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Parole e figure / Arrivano i Mumin! E Vida sia. Strenne Natalizie

Si avvicina il Natale, tempo di consigli illustrati. Escono in libreria, con Iperborea, “Vida e la missione di Re Inverno”, di Bjarne Reuter e “Arriva il Natale nella Valle dei Mumin”, di Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund

In Vida e la missione di Re Inverno, la poesia e lo humour del danese Bjarne Reuter incontrano la magia dell’inverno nordico in questo romanzo illustrato che ha per protagonisti una bambina e un folletto. Un “libro dell’avvento” in 24 capitoli che si possono leggere uno al giorno fino alla vigilia di Natale.

Per un’improvvisa bufera di neve, Vida e il fratello Karl rimangono bloccati a casa del nonno, che vive in un paesino sperduto nella natura con il gatto Mosè, il pappagallo Paolo e il cavallo Salomone von Olsen. Il nonno è una fonte inesauribile di storie, come quella del suo eroico viaggio per mare da Capo Buongiorno a Capo Buonanotte, ma nel bosco innevato vicino alla sua casa Vida incontra un vero folletto! O meglio, sarà un vero folletto solo quando avrà superato la prova a lui assegnata da Re Inverno, che consiste nel trovare entro il giorno di Natale «uno stivale di chiardiluna, un gilet di ragnatela, un dente caduto con un brivido e una goccia di crepuscolo». Comincia così l’impresa segreta di Vida per aiutare il folletto nella sua bizzarra e poetica missione, tra sorprese, meraviglie e trovate spassose, in un emozionante conto alla rovescia fino al 25 dicembre, nella speciale magia dell’inverno nordico.

Bjarne Reuter, Vida e la missione di Re Inverno, Illustrazioni di Anna Forlati, Iperborea, Milano, 2025, 160 p.

Bjarne Reuter, scrittore e sceneggiatore, è uno dei più noti e amati autori danesi per l’infanzia e l’adolescenza. Le sue opere, spesso adattate per il cinema, sono state tradotte in più di venti lingue e hanno ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi, come il Premio del Ministero della Cultura Danese, il Premio dei Librai Danesi, il Premio Søren Gyldendal e il Deutscher Jugendliteraturpreis. Iperborea ha pubblicato Hodder e la fata di poche parole, vincitore del Premio Andersen 2023 nella categoria 9-12 anni, e Elise e il cane di seconda mano, finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2021.

La famiglia dei Mumin è risvegliata dal letargo invernale per affrontare un’entità sconosciuta e forse pericolosa: il Natale.

I Mumin sono una famiglia di troll speciali, simili a buffi e teneri ippopotami, che abitano in una casa a forma di stufa di maiolica. Curiosi, eccentrici, comici e poetici, vivono continue avventure insieme ai loro tanti amici, a metà tra le fattezze umane e quelle degli animali più strani. In questa avventura è inverno, la stagione del lungo letargo dei Mumin. A interromperlo sono le grida allarmate dell’Emulo: “Il Natale sta arrivando e voi ve ne state qui a dormire!” Il Natale? Che cos’è? Sarà pericoloso! Tra manicaretti da cucinare, regali da preparare e abeti da addobbare, nella valle c’è un gran fermento che i Mumin non riescono a capire. E molto spesso quello che non si capisce fa paura…

Da un classico di Tove Jansson, una storia che parla di amicizia, comunità, famiglia, calore e gentilezza. E, ovviamente, di Natale.

Per sapere (o ricordare) qualcosa di più dei Mumin ne abbiamo già scritto…

Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund, Arriva il Natale nella Valle dei Mumin, Iperborea, Collana I Miniborei, Milano, 2025, 40 p.

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Nella Giornata nazionale contro la violenza sulle donne, vale la pena tentare un discorso che non si lasci catturare dalle semplificazioni che dominano lo spazio pubblico. Da anni assistiamo a una narrazione che individua nel patriarcato, nel maschilismo tossico, nei “narcisisti patologici” e nell’uomo che uccide la donna indifesa, l’unico schema possibile.
È un racconto rassicurante perché offre una spiegazione univoca: da una parte il carnefice, dall’altra la vittima. Ma questa narrazione è riduttiva, non regge alla prova della clinica e, soprattutto, non permette una vera prevenzione.

Dire che “la violenza è maschile” semplifica ciò che, invece, è profondamente complesso.
Quando parliamo di uomini incapaci di tollerare la separazione dall’Altro, non stiamo parlando di un’essenza maschile né di un destino culturale immutabile. Stiamo parlando di soggetti – singolari, mai intercambiabili – la cui struttura psichica rimanda al loro rapporto con l’Altro primario, con la mancanza, con il limite simbolico. Ma sottolineare questo non significa spostare l’intero peso della responsabilità sulla figura materna o su una donna reale: vorrebbe dire, ancora una volta, semplificare.

Il punto, infatti, non è individuare un colpevole unico – il maschile, il materno, l’educazione, la cultura – ma riconoscere che il fenomeno è strutturale, multilivello, e riguarda il modo in cui ciascun soggetto accede alla separazione, alla mancanza, al desiderio dell’Altro.

Per questo la narrazione dominante finisce per occultare la complessità:

– crea un maschile “da aggiustare”;

– produce un femminile “da proteggere”;

– e ignora completamente la singolarità del legame, dell’incastro, della scelta.

La realtà clinica e sociale, invece, ci mostra altro.

Anche i fenomeni di violenza agita da donne sono in aumento, così come i fenomeni di bullismo al femminile. Parliamo di ragazze che esercitano violenza su altre ragazze, o su altri soggetti, senza che ciò trovi posto nella narrazione che vorrebbe il femminile come luogo esclusivo della cura e il maschile come luogo esclusivo della distruttività. È un dato che conferma una verità fondamentale: la violenza non ha genere.

E anche il caso della pagina Facebook “Mia moglie”, dove un grande gruppo di uomini derideva le proprie compagne, lo dimostra ulteriormente: l’amministratrice della pagina era una donna. Non perché “le donne siano peggiori”, ma perché il godimento che spinge verso l’umiliazione dell’altro non appartiene a un sesso. È umano. È strutturale. È trasversale.

Allo stesso modo, il versante femminile delle vittime non può essere compreso attraverso la retorica dell’innocenza passiva.
La domanda clinicamente pertinente è: perché alcune donne restano incastrate in relazioni invischianti, mentre altre no?

Ma da questa prima domanda ne derivano inevitabilmente molte altre, altrettanto cruciali:

– Che cosa cercano, esattamente, in quei legami così stretti da diventare soffocanti?

– Quale tipo di mancanza tenta di colmare quella relazione che appare, dall’esterno, distruttiva?

– Quale immagine di amore portano con sé e da dove viene?

– Che cosa fa sì che riconoscano come “amore” qualcosa che invece le inghiotte?

– Che cosa impedisce loro di separarsi quando il legame diventa evidentemente a rischio?

– Quale fantasma incontra il fantasma dell’altro, producendo l’incastro?

Fragilità antiche – difficoltà nel tollerare la solitudine, confini interni labili, un bisogno di conferma che precede l’incontro amoroso – possono rendere più facile confondere la fusione con l’amore, più difficile leggere i segnali dell’invasione, più complicato dire “no” senza sentirsi crollare.

Quando queste fragilità incontrano uomini che, a loro volta, non tollerano la separazione, nasce l’incastro: due soggetti che si agganciano nello stesso punto cieco, ciascuno impedito – per ragioni diverse – a sostenere il movimento della distanza.

Ed è proprio qui che si gioca il tema della prevenzione.

La prevenzione non consiste nel rieducare un genere, né nel cercare un colpevole unico. La prevenzione consiste nel non creare vittime:

– dare alle ragazze strumenti per costruire confini interni solidi;

sostenerle nella possibilità di stare nella solitudine senza viverla come abbandono;

aiutarle a leggere i segnali del legame;

permettere loro di riconoscere la differenza tra amore e annullamento;

metterle nella posizione simbolica di poter scegliere, prima di essere catturate.

E, allo stesso tempo, la prevenzione consiste nel permettere ai ragazzi di accedere alla separazione senza viverla come annientamento, di fare esperienza della mancanza senza percepirla come rovina, di tollerare l’Altro che se ne va senza doverlo annientare.

