescere Cina e BRICS.

In teoria potrebbe mitigare i danni del capitalismo liberista, usando capitali pazienti per finanziare le nostre imprese (specie quelle piccole e medie che resistono da anni stringendo la cinghia e che rappresentano l’immenso valore dell’Italia), supportando Ricerca & Sviluppo, innovazioni e strategie di lungo periodo, oltreché aiutare i consumi delle famiglie con tassi di interesse “umani”.

Non escludo che si voglia copiare anche il Giappone, facendo acquistare agli italiani (e banche italiane) quasi tutto il debito pubblico per ridurre gli interessi dello Stato sul suo debito (87 miliardi nel 2025). Il Giappone non ha mai separato Tesoro e Banca centrale, come l’Italia fece (sbagliando) nel 1981, consentendo di acquistare il debito pubblico a tassi di interesse bassissimi (a volte addirittura negativi).

Potrebbe però anche essere solo l’occasione per premiare i propri “amici”, alcune grandi imprese salite sul carro del nuovo Governo.
Lo vedremo nei fatti: se il credito riparte verso tutti (PMI, piccole medie imprese e famiglie) a bassi tassi di interesse e con capitali pazienti per strategie di lungo periodo, oppure l’ennesima occasione in cui politici & grandi famiglie si accordano per fare i propri interessi.

Photo cover: Arco senese, palazzo Salimbeni – immagine Wikimedia Commons 

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Jacek

Jacek

Jacek è un polacco di Varsavia che dorme spesso sui gradini bianchi in S. Petronio a Bologna, oppure se fortunato, ha una camera nel dormitorio in San Donato, che divide con Julian, alcolizzato. Jacek accetta lavoretti, se hai una faccenda pignola chiama Jacek lui è in grado di mettere a posto qualsiasi cosa, conosce il legno e il ferro, il marmo, la ceramica, il giardino, gli alberi e i fiori, non ha cellulare, viaggia camminando con scarpe grosse con le quali misura il mondo, giacche con cappuccio e un ombrello blu che qualcuno gli ha regalato un giorno che diluviava. Ha uno zaino con la roba estiva, quando arriva l’inverno la restituisce al Baraccano per quella invernale perché dice, mica posso girare con due zaini. Ex alcolizzato ogni mattina passa tre ore in ospedale Maggiore e chiacchiera con dottori e infermieri, fa scorta di Alcover (serve a assopire la voglia di alcool), pranza e fa pennichella sui lettini del pronto, poi ritorna in piazza Maggiore, dice, tanto posso dormire lì, “mi si è pure il cinema all’aperto” e ride.

Jacek vive la vita che vuole, ha bevuto tanto, è stato un violento rissoso, che poi racconta episodi di lui bimbo con i cugini e già il nonno faceva loro assaggiare il vino o la vodka, una sorellina che proteggeva, chissà dove è finita mi dice e guarda ho ancora tre foto, la bimba bionda, faccia di porcellana, un vestito liso a fiori e sandalini sorride a riva di un lago gelido.
Ha girato il mondo con le sue gambe forti, una purezza che nemmeno un diamante tagliato perfetto, scavalcato carceri e comunità, parla e ti guarda fissamente, faccia slavata piena di spigoli, capelli corti color paglia e quell’accento forte di zinco e rame che ti ricorda un papa guerriero.

Mi dice, sai hanno ricoverato Julian il mio compagno di dormitorio, starà via un mese, e sai lui voleva vedere in tv solo cartoni animati e io dovevo uscire, non sopporto lui che beve, vomita è sporco, non sopporto la sporcizia e la debolezza, e ora questa è la mia vacanza, un mese!!!!, entro in camera, tutte lenzuola  pulite, accendo ventilatore, mi tolgo i vestiti mi spaparazzo a letto con panini e bibite e guardo fino a notte i film che voglio, ho visto due volte Arma letale!! e faccio il caffè Lavazza, mica quello delle macchinette che è schifoso, mmmmmmhhhhhh, tu devi sentire il profumo!!! e chiude gli occhi. Tutto questo detto con un tale godimento estasiato, come una esatta, piccola, immensa libertà, che nemmeno i vacanzieri alle Maldive o gli ospiti di hotel a dieci stelle o i compratori di gioielli stratosferici, una felicità così precisa e invadente che pure io gli ho invidiato, un godimento gigante, totale e bambino.
Quando entra in pub viene al banco, appoggia lo zaino, mi chiede una aranciata  perché no, niente vodka vero? mi sorride e col suo accento tagliente come vetro rotto mi racconta meraviglie.
Mi insegni a vivere.
Ti voglio bene Jacek

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Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

da Collettiva 13 novembre 2025

Mentre la proposta Griseri-Prisco è ferma in Parlamento, un’inchiesta Nidil rivela che il 33% degli infortuni è causato da condizioni di allerta meteo

La proposta Griseri-Prisco

Per questo a dicembre scorso è stata depositata una proposta di legge, cosiddetta Griseri-Prisco, che vuole tutelare i lavoratori del food delivery in tutte le stagioni. Peccato che languisca in parlamento da quasi un anno e che sia ancora in attesa di essere calendarizzata per la discussione o, in alternativa, che diventi un emendamento alla manovra finanziaria.

Rilanciata ieri con una presentazione alla Casa rider di Firenze, luogo di riposo e ristoro con servizi di informazione e supporto, ha l’obiettivo di mettere al centro la vita e la sicurezza degli worker del food delivery.

Un ammortizzatore sociale 

Come? “Con un ammortizzatore sociale che tuteli i lavoratori quando c’è un evento meteo – ha dichiarato Chiara Gribaudo, deputata Pd e prima firmataria della proposta di legge -, perché dire soltanto ‘fermatevi e non lavorate’ non è certo una copertura seria”.

Già lo scorso anno durante le sessioni della finanziaria, la proposta era stata trasformata in un emendamento alla manovra, con un fondo sperimentale di tre anni. Il governo però l’aveva bocciata. E l’ha rispedita al mittente anche dopo, quando è stata ripresentata nei decreti successivi, dove c’era compatibilità di materia. Adesso il nuovo tentativo di rilancio per poterla vedere discutere ed eventualmente approvare: la legge di bilancio e il decreto sicurezza sul lavoro.

O la vita o il reddito

“La proposta Griseri-Prisco rappresenta un passo concreto nella giusta direzione – afferma Roberta Turi, segretaria nazionale Nidil Cgil -: consentire la sospensione delle consegne e garantire un’indennità ai rider nei giorni di emergenza climatica. Nessuno deve essere costretto a scegliere tra lavorare rischiando la vita o rinunciare a un reddito indispensabile. Da anni denunciamo le condizioni di questi lavoratori e i risultati della nostra ultima inchiesta nazionale parlano chiaro: questo è un lavoro pagato poco, costoso da svolgere e privo di tutele effettive”.

Pedalare senza coperture

Ogni giorno migliaia di persone pedalano o guidano per consegnare beni essenziali, ma restano senza ammortizzatori sociali, senza copertura in caso di malattia o di allerta meteo. Come dimenticare le immagini dell’alluvione a Bologna di ottobre 2024, che mostravano le strade allagate e i rider in bicicletta che continuavano le consegne nonostante l’allerta rossa proclamata dal Comune?

“Oltre il 30 per cento degli infortuni è causato da condizioni climatiche estreme, e quasi il 60 per cento degli incidenti non viene denunciato – dice ancora Turi –. È un lavoro senza garanzie, dove la presunta autonomia nasconde spesso sfruttamento”.

Le battaglie legali degli ultimi anni portate avanti dalla Cgil e dalle sue categorie, da Palermo a Torino, da Milano a Firenze, hanno già stabilito che chi lavora sotto il controllo dell’algoritmo deve essere riconosciuto come lavoratore subordinato, con diritti e sicurezza garantiti.

Superare il cottimo

“Ora è tempo che anche il legislatore ne tragga le conseguenze – aggiunge Turi -, superando definitivamente il cottimo e costruendo un sistema di tutele universali, a partire proprio dalle situazioni di rischio climatico. Con questa proposta la politica può e deve colmare un vuoto che i rider non possono più sopportare da soli”.

Alcune Regioni hanno introdotto con ordinanze il divieto di lavorare nel caso di condizioni meteorologiche estreme, ma senza integrazione salariale il lavoratore si trova di fronte alla scelta tra salute e salario.

Muhammad, rider

“Siamo sempre esposti, al caldo, al freddo, alla pioggia – racconta Muhammad, rider di Firenze -. Quando fa troppo caldo o troppo freddo restiamo anche dodici ore in strada ad aspettare, senza consegne e alla fine torniamo a casa senza aver guadagnato niente. Ore sotto il sole, senza protezione, o sotto la pioggia e questo fa male, fisicamente e mentalmente. Poi a volte si cade, ci si fa male, e se succede un problema non si lavora più. Siamo tutti partite Iva: anche se non lavoriamo, dobbiamo comunque pagare le tasse”.

In sciopero per la dignità del lavoro

“Questa legge è anche un banco di prova politico – conclude Turi -. La politica deve decidere da che parte stare: con chi lavora o con chi specula sull’insicurezza. Il 12 dicembre la Cgil sarà in sciopero generale per la dignità del lavoro, salari giusti e giustizia sociale. È tempo di scegliere: noi, come Nidil e come Cgil, lo abbiamo fatto da tempo”.

Cover; Rider a Bologna – foto Raffaele Angius su X

MANI CHE SBUCCIANO LE CIPOLLE

Mani che sbucciano le cipolle

“Con le mani sbucci/Le cipolle/Me le sento addosso/Sulla pelle
E accarezzi il gatto/Con le mani/Con le mani tu puoi/Dire di sì
Far provare nuove sensazioni/Farti trasportare dalle emozioni
È un incontro di mani/Questo amore/Con le mani se vuoi/Puoi dirmi di sì […]”

Così inizia la canzone Con le mani di Zucchero e Gino Paoli pubblicata nel 1987 nell’album Blue’s. La canzone racconta di come le mani possono esprimere amore, sensazioni ed emozioni. Tutto avviene attraverso le mani. Forse perché non si può (o non si vuole) parlare, ma solo sentire. Sbucciare cipolle è uno dei gesti più comuni che provoca lacrime involontarie. Anche se il movimento è consueto, la reazione è forte “Me le sento addosso/sulla pelle” e suggerisce un’emozione profonda.

Ciò che colpisce di questa canzone è la fisicità che riesce a esprimere. La persona che sbuccia le cipolle è presente in modo tangibile. Non solo la si vede, la si sente addosso anche quando non c’è. È una presenza che lascia impronte tattili e sensoriali.

Si evocano mani forti, che sanno fare, che lavorano, che toccano davvero. Mani che non accarezzano soltanto, ma che agiscono, fanno qualcosa che resta sul corpo dell’altro. Dopo aver sbucciato le cipolle, l’odore resta sulle mani, sulla pelle. È una metafora potente di qualcosa che rimane addosso, come un ricordo, un legame, una ferita che non se ne va.

Le mani che sbucciano sono lente, precise, testimoniano movimenti pieni di abitudine e cura. Le dita afferrano la cipolla con fermezza, il pollice spinge contro la buccia secca e rumorosa, sollevandola a strappi piccoli, ma decisi. Ogni gesto è accompagnato da un leggero scricchiolio, mentre la buccia esterna si sfoglia come carta secca.

Può esserci molta grazia anche nella fatica. Le mani si muovono con un ritmo che sembra antico, quasi rituale. C’è una lacrima che spunta per malinconia e per la pungente verità che le cipolle sanno tirar fuori. C’è sempre poesia in un gesto lento e cadenzato, ma bisogna saperla cogliere e vivificare.

Il tramite delle mani è sicuramente efficace. Sono un medium simbolico importante e uno strumento di una potenza sorprendente. Le loro articolazioni permettono gesti complessi e precisi e il loro spostarsi armonioso evoca la bellezza del movimento e la complessità della situazione. La fisicità delle mani è uno dei simboli più potenti e poetici dell’esperienza umana. Le mani sono strumenti ma anche ponti tra l’interno e l’esterno, tra il pensiero e l’azione, tra noi e gli altri. Quando si parla della poesia espressa dalle mani, si tocca un linguaggio silenzioso ma eloquente, capace di narrare senza parole.

Diversi sociologi e studiosi si sono occupati del tema delle mani, specialmente in riferimento alla comunicazione non verbale, all’espressione delle emozioni, al carattere e al loro significato culturale. Figure come l’antropologo e sociologo statunitense Edward T. Hall, noto per i suoi studi sulla prossemica e le culture dello spazio, hanno analizzato come la gestualità e l’uso delle mani siano diverse nelle varie culture, rivelando importanti aspetti sociali.

La gestualità è considerata un elemento fondamentale del linguaggio non verbale, capace di arricchire o persino contraddire il messaggio verbale. Gesti inconsci possono rivelare pensieri e sentimenti nascosti. Le mani sono anche uno strumento per esprimere il nostro temperamento, la nostra grazia, aggressività, o tensione interiore. In molte culture, le mani sono considerate un “biglietto da visita” per il mondo, rappresentano aspetti della persona che possono influenzare le percezioni e le interazioni sociali. L’uso e il significato dei gesti delle mani possono variare significativamente da una cultura all’altra, riflettendo norme e modi di pensare anche molto diversi.

In psicanalisi e nell’arte le mani sono spesso viste come prolungamento dell’inconscio, toccano ciò che le parole non sanno dire. Ad esempio, Donald Winnicott ha affrontato il tema del “tocco” nelle relazioni precoci. Nei primi legami madre-bambino il movimento delle mani è fondamentale. Le mani della madre (o della figura di accudimento) sono spesso il primo veicolo di cura, contenimento e protezione.

Le mani che tengono, lavano, nutrono e accarezzano, sono manifestazioni del cosiddetto “holding”, ovvero del contenimento fisico ed emotivo che permetto al bambino di sviluppare un senso di sicurezza.  Marion Anderson, psicologa Junghiana, parla esplicitamente di “hands” in psicoterapia, cioè delle mani come strumenti per manifestare l’inconscio, tramite attività non verbali (argilla, sabbia, pittura).

Questi organi flessuosi diventano mezzi attraverso cui emerge l’immagine interna, quell’ “immagine interiore” che la parola da sola non coglie. Il concetto junghiano che “spesso le mani possono risolvere un enigma con cui l’intelletto ha lottato invano” (come cita Anderson rifacendosi a Jung) sottolinea proprio la capacità delle mani di portare alla luce aspetti psichici che la mente cosciente non riesce a formulare.

Le mani sono profondamente legate all’identità. Le impronte digitali sono uniche, nessun’altra parte del corpo dice tanto della nostra singolarità biologica. Le mani fanno il mondo: costruiscono, plasmano, scrivono, distruggono. Sono anche segnate dal tempo, invecchiano, si deformano, portano i segni del lavoro o della malattia, raccontano una storia personale e sociale legata al momento in cui si sono mosse come eleganti ragni, disegnando ghirigori aerei nel bel mezzo di relazioni forse occasionali e spesso importanti.

Le mani sono il primo contatto con il mondo. Toccano, cercano e afferrano. Sbucciano le cipolle. Si aprono alla vita e sanno trattenerla. Nel loro movimento c’è un sapere muto, antico, che non ha bisogno di parole, le mani capiscono prima della mente. Ricordano il corpo della madre, il calore del primo tocco, la promessa silenziosa di essere accolti.

Sono confini sensibili dell’anima, estensioni del pensiero e del cuore. Con le mani si crea, si scrive, si distrugge. Con le mani si ama, si nutre, ci si difende. Ogni piega del palmo, ogni cicatrice, ogni tremore contiene un racconto. Anche nel gesto più piccolo come una carezza, una stretta, un pugno chiuso, passa la densità di una vita intera. Sono corpo che sente e corpo che fa. Sono presenza, confine, ferita e cura. Quando le parole non bastano, le mani parlano. E spesso dicono la verità.