Non tutte restano prigioniere.

Non tutte diventano vittime.

E non tutti gli uomini diventano carnefici.

Per affrontare davvero la violenza, dobbiamo accettare che essa non ha genere. Ha una struttura, una storia soggettiva, un nodo specifico nel rapporto con l’Altro.

È nella complessità, non nella semplificazione, che possiamo finalmente ritrovare la possibilità di scegliere.

Per leggere gli altri articoli di Chiara Baratelli, clicca sul nome dell’autrice

Finanziaria 2026: come funziona (male) la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35% al 33%

Finanziaria 2026: come funziona (male) la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35% al 33%

Il Governo ha destinato 2,6 miliardi alla riduzione delle imposte volendo favorire il ceto medio, cioè coloro che dichiarano tra 28mila e 50mila euro, dopo aver destinato l’anno precedente alcuni miliardi alla riduzione delle imposte per coloro che dichiarano meno di 28mila euro. E’ una buona idea ma non si capisce perché non abbia concentrato le poche risorse solo sulla classe 28-50mila a cui sono andati in realtà non tutti i 2,6 miliardi ma solo la metà (1,3). Infatti una parte andrà a favore di chi dichiara tra 50mila e 75 mila e altrettanto tra chi dichiara tra 75mila e 200mila.
Oltre non ci sono benefici fiscali. Con la scusa di favorire il ceto medio, si è favorito anche chi ha redditi da lavoro tra 50mila e 200mila che sono persone abbienti.

Effetti della riduzione da 35 a 33% dell’aliquota Irpef in milioni di euro

Fonte: Agenzia delle Entrate

Com’è noto la propensione al consumo cresce col diminuire del reddito, per cui una manovra di questo tipo ha un impatto modesto sulla crescita e dà pochissimo a salari che sono stati falcidiati dal fiscal drag.
Con la crescita dell’inflazione infatti il passaggio da uno scaglione all’altro aumenta la tassazione per tutti e in rete ci sono ampi studi di quanto hanno perso tutte le fasce dei contribuenti dipendenti dal lavoro.

L’Upb (Ufficio Parlamentare di bilancio) ha messo in luce che anche chi guadagna oltre 200mila euro avrà comunque un beneficio medio di 379 euro, quando gli operai che superano di poco i 28mila euro avranno solo 23 euro all’anno in meno di imposte (ma teorici, perché, col fiscal drag, ne perdono molti di più).

Una vera riforma sarebbe portare la tassa di successione al livello di quello che si fa in Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, in modo da tassare non al 4% oltre un milione di euro di eredità, ma molto di più e in modo progressivo per incassare da chi riceve molti milioni o miliardi. In questo modo l’Italia incasserebbe circa 10 miliardi all’anno rispetto a un miliardo di oggi.

Avrebbe così più risorse per finanziare scuola e sanità e anche procedere ad ulteriori riduzioni per chi guadagna fino a 28mila euro all’anno, visto che i salari sono inferiori a quelli di 30 anni fa.

Cover: immagine di Fisco7

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Migrare nel tempo: il Sud che ci accompagna nel futuro

Migrare nel tempo: il Sud che ci accompagna nel futuro

La migrazione come tensione temporale: qualche riflessione su  “Meridionali si diventa” di Sandro Abruzzese

La vita è un viaggio e bisogna avere il coraggio
di andare oltre i confini
.”
[S. Abruzzese]

La migrazione è spesso raccontata come una questione che riguarda lo spazio: persone che si muovono da un luogo all’altro, spinte da guerre, crisi economiche, cambiamenti climatici. Ma forse, più profondamente, migrare è una questione di tempo. È il desiderio innato dell’essere umano di spostarsi verso il futuro, di dilatare il proprio tempo vitale, quello della propria famiglia, della propria comunità, del proprio paese.

In Meridionali si diventa. Scritti 2015-2025 (Rogas Edizioni, 2025), Sandro Abruzzese ci offre una narrazione che va oltre la geografia. Il Sud, in questo libro, non è solo un luogo fisico, ma una condizione esistenziale, una traiettoria di trasformazione. Il viaggio non è solo quello che porta, ad esempio, dal Meridione al Settentrione, ma quello che attraversa il tempo, la memoria, l’identità.

Il luogo dell’identità, il primo ordine del mondo, è stato, per me, il microcosmo del paese. […] Tutto, a dispetto del tempo, ovunque vada, ancora riesce sorprendentemente a partire e ritornare in quella valle.”

Questa frase sembra riassumere bene il messaggio carsico del libro: il paese d’origine non è abbandonato, ma portato con sé, come una lente attraverso cui guardare il mondo. Il migrante non fugge ma si allontana per….osservare “da vicino” e, nel farlo, trasforma se stesso e il luogo da cui proviene.

La migrazione temporale diventa così un’osservazione scientifica, uno studio “matto e disperato” sulla wilderness (NdA: uso questa parola nell’accezione di Gary Snyder cosicché  la “wilderness” è uno spazio fisico non solo esterno, ma è anche una dimensione interiore che consente un rapporto più autentico con la propria natura  e quella del natio borgo selvaggio)

Abruzzese partendo dalla sua esperienza di insegnante “emigrato” al Nord pare riflettere sulla questione meridionale come fenomeno che non si esaurisce nella sua dimensione geografica ma si prolunga nel tempo come condizione identitaria. L’autore di Casa per casa sembra cioè condividere la stessa idea di  Lucio Mastronardi che, nella sua trilogia dei “meridionali di Vigevano”, rappresenta il migrante come colui che non cambia soltanto luogo ma che entra in una nuova temporalità.

Ricordiamo che fu lo stesso Italo Calvino a definire il capitolo di meridionali al telefono di Mastronardi come la parte più bella del libro in quanto a suo dire mostrava “la temporalità sospesa del migrante con il telefono” che diventava a tutti gli effetti un ponte tra due tempi piuttosto che tra due luoghi (NdA: qui si potrebbe aprire una aggiornata riflessione sull’epopea del famoso ponte sullo stretto quale agognato paradiso dei “migranti”).

Se la trilogia di Vigevano metteva in scena un’ Italia divisa nel tempo dove il Sud arcaico e il Nord industriale convivevano nel corpo del migrante, gli scritti di Abruzzese confermano e smontano la retorica del trasferimento risolutivo: la migrazione è una condizione cronica dell’ individuo che si rinnova ad ogni generazione, liberandosi un po’ alla volta di antichi e stantii stereotipi.

Al Meridione oggi dobbiamo guardare liberandoci dal paradigma dell’arretratezza, come a uno dei termometri della nazione e dell’Europa.”

In questa prospettiva, anche il benemerito progetto Erasmus può essere letto come questa nuova forma di migrazione. Non una fuga, ma una dilatazione del tempo verso il futuro. I giovani che si spostano da Grottaminarda a Stoccolma, da Ferrara a Lisbona, non cercano solo un’esperienza formativa: cercano una casa nel futuro, un’Europa senza confini, dove l’identità si costruisce nella relazione.

Erasmus è l’emblema della migrazione che non cancella l’origine, ma la integra in un orizzonte più ampio. Questo tensione temporale del viaggio è una forma di restanza in movimento, per usare il termine caro a Vito Teti e ripreso da Abruzzese. Restare, in questo senso, significa camminare nei margini, viaggiare negli spazi invisibili, costruire ponti tra ciò che si è e ciò che si diventa. Restare  vuol dire, in questo senso, spingersi ai margini.

Per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine.”

Per questo Abruzzese ci invita a guardare al Sud non come periferia, ma come termometro dell’Europa. Il Sud è il luogo dove si avvertono prima le crisi, ma anche dove si possono immaginare le soluzioni. È il luogo della memoria, ma anche della profezia.

In conclusione: migrare è… diventare. Migrare è, cioè, un processo ontologico, poetico, politico. È il gesto di chi ha fiducia nel tempo, nella possibilità di costruire un mondo nuovo. In questo senso, Abruzzese ci offre non solo una testimonianza, ma una visione: quella di un Sud che non si lamenta, ma si trasforma, che non si chiude, ma si apre, che non si perde, ma si ritrova nel futuro.

Meridionali si diventa in rapporto alla nascita della civiltà tecnologico-industriale.”

E forse, europei si diventa proprio così, come hanno fatto da sempre i meridionali: migrando nel tempo, costruendo ponti, dilatando il presente verso un futuro dove ogni luogo può essere una casa decisamente più estesa, nello spazio e nel tempo, di un natio borgo selvaggio.

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Nient’altro che fiori

“Una volta c’era un centro commerciale, adesso è tutto coperto di fiori. Se questo è il paradiso, vorrei avere un tagliaerba”

Talking Heads, Flowers (1988)

 

Nient’altro che fiori

La vicenda della famiglia anglo-australiana composta da Catherine Birmingham, Nathan Trevallion e dai loro tre figli, che dopo un tratto di vita “normale” ha scelto di vivere in una casetta nel bosco vicino a Chieti, senza luce acqua e gas, senza scuola, senza “civiltà tossica”, mi ha evocato la canzone dei Talking Heads “Nothing but flowers“(qui). Il testo parla di una coppia di moderni Adamo ed Eva che vive in uno stato di natura che ha riconquistato i suoi spazi a danno di ipermercati, pizzerie, autostrade, parcheggi, completamente soppiantate da campi fioriti, alberi e uccellini cinguettanti. Niente cinema, centri commerciali, negozi, aeroporti, stazioni. Niente più civiltà. Solo fiori, fiumi, natura incontaminata. Un incubo bucolico. Un sardonico David Byrne conclude il pezzo, che si sviluppa su una stravagante aria musicale afro-latina con echi hawaiani, cantando uno sconsolato “usavamo il microonde, adesso mangiamo noci e frutti di bosco; qui c’era un discount, ora è diventato un campo di pannocchie; non mollarmi qui, non posso abituarmi a questo stile di vita”.

Ma non voglio ridere della famiglia Trevallion. Un tribunale italiano gli ha appena sottratto i tre figli minori, affidandoli ad una casa protetta. Se non ci fosse stata una malandrina intossicazione da funghi raccolti nel bosco a mandare all’ospedale tutti, probabilmente li avrebbero lasciati stare. Probabilmente li avrebbero lasciati stare, fino a che il tetto di casa non fosse crollato sotto il peso di una nevicata eccezionale, o per una scossa di terremoto; oppure fino a che qualche ficcanaso non avesse segnalato alle forze dell’ordine di andare a controllare quella gente strana. Quindi no, non li avrebbero lasciati stare. Non li avrebbero lasciati stare anzitutto perché non minacciavano, non avevano armi, non spaventavano. Se fossero stati soggetti prepotenti, dagli atteggiamenti intimidatori, avrebbero vissuto giorni più tranquilli. Purtroppo la cronaca facilita le generalizzazioni: non possiamo incolpare il tribunale dei minori de L’Aquila della morte del bambino di nove anni a Muggia, Trieste, per mano della madre, cui un altro giudice lo aveva appena riaffidato. Resta in entrambi i casi uno sgradevole sapore di burocrazia, che qualche volta conduce alla tragedia.

Il giudice invoca problemi di stabilità e igienico sanitari dell’abitazione. Chissà se in giro per l’Italia ci sono famiglie cui hanno sottratto i figli perché il tetto non regge, o potrebbe non reggere, una brutta nevicata, o per assenza di adeguati presidi antisismici. O perché si lavano tutti con l’acqua attinta da un pozzo e si scaldano con una stufa a legna, come facevano cinque famiglie su dieci, ottant’anni fa. Se la logica fosse questa, temo che il trenta per cento delle famiglie italiane sarebbe orfano di prole.

La ragione preminente però, quella che ha indotto il Tribunale dei minori a sottrarre i tre figli dalla dimensione familiare, pare sia il danno alla vita di relazione derivante da uno stile di vita che potrebbe essere «produttivo di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore». Di sicuro, non è uno stile ordinario: i ragazzini non vanno a scuola, e la loro istruzione è affidata ai genitori affiancati da un insegnante privato.

Come sempre accade in questi casi che diventano pubblici, migliaia di sociologi e psicologi della domenica sputano le loro sentenze. Non ho la minima intenzione di aggiungere la mia, né contro i genitori né contro i giudici. Confido che il provvedimento – che spero assolutamente temporaneo – di allontanamento dei figli dalla “casa nel bosco” convinca questa coppia che le scelte radicali vanno rispettate, ma possono essere anche meno intransigenti. Il fanatismo rende cattive le buone cause, così come le ideologie, così come le religioni.

Dopodiché: battezzare i figli, fargli fare il catechismo, la comunione, la cresima per forza, (così come dare loro una educazione coranica da quando sono in fasce), mettergli in mano uno smartphone all’età di quattro anni, nutrirli a merendine e cocacola e portarli in passeggino in mezzo a strade inquinate dall’ossido di azoto – come succede a otto bimbi su dieci nella nostra way of life, per tacere di quelle famiglie dove succede di peggio – può essere considerato più nocivo del fatto di passare l’infanzia dentro un bosco. Ma anche cooptare i propri figli di sei e otto anni dentro una dimensione di integralismo anticonformista, antimodernista, antitecnologico e socioselettivo, non è detto che sia un bene. Diventare anticonformisti o anticonvenzionali è il frutto di un processo che non può che trarre origine dal conformismo del proprio ambiente, rispetto al quale maturare progressivamente una posizione critica. Non si può diventare individui anticonvenzionali per imposizione, senza frequentare, almeno in parte, le convenzioni sociali, culturali, religiose del proprio tempo e luogo. Altrimenti il rischio è quello di diventare i conformisti dell’anticonformismo.

I Trevallion forse un giorno sorrideranno di questa situazione, e spero apprenderanno, come dovremmo fare tutti, che le migliori intenzioni possono fare molti danni se diventano dogmi; che avere un bagno in casa può essere un progresso, anziché una resa alla civiltà tossica; che rischiare di trasformare i propri figli in hikikomori ecologici non è la soluzione contro un mondo inquinato e malvagio. Lo stesso sforzo di equilibrio lo facciano i giudici e gli assistenti sociali chiamati a indirizzare la vita dei minori: professionisti dei quali spesso apprezziamo lo zelo burocratico, molto meno la capacità di mettere realmente al centro il bene dei bambini.

 

Cover image goodfon.com

Pizzeria Vecchia Spal
(un racconto)

Pizzeria Vecchia Spal

Del suo funerale l’ho saputo soltanto il giorno dopo.

Zenone non lo vedevo da un paio di mesi. Ogni settimana andavo alla sua pizzeria di via Concia a mangiare la mia solita bufalina, ma a servire trovavo sempre e soltanto Adelmo, suo nipote.

Colpa mia, non ci ho proprio pensato che non si facesse vedere in giro per problemi di salute. A suo nipote non m’è nemmeno venuto in mente di chiedergli come stesse il nonno, perché non avrei mai immaginato che quella vecchia stanga potesse ammalarsi. È che ogni tanto aveva le sue paturnie e stava senza farsi vedere per qualche settimana. Poi, una sera lo ritrovavi tra i tavoli che raccontava a questo e quello le sue storielle, come sempre.

Certo, aveva superato gli ottanta ormai, ma era un pezzo d’uomo d’un metro e novanta per oltre un quintale. Per noi era sempre stato una roccia. Zenone e la sua pizzeria c’erano da sempre, almeno da quando ho memoria. E tutti noi del circolo biancazzurro li immaginavamo  entrambi indistruttibili ed eterni. Lui era il nonno di tutti e il suo locale era caldo e accogliente come una seconda casa.

Pochi giorni dopo aver appreso della sua morte ho saputo che a settembre aveva fatto una polmonite dalla quale era guarito ma che l’aveva indebolito molto. Per scongiurare una ricaduta gli avevano detto d’uscire il meno possibile e soprattutto d’evitare i luoghi affollati. Era per questo che in pizzeria non si vedeva più.

Alla fine m’han detto che la causa della morte è stato un attacco di cuore nel sonno. Secondo i suoi famigliari la sera prima andò a letto presto perché si sentiva più stanco del solito. Quando la mattina entrarono in camera sua per svegliarlo, sembrava che dormisse profondamente ma s’accorsero che era freddo e non respirava più.

Visto la fine che fanno i vecchi malati negli ospedali, dopotutto credo si sia scelto il modo migliore per andarsene da sto mondo.