Quando penso alle mani, vedo sempre mia madre che cucina, taglia, affetta, pela, sbuccia le cipolle. Essendo la presidente di una fondazione che gestisce servizi per l’infanzia, vedo le mani delle maestre della nostra scuola che tagliano e incollano carta, feltro, legnetti, conchiglie. Mani che piegano felpe e cappotti, che mettono grembiuli ed estraggono velocemente dalle tasche fazzoletti di carta, che sanno mettere una bavaglia con due dita, mentre con le rimanenti indicano a qualcuno di mettersi seduto che arriva la pastasciutta.

Le mani piccole dei bambini, senza segni d’età e con le dita corte, ma piene di vita e di attesa. Mani protese verso il tempo che verrà, verso tutto ciò che si potrà vedere e capire, verso la necessità fisica di protezione, nutrimento e calore, verso il bisogno d’amore che solo in parte una scuola piò colmare. Il resto è nel tempo che sarà. Adesso un po’ d’amore, più in là tantissimo di più, auguriamolo a tutti.

Vedo anche le mani delle insegnanti della scuola primaria, che è ubicata al piano superiore del nostro stesso edificio. Mani che scrivono alla lavagna, sui quaderni, sui registri, indicano posizioni da tenere e da evitare, accompagnano un complimento o un rimprovero, si uniscono per essere più convincenti o più incisive. D’inverno si strofinano per il freddo.

Le mani della cuoca della mensa che, come quelle di mia madre mescolano, tagliano, affettano, infornano, impiattano. Mani che forniscono cibo ai bambini e in questo loro fare quotidiano sono azione, concretezza e fisicità. Mani che lavorano e che invecchiano, che si arrossano che sono storia e ricordo, partenza e cammino.

Sono mani che testimoniano vita, che esprimono forza e rigore, che raccontano, che segnano, che parlano di noi. Sono testimoni di quello che facciamo tutti i giorni, cercando di insegnare alle nuove generazioni comportamenti curiosi, rispettosi ed etici. Se dovessimo scegliere delle mani tra tutte, penso che sceglieremmo quelle della maestra E. che è la nostra insegnante più giovane, e quella della “fu” contessa Fenaroli, il cui lascito ha permesso alla fondazione di nascere, moltissimi anni fa.

James Hilmann parla delle mani come “manifestazioni” del destino, come simboli del fato che si esprime attraverso la mano archetipica. Sono “fatti” del destino perché, attraverso il loro lavoro, realizzano la vocazione (il “codice dell’anima”) che è stata data a ogni individuo dal suo daimon. Il daimon è una forza che guida ogni persona verso un percorso unico e irripetibile, tale percorso si manifesta concretamente attraverso l’azione delle mani che portano a compimento questa vocazione. Hillman afferma che corpo e anima sono inseparabili.

Il corpo non è un contenitore dell’anima, ma una sua espressione. In questa visione le mani non sono semplici strumenti fisici, ma veicoli attraverso cui l’anima si manifesta. Nell’atto di creare, toccare, curare, distruggere o pregare, c’è una qualità psichica, simbolica e archetipica. E proprio questa convinzione di Hilmann chiude, a parer mio, il cerchio.

Le mani che sbucciano le cipolle sono nient’altro che un piccolo frammento della nostra anima, un incontro poetico tra un po’ d’azione e molto sentimento.

BIBLIOGRAFIA

  • Edward T. Hall (1959), The Silent Language – DOUBLEDAY & COMPANY, INC., GARDEN CITY, NEW YORK
  • Donald W. Winnicott (1996) I bambini e le loro madri – Raffaello Cortina Editore
  • Mario Trevi (2020) Leggere Jung – Carocci editore
  • James Hilmann (2009) Il codice dell’anima – Adelphi

SITOGRAFIA

Testo della canzone di Zucchero Fornaciari “Con le mani”: https://www.zucchero.it/testi/con-le-mani/

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/planet_fox-4691618/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7479211″>Alexander Fox | PlaNet Fox</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7479211″>Pixabay</a>

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Parole a capo
Inediti: tre smeraldi poetici

Parole a capo <br> Inediti: tre smeraldi poetici
Ciò che viene al mondo per nulla turbare non merita riguardi né pazienza
(René Char)
QUANDO SARO’ VECCHIA
Quando sarò vecchia
non più di una piuma
non più di un petalo di viola
peserà il mio cuore
sarò leggera come nuvola
vestita di vento
solitaria e sazia.
Ma ancora non è tempo
adesso ho il cuore ingordo
non so sottrarmi al giogo.
Nascondo il tempo
nel mio ventre infecondo
certa di fiorire
a dispetto del mondo.
Il cuore lo svuoto
col setaccio,
mi resta il voto
di un amore semplice
e il dolce inganno
di inattese conseguenze.
(Doris Bellomusto)

*

ERA L’ALBA

 

era l’alba a spargere i primi bioccoli di luce
le velature verde pisello a sorgere
o un celeste come un’acqua salmastra alla caviglia
del mare che non avevamo mai visto
eppure si intuiva nelle righe di sale sulle rocce
che i daini  leccavano con precisione millimetrica
la bocca chiusa contro i denti grossi e le gengive rosse.

era l’alba a spargere i primi bioccoli di luce
su un oceano verticale incastrato tra conchiglie
impresse sui lastroni, le spirali come strade perlate di lumache,
di quando le acque erano andate da un’altra parte
i cavallucci a scavalcare alghe diverse come spade.
adesso erano felci e prateria larga
e gigli arancioni
ma, forse, erano mementi, di quei pesci pavone.
(Alida Stroili)

*

 

DANZA MACABRA

 

Mi hanno sussurrato
che ami la morte:
la spii dall’uscio socchiuso
e di notte la guardi arrivare
posarsi infingarda
sul tuo corpo che dorme,
ne annusi l’odore
che è di mondi lontani
e di fiori appassiti.
Mi hanno sussurrato
che vedi la morte
in ogni crepuscolo invernale
e che,
stanca di respirare,
la vorresti abbracciare
così dispersa nel color porpora.
Mi dicono che ascolti
la sua melodia invitante
a volte eroica
di archi e tamburi
a volte su frequenze imprendibili
come il canto dell’universo,
che anche tu la vorresti suonare
ma ancora manchi d’abilità e strumenti.
T’ho vista
corteggiare la morte
nelle notti di gelo
sotto lune indifferenti.
Ti ho vista rincorrere la morte
nei sogni disperati
e non voltarti a cercare il ritorno.
Infine mi hai detto
che non ti serve più amore
per ammorbidire un dolore
ormai indurito come pallottola,
solo rotolare giù
sul pendio di velluto
sempre più giù
e più lontano da qui.

(Elena Vallin)

 

Foto di Irina da Pixabay

Di tutte e tre le autrici abbiamo pubblicato altre poesie nella rubrica “Parole a Capo” negli scorsi numeri. Le ringrazio per questi nuovi preziosi doni, anzi SMERALDI.

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 311° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Dalle grandi opere inutili alla grande opera suicida del riarmo

Dalle grandi opere inutili alla grande opera suicida del riarmo.

Dalle grandi opere inutili e opache…

Le parole dell’Ambasciatore Alberto Bradanini sull’inquinamento della politica estera può benissimo essere esteso anche ad altri aspetti del mondo contemporaneo, per esempio il mondo delle grandi opere inutili, imposte e anche molto opache; pure queste nascono da falsità che dopo decenni riempiono ancora la bocca di troppi. La principale è che i problemi economici dell’Italia nascano da un insufficiente sistema infrastrutturale, dall’eccessivo intervento dello Stato nel sistema economico, dagli ostacoli posti al libero dispiegarsi dell’iniziativa privata. Dopo decenni di verifiche empiriche possiamo dire serenamente che è vero il contrario, è arrivata una stagnazione di lunga durata proprio nello stesso momento in cui c’è stato l’avvento di TAV SpA e delle grandi opere, lo smantellamento dell’IRI, la tempesta delle privatizzazioni.

Le grandi opere inutili sono un fenomeno importante nella storia economica e sociale italiana, sono state uno spartiacque che ha segnato una netta cesura tra un sistema economico con una forte impronta pubblica e con tassi di crescita sostenuti, verso un sistema di chiaro impianto liberista in cui l’intervento dello Stato si deve limitare a favorire in ogni modo l’azione dei soggetti economici privati che riescono a condizionare il potere politico.

Grandi opere-immagine blog ilgiornale.it -Wikimedia Commons

Le modalità di realizzazione delle grandi opere dagli anni ‘90 sono l’emblema dell’opacità introdotta nel rapporto pubblico-privato; le grandi opere opache sono sostanzialmente la privatizzazione del settore degli appalti in cui al soggetto pubblico resta solo la funzione di pagatore. La trasformazione dell’allora FS in una società per azioni ha esentato il suo operato dai controlli cui erano sottoposti gli appalti pubblici. Non è che prima di FS SpA fosse il paradiso dell’onestà ma, una volta tolti anche quei controlli, i costi sono andati alle stelle crescendo di quattro, cinque volte. L’opacità è stato un ingrediente indispensabile per l’avvento e la crescita delle grandi opere che hanno consentito, a loro volta, la crescita del settore finanziario ad esse legato.

Le grandi opere inutili, imposte e opache sono state un segmento di quella finanziarizzazione che ha caratterizzato le economie occidentali in risposta ad una crisi dovuta alla difficoltà di reinvestire i capitali accumulati dopo la crescita della cosiddetta età dell’orosono prodotti di cui non c’è una vera domanda (questa ci sarebbe soprattutto nel servizio pubblico locale finanziato con modalità molto diverse dall’attuale), ma garantiscono enormi profitti in questa fase economica fatta di bolle speculative e di aumento vertiginoso delle disuguaglianze.

Il modello contrattuale nato con TAV SpA è stato poi perfezionato e reso ancor più subdolo con la versione italiana del project financing; adesso viene usato anche per progetti che potrebbero avere utilità sociale, ma opacità economica e costi fuori misura sono la norma e ne fanno un sostanziale strumento di estrazione di ricchezza collettiva a favore dell’élite che controlla il sistema finanziario. La caratteristica costante è lo sbilanciamento in favore del costruttore che viene sempre garantito a scapito degli utenti e del soggetto pubblico. Qui ritorna la denuncia di Cicconi che parlava di “privatizzazione della spesa pubblica”.

alla grande opera suicida

Pare che al peggio non ci sia fine e oggi l’esplosione dell’economia finanziarizzata ha aggravato i problemi, si profila una nuova gigantesca opera inutile, per di più assai pericolosa: il riarmo. Con questo non vogliamo dire che non esistano situazioni di conflitto e di guerra, purtroppo ce ne sono troppe, ma qua in Europa i motivi per giustificare il massiccio investimento in armi sono pretestuosi e sarebbero comunque facilmente risolvibili; l’aspetto economico ed estrattivista è molto importante.

Senza entrare nei dettagli delle dinamiche geopolitiche che giustificherebbero questa folle scelta con l’aumento delle spese al 5% per il Ministero della difesa, è bene sia chiaro che questi nuovi investimenti nelle armi sono per finanziare una nuova bolla speculativa.
Il debito degli Stati Uniti, in particolare quello delle spese correnti, è sull’orlo dell’ingestibilità, sarebbe urgente un brusco cambiamento delle politiche economiche, ma la strada è in salita e i tentativi finora non paiono paganti. Dazi e soprattutto l’imposizione agli alleati di acquisti di armi e gas di scisto (molto costoso) è un disperato tentativo di mettere una toppa alla propria situazione debitoria.

Niente di meglio che inventarsi una guerra per vendere armi; ma la minaccia di una invasione da parte della Russia è un argomento ridicolo per giustificare questa nuova bolla. La verità è la prima vittima delle guerre, ma a questo giro non sanno nemmeno inventarsene una: un giorno viene presentata la Russia con l’economia sull’orlo di un baratro e della sconfitta militare, il giorno dopo come minacciosa potenza in grado di conquistare un continente intero; per essere, non dico credibili, ma almeno coerenti, bisognerebbe mettersi d’accordo sulla fandonia da raccontare. L’importante è creare un clima di allarme che faccia accettare la necessità di comprare sempre più armi.

Questa frenesia bellica che ha invaso le menti di molti governi e della Commissione Europea si dimentica che il nemico che si cerca di creare è la più grande potenza nucleare del mondo; davvero si pensa di andare ad uno scontro militare che sarebbe un suicidio globale? Davvero il senso della misura e della realtà è alieno a questa Europa ormai zimbello del mondo?

guerra - carri armati, armamenti
HMNZS Canterbury loading Army vehicles in the port of Napier, Nuova-Zelanda.-Foto-di-NZDF-neozelandese

È utile ricordare un piccolo libro di Seymour Melman, economista e pacifista statunitense, che da sempre ha denunciato il carattere predatorio del settore militare: Guerra SpA. Uscito postumo nel 2006 ha un titolo estremamente chiarificatore. Dopo una vita passata a denunciare come l’ipertrofia del complesso militare industriale statunitense avesse creato, già alla fine del XX secolo, deindustrializzazione, concentramento di ricchezza e potere all’interno del suo paese, l’autore faceva inquietanti esempi di costi fuori da ogni logica, faceva anche notare come l’allora ministro della difesa Donald Rumsfeld avesse detto candidamente che nel Pentagono «non possiamo rintracciare 2.300 miliardi di dollari di transazioni». Una cifra mostruosa che dà la misura del giro di interessi legati ai fondi pubblici per la difesa. Già Eisenhower e Kennedy negli anni ‘50 e ‘60 mettevano in guardia il loro paese dal complesso militare industriale, adesso questo soggetto è divenuto ingovernabile.

Nell’ultimo decennio nuovi protagonisti hanno preso importanza, fondi di investimento come Blackrock, Vanguard Group, State Street hanno acquisito quote importanti di risparmio globale e lo stanno reinvestendo in asset dei grandi produttori di armi, anche in quelli europei, compresa l’italiana  Leonardo SpA.

In questo contesto sarebbe bene ricordare un aspetto che non è secondario e viene ricordato da militari e osservatori del settore: i costi delle armi occidentali sono enormi in confronto a quelli di potenze emergenti, ma nonostante questo non hanno dato buoni risultati negli scenari di guerra. Alcuni esempi per chiarire: un carro armato tedesco Leopard costa circa 29 milioni di euro, un carro Abrams statunitense 15, un carro russo circa 5, un carro cinese meno di 2. Dove purtroppo questi ordigni sono stati utilizzati le armi occidentali non hanno dato una grande prova di sé; una sintetica ed efficace spiegazione di questo l’ha data il giornalista e esperto militare Gianadrea Gaiani: “La Russia costruisce armi per fare la guerra, in occidente si costruiscono per fare quattrini”.

Anche il riarmo è una grande opera inutile perché non ci sarebbe bisogno di guerra se non ci fossero ancora pulsioni imperialistiche; costruire strumenti di morte non risponde a oggettive necessità, si fa per garantire profitti enormi, gonfiare la bolla speculativa e alleggerire il grave debito degli Stati Uniti; il tutto senza dimenticare che per i paesi europei è già adesso un suicidio economico e lo sarebbe anche militare.

Le armi, come ci suggerisce Borges in alcuni suoi racconti di guappi portegni, sembra abbiano un’anima e siano loro a guidare le mani e le menti degli uomini. Accumulare arsenali invece che favorire dialogo e sforzi diplomatici è pura follia suicida, soprattutto nell’era delle armi nucleari. Ma per fortuna una notizia come la vittoria a New York di una persona come Zohran Mamdani è un segno grande di speranza per il futuro.