Ricordo ancora le tante volte che si sedeva al nostro tavolo e ci raccontava di quando giocava nella Spal. Gli piaceva soprattutto ricordare quel giorno che aveva conosciuto Paolo Mazza in persona venuto a far visita alla squadra giovanile. Il presidente gli aveva stretto la mano complimentandosi perché – diceva – l’allenatore puntava molto su di lui. E prima d’andarsene, il commendatore l’aveva salutato con l’augurio di vederlo presto in prima squadra.

Lo raccontava con gli occhi lucidi, si commuoveva sempre quando parlava della sua parentesi da calciatore. Ed era vero che era una promessa, almeno finché non ebbe quell’incidente.

Lui che tornava sempre a casa dagli allenamenti con la bici, che piovesse o nevicasse, col gelo d’inverno e l’afa d’estate. Però il giorno dell’incidente la colpa fu tutta della nebbia, la maledetta, che in quello strano inizio giugno aveva ingabbiato Ferrara e provincia dentro una cortina grigia da non veder niente da qui a lì. Della botta tremenda ricordava ben poco, soltanto che pedalava sullo stradone di ghiaia per Boara dove abitava coi suoi, che sentì un urto fortissimo che lo fece volare giù nel canale alla sua destra, poi il buio totale. E meno male che l’autista del camioncino che l’aveva investito si fermò a prestargli soccorso, sennò sarebbe rimasto tramortito in acqua col rischio d’annegare.

Zenone ci disse che si svegliò dal coma soltanto il giorno dopo al Sant’Anna, e che dell’incidente non si ricordava niente. Si ritrovò immobilizzato a letto con entrambe le gambe fratturate, una forte lussazione alle vertebre lombari, una commozione cerebrale, e una promettente carriera da calciatore appena cominciata e già finita.

Ricordo che nelle sue parole si poteva cogliere ancora una tale amarezza che pareva che la cosa gli fosse appena capitata.

Raccontò che, tra cure e riabilitazione, per tornare a camminare come prima ci mise quasi un anno. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, dopo aver soffiato sulle candeline della sua torta immaginaria, una sorta di pagnotta addolcita nel latte e caffè d’orzo, prese le stampelle e le lanciò fuori dalla finestra. Lo fece d’istinto come spesso gli succedeva, e fu liberatorio. Quel giorno aveva festeggiato i suoi diciott’anni e il suo ritorno a usare le gambe come tutti gli altri, o quasi. Infatti ricominciò a camminare, andare in bicicletta e fare qualsiasi altra cosa… tranne che giocare a pallone.

Fu un duro colpo per tutti. Per i suoi genitori che speravano di riscattarsi da una vita di sacrifici col successo del loro unico figlio maschio. Per il suo allenatore che vedeva in lui un giovane talento pronto per la serie A.

E fu un duro colpo che lo stesso Zenone non riuscì mai a superare completamente. Lo si capiva dai discorsi che faceva tutte le volte che si fermava a parlare al nostro tavolo. In fondo raccontava sempre le stesse storie, anche se lo faceva in modo divertente. Aveva la battuta pronta con tutti e il sorriso sempre stampato in faccia, però s’avvertiva in lui un certo non so che di malinconico.

E già, i sogni spezzati non smettono mai di far male, te li porti dentro tutta la vita come una spina piantata nel fianco. Ogni tanto la senti che ti punge, soprattutto quando ripensi al passato.

Come poteva essere e com’è stato, se solo quella dannata nebbia fuori stagione non si fosse messa in mezzo a cambiargli la vita per sempre.

Zeno Traboni, il gigante della difesa, fisico prestante, velocità e piedi buoni. Per le sue caratteristiche fisiche e tecniche veniva impiegato come un jolly. Mancino naturale, giocava a sinistra come terzino, ma all’occorrenza veniva impiegato al centro come stopper e regista difensivo. Un gioiello del vivaio, un ferrarese doc col sangue biancazzurro. A diciassette anni giocava ancora nel campionato dei cadetti, ma aveva il futuro garantito in prima squadra e sarebbe stato una sicura bandiera della Spal.

Zeno il futuro campione, e invece poi… Zeno lo zoppo!

Dalle fratture a femore e tibia era guarito abbastanza bene, ma era stato il danno alla schiena a causargli una specie di menomazione permanente. All’ospedale, subito dopo l’incidente, per le lesioni alla spina dorsale s’era temuta la paraplegia, cioè che potesse perdere l’uso delle gambe. Invece la sua forte tempra l’aiutò in qualche modo a scongiurare il peggio e lentamente, dopo mesi di dolorosa fisioterapia, tornò a una vita normale. Anche se quell’andatura strana e un po’ buffa, che per noi era il suo biglietto da visita, faceva capire a tutti, ogni volta che lo vedevamo camminare, che da quel fatidico tre giugno del ‘57 non era stato più in grado di correre.

Fu questa la principale conseguenza del suo incidente, e fu questo il problema che gli precluse la carriera di calciatore.

Eppure, quando si trovava ancora in ospedale – come raccontava sempre – era convinto che, una volta guarito, avrebbe potuto riprendere a giocare. E ne erano convinti anche quelli della società che gli fecero avere un biglietto d’auguri firmato da tutti i suoi compagni di squadra e dal mister in persona.

Ricordo come fosse ieri di quando Zenone venne a sedersi al mio tavolo e, avendo io appena finito la mia pizza, m’offrì un caffè e un ammazzacaffè.

Aveva lo sguardo assorto e sorseggiammo il nostro caffè in religioso silenzio. Poi, versandomi la sua speciale grappa in un bicchierino, mi disse: «Senti, t’ho mai raccontato della partita in cui avrei dovuto esordire in serie A?»

«No… non mi pare!»

«Vuoi che te la racconto? Guarda che è interessante sai!»

«Certo Zeno, m’hai messo curiosità… Raccontami!»

E Zenone, con gli occhi che gli brillavano, iniziò così a raccontare.

«Dunque guarda, è stato il lunedì del mio incidente Alla fine dell’allenamento venne Tabanelli, propria lu, l’allenatore dei titolari, a dirmi che domenica sarei andato a San Siro con la prima squadra. Che sarei andato in panchina e che c’era la possibilità di entrare al posto di Vinyei che aveva preso un pestone durante la gara contro la Triestina. Se non recuperava l’avrei sostituito io!»

Fece una pausa scolandosi il suo grappino. Io feci altrettanto e lui mi riempì di nuovo il bicchiere. Poi riprese il racconto.

«Capito ragazzo? Avrei debuttato contro il Milana diciassette anni appena compiuti! Sarei stato il giocatore più giovane della squadra a giocare in serie A, al più zovan ad tuti… E naturalmente non vedevo l’ora di dirlo a mio padre e mia madre. Forse è per questo che non ho visto quel camion. Correvo come un matto, a cureva come ‘n mat… Su quello stradone, poi con quella nebbia… Ma non vedevo l’ora d’arrivare a casa e dirlo a tutti!» fece un sospiro, «Vacca boia che fregatura! Invece che a San Siro son finito al Sant’Anna!»

Era vero purtroppo, come dargli torto? Il destino gli aveva giocato proprio un brutto scherzo. Zeno ebbe l’incidente lunedì sera, mentre tornava a casa dall’allenamento, e poco prima il suo allenatore gli aveva comunicato che la domenica successiva avrebbe esordito in serie A. Non si può superare una roba del genere, pensavo. E infatti Zenone, dopo oltre cinquant’anni, ci rimuginava ancora.

Diceva sempre che se avesse avuto vent’anni e l’incidente gli fosse capitato adesso, con le cure che ci sono ora, sarebbe potuto guarire del tutto anche nella schiena. Avrebbe ripreso a giocare come prima e la sua carriera di calciatore non si sarebbe interrotta sul nascere, ne era assolutamente convinto.

Dopo un altro grappino Zenone parlò finalmente di quella partita. «Allora, se non ricordo male ci mancava ancora un punto per avere la certezza matematica di restare in serie A. Andare a giocare a Milano con la prima in classifica che aveva lo scudetto già in tasca non sarebbe stata una passeggiata, ma ci dava la speranza che un pari era possibile, e quei ragazzi s’erano convinti che almeno un punto l’avrebbero portato a casa…» Bevve d’un sorso l’ennesimo grappino e me ne versò ancora un altro. «Quell’anno lì il Milan era proprio forte, e infatti ha vinto lo scudetto… Ma quella domenica l’abbiamo battuto uno a zero con un gol… speta pur… di Di Giacomo!»

«Avevate fatto il colpaccio Zeno!» dissi io.

«Avevate? Casomai loro… Io non c’entro, ero all’ospedale!»

«Vabbé, cosa vuol dire? Eri anche tu uno di loro, anche se non hai giocato.»

«Sì sì, diciamo così… Comunque ricordo che fu una vera festa!»

La sua voce s’incrinò, quel ricordo l’aveva emozionato, anche se cercava in tutti i modi di nasconderlo. «Prosit!» esclamò.

Buttammo giù altri due grappini.

«La verità è che erano tutti motivati a riscattare la sconfitta in casa contro la Triestina della domenica precedente. E giocarsi la salvezza contro il Milan a San Siro è stato uno stimolo in più per tirar fuori gli attributi. Pensa che Vinyei è stato il migliore dei nostri!»

«Chi, quello che avresti dovuto sostituire!?»

«Esatto! Sono sicuro che se fossi andato con loro, se agh fuss stà anca mi, avrei guardato tutta la partita in panchina… Per come s’era messa in campo, sarebbe stato un rischio far entrare un debuttante di diciassette anni. Quella domenica lì l’ungherese ha fatto il fenomeno!»

«Dici? Magari saresti entrato lo stesso per sostituire qualcun altro…»

«Mah… chi può dirlo? Forse avrei giocato al posto di Boldi che aveva sostituito Lucchi rimasto a casa per una borsite. Me lo ricordo bene Lucchi, veniva sempre a trovarmi qui in pizzeria. Io e Gelio siamo stati amici fino alla sua morte, nel novantanove.»

«Me lo ricordo anch’io Gelio Lucchi… s’era messo a fare l’assicuratore, mi pare.»

«Già è vero!»

«E tu ti sei messo a far le pizze!»

«Sì, ma le mie pizze son buone. Dì la verità!»

Ridemmo e lui mi versò il quinto grappino. «Fortuna che son venuto a piedi!» dissi, «Anche sta grappa è buona, Zeno…»

Mi sentivo la lingua grossa, e non sapevo quanto avrei ancora tenuto. Ma Zenone reggeva l’alcol più di tutti noi messi insieme e non dava segni di cedimento. «Riprosit!» brindammo di nuovo, poi riempimmo il sesto bicchierino.

«È Nardini Riserva! Ne ho due casse in magazzino…» specificò.

La bottiglia era quasi vuota, così decisi di darmi un limite e che una volta finita avrei detto basta.

Zenone però non la voleva smettere né di brindare e né di raccontare.

«Pensa che quella domenica abbiamo battuto il Milan per la prima volta… erano i più forti, non una squadretta qualunque! Ci giocava Liedholm, il mio idolo…»

«Già… me l’avevi detto che t’ispiravi a lui.»

«Sì beh… lui era un centrocampista e faceva il regista. Io ero difensore…» sospirò, «Lui è stato un campione, io non son stato nessuno!»

«Non sminuirti Zeno, qui tutti sanno quanto eri bravo a giocare…»

«Ma tu mi hai mai visto giocare? M’at mai vist

«No, però chi t’ha visto giocare diceva che eri bravo, e poi lo sapevano tutti, dai…»

«Quelli che m’han visto giocare son morti tutti oramai… Non è rimasto più nessuno… più nisun

«Però quella maglia è rimasta!» risposi io indicando la parete in fondo alla saletta.

Zenone puntò lo sguardo in quella direzione, strinse gli occhi e s’accertò che nella saletta fossimo rimasti soltanto noi due. «Speta!» disse. S’alzò da tavola e andò a prendere la cornice appesa alla parete.

La cornice era grande e conteneva una vecchia maglia azzurra della Spal, tutta ricoperta di firme. Appoggiò il cimelio sul nostro tavolo, mostrandomelo con orgoglio.

Io quella maglietta l’avevo già vista tante volte. Ogni volta che ero andato a mangiare la pizza da Zeno, lei era sempre stata lì al centro della parete.

Era un pezzo di storia della Spal: una maglia da gioco appartenuta a Zeno che i giocatori reduci dalla vittoria contro il Milan, quel famoso nove giugno del ’57, gli avevano fatto avere qualche giorno dopo, mentre lui era ricoverato in ospedale.

Me lo disse proprio quella sera. «Queste sono le firme di tutta la squadra. È stata… una dimostrazione d’affetto!» disse, «Questa maglia era mia e il povero Carminati, che lavorava come magazziniere lì al campo della Spal dove m’allenavo, me la portò in ospedale firmata da tutti… C’è anche la firma di Tabanelli…»

Zenone riempì altri due grappini lasciando la bottiglia vuota, capii che sarebbero stati gli ultimi della serata. E meno male, pensai. Ma capii anche che quella bevuta l’avrei ricordata a lungo, perché prima d’allora non l’avevo mai visto, il mio vecchio amico, emozionarsi a quel modo. Complice la grappa, senz’altro. Ma complice anche e soprattutto quel passato di ricordi dolciamari che Zenone, proprio quella sera, aveva deciso di condividere col sottoscritto.

«Fu proprio Duilio Carminati ad aver l’idea, l’è stà lu… Era amico di mio padre, han fatto la guerra assieme… Fu lui che andò dai ragazzi a fargli firmare la mia maglia!» spiegò.

«Davvero un bel gesto.» dissi io.

Lui annuì. «Da bon… In quel momento è stato il più bel regalo che potevano farmi!»

Prese in mano il bicchiere e lo rigirò tra le dita guardandone a lungo il contenuto. Compresi che i suoi pensieri erano altrove, persi in quel lontano passato.

«Con quest’omaggio mi hanno voluto dire che mi consideravano uno di loro, nonostante quello che m’era successo.» disse, «In quei giorni ero fermo a letto ma tutti avevano la speranza, io per primo, che sarei tornato a giocare… Invece è andata com’è andata.»

«Comunque sia, Zeno, lasciatelo dire… tu sei un grande!»

«Ah sicuro… un gran pizzaiolo!»

Ridemmo di nuovo e buttammo giù l’ultimo grappino. S’era fatto veramente tardi e sentivo che una micidiale sonnolenza alcolica stava rapidamente prendendo il posto dell’ebbrezza provocata dai sette grappini di Zenone. Era tempo di tornare a casa.

«Stasera mi hai fatto davvero un gran regalo a sopportare tutte le mie chiacchiere, amico mio.» disse.

«Il regalo l’hai fatto tu a me, Zeno.» risposi, «Le tue storie sono un tuffo nel passato che fa bene al cuore, credimi!»

Mi abbracciò e ci salutammo.

Dopo quella sera lo rividi e gli parlai altre due o tre volte. Sempre nella sua pizzeria, sempre circondato da amici e gente che gli voleva bene. Tutti se lo ricordano per la sua gentilezza sincera e per quel suo buonumore contagioso che metteva a proprio agio chiunque. Io ho avuto il privilegio di conoscerne la malinconia, un sentimento intimo che ha condiviso con pochissimi di noi.

Ora sono al cimitero di San Luca e, siccome al funerale non c’ero, sto andando a trovarlo adesso per salutarlo un’ultima volta.

Suo nipote Adelmo m’ha detto che la cappella di famiglia si trova sulla destra in fondo al vialetto centrale. Eccola!

Ho già un groppo alla gola e so che quando vedrò la sua foto sulla lapide sarà difficile trattenere le lacrime…

 

Eccoti qui Zeno. Sono venuto a trovarti come mi ero ripromesso, pronto a leggere il tuo epitaffio e commuovermi… E invece no.

Come solito, pure stavolta mi hai spiazzato e, anche se mi bruciano gli occhi, sei riuscito a strapparmi l’ennesimo sorriso.

Sulla lapide di marmo bianco avorio, appena sotto la tua foto, è incisa una frase a caratteri maiuscoli:

RAGAZZI STATE ALLEGRI,
SON TORNATO A GIOCARE.

Nota
Questo racconto fa parte del volume fresco di stampa “‘Tifosi spallini per sempre’, il grande racconto della passione biancoazzurra. Edizioni della Sera, AA.VV., a cura di Cristiano Mazzoni.