Questo  intervento è stato pubblicato l’8 novembre 2025 dal magazine perUnaltracittà

Cover: Quadcopter drone. Original public domain image from Wikimedia Commons

Vite di carta /
Le domande dei grandi libri: “La vegetariana” di Han Kang

Vite di carta. Le domande dei grandi libri: La vegetariana di Han Kang

La forza di un libro può dare nuova linfa ai nostri pensieri, succede se i libri sono di valore.

Giorni fa mi arriva in biblioteca a Poggio Renatico La vegetariana di Han Kang, premio Nobel 2024 per la Letteratura. Lo ritiro e subito ne leggo l’incipit: “Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante.” Chi parla in prima persona è il marito della protagonista Yeong-hye e ci tiene a distinguere nella propria vita un prima e un dopo stabilito dalle abitudini alimentari della moglie.

Così facendo le assegna un valore ancipite: dapprima Yeong-hye appare una donna quieta e servizievole, poi sogna degli animali uccisi e si fa determinata nel rifiuto della carne e della vecchia quotidianità. Determinante per la vita di lui, che chiederà il divorzio, e per il resto della famiglia.

Vado avanti a leggere e comincia a coinvolgermi lo sguardo di quest’uomo così distante dalla moglie, privo di risorse per conoscerla prima ancora di poterla capire, così concentrato sulla sua modesta carriera e sul quieto vivere come regola ineludibile.

Lei, intanto, nel rifiutare la carne si allontana ogni giorno di più dalla cultura famigliare nella quale è cresciuta. Non la piega nemmeno lo schiaffo che le dà il padre, che scopriamo essere stato il padrone autoritario della infanzia dei figli. La reazione di Yeong-hye è fulminea: è la festa della nuova casa della sorella maggiore In-hye, e lei davanti a tutti i familiari, al fratello Yeong-ho, ai genitori e ai cognati afferra un coltello e si taglia un polso.

La prima parte del libro finisce con il suo ricovero in ospedale e il sangue rappreso sulla camicia del marito, mentre l’anziana madre le porta in stanza del cibo per spingerla a nutrirsi di carne, come faceva prima.

Leggo la seconda e la terza parte e resto incatenata alla narrazione in terza persona, in cui il punto di vista è prima quello del cognato, marito di In-hye e padre del piccolo Ji-woo che ha cinque anni;  nell’ultima parte è focalizzato invece su In-hye, sorella maggiore e di fatto unico sostegno per Yeong-hye nella fase finale della vita.

Nella seconda parte viene raccontato l’approccio inusuale del cognato alla fisicità velata di mistero di Yeong-hye: lui la cattura come se fosse un’opera d’arte in progress, le dipinge il corpo di fiori sgargianti e poi la possiede con forza allo scopo di girare uno dei suoi video artistici.

Lei, che è già stata per mesi in ospedale e ora conduce una vita sempre più silenziosa al riparo della propria casa, va in frantumi. Vuole far nascer fiori dal proprio corpo, vuole volare e si sporge dal balcone.

Mentre anche la seconda parte si conclude in ospedale, il romanzo si fissa sulla figura della sorella In-hye. Che ha chiamato l’ambulanza per salvare Yeong-hye e anche per ricoverare il marito. Entrando per portare del cibo, ha scoperto entrambi in flagrante e da donna forte e pratica quale si è sempre mostrata ha preso la decisione drastica del ricovero.

La terza parte, la più straziante, quella scritta meravigliosamente come e più delle altre due, racconta la visita che mesi dopo In-hye fa alla sorella nell’ospedale fuori Seul dove l’ha collocata, pagando le spese del  ricovero e facendole visite più frequenti dopo la fuga nella vicina foresta che Yeong-hye ha fatto tempo prima, alla ricerca di una sua agognata metamorfosi.

È la parte in cui In -hye racconta la sua sofferenza e l’insonnia che, come è accaduto alla sorella, le arrossa gli occhi e la fa sentire esausta. Anche lei ha visto andare a pezzi il suo matrimonio, tuttavia sa solo corrispondere alla immagine che ha da sempre dato di sé (a tutti quanti e a se stessa) e  continua a fare fronte alle necessità di chi ama, il figlio e la sorella, cercando di fare del suo meglio.

Ma lì, mentre attende di entrare nella stanza di Yeong-hye morente, mentre parla col medico che la vuole trasferire all’ospedale generale, assiste allo squarcio nel cielo di carta, come accade a tanti personaggi pirandelliani. Si vede vivere.

Si pone le domande esiziali: forse sua sorella va lasciata andare verso la morte. L’ha cercata fin da bambina? Sarà che ha subito le percosse e la violenza del padre più di ogni altro in famiglia?

Arrivano le risposte. Una, soprattutto. Accade quando finalmente ascolta le ultime parole della sorella; comprende che sta andando in uno spazio che è oltre, in una dimensione che si allontana dall’umano per trasfondere il suo corpo tra gli altri alberi del bosco, albero esso stesso. Fatto di radici, rami e foglie. Non è servito assumere cibo, sono bastati l’acqua e il sole.

Arrivano anche le domande che pongo a me stessa. Al netto dei tratti culturali della società sudcoreana, che si muovono come ombre sullo sfondo della narrazione, sono domande valoriali sull’essere umano nel suo rapporto con le convenzioni e con la violenza a cui ci sottopone la socialità. Sulla pazza anoressia e sui territori a cui conduce.

Possibile che sia il solo canale che può portarci a incontrare la natura e la terra? Che la fratellanza con gli alberi si stabilisca solo attraverso una metamorfosi che rinnega il vissuto della relazione con gli altri umani. Che la sorellanza con le foglie e con i rami riconduca all’antico mito di Dafne, ancora una volta a causa della sofferenza e della ripulsa?

Come nella scrittura così profonda di Han Kang, anche nei suoi personaggi, specie femminili, è contenuta una buona dose di bellezza primigenia. Lo dice la nudità senza imbarazzi né remore di Yeong-hye, il suo accogliere le foglie e i colori che il cognato le dipinge sulla pelle. Può ricordare la Ermione dannunziana, a patto di convertirne la sinergia con il bosco in un sentire totalmente naturale, senza alcun compiacimento.

Nota bibliografica:

  • Han Kang, La vegetariana, Adelphi, 2016

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/agnieszka_wen-15888371/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5002186″>AGNIESZKA WEN</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5002186″>Pixabay</a>

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Tornare

Appena uscito in libreria, edito con Kite, “Tornare”, di Nadia Al Omari, ci aiuta a capire se scegliere di partire o tornare. Un viaggio con e (attra)verso di noi.

Lei ha una foglia sul viso, gli occhi si intravvedono appena. Paiono scrutare e, al tempo stesso, quasi nascondersi, ripararsi da sguardi curiosi e indiscreti.

La fantasia vola, ampio spazio all’interpretazione, il bello di albi illustrati come questi.

Si potrebbe pensare che lei sia semplicemente schiva, o che voglia lasciare una finestrella per osservare, liberamente, senza essere vista. Una finestra sul mondo che si apre alla bellezza e al pensiero libero ma che sa anche chiudersi, quando vuole.

Quando l’inverno bussa alle porte della città, lei sceglie di partire verso un luogo, dove è ancora estate, non vuole passare in città un periodo freddo e, spesso, difficile e inospitale. Tira vento, capelli e pensieri si scompigliano.

Da qualche parte, al di là del mare, è ancora estate, c’è una casetta pronta ad accogliere, serve poco a sentirla propria. Il tepore c’è, ma è lontano, va cercato, va raggiunto. Bisogna decidersi a partire verso di lui, a cercare il silenzio che serve per ascoltare sé stessi.

Rientrata a casa, un senso di inquietudine la porta presto a intraprendere nuovi viaggi, nel tentativo di colmare quel vuoto che si è insinuato nei suoi pensieri. La curiosità del mondo.

Inizia così un percorso interiore attraverso le stagioni, tra partenze e ritorni.

Deserti e faraglioni abitati da pellicani, cielo limpido che libera la luce del sole e i pensieri , pensieri che diventano liquidi e si uniscono con le onde, in un abbraccio infinito.

In certi luoghi il tempo pare immobile, in altri c’è la neve. I viaggi di andata sono meno faticosi, a volte, quelli di ritorno, spesso, paiono lunghi e silenziosi. Manca qualcosa però. Uno spazio libero può restare nei pensieri e lasciare inquietudine e tormento, i sogni possono arrivare a dare indicazioni e suggerimenti, fornire una guida, un’intuizione. Ma possono anche spaventare, rimanere un’ombra che offusca la giornata.

Fino a quando altri albori si avvicendano per sognare e altre giornate arrivano per sorridere. In tal caso, le ore scorrono lente, in un mondo ovattato. Il bello di darsi il tempo per fare lunghe passeggiate, per osservare la natura, per guardare per aria, oziare.

E’ meraviglioso poter decidere, una sera, di prendere il sentiero per arrivare da qualcuno, da qualche parte, di passare ore a guardare il fuoco prima che diventi cenere. Di sentire un canto e guardare fuori, di accarezzare il sole che riempie una stanza.

Bisogna saper chiudere gli occhi per cercare dentro i propri pensieri, vicino al cuore.

Questo splendido albo è un racconto poetico sulla crescita interiore, il viaggio e la scoperta di ciò che davvero conta, una riflessione sul senso di appartenenza a un luogo, a qualcuno o a sé stessi, sul capire quando andare e quando rientrare. Sul saper portare con sé i regali ricevuti e le promesse da mantenere. Sulla voglia di esplorare il mondo.

Nadia Al OmariRicholly Rosazza (illustratore), Tornare, Kite, Padova, 2025, 52 p.

UN MONDO FUORI BERSAGLIO: si apre oggi a Belem la 30^Conferenza sul Clima

UN MONDO FUORI BERSAGLIO: si apre oggi a Belem la 30^Conferenza sul Clima

“Tutti noi qui oggi comprendiamo che ci stiamo pericolosamente avvicinando ai punti critici della Terra, soglie oltre le quali i sistemi naturali da cui dipendiamo potrebbero iniziare a disgregarsi: lo scioglimento dei ghiacci polari. La perdita dell’Amazzonia. L’interruzione delle correnti oceaniche. Queste non sono minacce lontane. Si stanno avvicinando rapidamente e colpiscono tutti, indipendentemente da dove viviamo. Siamo la generazione che può cambiare le sorti della storia”, non per ricevere applausi, ma per ottenere la silenziosa gratitudine di chi deve ancora nascere. Questo, qui alla COP30, è il nostro momento. Non sprechiamolo. I nostri figli e nipoti ci guardano e sperano”.

Queste le parole con cui, il 6 novembre, il principe William è intervenuto, in rappresentanza di Re Carlo III d’Inghilterra, al vertice preparatorio della Conferenza delle Parti di Belém, in Brasile, il cui inizio è previsto oggi, lunedì 10 novembre, e che si protrarrà fino al 21 del mese in corso. Parole che, forse con un po’ più di veemenza, avrebbero anche potuto uscire dalla bocca di Greta Thunberg.

“Sono cresciuto con mio padre, il re, – continua il principe – parlando del potere della natura e dell’importanza dell’armonia nel mondo naturale, un argomento che ha sostenuto per cinque decenni”.

A dieci anni dalla firma dell’accordo di Parigi, non è certo tempo di festeggiamenti: il 6 novembre i capi di stato e di governo che iniziano a riunirsi a Belém hanno ammesso che il mondo non è riuscito a limitare il riscaldamento globale come sperato, cercando però di evitare il disfattismo”; chi scrive è l’agenzia di stampa francese AFP, e si può trovare sul sito di Internazionale del 7 novembre scorso (Vedi Qui).

“La finestra di opportunità per agire si sta chiudendo rapidamente”, ha avvertito il presidente brasiliano Lula da Silva a pochi giorni dall’apertura della conferenza delle Nazioni Unite sul clima Cop30, criticando duramente le “bugie delle forze estremiste che favoriscono la distruzione del pianeta”. E se il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che “la comunità internazionale non è riuscita a limitare il riscaldamento a 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale, l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi, definendolo un fallimento morale”, i circa trenta capi di stato e di governo presenti a Belém hanno lanciato un appello per una “conferenza della verità”, usando le parole di Lula, è il commento di AFP. La Cina, il paese con le maggiori emissioni di gas serra ma anche il principale motore della transizione energetica, ha colto l’occasione per chiedere “la revoca delle barriere commerciali sui prodotti verdi”.

Mentre il Brasile ha annunciato il lancio di un nuovo fondo, chiamato Tfff, il cui obiettivo è raccogliere fondi sui mercati finanziari per ricompensare gli stati che proteggono le foreste, la Norvegia si è impegnata a mettere a disposizione fino a tre miliardi di dollari.

Forti le critiche al presidente statunitense Donald Trump, contestato da molti dei leader presenti, a cominciare dal presidente cileno Gabriel Boric che ha accusato chi “ha scelto di ignorare o negare la realtà scientifica della crisi climatica”, fino al suo collega colombiano Gustavo Petro, il quale ha dichiarato “Trump essere contro l’umanità”.

“La disinformazione sul clima, le lobby dei combustibili fossili, la mancanza di fondi e il ritiro degli Stati Uniti dalla cooperazione climatica” è stata Ia denuncia fatta dai leader presenti alla Conferenza, anche se l’assenza della prima economia mondiale da Belém è stata accolta con un certo sollievo da chi temeva manovre ostruzionistiche durante i lavori della COP.

“Le Nazioni Unite, conclude il commento riportato da Internazionale, hanno chiesto che il superamento della soglia, previsto già prima del 2030, sia il più breve possibile, anche se, nella migliore delle ipotesi”, ha dichiarato ad AFP Johan Rockström, direttore dell’Istituto di ricerca sul clima di Potsdam, ci vorranno dai cinquanta ai settant’anni anni per tornare sotto la soglia di 1,5 gradi”.

La partecipazione dell’Italia alla Conferenza sul Clima è prevista con un Padiglione Italia concepito per valorizzare il ruolo del Paese nella lotta ai cambiamenti climatici e nella promozione della sostenibilità.
Il Padiglione Italia, si legge nel sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica nella parte dedicata alla COP30, rappresenterà una piattaforma strategica per valorizzare l’esperienza, l’innovazione e l’impegno dell’Italia per la sfida climatica, promuovendo il dialogo tra istituzioni, comunità scientifica, settore privato e società civile, e sarà articolato in due aree complementari, il Made for Our Future, che ospiterà incontri istituzionali, side event e momenti di confronto internazionale, e AquaPraça, una installazione, la “piazza galleggiante”, che salperà verso il Brasile, progettata da Carlo Ratti e presentata alla Biennale di Architettura 2025 di Venezia, rappresenterà un simbolo duraturo e concreto dell’impegno innovativo italiano per la sostenibilità e l’azione climatica.

Un’opera simbolica e funzionale, ancorata temporaneamente all’Arsenale veneziano, pronta a trasformarsi in uno spazio di confronto internazionale sul clima, dove innovazione, cultura e sostenibilità si incontrano.

“Venezia e Belém condividono una sfida comune: vivere e resistere in territori vulnerabili ai cambiamenti climatici. L’esperienza della laguna, salvata più volte dal sistema MOSE, dimostra che scienza e tecnologia possono diventare strumenti di salvaguardia quando dialogano con il patrimonio culturale”, ha dichiarato il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, intervenuto all’evento di lancio “ (vedi l’articolo su Circular Economy).

Tanti i commenti presenti sui media sulla Conferenza dell’ONU. Mario Agostinelli sul Fatto Quotidiano dello scorso 4 novembre afferma, già dal titolo del suo articolo, che La Cop30 di Belem segnerà il passaggio della leadership ambientale dall’Occidente a Cina e Brics.
Agostinelli critica la scelta dell’Italia del governo Meloni che “porterà alla COP di Belem in Amazzonia una posizione sostanzialmente negazionista a giustificazione del suo ritardo sugli obbiettivi assunti precedentemente a livello internazionale”. “Questo importante appuntamento, scrive il giornalista, non sembra incidere nel dibattito politico aperto nel nostro paese, anche se la crisi climatica va peggiorando”.

“La COP di Belem ha un alto valore simbolico e va contestualizzata – continua l’articolo del Fattocome un appuntamento rilevante per l’attenzione alla biosfera e al protagonismo dell’emisfero Sud del Pianeta, ed anche per questa ragione sarebbe rilevante una visione che superi il vecchio colonialismo dell’Occidente ricco, tutt’altro che esorcizzato dalle lobby energetiche che combattono le rinnovabili. I segnali più recenti che provengono dalla natura sono drammatici, con effetti riscontrabili anche in Europa, dove la temperatura media ha già superato la soglia di1,5°C, con ondate di calore ed eventi estremi che questa estate sono costati 43 miliardi di euro, di cui 12 all’Italia”.

In un articolo apparso il 5 novembre sul sito di Economia Circolare (Qui) si legge che “l’ONU prova a sensibilizzare gli Stati che parteciperanno alle negoziazioni in corso a Belém e lo fa attraverso l’atteso report del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) sui nuovi impegni climatici, fissati nell’ambito degli Accordi di Parigi, il quale rileva che l’aumento della temperatura globale previsto nel corso di questo secolo è diminuito solo leggermente, lasciando il mondo in una grave escalation di rischi e danni climatici.”
Il rapporto dell’UNEP Emissions Gap Report 2025: Off Target, continua il magazine online, rileva che le proiezioni sul riscaldamento globale nel corso di questo secolo, basate sulla piena attuazione dei Contributi Nazionali Determinati (NDC) – ovvero gli impegni che si assumono sulla riduzione delle emissioni da parte dei Paesi che partecipano alla COP – sono ora di 2,3-2,5°C, rispetto ai 2,6-2,8°C del rapporto dello scorso anno. L’attuazione delle sole politiche attuali porterebbe a un riscaldamento di 2,8°C, rispetto ai 3,1°C dello scorso anno. Tuttavia, commenta il magazine, i nuovi NDC, di per sé, hanno a malapena spostato l’ago della bilancia, e i Paesi rimangono lontani dal raggiungere l’obiettivo degli Accordi di Parigi di limitare il riscaldamento al di sotto dei 2°C, mentre proseguono gli sforzi per rimanere al di sotto di 1,5°C.

“Gli scienziati ci dicono che un superamento temporaneo di 1,5° è ormai inevitabile, al più tardi a partire dai primi anni 2030. E il percorso verso un futuro vivibile diventa ogni giorno più ripido”, è la dichiarazione del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres nel suo messaggio sul rapporto. “Ma questo non è un motivo per arrendersi. È un motivo per fare un passo avanti e accelerare: 1,5° entro la fine del secolo rimane la nostra stella polare. E la scienza è chiara: questo obiettivo è ancora raggiungibile. Ma solo se aumentiamo significativamente le nostre ambizioni”.

Queste considerazioni sono molto importanti perché mettono in risalto le posizioni contrarie alla strada intrapresa per la sostenibilità ambientale sui cambiamenti climatici, e, come fa notare Agostinelli nell’articolo del Fatto Quotidiano, “mentre su indicazione di Trump arretra il Green Deal Europeo, è la premier italiana in persona a definire «ideologica» la sostenibilità ambientale, mentre corre in aiuto dell’industria continentale dell’automotive per tenere in vita motori endotermici – magari alimentati a biocarburanti – e sostiene le importazioni del gas liquido di Trump e Milei infrangendo l’obiettivo di emissioni climatiche zero al 2040”.

La COP30, come ricorda il titolo dell’articolo “segnerà probabilmente il passaggio della leadership ambientale dal mondo occidentale a Cina e Brics, accompagnato da un risveglio africano: un cambiamento che può dare un risalto internazionale alla COP che qui da noi non si intende sottolineare”.
Ecco allora che “il continente africano si va preparando ad un ruolo meno dipendente dai Paesi ricchi. Invece di continuare ad aspettare gli aiuti, l’Africa sta cercando di mobilitare investimenti nella sua transizione verde perché può così aiutare il mondo ad affrontare il cambiamento climatico” e in definitiva, “la logica estrattivista del passato, in cui l’industrializzazione si basava sullo sfruttamento e sulla distruzione, deve cedere il passo a un approccio più olistico, giusto ed equilibrato, che riconosca che gli esseri umani appartengono alla natura, non il contrario.”

In più, in seguito al ripensamento del Green Deal da parte della Von der Leyen e dell’abbandono dell’accordo di Parigi da parte di Trump, è probabile che l’attenzione per un esito non drammatico della COP 30 passi ai Paesi Brics ed in particolare, a Brasile e Cina. Infatti, conclude Agostinelli, “il leader cinese Xi Jinping, in relazione alle dichiarazioni sui cambiamenti climatici del presidente USA, ha replicato che «la transizione verde e a basse emissioni di carbonio è la tendenza del nostro tempo. Mentre alcuni paesi si stanno muovendo contro di essa, la comunità internazionale dovrebbe rimanere concentrata sulla giusta direzione». Una contrapposizione di non poco conto, con il nostro mainstream che si affanna a trascurare come il trend delle emissioni di anidride carbonica del comparto energetico cinese mostri una diminuzione del 3% nella prima metà del 2025 e come nel primo semestre del 2025 la Cina abbia installato 12 volte più potenza solare rispetto agli Usa”.

Unep.org, Emissions Gap Report 2025
FUORI BERSAGLIO, cover 2025 di Unep.org, Emissions Gap Report 2025

 

 

 

Le copertine dei report UNEP sulle emissioni sono famose, almeno per le persone addette ai lavori, perché sono molto pop, colorate e con un chiaro messaggio. Quella di quest’anno, ad esempio, è focalizzata su un bersaglio e una freccia che va distante dall’obiettivo centrale. Questo perché il rapporto rileva che la media pluridecennale dell’aumento della temperatura globale supererà 1,5°C, almeno temporaneamente. Sarà difficile invertire questa tendenza, secondo UNEP, perché questo richiederà riduzioni aggiuntive più rapide e più consistenti delle emissioni di gas serra per minimizzare il superamento, ridurre i danni alle vite e alle economie ed evitare un’eccessiva dipendenza da metodi incerti di rimozione dell’anidride carbonica. (Vedi Qui)

Anche la testata giornalistica LifeGate scrive sul suo sito il 6 novembre, a firma di Andrea Bartolini, un articolo dove si tratta dei dati sulla crisi climatica presentati dal report UNEP 2025. “La trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite si aprirà con l’ennesima notizia inquietante, è l’incipit. L’edizione 2025 del rapporto Emissions Gap del Programma per l’ambiente dell’Onu (Unep), indica quanta distanza ci sia ancora tra gli obiettivi fissati dalla comunità internazionale per limitare il riscaldamento globale e quanto promesso dai governi di tutto il mondo in termini di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. I dati indicano che la distanza, oggi, è ancora enorme”. “I dati dell’UNEP sull’azione climatica sono inquietanti, scrive Bartolini: il documento valuta infatti gli impegni ufficiali inviati dagli stati all’Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). Nel 2015, prima della COP21 che portò all’approvazione dell’Accordo di Parigi, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente indicò che le promesse inviate dai governi erano largamente insufficienti, dal momento che avrebbero portato a una crescita della temperatura media globale, alla fine del secolo, rispetto ai livelli preindustriali, di oltre 3°. L’Accordo di Parigi indica invece che occorre rimanere al di sotto dei 2 gradi, e rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. La differenza tra 1,5 e 2 sarebbe già quella che passa tra una crisi e una catastrofe climatica, secondo quanto indicato dall’Ipcc.

Le Nationally Determined Contributions, riproposte in una seconda versione, e partendo comunque dal presupposto che le promesse avanzate dai governi vengano rispettate per intero, furono ritenute ancora una volta insufficienti dalle Nazioni Unite che hanno chiesto perciò ai governi un terzo «tentativo». Le nuove promesse avrebbero dovuto essere inviate entro il 30 settembre scorso, ma non tutti i paesi del mondo lo hanno fatto.” Le NDC – ha commentato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep – hanno certamente evidenziato qualche progresso, ma a un ritmo assolutamente troppo lento. Abbiamo bisogno di una riduzione delle emissioni senza precedenti, in una finestra temporale sempre più ridotta e in un contesto geopolitico sempre più difficile”.

“L’attuazione completa delle attuali NDC al 2035, rispetto ai livelli del 2019porterebbe ad una riduzione delle emissioni mondiali di circa il 15%, ma, per allinearsi a una traiettoria che consenta di centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi occorrerebbe invece arrivare a un -55%. La distanza, insomma, è ancora gigantesca, conclude Bartolini.

Ed è per questa ragione che, nonostante tutti i problemi, la COP30 di Belém rappresenta comunque un’opportunità unica per tentare di rilanciare l’azione climatica. «Il momento di agire è adesso, ma i nostri dirigenti dormono al volante, portandoci a catastrofi come quella dell’uragano Melissa, sofferenze umane, perdite economiche e ingiustizia climatica», ha sottolineato Jasper Inventor, dirigente di Greenpeace International.

Non resta quindi che attendere la chiusura della Conferenza delle Parti per sapere se le tante aspettative che gravano su questo evento verranno rispettate per dare speranza e futuro alla Terra.

Immagine di copertina di Il bo live università di Padova

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Torino: Extinction Rebellion ricopre di teli termici la Statua di Cavour. “Tassare i ricchi, fermare il collasso climatico”

Extinction Rebellion ricopre di teli termici la Statua di Cavour in Piazza Carlina.
“Tassare i ricchi, fermare il collasso climatico”.

Extinction Rebellion ha ricoperto la statua di Camillo Cavour in piazza Carlina, a Torino, con teli termici e grandi cartelli che recitano “Tassare i ricchi, fermare il collasso climatico”. Alla vigilia della COP30, il movimento denuncia le responsabilità dei super-ricchi nell’aggravarsi della crisi climatica e il sostegno politico e fiscale che Governo e Regione continuano a offrire a chi inquina di più.

Il 9 novembre, alla vigilia d’inizio della COP30 in Brasile, Extinction Rebellion ha interamente rivestito con teli termici il monumento a Camillo Benso di Cavour, in piazza Carlina. Teli che vengono solitamente utilizzati per soccorrere la popolazione in seguito a eventi catastrofici, come le alluvioni, o durante i soccorsi in mare. Alle statue sono stati appesi anche grandi cartelli con scritto “Tassare i ricchi, fermare il collasso climatico”.

“Il pianeta continua a scaldarsi e le vittime e gli sfollati di catastrofi climatiche ad aumentare. Una crisi aggravata dalle crescenti diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, concentrata nelle mani di un élite sempre più ristretta” afferma Toni, una delle persone arrampicate sulla statua. “In questa piazza si trova uno degli alberghi più lussuosi di Torino, il Collection NH e la banca di affari Mediobanca. Un lusso che contrasta con le morti che queste diseguaglianze stanno causando, incidendo drammaticamente sull’aggravarsi della crisi ecoclimatica”. Nel solo 2025, in Europa, sono morte 16.500 persone per le ondate di calore e in tutto il mondo migliaia  hanno perso la vita in eventi climatici estremi causati dall’aumento delle temperatura globale:  più di 400 morti riconducibili agli incendi di Los Angeles dello scorso gennaio, oltre 200 morti nell’inondazione di Valencia dell’ottobre 2024, le isole di Jamaica e Cuba distrutte del tornado Melissa solo la settimana scorsa. Il contributo al riscaldamento del pianeta è legato agli investimenti e interessi economici della parte più ricca della popolazione mondiale. Secondo un recente rapporto pubblicato da Oxfam, infatti, quasi il 60% degli investimenti della frazione più ricca del pianeta sono in settori altamente inquinanti, come il settore dei combustibili fossili e minerario. Si stima inoltre che le emissioni del 1% più ricco del pianeta sono tali che causeranno 1,3 milioni di morti legate al caldo e 44 trilioni di dollari di danni nei paesi a medio e basso reddito entro il 2100.

La scelta della statua, inoltre, non è casuale, il monumento a Cavour è il simbolo dell’Italia unita, laica e costruita sul diritto“Un’Italia tradita da chi ora la governa, a livello nazionale e locale” secondo Extinction Rebellion, come evidenziato dai cartelli al collo delle statue ai piedi di Cavour. Slogan che riecheggiano alcuni frasi simbolo dello statista risorgimentale: “L’Italia è fatta, nessuno è salvo”, “Libera terra in Libero Stato”, “Abbiamo fatto l’Italia, adesso facciamo anche l’uguaglianza”, un modo per denunciare le responsabilità di Governo e Regione.
“Solo in Piemonte i super ricchi detengono il 10% del patrimonio finanziario italiano, immobili esclusi. Il Governo Meloni e la Regione Piemonte nel frattempo perseguono politiche che avvantaggiano chi già possiede molto a discapito del ceto medio e delle fasce più povere della popolazione” afferma Leonora di Extinction Rebellion. Il Governo italiano, infatti,  ha aumentato il prelievo fiscale sui redditi medio bassi, mentre per i super milionari si applicherà una tassa piatta di 300mila euro,  senza alcun obbligo di investimento. In Piemonte nel 2026 la Regione dovrà fare a meno di 117 milioni di euro di trasferimenti da Roma e per questo la giunta Cirio ha approvato l’aumento dell’addizionale regionale Irpef che colpirà i redditi tra i 15 e i 50 mila euro, con un aggravio che va dai 33 ai 106 euro l’anno a seconda dello scaglione.

Un tradimento che pagano prima di tutto le persone e le popolazioni più fragili e più esposte a inquinamento e disastri climatici: i bambini, gli anziani, le fasce di popolazione più povere e di aree geografiche vulnerabili.

Foto Extinction Rebellion

In copertina  e nel testo: la statua di Cavour a Torino ricoperta di teli termici – Foto di Extinction Rebellion.

“Noi esistiamo”
Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna

“Noi esistiamo”. Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna

Quando, nel marzo del 1960, il batterista Max Roach pubblicò un disco dal titolo “We insist! Freedom now suite” (Noi insistiamo! La suite della libertà subito) aveva l’urgenza di attirare l’attenzione del mondo sul razzismo dilagante che pervadeva la società americana dell’epoca.

Significativa è la copertina dove si vedono tre ragazzi neri che praticano il lunch counter sit-in; in pratica, consumano il pranzo in un bar per soli bianchi e ci rimangono fino all’ora di chiusura, seguendo una pratica non violenta ispirata da Martin Luther King che suggeriva di restare nella zona per bianchi nonostante l’invito del titolare ad andare nei locali per neri.

È evidente il riferimento a quel disco, a quel periodo e a quelle lotte, che ha fatto la famosa cantante jazz Dee Dee Bridgewater quando, iniziando la sua tournée internazionale, ha voluto intitolare lo spettacolo: “We exist!” (Noi esistiamo).

Noi esistiamo” è un vero e proprio grido di lotta per affermare che di strada se ne è fatta tanta, ma molta ancora ne resta da fare per riuscire a creare un presente inclusivo e per progettare un futuro di pace.

Noi esistiamo” è un manifesto scritto a caratteri cubitali per dire che esistiamo come persone, esistiamo come donne e uomini dalla pelle di colori diversi, esistiamo come esseri umani unici.

Noi esistiamo” è una provocazione anche rispetto agli stereotipi e ai pregiudizi che fanno credere ai più che un quartetto composto da una cantante nera e da tre giovani donne musiciste (provenienti da Paesi diversi) sia musicalmente meno dotato rispetto ad un quartetto di musicisti maschi.