In copertina:
La formazione protagonista dell’impresa di San Siro, quando la Spal sconfisse i padroni di casa del Milan di Liedholm e Schiaffino già campione, guadagnandosi la salvezza con una giornata d’anticipo.

Portiere:                   Renato Bertocchi

Difensore:                Benito Boldi

Difensore:                Alberto Delfrati

Difensore :               Jeno Vinyei

Centrocampista:     Guglielmo Costantini

Centrocampista:     Edoardo Dal Pos

Centrocampista:     Carlo Novelli

Attaccante:              Pietro Broccini

Attaccante:              Beniamino Di Giacomo

Attaccante:              Adelmo Prenna

Attaccante:              Nils-Ake Sandell

Allenatore:              Paolo Tabanelli

Presidente:              Paolo Mazza

Il 9 giugno 1957, la penultima domenica di campionato, la Spal espugnò il Meazza battendo i campioni rossoneri per uno a zero con un gol di Beniamino Di Giacomo. Grazie a quella vittoria i biancazzurri poterono continuare la loro avventura in serie A.

Lo stesso giorno /
Quella notte, il terremoto e la luna

Quella notte, il terremoto e la luna

23 novembre 1980: era domenica, proprio come oggi. La prima scossa, violentissima e senza preavviso, arrivò alle 19 e 34 minuti. Il terremoto colpisce, e in alcuni casi rade al suolo, decine di paesi. In Irpinia e nell’alta Lucania si contarono 2.914 vittime (secondo le stime più attendibili), 8.848 feriti e  280.000 sfollati. Oggi, dopo una lunga emergenza e una lenta ricostruzione, quei magnifici borghi appaiono spopolati e abbandonati come prima del sisma.

Ecco, mettiti seduta.
Hai mezzora di tempo? Raccontami ancora quella storia.

Ero in  camera da letto, stavo alla finestra, appoggiata al davanzale, ripassavo fisica per la lezione di domani. Mia sorella, lei è più grande di me, era in sala da pranzo con le vecchie zie. Mio padre e mia madre erano andati ad Avellino, all’ospedale, li stavamo aspettando. Mi ricordo tutto di quel momento, non puoi dimenticare quando viene giù il mondo.

A sedici anni è bello vivere in un paese. Teora era bellissima, oggi non c’è rimasto quasi niente, anche la chiesa si è sbriciolata. Sai, i banchi della chiesa li aveva fatti mio padre nella sua falegnameria. Così, anche quella domenica, faceva freddo ma c’era un gran sole, ero stata tutto il giorno con il gruppo degli amici a girare su è giù per il paese. Non so se mi divertivo, stavo bene. 

Ma quella sera non avevo voglia di studiare. Così decido di tornare  in camera da pranzo, dall’altra parte della casa,  e chiudo la porta della camera. É lì che è successo, ma non capivo cos’era quella cosa. Ho letto che la scossa è durata 90 secondi, ma io non sentivo più il tempo. Sentivo il pavimento che ballava e quel rumore sordo che saliva, era il ringhio di un orco cattivo,  il ruggito di un  drago. Dopo ho saputo che nella fantasia popolare dei paesi del Sud il terremoto è immaginato come un drago che dorme laggiù, nel ventre della Terra, e improvvisamente si risveglia, borbotta, si scuote.

Ho appena chiuso la porta e sento uno scoppio, come una bomba. Invece era crollata la camera da letto e tutto il pezzo di casa che affacciava su via Nazionale. Solo la porta era rimasta in piedi. Chiusa. Sul vuoto. Il rombo continuava, gli scoppi,  il buio, la polvere e la calce che si posavano sui vestiti. Sono corsa fuori insieme agli altri, gridavo ma non so cosa gridavo.

Stavamo in un gruppetto vicino a casa, al buio assoluto, in una nebbia di polvere. Mi ero aggrappata alla piccola balaustra all’inizio della salita di via del Calvario, la nostra via. Non so perchè, avevo solo questo pensiero: che ero stata cattiva, che avevo fatto qualcosa di male. Aspettavo mio padre che finalmente era riuscito a raggiungerci.

Siamo scesi verso Tarantino, è come noi chiamiamo Largo Europa. Il rombo era cessato, ma nel buio si sentivano le grida, i pianti, le corse per raggiungere le case dei parenti. A Teora c’è una piccola caserma di carabinieri, scampata dal terremoto. Un carabiniere era stato nel terremoto dl Friuli. Allora i carabinieri con l’altoparlante della macchina ci hanno detto di scendere, scendere giù. Siamo scesi due tornanti, insieme, verso il campo sportivo. Ricordo una vecchia vestita di nero che gridava le orazioni al padreterno.

Fuori dal centro del paese, in alto nel cielo, c’era la luna piena. L’unica luce. Era una luna gialla come una zucca, luminosissima ed enorme. Mai più ho visto una luna così grande. Era la nostra guida, la nostra fortuna, ma era troppo grande, faceva paura, era forse una minaccia o la promessa della nostra disgrazia. 

Da quel momento, da quella sera di domenica è cambiato tutto. Il paese di Teora è un moribondo. Nella mia vita c’è un prima e un dopo, per sempre. 

Note:
– Un grazie particolare a Giuseppina Guarino che mi raccontato la storia di quella notte.
– Il video sull’evento dell’Istituto Storico Istituto Luce: [Qui]
– Un video antologico sul paese di Teora realizzato da Raffaele Nardella, un volontario impegnato nell’emergenza: [Qui] 
– Da rileggere la novella di Luigi Pirandello “Ciaula scopre la luna” [Qui il PDF]
In copertina: Centro Storico di Teora (Avellino) dopo il sisma del 23 novembre 1980 – Foto dell’Archivio Sorico dei Beni Culturali
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Per certi Versi / Pelle di borotalco

Pelle di borotalco

 

Ribelli i tuoi mattini

d’ombra le tue notti

dentro un bicchiere vuoto

di alcool principiante

 

gira il soffitto

 

il primo bacio sulle labbra

ti ruba il sonno

 

sarai pelle di borotalco

e pelle di cuoio

 

sarai uomo e donna

nei vortici del tempo

diventerai grande

 

ora ama i sospiri

la cioccolata calda

e i baci

 

In copertina: Foto di Artur Skoniecki da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Maria Mancino è nata a Campobasso e vive attualmente a Imola. Scrive poesie fin da piccola. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive. Appassionatasi alla narrativa, ha pubblicato racconti con le case editrici: Negretto, FuocoFuochino e Fernandel. Da Babbomorto Editore hanno visto la luce le tre raccolte poetiche: “Bianco Spino”, “Mani d’argilla” e “Bacio di carta”, nonché il racconto “Uccel di bosco”. Nel settembre 2020, pubblica con l’Edizione Apostrofo: “I plumcake del nonno” un libro che attraverso i ricordi d’infanzia, delinea la mentalità, le tradizioni e la semplicità dei suoi luoghi. Sempre con l’Edizione Apostrofo nel marzo 2021 pubblica la raccolta poetica: “Nascosta è in lui la mia follia”. Più di recente, ha pubblicato “La memoria della betulla“, Il Babi Editore 2024; “Fiori di corallo“, Selvatiche edizioni 2025; “Da grande farò il bidello“, Selvatiche edizioni 2025.

Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Cosa significa vivere quando il mondo, così come lo conosciamo, sembra dissolversi? In tempi segnati da crisi ecologiche, guerre, estinzioni di massa, disorientamento culturale e smarrimento simbolico, la filosofia e l’antropologia (ma anche la scienza) sembrerebbero tornare a interrogarsi sulla fine del mondo vista non come un evento cosmico, ma come esperienza umana di perdita del senso.

Il filosofo tedesco Wolfram Eilenberger, nel suo recente I fantasmi del presente (Feltrinelli, 2025) propone una riflessione sulla condizione attuale dell’umanità, attingendo alla nozione di speranza radicale elaborata dal filosofo e psicoanalista statunitense Jonathan Lear: una forma di speranza che resiste anche quando le coordinate culturali e simboliche sono crollate, quando non si sa più cosa sperare.

Questa speranza non è ottimismo, ma apertura al possibile, anche nel vuoto.