Nel concerto del 4 novembre scorso, organizzato dal Bologna Jazz Festival al Teatro Manzoni di Bologna, Dee Dee Bridgewater con la sua voce straordinaria, insieme alla pianista Carmen Staaf, alla contrabbassista Rosa Brunello e alla batterista Julie Saury hanno insegnato ai presenti che la qualità musicale non dipende dal sesso ma dalla preparazione, dalla sintonia e dall’empatia che chi suona riesce a creare con gli altri musicisti e con il pubblico.

Dee Dee Bridgewater riesce davvero a stare sul palco dimostrando bravura, eleganza, fierezza, carisma e forza, mentre le musiciste che ha scelto per il suo tour sono bravissime nel dare un contributo originale e significativo ad ogni brano che così risulta impreziosito. Il quartetto dialoga musicalmente in maniera ineccepibile e l’armonia che ne deriva è fantastica.

Per la Bridgewater, che oggi è universalmente riconosciuta come una delle migliori cantanti in attività, il jazz ha a che fare con la libertà e la democrazia; non è un caso quindi che abbia scelto di riarrangiare e di interpretare nei suoi concerti una serie di brani molto significativi che rappresentano una sintesi della sua storia personale.

Sono canzoni che parlano di discriminazione, di segregazione, di consapevolezza, di protesta, di lotta, di riscatto e del sogno di una società in cui le persone possano vivere da protagoniste del proprio destino, indipendentemente dal colore della pelle.

Nell’ordine, il quartetto ha interpretato magistralmente: People make the world go round (“Le persone fanno girare il mondo”) portata al successo dagli Stylistics nel 1971, Danger zone un vecchio brano di Percy Mayfield, un gigante delle ballate blues (“Sai che il mondo è in subbuglio, la zona pericolosa è ovunque, ovunque”), Trying times della grande Roberta Flack (La gente parla sempre della disumanità dell’uomo verso l’uomo ma tu cosa stai cercando di fare per rendere questa terra un posto migliore?), Mississippi goddam di Nina Simone (“L’Alabama mi ha fatto arrabbiare così tanto. Il Tennessee mi ha fatto perdere il sonno. E tutti sanno del Mississippi, accidenti. Tutto ciò che voglio è l’uguaglianza”), How it feels to be free di Billy Taylor (“Vorrei sapere come ci si sente ad essere liberi, vorrei poter spezzare tutte le catene che mi trattengono, vorrei poter dire tutte le cose che dovrei dire. Dirle ad alta voce, dirle chiaramente perché tutto il mondo le senta”), Throw it away di Abbey Lincoln (“Non puoi mai perdere nulla se ti appartiene”) e sempre della stessa interprete And it’s supposed to be love (“Ti sbattono a terra, ipnotizzano il tuo cervello, ti mandano all’altro mondo, e questo dovrebbe essere amore?”).

Ha terminato il concerto con una sorpresa, eseguendo una versione molto coinvolgente di Gotta serve somebody di Bob Dylan (“Potrebbe essere il Diavolo o potrebbe essere il Signore ma dovrai servire qualcuno”).

Dopo l’ovazione tributata più che meritatamente dal pubblico con una standing ovation, Dee Dee è tornata in scena per ringraziare e presentare Daisy, una bella cagnolina che rappresenta il suo “supporto emotivo”.

L’intero quartetto è poi salito di nuovo sul palco per un bis portentoso: una bella versione di Compared to what, scritta da Gene McDaniels ma resa famosa dal pianista Les McCann (“Il Presidente, ha la sua guerra, la gente non sa a cosa serva. Se hai un dubbio, lo chiamano tradimento. Dannazione!”)

Dee Dee Bridgewater e le musiciste che hanno suonato con lei hanno dato vita ad un concerto bellissimo, una performance efficace in termini comunicativi, un atto di una potenza politica enorme.

Non è casuale quindi che io torni a citare il pensiero del filosofo e sociologo tedesco Walter Benjamin quando affermava che “Quando la politica diventa spettacolo, spesso incivile, allora lo spettacolo deve diventare politica, civile”.

Lo faccio per ricordare ai lettori e a me stesso che abbiamo tutti un gran bisogno di una politica buona, quella che non viene espressa solo dai cosiddetti politici ma che viene praticata da tutte e tutti coloro che si impegnano per la crescita emotiva e relazionale di una società.

Anche le musiciste ed i musicisti hanno sicuramente un ruolo fondamentale in un processo di cambiamento che parta dal basso, a cominciare da se stessi.

Cover e fotografie nel testo di Mauro Presini

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Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Come abbiamo già ricordato nei precedenti articoli [Qui] [Qui] Nicola Chiaromonte nella sua attività di critico letterario e teatrale ha proposto una lettura della finzione come forma privilegiata di verità storica.

Non si tratta di una verità documentaria, ma di una verità che emerge dal rapporto tra l’individuo e l’evento, laddove l’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade a qualcuno. In questo senso la fiction del romanzo, diventa il luogo in cui si può indagare l’autentico rapporto tra l’essere umano e la storia, tra soggettività e catastrofe, tra sopravvivenza e trasformazione.

Qui per poter leggere meglio il presente intendiamo applicare il metodo di Chiaromonte alla fantascienza intendendola come “documento storico”, lettura chiaromontiana degli eventi del nostro presente.

Lo faremo attraverso alcuni romanzi di fantascienza scritti da tre autrici che hanno ridefinito il genere, spostando il centro della narrazione dalla figura dell’uomo a quella della donna. Si tratta di  Memorie di una sopravvissuta di Doris Lessing, I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.

In ciascuno di questi testi, la finzione non è evasione, ma rivelazione. Le protagoniste non sono eroine nel senso classico, ma testimoni di eventi che le travolgono e le trasformano. Le stesse autrici sembrano conformarsi al metodo di Chiaromonte dando vita alla storia “documentale” che parte dalla situazione presente,  attraverso la narrazione di storie (future) che riguardano corpi, libertà e memorie delle proprie protagoniste.

Nel romanzo Memorie di una sopravvissuta (1974), Doris Lessing costruisce un mondo in disfacimento, dove una donna senza nome – la protagonista invisibile – osserva il collasso della società e la crescita di una bambina, Emily, che le è stata affidata, senza alcuna spiegazione, insieme al suo inseparabile cane-gatto Hugo. Il tono è quieto, quasi contemplativo, e la narrazione si svolge in una dimensione sospesa tra realtà e sogno, tra cronaca e visione.

Secondo il metodo di Nicola Chiaromonte, ciò che conta non è tanto l’evento in sé, quanto il modo in cui esso si riflette nella coscienza di chi lo vive. La protagonista infatti non è un’eroina che agisce, ma una testimone che accoglie l’evento, lo lascia accadere, lo trasforma in memoria. In questo senso, la finzione di Lessing diventa una forma di verità storica: non quella dei fatti, ma quella dell’esperienza.

Non posso dire che cosa accadde. Non posso dire come accadde. Posso solo dire che accadde.

Quanti di noi sottoscriverebbe questa frase nella disperata ricerca di comprendere il presente che abbiamo sotto gli occhi!

Questa frase, che ricorre più volte nel testo, è emblematica se rapportata al metodo di Chiaromonte: l’evento non è spiegabile, comprensibile (storicismo volgare), ma solo narrabile. La protagonista non cerca di comprendere il collasso sociale, né di opporvisi. Lo osserva, lo registra, lo vive. E nel farlo, rivela una verità più profonda: quella del tempo interiore, della resistenza silenziosa, della cura.

Emily, la bambina, è l’altra figura centrale. Cresce, cambia, si ribella, si innamora. Ma soprattutto, attraversa il mondo. E la protagonista invisibile (la voce narrante) la accompagna, senza mai imporsi. In questo rapporto si manifesta una forma di maternità non biologica, ma esistenziale: la donna diventa custode dell’evento, archivio vivente della trasformazione.

Emily era cambiata. Non era più la bambina che mi era stata affidata. Era diventata qualcosa d’altro, qualcosa che io non potevo comprendere, ma che dovevo accettare.”

Il romanzo si chiude con una scena enigmatica: la protagonista e Emily attraversano un muro, entrando in una dimensione altra, forse simbolica, forse reale. Questo passaggio è il culmine della finzione come verità: non c’è spiegazione, ma c’è rivelazione. Il muro è il confine tra il mondo visibile e quello invisibile, tra la storia ufficiale e quella interiore.

Attraversammo il muro. E dietro il muro c’era il giardino. Non un giardino come quelli che conosciamo, ma un giardino che era anche memoria, sogno, possibilità.”

Nel romanzo I reietti dell’altro pianeta (1976), Le Guin costruisce un sistema binario con due pianeti, Urras e Anarres, che incarnano due visioni opposte del mondo. Urras è ricco, gerarchico, patriarcale; Anarres è povero, anarchico, egualitario. Il protagonista, Shevek, è un fisico teorico che cerca di costruire un ponte tra i due mondi, ma il vero cuore del romanzo è la tensione tra utopia e realtà, tra ideali e compromessi.

Secondo Nicola Chiaromonte, la verità storica non si manifesta nei sistemi ideologici, ma nella relazione con l’evento. In questo senso, Le Guin non propone una distopia né una utopia, ma una finzione critica che interroga il lettore sul senso della libertà, della comunità, della responsabilità. E lo fa soprattutto attraverso le figure femminili, in particolare Takver, compagna di Shevek, che incarna una forma di resistenza quotidiana e relazionale.

Takver era la mia vera rivoluzione. Non nei libri, non nei dibattiti, ma nel modo in cui mi guardava, nel modo in cui stava con me.”

Takver non è una figura marginale: è co-creatrice dell’evento. La sua presenza trasforma la ricerca scientifica di Shevek in un atto etico, incarnato. La finzione di Le Guin, in questo senso, rivela una verità storica che non è quella delle rivoluzioni, ma quella dei legami. La donna non è spettatrice, ma agente di cambiamento, anche quando il cambiamento è invisibile o viene montato ad arte come storia con la S maiuscola.

Il romanzo è costruito in modo circolare, con un’alternanza tra passato e presente, tra Anarres e Urras  perché… la storia non è lineare, ma esperienziale. L’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade (e può riaccadere) a qualcuno, e quel qualcuno è sempre situato, incarnato, vulnerabile.

La libertà non è un dono. È una scelta continua. È il peso che portiamo ogni giorno.”

Le Guin mostra che la libertà non è assenza di vincoli, ma capacità di stare nel vincolo e provare a trasformarlo. E le donne del romanzo – Takver, Bedap, le madri, le lavoratrici – incarnano questa libertà incarnata, relazionale, non eroica ma resistente.

In questo senso, I reietti dell’altro pianeta sarebbe stato scelto da Chiaromonte alla pari dei 5 romanzi da lui considerati in Credere e non credere per la sua analisi “storiografica”: la finzione non è costruzione ideologica, ma rivelazione esistenziale. La verità storica emerge nel modo in cui i personaggi vivono l’evento, lo attraversano, lo trasformano. E la donna, in Le Guin, è il luogo dove questa trasformazione si compie.

Nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood nel suo romanzo del  1985 Il racconto dell’ancella, nella teocrazia totalitaria chiamata Gilead, le donne sono private di ogni diritto e ridotte a funzioni biologiche. Le “ancelle” sono costrette alla procreazione per conto delle élite dominanti. La protagonista, Difred (Offred), racconta la sua storia in frammenti, tra ricordi del passato e resistenza silenziosa nel presente.

Qui la verità storica verrebbe scritta da una teocrazia come quelle che in questo momento caratterizzano il nostro presente (si pensi all’Iran, a Israele ma anche agli USA di Trump, alla Russia ortodossa di Putin e al Partito Unico cinese).

Nel romanzo della Atwood la protagonista non è una ribelle nel senso classico, ma una testimone. La sua voce, che narra in prima persona, è il luogo dove la finzione si fa verità: non una verità oggettiva, ma una verità esperienziale, incarnata.

Mi racconto questa storia per non dimenticare. Per non diventare pazza.”

La narrazione è un atto di sopravvivenza. Difred non ha potere, ma ha memoria. E la memoria, in Atwood, è resistenza. Qui la finzione distopica non è evasione, ma vero e proprio documento: un modo per registrare ciò che potrebbe accadere, ciò che è già accaduto, ciò che accade ogni giorno in forme diverse.

Niente cambia istantaneamente: in una vasca che si scalda lentamente, non ti accorgi di essere bollita.”

Questa frase è centrale per annoverare anche questo romanzo tra le prove a carico del “metodo  chiaromonte”: l’evento non è sempre catastrofico, ma può essere graduale, insinuante. La verità storica non è solo quella delle rivoluzioni, della “battaglia di Waterloo”, ma anche quella delle trasformazioni silenziose, delle normalizzazioni del male. E la donna, in Atwood, è il luogo dove questa verità si manifesta: nel corpo, nella voce, nella memoria.

Difred non è sola. Le altre donne – Serena Joy, Moira, Zia Lydia – incarnano diverse forme di adattamento, resistenza, complicità. Ma tutte sono dentro l’evento, e tutte lo rivelano. La finzione di Atwood è polifonica, e proprio in questa pluralità si rivela la verità storica: non un’unica narrazione, ma una costellazione di esperienze.

Quando ti tolgono la libertà, ti tolgono anche il linguaggio. E allora devi inventarlo.”

La lingua, in Atwood, è il primo luogo della resistenza. Difred inventa il suo racconto, lo frammenta, lo nasconde. Ma proprio in questa frammentazione si rivela la verità: la donna non è solo vittima, ma archivio vivente dell’evento. E la finzione, lungi dall’essere menzogna, è il mezzo attraverso cui questa verità può essere detta.

Nel metodo di Nicola Chiaromonte, la finzione non è una fuga dalla realtà, ma il suo più autentico riflesso. È solo attraverso l’immaginazione – quella “specie particolare di verità storica” che è la finzione – che possiamo accedere all’esperienza autentica dell’individuo, e, più in profondità, alla Grande Esperienza che ci accomuna tutti e che chiamiamo Vita.

I tre romanzi analizzati non sono semplici esercizi di genere, ma atti di testimonianza. In ciascuno, la donna non è solo protagonista: è generatrice di senso, custode dell’evento, narratrice della trasformazione.

Lessing ci mostra una donna che accoglie il collasso del mondo come soglia verso una nuova forma di memoria. Le Guin ci offre una figura femminile che, nella reciprocità, costruisce ponti tra mondi e tra visioni. Atwood ci consegna una voce che, nel frammento e nella resistenza, storicizza l’oppressione e la trasforma in racconto.

Chi meglio di una donna – che è biologicamente e simbolicamente generatrice – può raccontare la Vita? E chi meglio di una narratrice può storicizzarla, cioè renderla esperienza condivisibile, trasmissibile, universale?

E forse, a questo punto, varrebbe la pena porre rimedio a una questione (anche “storicamente”) incontrovertibile: c’è una storia che non può essere del tutto scritta, non perché manchino i fatti ma perché sono mancati  gli sguardi di tante, tantissime protagoniste invisibili, donne che non si permetterebbero mai di dire “abbiamo fatto la Storia” perché sanno bene che sono le storie, proprio quelle non ancora narrate, ad… averle fatte.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/pexels-2286921/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pexels</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pixabay</a>

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Per certi Versi / Intreccio giunchi

Intreccio giunchi

Compiuta è la fioritura
acerbe sono le spighe

ma è così matura la bellezza
sento il tuo calore
nell’intimo tocco
dei piedi nudi
prima dell’addio

mi faccio nuvola
poi pioggia
divento sole
poi neve
ma è già tempo andare

intreccio giunchi
con le mani callose
di mio nonno
e occhi pieni
di abbandono

 

In copertina: lavorazione dei cestini-immagine di sardegnaturimo.it

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Le tasse aumentano, anche se ci raccontano il contrario

Le tasse aumentano, anche se ci raccontano il contrario

Non ci sarebbe bisogno di statistiche o studi analitici: ogni volta che andiamo a fare la spesa ci accorgiamo che riempire il carrello ci costa un po’ di più, e il nostro stipendio ci sembra sempre più misero. In più arriva l’Istat a legittimare questa sensazione, documentando una riduzione del potere d’acquisto degli stipendi pari all’8,8% in quattro anniCosa significa questo? Che anche se gli stipendi aumentano nominalmente, l’inflazione aumenta in misura maggiore. Quindi ci sembra di avere più soldi in tasca, ma riusciamo a comprare meno cose.

Ma anche quando otteniamo aumenti adeguati, la beffa è dietro l’angolo: ci troviamo a subire un aumento nascosto delle imposte a causa del meccanismo del fiscal drag. Per spiegare di cosa si tratta, è necessario fare un esempio pratico. Immaginiamo un lavoratore che nel 2021 aveva un reddito imponibile di € 35.000. Com’è noto, i redditi vengono tassati con aliquote progressive. Quindi:

  • nessuna tassazione sui primi € 8.500

  • il 23% sullo scaglione tra € 8.500 e € 28.000

  • il 35% sullo scaglione tra € 28.000 e € 50.000

(Nel nostro esempio non prenderemo in considerazione l’ultimo scaglione, quello superiore ai 50.000 euro, tassato al 43%).

Il nostro lavoratore immaginario pagherà quindi:

  • il 23% su (28.000-8.500) = € 4.485

  • il 35% su (35.000-28.000) = € 2.450

per un totale di € 6.935. L’aliquota media applicata al suo reddito sarà quindi pari al 19,81%.

Immaginiamo che il nostro ipotetico lavoratore rientri tra i fortunati che riescono ad avere un rinnovo contrattuale con aumento di stipendio tale da fargli recuperare del tutto l’inflazione. Quindi, sommando le variazioni dei prezzi al consumo nel quadriennio in esame, avrebbe un aumento dell’17,6%: questo porterebbe il suo reddito imponibile a € 41.160. Di fatto, pur avendo più soldi in tasca, dovrebbe avere il medesimo potere d’acquisto, considerando che l’aumento di stipendio sarà esattamente pari all’aumento dei prezzi. Eppure… avrà ancora la sensazione di aver perso qualcosa. Sensazione legittima: pur non avendo aumentato la sua capacità di spesa, per il fisco sarà più ricco. Proviamo a ricalcolare le tasse sul nuovo importo:

  • il 23% su (28.000-8.500) = € 4.485

  • il 35% su (41.160-28.000) = € 4.606

per un totale di € 9.091. Non solo l’importo complessivo delle imposte è aumentato, e questo potrebbe essere comprensibile a seguito dell’aumento nominale. Ma – ed è qui che scatta l’aumento nascosto – la sua aliquota media è salita al 22,09%. Se prima dell’aumento il livello della sua tassazione era del 19,81%, l’aver subito una tassazione media del 22,09% lo ha portato a pagare circa 937 euro in più, a fronte di un potere d’acquisto invariato.

Il meccanismo può apparire complesso, e difficilmente viene compreso appieno dai contribuenti: che tuttavia si accorgono, ancora una volta, che fanno fatica a riempire il carrello della spesa, e non capiscono il motivo:  ma non avevano avuto il pieno recupero dell’inflazione? Tra l’altro la situazione ipotizzata è quella ottimale, che nella realtà dei rinnovi contrattuali non si verifica quasi mai. Nella grande maggioranza dei casi, l’importo del rinnovo è inferiore all’inflazione, generando un effetto perverso: chi lavora ha al tempo stesso una riduzione del potere d’acquisto, ed un aumento della tassazione media.

Il meccanismo sarà anche complesso, ma è ben chiaro a chi governa, che si guarda bene dall’applicare correttivi. Che sarebbero piuttosto semplici: basterebbe alzare le soglie degli scaglioni, adeguandole all’inflazione. Ma questo farebbe venir meno un incremento delle entrate che ha, fra i suoi meriti, quello di non venire immediatamente percepito, e quindi di non generare dissenso nei confronti di chi governa.

Che nel frattempo annuncia un taglio delle tasse, decisamente beffardo. Lo scaglione tra €28.000 e € 50.000 resta invariato, ma l’aliquota applicata scende al 33% (dall’attuale 35%).

Riprendendo il nostro esempio, per il lavoratore che ha appena ottenuto l’aumento il taglio delle tasse ammonterebbe a:

  • – 2% su (41.160-28.000) = € 263 circa.

In sintesi: mentre gli sventola davanti uno sconto di € 263 il fisco gli sottrae, senza dirglielo, € 674 (cioè la differenza tra € 937 dovuti all’aumento dell’aliquota media e € 263 restituiti)Senza contare che la riduzione dell’aliquota scatta solo per redditi superiori ad € 28.000. Cioè la minoranza dei contribuenti italiani, considerando che il valore medio delle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2024 non raggiunge i 25.000 euro. Questo vuol dire che per circa 7 contribuenti su 10 non ci sarà nessuna riduzione, ma subiranno comunque gli effetti perversi del fiscal drag.

Un vero capolavoro: lasciar aumentare le tasse mentre ci si vanta di averle tagliate. George Orwell e il suo immaginario Grande Fratello erano dei dilettanti al confronto.

Photo cover: Nature morte, tasse et théière – Camille Pissarro – Museum Langmatt – https://de.wikipedia.org/

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Vite di carta L'imperatore della gioia e Ocean Vuong

Vite di carta /
Le domande dei buoni libri: “La vegetariana” di Han Kang

Vite di carta / Le domande dei buoni libri: La vegetariana di Han Kang

La forza di un libro può cambiare i nostri pensieri, succede se i libri sono di valore.

Giorni fa mi arriva in biblioteca a Poggio Renatico La vegetariana di Han Kang, premio Nobel 2024 per la Letteratura. Lo ritiro e subito ne leggo l’incipit, che mi pare incolore: “Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante.” Chi parla in prima persona è il marito della protagonista, Yeong-hye e in questa prima parte del libro la sua narrazione si distende a descrivere le qualità ordinarie della moglie, la storia del loro matrimonio e la stranezza, l’unica, che lei ha compiuto in tanti anni. In seguito a un sogno di animali uccisi ha smesso di mangiare la carne.

Vado avanti a leggere e comincia a coinvolgermi lo sguardo di quest’uomo così distante dalla moglie, senza risorse per conoscerla prima di poterla capire, così concentrato sulla sua modesta carriera e sul quieto vivere come vessillo per vivere bene. Lei, intanto, è tenace nel rifiutare la carne e si allontana ogni giorno di più dalla cultura famigliare nella quale è cresciuta. Non la piega nemmeno lo schiaffo che le dà il padre, padrone autoritario della infanzia dei figli, come si scoprirà. La sua reazione è fulminea: è la festa della nuova casa della sorella maggiore In-hye, e lei davanti a tutti i familiari, al fratello Yeong-ho, ai genitori e ai cognati afferra un coltello e si taglia un polso.

La prima parte finisce con il suo ricovero in ospedale e il sangue rappreso sulla camicia del marito, mentre l’anziana madre le porta in stanza del cibo per spingerla a nutrirsi di carne, come prima.

Leggo la seconda e la terza parte e resto incatenata alla narrazione in terza persona, in cui il punto di vista è prima quello del cognato, marito di In-hye e padre del piccolo Ji-woo che ha cinque anni; infine nell’ultima parte è quello di In-hye, sorella maggiore e di fatto unico sostegno per Yeong-hye nella fase finale della vita.

Nella seconda parte viene raccontato l’approccio inusuale del cognato alla fisicità velata di mistero di Yeong-hye: lui la cattura come se fosse un’opera d’arte in progress, le dipinge il corpo di fiori sgargianti e poi la possiede con forza. Lei, che ha già fatto alcuni mesi di ospedale e fuori di lì conduce una vita sempre più silenziosa al riparo della propria casa, va in frantumi. Vuole far nascer fiori dal proprio corpo, vuole volare e si sporge dal balcone.

Mentre anche la seconda parte finisce in ospedale, il romanzo si fissa sulla figura della sorella In-hye. Che ha chiamato l’ambulanza per la sorella e anche per ricoverare il marito. Entrando in casa di Yeong-hye per portarle del cibo, ha scoperto entrambi in flagrante dopo il risveglio e da donna forte e pratica quale si è sempre mostrata ha preso provvedimenti.

La terza parte, la più straziante, quella scritta meravigliosamente come e più delle altre due, racconta la visita di In-hye nell’ospedale fuori Seul dove ha collocato la sorella, pagando le spese del  ricovero e facendole visite più frequenti dopo la fuga nella vicina foresta che Yeong-hye ha fatto tre mesi prima, alla ricerca di una sua agognata metamorfosi.

È la parte in cui In -hye racconta la sua sofferenza e l’insonnia che, come è accaduto alla sorella, le arrossa gli occhi e la fa sentire esausta. Per rispondere alla immagine che ha da sempre dato di sé a tutti quanti e a se stessa, continua a fare fronte alle necessità di chi ama, il figlio e la sorella, cercando di fare del suo meglio.

Ma lì, mentre attende di entrare nella stanza di Yeong-hye morente, mentre parla col medico che vista la sua gravità la vuole trasferire all’ospedale generale, assiste allo squarcio nel cielo di carta, come accade a tanti personaggi pirandelliani. Si vede vivere. Si pone le domande esiziali: forse sua sorella ha cercato fin da bambina la morte? Sarà che ha subito le percosse e la violenza del padre più di ogni altro in famiglia?

Arrivano le risposte. Una, soprattutto. Accade quando finalmente ascolta le ultime parole della sorella; comprende che sta andando in uno spazio che è oltre, in una dimensione che si allontana dall’umano per trasfondere il suo corpo tra gli altri alberi del bosco, albero esso stesso. Fatto di radici, rami e foglie. Non serve assumere cibo, bastano l’acqua e il sole.

Arrivano anche le domande che pongo a me stessa, sulla pazzia e sui territori a cui conduce. Possibile che sia il solo canale che può condurre a incontrare la natura e la terra? Che la fratellanza con gli alberi si stabilisca solo attraverso una metamorfosi che rinnega il vissuto della socialità con gli altri umani. Che la sorellanza con le foglie e con i rami riconduca all’antico mito di Dafne, ancora una volta a causa della sofferenza e della ripulsa?

Come nella scrittura così profonda di Han Kang, anche nei suoi personaggi, specie femminili, è contenuta una buona dose di bellezza. Lo dice la nudità senza imbarazzi né remore di Yeong-hye, il suo accogliere le foglie e i colori che il cognato le dipinge sulla pelle. Può ricordare la Ermione dannunziana, a patto di convertirne la sinergia con il bosco in un sentire totalmente naturale, senza alcun compiacimento.

 

 

 

Nota bibliografica:

  • Han Kang, La vegetariana, Adelphi, 2016

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Manovra finanziaria, Istat: più soldi ai più ricchi. Bankitalia: non riduce disuguaglianze

Manovra finanziaria, Istat: più soldi ai più ricchi. Bankitalia: non riduce disuguaglianze.

Istat e Bankitalia oggi audite in Commissione hanno espresso i loro rilievi sulla Manovra. Chiamarla stroncatura è forse istituzionalmente eccessivo ma la sostanza non cambia. Prima il presidente dell’Istat Francesco Maria Cheli, poi il vice capo Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia Fabrizio Balassone hanno illustrato le loro osservazioni davanti alla commissione Bilancio di Camera e Senato, in audizione sulla Legge di Bilancio.

È una manovra modesta. Stiamo parlando di 18,7 miliardi, calcola Istat: “Corrispondenti a meno di un punto percentuale di Pil, ed è finanziata sostanzialmente in pareggio di bilancio”. Ma la vera denuncia arriva nella frase successiva: “Una quota consistente di finanziamento è garantita da misure non strutturali, come la rimodulazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e il contributo di banche e assicurazioni”. Ora ci domandiamo: ennesima rimodulazione del Pnrr e in quale direzione? E poi, siamo davvero certi che il contributo di banche e assicurazioni arriverà, e soprattutto in quale forma? Prestito, anticipo o cosa?

Irpef e riduzione delle tasse

Ma quale riduzione delle tasse a favore del ceto medio. Già la Cgil ha dimostrato conti alla mano come la rimodulazione delle aliquote Irpef praticamente non porterà nessun beneficio a chi ha redditi medi e bassi, e per di più a causa del fiscal drag il governo ha prelevato indebitamente 25 miliardi nel triennio 2022-2024 dalle tasche di lavoratrici e lavoratori.

Ora è Istat ad attestare che i vantaggi della rimodulazione delle aliquote portando quella al 35% al 33% vanno soprattutto – meglio dire quasi esclusivamente – nelle tasche delle famiglie più ricche. In ogni caso stiamo parlando di un minor gettito di 2,4 miliardi, chi ne beneficerà?

Secondo Bankitalia ci sono criticità anche sul fronte degli sgravi fiscali per i rinnovi contrattuali, dagli interventi di detassazione “emergono incertezze sulle modalità di attuazione della misura e sul perimetro dei beneficiari”. Inoltre, l’impatto sulla contrattazione sarebbe contenuto: “La capacità delle nuove norme di accelerare i rinnovi appare limitata”, ha spiegato Balassone, ricordando che circa il 40% dei dipendenti privati ha già accordi in vigore oltre il 2026.

Si favoriscono i ricchi

Le cifre di cui stiamo parlando sono presto fatte. Scrive Francesco Maria Cheli che la modifica delle aliquote “coinvolgerebbe poco più di 14 milioni di contribuenti, con un beneficio annuo pari in media a circa 230 euro”. Dunque, 230 diviso i 12 mesi dell’anno fa 19,1 euro al mese. Ma a chi andranno? E qui lo sconcerto arriva forte portando con sé la domanda: ma al ministero del Tesoro sanno far di conto? Si legge nell’Audizione dell’Istat: “Oltre l’85% delle risorse sono destinate alle famiglie dei quinti più ricchi della distribuzione del reddito: sono infatti interessate dalla misura oltre il 90% delle famiglie del quinto più ricco e oltre due terzi di quelle del penultimo quinto”. E per di più, è sempre l’Istituto ad affermarlo: “Per tutte le classi di reddito il beneficio comporta una variazione inferiore all’1% sul reddito familiare”.

Sul piano redistributivo, Bankitalia rileva che la manovra fa poco per ridurre le disuguaglianze tra le famiglie: “Le misure a sostegno del reddito non comportano variazioni significative nella distribuzione del reddito disponibile”, ha sottolineato Balassone. La riduzione dell’aliquota Irpef per il secondo scaglione di reddito, ha aggiunto, “favorisce i nuclei appartenenti ai due quinti più alti della distribuzione, sebbene con un impatto percentualmente modesto”, mentre gli interventi di assistenza sociale si concentrano sui redditi più bassi, ma con effetti anch’essi “limitati”.

I conti, negativi, della sanità

La domanda che forse può essere solo sussurrata è: ma visto che la riduzione delle aliquote Irpef favorisce le famiglie più ricche non sarebbe meglio mettere quei 2,4 miliardi di minor gettito nella sanità pubblica? Ce ne sarebbe bisogno davvero visti i numeri snocciolati da Cheli. Sono oltre 41 i miliardi spesi di tasca propria dalle famiglie per consentire ai propri cari di curarsi, vista l’inefficienza della sanità pubblica. Ma a questa cifra ne va affiancata una più allarmante: nel 2024 il 9,9% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a curarsi per problemi legati alle liste di attesa, alle difficoltà economiche o alla scomodità delle strutture sanitarie: si tratta di 5,8 milioni di individui, a fronte di 4,5 milioni nell’anno precedente (7,6%). A rinunciare alle cure sono soprattutto gli anziani e le donne.