A questa visione si potrebbe affiancare, per affinità tematica, il pensiero dell’antropologo italiano Ernesto De Martino, che nella sua analisi delle apocalissi culturali in La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, 2019) descrive il momento in cui la “presenza” dell’uomo nel mondo vacilla, minacciata dalla perdita di senso e operabilità.

Tuttavia, De Martino non si arresta alla diagnosi: propone un ethos del trascendimento, una capacità di reinventare il mondo attraverso nuovi simboli, riti e narrazioni. La fine del mondo non è più soltanto una profezia escatologica o un evento cosmico da temere: è diventata una esperienza culturale e psicologica del presente.

Nel suo libro Wolfram Eilenberger esplora il pensiero di Adorno, Sontag, Foucault e Feyerabend per comprendere le fratture ideologiche che segnano il nostro tempo. La domanda che attraversa il testo è radicale: “Come si può tentare di pensare di nuovo dopo aver guardato nell’abisso?”.

Eilenberger si confronta con la crisi della filosofia stessa, chiedendosi se gli ideali dell’Illuminismo siano perduti per sempre e se la scienza, l’arte e la democrazia abbiano ancora qualcosa da promettere. In questo scenario, la filosofia non è più guida, ma spazio critico di resistenza, capace di offrire una via d’uscita attraverso il pensiero.

La nozione di speranza radicale, mutuata da Jonathan Lear, diventa centrale: è la speranza che resiste anche quando non si sa più cosa sperare. Lear la elabora studiando la crisi dei Crow, una tribù nativa americana che ha perso il proprio mondo simbolico.

La vita della tribù dei Corvi era praticamente scandita dalle frequenti guerre con le tribù nemiche dei Sioux, Cheyenne e Piedi Neri. Quando l’esercito degli Stati Uniti divenne un nemico comune dell’intera popolazione indiana, i Corvi si allearono proprio con quelli che vedevano come gli inevitabili vincitori: accettarono in questo modo la loro unica possibilità di sopravvivenza rinunciando a una vasta area del loro territorio.

Il capo dei Corvi, Plenty Coups (“abbondanza di incursioni”), poco prima di morire ricordò che quell’accordo fu una mossa giusta perché aveva assicurato che la più preziosa e sacra porzione delle loro terre restasse alla tribù, intatta e indisturbata, ma ammise anche che gli anni successivi a quell’accordo di pace furono anni senza eventi a cui si potesse dare un significato e concluse il suo discorso con una frase che divenne l’inizio del libro di Jonathan Lear sulla speranza radicale: «Dopo questo non è successo nulla».

Quella frase fu interpretata da Lear in modo paradigmatico: le azioni a cui non può essere attribuito alcun significato culturale non possono essere considerate avvenimenti.

Eilenberger riprende questa storia di Lear e la frase di Plenty Coups per provare a descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo e la necessità di una speranza che non si fondi su contenuti, ma sulla possibilità stessa di sperare nel… nulla.

Questa diagnosi filosofica trova un insospettabile riscontro nell’antropologia di Ernesto De Martino, che nella sua opera postuma, La fine del mondo, descrive la crisi della presenza come rischio antropologico universale. Per De Martino, la “presenza” è la capacità dell’uomo di essere nel mondo con senso e operabilità. Quando questa capacità viene meno, si entra in una condizione di smarrimento culturale, che può assumere forme psicopatologiche o apocalittiche.

Per renderci partecipi di questo sentire, De Martino racconta che, durante una spedizione etnografica, un vecchio contadino di Marcellinara gli indicò la strada da seguire per arrivare in una certa località, accompagnandolo personalmente in macchina. Lungo il percorso,  non riuscendo più a vedere il campanile posto al centro del villaggio, il contadino cominciò a manifestare agitazione, disagio e angoscia per la progressiva scomparsa di quella immagine che evidentemente rappresentava lo sfondo della sua quotidianità e, per così dire, il centro del proprio mondo.

Da qui l’intuizione dell’antropologo sul termine apocalisse (“rivelazione”) e il suo stretto legame con la fine di un mondo anche personale inteso come l’insieme di eventi, rumori e immagini che conferiscono senso alla propria esistenza.

De Martino così distingue tra apocalissi culturali, cioè narrazioni simboliche che disciplinano la fine e aprono a un nuovo inizio, e apocalissi psicopatologiche, insorgenze non elaborate culturalmente, che portano alla paralisi, all’angoscia e alla disperazione.

La sua preoccupazione è che l’Occidente, dopo la Shoah e Hiroshima, sia affacciato su una “nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile”.

In entrambi i racconti, quello del capo dei Crow e quello del contadino, la crisi non è solo esterna, ma interna al senso stesso dell’umano. La fine del mondo è la fine del mondo come lo conosciamo, come lo abitiamo, come lo comprendiamo.

Eilenberger e De Martino convergono nel riconoscere che la vera apocalisse è la perdita del senso, e che la risposta non può essere il silenzio, ma una forma di resistenza simbolica e culturale.

Se quindi la crisi è perdita del senso, la resistenza non può che consistere in forme di reinvenzione del senso. Eilenberger e De Martino propongono due figure emblematiche di questa resistenza: la speranza radicale e l’ethos del trascendimento.

La speranza radicale, secondo Jonathan Lear, è ciò che resta quando tutto ciò che dava senso alla vita è crollato. È la speranza che non si appoggia su oggetti o progetti, ma sulla possibilità stessa di continuare a sperare. Lear la descrive come una forma di apertura al futuro, anche quando non si sa più cosa attendere. Eilenberger la assume come chiave per leggere il nostro tempo: “La filosofia può ancora offrirci una via d’uscita per affrontare la crisi del nostro tempo”.

De Martino, dal canto suo, propone l’ethos del trascendimento come atteggiamento culturale e antropologico che consente all’uomo di superare la crisi della presenza. “Perché vi sia un mondo – scrive – occorre emergere da esso, non coincidere immediatamente con la situazione ma staccarsene”. Il trascendimento è la capacità di non coincidere con il caos, di separarsi, di reintegrare l’io attraverso riti, narrazioni, istituzioni. È ciò che lo sciamano compie nel mondo magico, ma anche ciò che la cultura può fare nel mondo moderno.

Entrambe le figure – speranza radicale ed ethos del trascendimento – indicano una possibilità di rinascita. Non si tratta di tornare indietro, ma di inventare nuovi modi di abitare il mondo, di costruire nuovi simboli, di riattivare la presenza. In questo senso, la filosofia e l’antropologia non sono discipline del passato, ma pratiche di resistenza e di futuro.

Se la crisi del presente è una crisi del senso, e se la resistenza si manifesta nella speranza radicale e nell’ethos del trascendimento, allora la rinascita non può che avvenire attraverso una reinvenzione simbolica del mondo. In questo processo, la cultura – intesa come insieme di pratiche, narrazioni, riti, linguaggi e istituzioni – assume un ruolo centrale: non come decorazione del reale, ma come condizione di possibilità dell’umano.

Per Ernesto De Martino, la cultura è ciò che protegge l’uomo dalla dissoluzione. È il dispositivo che consente di “tenere la presenza”, di non naufragare nel caos. Quando la cultura vacilla, l’individuo rischia di perdere la propria operabilità nel mondo. Ma proprio in questo rischio si apre la possibilità di trascendere la crisi, di inventare nuovi modi di essere  e… il rito, il mito, la parola, il gesto: tutto concorre a ricostruire la presenza.

Questa visione dialoga con la proposta di Wolfram Eilenberger, che vede nella filosofia non una disciplina astratta, ma una pratica di resistenza simbolica. La filosofia, come la cultura, non offre soluzioni immediate, ma “spazi” di pensiero in cui il senso può essere riattivato. La speranza radicale, in questo contesto, non è una fuga dalla realtà, ma una forma di apertura al possibile, una disponibilità a reinventare il mondo anche nel vuoto. “La filosofia non può salvare il mondo, ma può salvare il pensiero” – sembra suggerire Eilenberger – e salvare il pensiero significa salvare la possibilità di senso.

La rinascita simbolica, dunque, non è un ritorno al passato, ma una reinvenzione del presente. È ciò che accade quando, nel cuore della crisi, l’uomo riesce a dire “ancora”, a compiere un gesto, a pronunciare una parola, a immaginare un futuro. È ciò che De Martino vede nel rito magico, ma anche nella poesia, nella musica, nella narrazione. Ed è ciò che Eilenberger intravede nella filosofia come pratica di apertura.