In questi numeri c’è lo svelamento delle menzogne del governo. Non è affatto vero che si è risolto il problema delle liste di attesa, visto che queste lungaggini sono tra le prima cause della rinuncia alle cure, così come non è vero che tanti soldi sono stati destinati alla sanità pubblica visto che oltre un milione di cittadini in più non si è curato mettendo così seriamente a rischio la propria salute.

Il fallimento dei bonus

In conferenza stampa Meloni non solo ha difeso la logica dei bonus ma ha affermato che aumentano gli aiuti alle famiglie perché si reitera il bonus mamme. Ma stiamo parlando di uno strumento perverso, non fosse altro perché arriva a un quarto scarso delle lavoratrici con figli alle quali arriverà un contributo di 60 euro mensili. A parte la scarsità del contributo, ma tutte le altre madri lavoratrici?

Pensioni, attenzione al meccanismo di adeguamento

Balassone ha invitato alla prudenza sul fronte pensionistico: “Sarebbe meglio non toccare troppo il meccanismo di adeguamento dei requisiti di accesso alla pensione alla speranza di vita”, ha affermato, ricordando che tale sistema è stato introdotto “per una questione di equità intergenerazionale, al fine di mantenere un equilibrio tra tempo di lavoro e pensione”. Un suo indebolimento, ha aggiunto, potrebbe comportare “un aumento della spesa in prospettiva che renderebbe più complessa la gestione della finanza pubblica”, pur riconoscendo che l’intervento previsto è “limitato nel tempo”.

Ufficio complicazione affari semplici

Più volte abbiamo denunciato come soprattutto i cittadini e le cittadine più fragili facciano davvero fatica sia a conoscere i propri diritti che a riuscire ad ottenerli. Ci sarebbe, quindi, bisogno di semplificare. Invece Meloni, Giorgetti e chi per loro “studia” le misure da inserire in manovra o si sono sbagliati o non hanno capito cosa hanno fatto. Hanno però raccontato che hanno ampliato i criteri per la definizione dell’Isee, ebbene – sempre secondo Istat – la riforma, dello strumento, che riguarda una serie di agevolazioni (dall’assegno unico al bonus nido), “il legislatore introduce una nuova tipologia di Isee che si andrebbe ad aggiungere a quelle già esistenti (Isee ordinario, Isee universitario, Isee minorenni con genitori non coniugati, Isee socio sanitario, Isee socio sanitario residenze, Isee corrente), aumentando il grado di complessità dello strumento“. Anche in questo caso, davvero un bel risultato.

Taglio dell’Irpef: 408 euro ai dirigenti, 23 agli operaiirpef

La riduzione di due punti di aliquota Irpef “riguarderà poco più del 30% dei contribuenti (circa 13 milioni, che sono oltre i 28.000 euro di reddito), determinando a regime una riduzione di gettito Irpef di circa 2,7 miliardi, cifra leggermente inferiore a quanto riportato nella Relazione tecnica”. Lo rileva la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio Lilia Cavallari in audizione sulla manovra in Parlamento. “Circa il 50% del risparmio di imposta va ai contribuenti con reddito superiore ai 48.000 euro, che rappresentano l’8% del totale”, aggiunge, precisando che “il beneficio medio è pari a 408 euro per i dirigenti, 123 per gli impiegati e 23 euro per gli operai. Per i lavoratori autonomi è di 124 euro e per i pensionati di 55 euro”.

* ) Roberta Lisi
Giornalista con interessi nel campo della comunicazione politica, economica, sociale e del lavoro. Giornalista parlamentare dal 2016 e per oltre 10 anni redattrice di RadioArticolo1. È attenta alle tematiche dell’emancipazione femminile. Ha collaborato alla stesura dell’«Agenda ottomarzo», al bimestrale «Leggendaria» e al mensile «Noi donne» e ha pubblicato Il tempo della maternità (1993). Per Donzelli ha curato, con Altero Frigerio, Lavorare è una parola (2020), Pubblico è meglio (2021). Per Strisciarossa, nel 2023 ha collaborato alla stesura di Facciamo Pace.

In copertina: diseguaglianza – immagine di unsic.it

Presto di mattina /
L’albero delle nebbie

Presto di mattina. L’albero delle nebbie

Nebbia

no, la nebbia non quella
di novembre tra i fossi
miei della Cesana
o fitta al Monte del Vescovo
sopra ceppi e cipressi,
restano punte verdi
e isole sospese
di quercelle, si perdono foglie,
s’alzano grida,
ma uno scotano rosso
la trapassa,
e t’appartiene,
t’appartiene il filare
che più non vedi

Tra piante e nebbia

sempre con voi boschi
e le memorie, contro la fuga
orrida dei giorni?
sempre alle foglie attaccato,
a questi rami di scotano
arancioni per l’autunno?
no, non nei miei campi,
in una macchia immensa
siamo entrati, Jacopo,
estranea alle memorie,
e la nebbia sale
su dal mare,
cancella il pungi topo,
il muschio verde,
grigia più del fungo
velenoso che li cresce
e pende…
ora è nera la nebbia,
nera ogni foglia,
solo una bacca rossa,
non la conosco,
magari nasce solo in questa selva
d’una luce s’accende
fioca e tenace
(Umberto Piersanti, L’albero delle nebbie, Einaudi, Torino 2008, 80; 126-127)

“No, la nebbia non è quella di novembre…”. «Di che nebbia si tratta allora? Di quella che fa nera ogni cosa, la vita; solo una bacca rossa, debole lume, tenace resiste. In questa macchia di nebbia, caligine impalpabile, sono entrati il poeta e il figlio Jacopo, segnato da grave autismo. Nebbia. È il mondo del figlio boscaglia di nera nebbia estranea alla memoria che, salendo alla coscienza, cancella ogni cosa.

Il poeta non può penetravi se non sfiorandola con le parole. Così la parola poetica che spunta appena sopra la pervasiva bruma, assomiglia allo “scotano rosso” e alle sue infruttescenze vaporose dall’effetto nebbioso, che trapassa il grigio raccogliendo in sé quello che non puoi vedere. E annota Piersanti: «L’albero delle nebbie è lo scotano: il suo acceso colore rosso-arancione nei giorni d’autunno attraversa anche la nebbia più folta» (ivi 161).

Parole inzuppate di nebbia

In agguato, ai margini delle radure, il bracconiere di parole attende che scenda la nebbia, solo allora si aggira furtivo tra i tronchi abbattuti, ramaglie in disfacimento, tra i ceppi divelti, muschi, muffe, fogliame fradicio, in decomposizione. Anche lì forse nell’assurdità del vivere possibili tracce di vita, di una segreta complicità e resistenza.

È uscita, per i tipi di Adelphi che ne ha pubblicato le opere negli anni, un’ultima raccolta inedita di scritti di Emile Cioran: Esercizi negativi, Milano 2025.

L’assurdo e il non senso della vita sono invece la nera nebbia in cui sono inzuppate le parole, il pensiero filosofico, la vita stessa del saggista e aforista rumeno Emil Cioran (1911- 1995), reso apolide dal destino e francese da vocazione letteraria. Agli inizi era vicino all’esistenzialismo; se ne distanziò gradualmente per praticare sempre più un pessimismo radicale e un nichilismo provocatorio rivolto soprattutto ad ogni forma di ideologia.

Prossimo a una filosofia dell’assurdo sostenuta dall’amico Eugène Ionesco, posizione presa per l’impossibilità di poter spiegare la realtà percepita come esclusivamente insensatezza e irrazionalità, egli scrive: «Quello che ci distingue dai nostri predecessori è la disinvoltura davanti al Mistero. L’abbiamo persino sbattezzato: così è nato l’Assurdo… Inganno dello stile: dare alle tristezze abituali una forma insolita, abbellire le piccole sventure, addobbare il vuoto, esistere mediante la parola, mediante la fraseologia del sospiro o del sarcasmo!» (Sillogismi dell’amarezza, Adephi, Milano 2001, 15).

«Giornate intere in cui devo lottare contro questa nebbia che mi scende sul cervello… Il clima del deserto è l’unico adatto alla mia natura. E non solo il clima; il deserto intero mi chiama, mi affascina, mi è necessario. Invece mi trascino nelle città; soffoco in strada, sto accanto agli umani. Io valgo solo in quanto non aderisco al mondo» (Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001, 91).

“Il sorriso grigio della nebbia”

«Nella passione del vuoto solo il sorriso grigio della nebbia anima ancora la decomposizione grandiosa e funebre del pensiero. Dove siete, nebbie crudeli e ingannatrici, se indugiate a invadere una mente offuscata? In voi vorrei distruggere la mia amarezza e nascondere un terrore più vasto del crepuscolo del vostro fluttuare! Quale Nord scende nel mio sangue!» (Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, Milano 2024, 151).

E tuttavia anche nella nebbia troviamo minimi spazi di manovra, stretti pertugi rischiarati; brevi intervalli luminescenti che ravvivano e sfumano il limite delle cose: «A un certo punto, avvolto nella bruma sul sentiero che domina la Senna, mi sono ripetuto questa frase capitale di Valéry: “Il sentimento di essere tutto e il fatto evidente di non essere nulla”, senza provare alcun brivido disperato.

Al contrario, una grande sicurezza, il sentimento di una certezza senza incrinature… 27 febbraio. Cinque ore di passeggiata nella nebbia, tra Etampes e Dourdan. La nebbia, l’unica cosa che non mi ha mai deluso, la cosa più riuscita sulla faccia della terra… 29 ottobre – Nebbia leggermente dorata, e foglie color rame, al Luxembourg. Ma in me l’autunno è ancora più avanzato… Ieri, nella foresta di Rambouillet. — Nebbia e pioggerella – è quel che ci vuole per il camminatore. La nebbia ravviva qualsiasi cosa sfumandone i contorni, soprattutto quando si insinua in una foresta. Ogni albero sembra allora una preghiera materializzata» (ivi, 1127; 1406; 346; 796).

Una nebbia fatta di nulla e di amarezza

Anche da questa nebbia fatta di nulla, nebbia di decomposizione delle forme e di ogni altra cosa o affezione, in questa nera e disperata oscurità resistono le parole oltre se stesse. Sta un resto di poetica anche se sospesa nel vuoto, segnata da ambiguità e contraddizioni, soggetta a continue metamorfosi.

In un saggio di Paolo Vanini, Cioran e l’utopia. Prospettive del grottesco, Mìmesis 10, Mimedizioni, Milano 2018 egli ha inteso mostrare come il grottesco sia una delle caratteristiche della poetica di Cioran, dove grottesco etimologicamente richiama un luogo lontano dalla luce. Il grottesco è il mondo estraniato con una struttura ambivalente, in una forma ad un tempo ridicola e terrificante:

«Cioran matura la consapevolezza che quella degli uomini è una realtà la cui fisionomia tende al deforme, all’irregolare, all’eccentrico – in una parola, al grottesco: a ciò che è bizzarro e aberrante nello stesso istante, a ciò che muove al riso pur non suscitando allegria, a una figura la cui mostruosità e il cui fascino dipendono dalla fusione di parti ed elementi tra di loro incompatibili, a una commistione demoniaca di infimo e sublime che eccede le consuetudini della bellezza, della bruttezza e della normalità» (ivi, 23).

E ancora: «Ogni volta che passeggio nella nebbia, è più facile svelarmi a me stesso. Il sole ci rende estranei a noi stessi perché, mostrando il mondo, ci lega ai suoi inganni. Ma la nebbia è il colore dell’amarezza … Vi è tanta nebbia nel cuore dell’uomo, che i raggi di un sole qualsiasi, una volta entrati, non ne escono più. E vi è tanto vuoto nei suoi sensi dissipati, che colombe folli, le ali lacerate dai venti, errano sulle vie che lo avvicinavano al mondo» (Crepuscolo dei pensieri, 23; 178).

Le parole, una tattica di resistenza

La parola tuttavia resta, per Cioran, l’unico modo per sopravvivere e addolcire l’assurdo del vivere, anche se l’afflizione non conosce riscatto: «Se per un prodigio le parole svanissero, la nostra ebetudine, la nostra angoscia diverrebbero intollerabili. L’improvviso mutismo ci ridurrebbe al supplizio più crudele. E l’uso del concetto che ci dispensa dal contatto con terrori che attraversano la vita.

Noi diciamo: la morte e questa astrazione ci impedisce di vederla, di percepirne l’infinito e l’orrore. Battezziamo le cose e gli eventi per eluderne l’Inesplicabile intrinseco e terrificante. L’attività dello spirito è così un imbroglio salutare, un sistematico gioco di prestigio. Ci permette di circolare dentro una realtà addolcita, confortante e inesatta… Ma quando si ritorna in sé e si è soli – senza la compagnia delle parole- si riscopre l’universo privo di qualificazioni, l’oggetto puro, l’evento nudo» (Esercizi negativi, 152-153).

Anche se la parola poetica non conosce speranza: «Tra la poesia e la speranza l’incompatibilità è totale. Giacché la poesia non esprime se non ciò che si è perduto o ciò che non è – nemmeno ciò che potrebbe essere. Il suo significato ultimo: l’impossibilità di ogni attualità. E in tal senso che il cuore del poeta non è nient’altro che lo spazio interiore e incontrollabile di una appassionata decomposizione. Chi mai oserebbe chiedersi come egli abbia sentito la vita, dal momento che è stata la morte a renderlo vivo?» (ivi, 129), tuttavia si afferma pure: «La vera poesia comincia al di là della poesia; e questo vale anche per la filosofia, per ogni cosa» (Sillogismi dell’Amarezza, Adelphi, Milano 2001, 15).

Vicino da lontano l’assoluto come la poesia: «Sono infinitamente più vicino alla musica e alla poesia che non alla saggezza o alla religione. Il fatto è che per me l’assoluto è questione di umore. Esige continuità, ed è proprio quello che mi manca» (Quaderni, 10101).

“Esercizi di Ammirazione”

C’è anche vita dentro le nebbie. Non solo Esercizi negativi dunque, ma Esercizi di ammirazione. È il caso proprio di una raccolta che porta questo titolo, un lavoro raffinato sulla lingua e linguaggi d’altri, ritratti di scrittori dove l’ammirazione non manca di contrasti e battibecchi molto accesi. Non è intellettualismo, quello di Cioran, ma tende all’esercizio più grande: quello di affrontare i problemi e i paradossi della realtà permeata dalle nebbie dei suoi travagli, tormenti, contraddizioni.

Il ritratto di Maria Zambrano coglie con grande lucidità la natura originaria della sua parola. Nascente dall’esperienza incandescente dell’Altro e non dal linguaggio riflessivo su di esso, «Maria Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea, ha salvaguardato la sua essenza unica mettendo l’esperienza dell’Insolubile al di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato la filosofia. È vero ai suoi occhi solo ciò che precede o segue il detto, solo il verbo strappato agli intralci dell’espressione o, come dice magnificamente, la palabra liberada del lenguaje.

Fa parte di quegli esseri che si rimpiange di incontrare troppo raramente, ma ai quali non si smette di pensare e che si vorrebbe capire o almeno intuire. Un fuoco interiore che si sottrae, un ardore che si dissimula sotto una rassegnazione ironica: in Maria Zambrano tutto sfocia in altro, tutto comporta un altrove, tutto. Se si può discutere con lei di qualsiasi cosa, si è comunque sicuri di scivolare presto o tardi verso interrogativi capitali senza seguire per forza i meandri del ragionamento» (Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, E-book, Adelphi, Milano 2014, 95).

Lei non era di qui…”

Emil Cioran con le parole “Lei non era di qui” si riferisce, pur non nominandola, a Susana Soca, (1906-1959), poetessa uruguaiana, vissuta dal 1938 al 1948 in Francia, sua ispiratrice a cui dedica un ritratto negli Esercizi di ammirazione: «L’ho incontrata due volte soltanto. È poco. Ma lo straordinario non si misura in termini di tempo. Fui conquistato di colpo dalla sua aria d’assenza e di spaesamento, dai suoi sussurri (lei non parlava), dai suoi gesti incerti, dai suoi sguardi che non aderivano agli esseri né alle cose, dal suo portamento di spettro adorabile.

“Chi è lei? Da dove viene?” era la domanda che si sarebbe voluto rivolgerle a bruciapelo. Non avrebbe potuto rispondere, a tal punto si identificava con il proprio mistero o riluttava a tradirlo. Nessuno saprà mai come faceva a respirare, per quale smarrimento cedeva ai sortilegi del fiato, né che cosa cercava fra noi. Quello che è certo è che non era di qui e condivideva la nostra caduta soltanto per educazione o per qualche curiosità morbosa.

Solo gli angeli e gli incurabili possono ispirare un sentimento analogo a quello che si provava in sua presenza. Fascinazione, sovrannaturale malessere! Nell’istante stesso in cui la vidi, mi innamorai della sua timidezza, una timidezza unica, indimenticabile, che le conferiva l’aspetto di una vestale stremata al servizio di un dio clandestino oppure di una mistica devastata dalla nostalgia o dall’abuso dell’estasi, per sempre inadatta a recuperare l’evidenza!» (ivi, 111).

Lei non era qui… Chissà perché a scorrere questo ritratto già dalla prima volta mi è venuto da associarlo all’immagine della “parola originaria” che si genera nell’esperienza, che gemina dalla trasparenza dell’intuizione; parola originaria che tuttavia si sottrae, o meglio si dissolve oscurandosi nel momento in cui diventa parola originata nel grigio della nebbia del linguaggio.

Insonnia nel vento che muove il desiderio

«Il gemito del vento nella notte è l’immagine del tempo, che, risvegliato violentemente dalla sua marcia sonnolenta, cerca di porvi fine in un’ultima furia. … E noialtri – i cui ricordi sepolti sono attizzati dalla sua vertigine – dal vento veniamo strappati a noi stessi, assieme a tutto il nostro passato» (Finestra sul nulla, Adelphi, Milano 2022, 43).

Nella sua vita Emil Cioran fu segnato e tormentato pesantemente dall’insonnia, «vertiginosa lucidità» – il «disastro per eccellenza», il «nulla senza tregua» – così egli scriveva per ingannare le notti interminabili di veglia per non uscire di senno.

Insonnia: il suo dramma è il tempo che non passa, sosta sulla soglia tra l’essere e il nulla, tra l’assoluto e l’assurdo, terra contrastata, lacerata, in ostaggio tra due contendenti: il rifiuto e l’invocazione. Così «l’insonnia ci dispensa una luce che non desideriamo, ma alla quale inconsciamente tendiamo. La reclamiamo nostro malgrado, contro di noi. Per suo tramite – e a discapito della nostra salute – cerchiamo altro, verità pericolose, nocive, tutto ciò che il sonno ci ha impedito di intravedere. Eppure quelle insonnie ci liberano dalle nostre facilità e dalle nostre finzioni solo per metterci di fronte a un orizzonte bloccato: esse illuminano le nostre impasse. Ci condannano mentre ci liberano: equivoco inseparabile dall’esperienza della notte» (ivi 101).

L’esperienza dell’insonnia: veleno e farmaco, irritazione e consolazione, stridente e dolce tra sterpi e anemoni: «Una volta che il veleno dell’insonnia ti ha depravato l’essere, niente può più accadere sotto il sole senza irritarti. Tranne, forse, un dialogo di fiori sulla morte» (Crepuscolo dei pensieri, 120).

«Solo il pensiero di Dio mi tiene ancora in piedi. Quando annienterò la mia fierezza, potrò coricarmi nella sua culla misericordiosamente profonda e addormentare le mie insonnie, con la consolazione del Suo vegliare? Al di là di Dio non ci resta altro che il desiderio di Lui. Ogni stanchezza nasconde una nostalgia di Dio» (ivi, 179).

Sotto l’albero delle nebbie

L’insonnia cantilena nel vento che alita sulla bruma sibilando e sillabando il ruminare dei pensieri: “ch’è la vita, [questa] vita che si dispera e che perdura”?

Notte d’insonnia e vento
gli anemoni lucenti
tra gli sterpi
non ora che il vento penetra
e fischia alle serrande
avvolge e schianta rami
su palazzi, torri di metallo,
è sceso dall’Atlantico schiumoso
tra le chiese di Francia,
gli ampi castelli,
ora nell’Appennino urla e s’affanna
poi geme come il male
che mi tiene – mi duole il petto
e il piede – qui aggrappato,
strette le mani contro la spalliera

distante, quanto
quasi non rammenti
la banderuola che stride
sul torrione un altro volto
chiama, altra vicenda
chiude, la dispone
tra Mondavio e quei monti
giù al confine
e tra il vento ripeti
ch’è la vita,
vita che si dispera
e che perdura
(Umberto Piersanti, Nel tempo che precede, Einaudi, Torino 202, 117-118)

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MELONI-MACRON: IL NUOVO ASSE DEL PROIBIZIONISMO

Meloni e Macron, spesso litigiosi, inaugurano una “santa alleanza” neoproibizionista e si mettono alla guida del rilancio della war on drugs. Mentre nel mondo la società civile è impegnata a riformare l’approccio repressivo, fallimentare da ogni punto di vista.
L’articolo di Leonardo Fiorentini su l’Unità del 24 ottobre 2025.

Macron e Meloni hanno bisticciato fino all’altro ieri, almeno fino al bacio di giugno che ha teatralmente normalizzato i rapporti fra Italia e Francia. Ora cercano un terreno comune per dare l’abbrivio utile al riavvicinamento: cosa c’è di meglio della lotta alla droga per farlo?
Del resto, fin dal secolo scorso la lotta contro il “problema globale delle droghe” è diventata il terreno ideale per superare le divisioni fra gli Stati. Dimostrarsi inflessibili contro il demone della droga è riuscito a unire per decenni USA, URSS, Cuba, Cina e Iran. Certo, oggi – nel pieno della dottrina Trump – i rapporti sono molto più fluidi, oltre che tesi, ma le droghe restano un jolly sempre utile da pescare.
Così, a margine del vertice della Comunità politica europea (EPC) a Copenaghen, che ha approvato un documento sulle droghe ricco di parole d’ordine tanto solenni quanto invecchiate male, Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno lanciato congiuntamente la nuova Coalizione europea contro la droga. Se i leader europei si impegnano a “salvaguardare l’integrità delle nostre società”, il presidente francese e la premier italiana si mettono alla guida della riscossa della war on drugs. Cosa che farà felice il sottosegretario Mantovano, che ritrova una sponda internazionale dopo essere appena uscito – improvvisamente – dal gruppo Pompidou sulle droghe del Consiglio d’Europa, forse troppo incline a tener conto delle evidenze sull’efficacia della riduzione del danno.Nello scarno comunicato di Palazzo Chigi – agli uffici stampa basta evocare il demone per far serata – si sottolinea l’importanza della piena attuazione del principio follow the money. L’azione di repressione dell’offerta dimostra del resto ogni giorno la propria inefficacia.
A guardare i dati diffusi in questi giorni dalla Direzione centrale dei servizi antidroga, si comprende bene come i sequestri di sostanze siano assolutamente incapaci di incidere sul mercato illegale. Basta un sequestro “record” per far impennare le quantità, che crollano inesorabilmente l’anno successivo. Succede un po’ per tutte le sostanze, ma quest’anno è lampante per la cocaina (–44% di quantità sequestrata a fronte di un aumento del 10% delle operazioni) e per le droghe sintetiche (+419% di dosi sequestrate a fronte di “sole” 379 operazioni, +12%).
L’unico reale dato di novità che emerge dalla relazione è il trend del crack, i cui sequestri sono quasi quadruplicati dopo il Covid, mentre gli arresti sono decuplicati dal 2019.
Eppure di crack il governo non parla, impegnato com’è nella sua crociata contro la canapa o nell’evocare lo spettro del fentanyl. Quando ne parla, lo fa strumentalmente e male, come successo per le pipette distribuite a Bologna, al limite invocando qualche inutile zona rossa e lasciando la patata bollente ai sindaci (soprattutto a quelli di centrosinistra), che devono gestire gli effetti di spaccio e consumo nei quartieri.Follow the money diventa così l’asso di briscola: se non si riesce ad impedire il mercato, tanto vale cercare di individuare e intercettare i proventi del narcotraffico. Peccato che anche lì le cose non vadano storicamente benissimo. Se si stima, benevolmente, che i sequestri di narcotici rappresentino il 5-10% della quantità immessa sul mercato, per quanto riguarda il recupero del denaro riciclato questa percentuale scende sotto l’1%.Ma in fondo che importa che funzioni o meno? L’importante è costruire l’unità contro il male e poter raccontare di una nuova “Santa Alleanza” dei “puri” contro i “peccatori”. Una linea di restaurazione che vede gli Stati Uniti di Trump in pole position, nel tentativo di riportare il mondo sulla retta via della sacralità e ineluttabilità della war on drugs.Questa però fa ormai acqua da tutte le parti, tanto che perfino il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) ha pubblicato un rapporto che intreccia per la prima volta in maniera organica politiche sulle droghe e Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (SDG).
Il report sottolinea come i mercati illegali, dominati dal crimine organizzato, ostacolino sviluppo, sicurezza e democrazia, mentre la criminalizzazione alimenta stigmatizzazione e barriere nell’accesso ai servizi sanitari. Allo stesso tempo, le comunità più marginalizzate – dai piccoli produttori rurali ai consumatori – pagano il prezzo più alto.
Anche l’UNDP invita a un cambio di paradigma: integrare le politiche sulle droghe nelle strategie di sviluppo sostenibile, valorizzare approcci equi e sensibili al genere, promuovere mercati legali regolamentati che garantiscano democrazia, giustizia sociale, tutela ambientale e rispetto dei diritti umani.Non è quindi un caso che, replicando quanto fatto a marzo nella sessione plenaria della Commissione droghe dell’ONU (CND), gli USA abbiano ribadito – intervenendo recentemente a una riunione a Vienna – che “gli SDG sono irrilevanti quando si tratta di impedire ai criminali di diffondere veleno nelle nostre comunità.” Il tentativo è quello di far tornare “la CND al suo mandato principale e smettere di sprecare tempo e risorse su questioni politiche controverse”, concentrandosi invece “sull’interruzione dell’approvvigionamento di droga e sulla sicurezza delle nostre comunità”.Proprio lo scorso marzo la CND aveva deciso di porre sotto revisione l’intero sistema di controllo sulle droghe (vedi l’Unità, 29 marzo 2025). E in questi giorni, a Ginevra, il 48° Expert Committee on Drug Dependence (ECDD) dell’OMS rilascerà il rapporto sulla revisione critica della foglia di coca.Si tratta di un processo richiesto dalla Bolivia con il sostegno della Colombia per salvaguardare l’uso tradizionale indigeno, che potrebbe rivelarsi epocale. La bozza del documento conclude che «la ricerca non ha rivelato evidenze di danni clinicamente significativi per la salute pubblica associati all’uso della foglia di coca». Non solo: ricorda che «la letteratura scientifica contemporanea resta coerente con il rapporto OMS-UNICRI del 1995», già allora favorevole a una distinzione netta tra foglia di coca e cocaina e rimasto in un cassetto per pressioni politiche.

Per la prima volta da decenni, un organismo tecnico delle Nazioni Unite riconosce ufficialmente che la criminalizzazione della foglia di coca non ha basi sanitarie. La coca viene descritta come una pianta complessa e benefica, ricca di alcaloidi, flavonoidi e fenoli, con effetti stimolanti lievi, antinfiammatori e antiossidanti, e con un uso tradizionale che da secoli sostiene il lavoro, la salute e la cultura delle popolazioni andine. Non ci sono prove di dipendenza significativa né casi documentati di overdose fatale. E, soprattutto, il Comitato evidenzia che «la documentazione scientifica dimostra in modo robusto i danni sostanziali per la salute pubblica associati alle strategie di controllo della coca, a tutte le scale».
Dietro questa frase ci sono le fumigazioni al glifosato in Colombia, le persecuzioni ai coltivatori indigeni, le esposizioni tossiche, gli aborti spontanei e le malattie respiratorie e cutanee studiate e collegate direttamente alle politiche di eradicazione.

La revisione scientifica, se raccolta dall’OMS in forma di raccomandazione come fu per la cannabis nel 2020, aprirebbe la strada alla richiesta formale di rimozione della foglia di coca dalla Tabella I della Convenzione ONU del 1961, dove è tuttora equiparata a eroina e cocaina pura. Per i popoli andini, e per chi da anni denuncia l’assurdità del bando globale, questo rapporto rappresenta una rivincita storica della scienza contro il proibizionismo neocolonialista.

Non bastassero UNDP e OMS a guastare i piani di restaurazione, ci si mette anche il Consiglio dei diritti umani dell’ONU (HRC), che la scorsa settimana ha riaffermato che la politica sulle droghe deve essere pienamente allineata agli strumenti internazionali sui diritti umani.
Il Consiglio ha approvato, respingendo a larga maggioranza tutti gli emendamenti peggiorativi presentati dalla Russia, una risoluzione presentata dalla Colombia e sostenuta da 35 Paesi che conferma e amplia quanto già affermato nel 2023 (quando anche l’Italia fu fra i firmatari). Il testo riconosce formalmente il ruolo del sistema ONU per i diritti umani – dal Consiglio (HRC) all’Alto Commissariato (OHCHR) – come interlocutore a pieno titolo nella politica globale sulle droghe, tradizionalmente dominio degli organismi di Vienna (CND e UNODC). Per la prima volta, l’HRC si impegna a “rimanere investito della questione” e invita i propri meccanismi a condividere contributi e raccomandazioni con la Commissione sugli stupefacenti. Oltre a questo, consolida e amplia il riferimento alla riduzione del danno, l’impegno contro la discriminazione razziale e a tutela dei popoli indigeni. Infine, l’OHCHR riceve il mandato di redigere un nuovo rapporto sulle implicazioni delle politiche sulle droghe per i diritti di donne e ragazze.

A guardare quel che succede fra New York, Ginevra e Vienna ci sarebbe solo da gioire per la società civile internazionale impegnata nella riforma. Purtroppo, avviene nel momento di più bassa autorevolezza degli strumenti del multilateralismo ONU, messi a dura prova dal bullismo diplomatico e dalle azioni criminali che mettono in discussione l’esistenza stessa del diritto internazionale.

Un esempio – che passa in secondo piano rispetto a quanto accade altrove, a partire dalla Palestina – sono gli attacchi militari “antinarcotici” voluti da Trump contro le imbarcazioni di presunti trafficanti venezuelani nel Mar dei Caraibi: vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, rappresentazione plastica dell’impunita violazione delle più elementari norme del diritto internazionale. E forse anche del “nuovo ordine mondiale” che qualcuno vorrebbe imporre.

Tornando in Europa preoccupa il dibattito all’interno dell’Unione, che da alcuni anni ha riportato al centro la repressione, marginalizzando anche nei canali di finanziamento la progettualità legata alla ricerca e alla riduzione del danno. Da questo approccio neoproibizionista, certamente influenzato dalla presa di potere delle destre sovraniste, pare viziata anche la nuova strategia europea sulle droghe, su cui la commissione ha iniziato le consultazioni.

In un mondo che chiede riforme, l’Europa tentenna e lascia spazio alla restaurazione che trova nuovi alfieri a Parigi e a Roma. Ma fuori dai palazzi, la società civile non si arrende: è lì, tra chi combatte lo stigma, cura, riduce i danni e costruisce alternative, che si intravede la direzione giusta. Quella che in Italia porta alla contro-conferenza sulle droghe, il 6-7-8 novembre alla Città dell’Altra Economia a Roma.

In copertina: Meloni e Macron, immagine su licenza Wikimedia Commons