In questo senso, la fine del mondo (e la rivelazione) non è mai definitiva. È una soglia, un passaggio, una possibilità. E la cultura – come spazio simbolico condiviso – è ciò che consente di attraversare questa soglia senza perdersi. La speranza radicale e l’ethos del trascendimento non sono solo risposte alla crisi: sono forme di rinascita, atti di fiducia nel potere umano di reinventare il mondo.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/flyingraven-39341012/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8795874″>FlyingRaven</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8795874″>Pixabay</a>

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Le voci da dentro / Una partita dietro le sbarre

Le voci da dentro  / Una partita dietro le sbarre

Sabato 15 novembre alle ore 10 presso il campo sportivo della casa Circondariale di Ferrara si è svolta una partita di rugby fra la squadra degli atleti detenuti (Rugby 27) ed una selezione di giocatori del Cus Ferrara.

Nella conferenza stampa di presentazione della partita, l’assessore allo sport Francesco Carità ha dichiarato: “Le associazioni sportive che fanno anche volontariato sul nostro territorio, uniscono l’attività fisica a finalità benefiche o solidali nel nome dell’inclusione, è lavoro che questa Amministrazione vuole sostenere. Apprezzo come vi sia attenzione anche al benessere psicologico che può dare l’attività fisica questa iniziativa rende i detenuti protagonisti e li aiuta a riconquistare anche l’idea che ci possa essere un futuro”.

Stefano Cavallini, presidente di Rugby 27, ha detto: “Questo evento moltiplica l’energia dei nostri detenuti, che non vedono l’ora di scendere in campo in questa gara di Rugby Seven con il CUS. Sono ragazzi che approfittano del rugby per avere più disciplina nella vita, e noi stessi vediamo come lo sport li stia decisamente aiutando a migliorare. Siamo supportati da tutte le realtà attorno a noi, soprattutto dal Comune. Per quanto riguarda i progetti futuri, dopo la partita con il CUS, il nostro sogno è sfidare il Giallo Dozza Rugby, squadra di rugby del Carcere di Bologna”.

La direttrice della casa Circondariale, Maria Martone, ha riferito: “Questo progetto va avanti da tanti anni nel nostro carcere e si sta consolidando sempre più e crediamo molto in questo percorso: grazie al sostegno economico del nostro Provveditorato Regionale che crede in questa iniziativa avremo anche la possibilità di acquistare nuove attrezzature per rendere ancora più fruibile il progetto. Crediamo nel valore dello sport in generale e del rugby nello specifico”.

Annamaria Romano, responsabile dell’area educativa del Carcere di Ferrara, ha confermato: “Soprattutto in ambito rieducativo lo sport e il rugby in particolare crea una condizione di benessere psicofisico e aiuta i detenuti a uno stile di vita più attivo e proattivo, oltre al valore del rispetto delle regole, dell’altro e al senso di squadra”.

Fausto Mariotti, delegato del CUS Ferrara Rugby, ha condiviso a pieno il senso di questa iniziativa e ha proposto di moltiplicare questo genere di eventi per aprire ulteriormente gli orizzonti.

Credo che il rugby sia uno fra gli sport più formativi, più educativi e che più aiuta a prendere consapevolezza di sé e del proprio comportamento verso i compagni, gli avversari e le regole. È perfetto quindi per una buona rieducazione. Peccato che in questa bella occasione di sport, che ha creato tante attese e grande entusiasmo nei ragazzi ristretti, non sia corrisposto un impegno adeguato da parte del Cus Ferrara che non è riuscito a convocare 15 giocatori per una partita importante, dall’alto valore simbolico.

Grazie infinite quindi ai sette rugbisti del Cus Ferrara e ai loro accompagnatori che hanno scelto di partecipare. Di seguito il resoconto di Francesco che, oltre che giocare a rugby, frequenta la redazione del giornale del carcere Astrolabio.
(Mauro Presini)

Rugby 27 incontra il CUS Ferrara

di Francesco T.

Sabato 15 novembre 2025 si è tenuta presso la Casa Circondariale Di Ferrara una partita di rugby fra la squadra dell’Istituto: il Rugby 27 e il Cus Ferrara.

È sempre un’occasione speciale quando delle persone dall’esterno entrano volontariamente in carcere per partecipare alle attività dell’istituto.

Da subito si è percepita una sana rivalità fra entrambe le squadre, visto che era una partita amichevole ma anche perché credo che, al di là della prestazione sportiva, ambedue ambissero a vivere delle esperienze personali che solo da un evento del genere può scaturire.
Dopo i primi tentativi di socializzazione, abbiamo iniziato con qualche giro di campo e degli esercizi di riscaldamento che entrambe le squadre hanno effettuato insieme. Dopodiché si è passati ai fatti.

Si è disputata una partita di rugby a sette, visto che i giocatori del Cus Ferrara erano solo sette.

La partita è iniziata con il vantaggio da parte del Rugby 27 dopo pochi minuti;  la squadra di casa ha dominato la partita per entrambi i tempi, durati circa 10 minuti l’uno. Sul finale, un incidente sportivo ha scombinato un po’ gli assetti, visto che un giocatore del Cus Ferrara è stato trasportato via dal campo in barella.
In seguito all’infortunio, abbiamo deciso di scambiarci le maglie e abbiamo continuato a giocare a squadre miste. La partita si è conclusa con un simbolico 5 a 5.

Ho scritto simbolico perché tutti gli atleti e pure gli spettatori si sono resi conto da subito che la squadra di casa aveva un gran vantaggio, sia atletico che motivazionale. Però, ripeto, è stata una partita amichevole e il 5 a 5 simbolico ha soddisfatto tutti perché, a vincere, è stato lo sport.

L’evento si è concluso con un “terzo tempo” nel teatro della prigione, dove le squadre hanno consumato insieme bevande e cibo offerti dal presidente del Rugby 27 e, insieme, hanno visto la partita Italia contro Sud Africa.

Tra i complimenti reciproci e la condivisione di esperienze (sportive e non) è terminata una bella giornata di sport.

Nella foto di copertina: i ragazzi del Cus Ferrara Rugby insieme a Stefano Cavallini davanti all’entrata del carcere di Ferrara.

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Presto di mattina /
Luce gentile

Presto di mattina. Luce gentile

Guidami tu luce gentile (“Lead, Kindly Light”)

Guidami Tu, Luce gentile,
attraverso il buio che mi circonda,
sii Tu a condurmi!
La notte è oscura e sono lontano da casa,
sii Tu a condurmi!
Sostieni i miei piedi vacillanti:
io non chiedo di vedere
ciò che mi attende all’orizzonte,
un passo solo mi sarà sufficiente.
Non mi sono mai sentito come mi sento ora,
né ho pregato che fossi Tu a condurmi.
Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;
ma ora sii Tu a condurmi!
Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura,
il mio cuore era schiavo dell’orgoglio;
non ricordare gli anni ormai passati.
Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,
e certo mi condurrà ancora,
landa dopo landa, palude dopo palude,
oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;
e con l’apparire del mattino
rivedrò il sorriso di quei volti angelici
che da tanto tempo amo
e per poco avevo perduto.
(John Hernry Newman, In mare, 16 giugno 1833, cfr. Luce nella solitudine. Viaggio e crisi di Newman in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1989).

Questa poesia/preghiera segna un passaggio drammatico nella vita John Henry Newman (1801-1890), che la compose quando era ancora anglicano, sulla nave che lo portava dalla Sicilia nella sua Inghilterra. Scaturisce da un momento di turbamento e da un tempo di oscurità rischiarato da una “luce gentile” e non solo per una grave malattia che lo aveva portato quasi alla morte durante il suo viaggio in Italia, ma per la sofferta decisione, lui di confessione anglicana, di entrare nella chiesa cattolica. Questa Kindly Light, immagine e presenza della santità ospitale di Cristo nella coscienza e nel mondo, attraversa tutta la sua opera, soprattutto nelle omelie alla sua gente.

Definito dallo storico e critico letterario francese Henri Brémond «genio complesso, poeta e mistico», Newman è stato un credente, presbitero anglicano, teologo e filosofo inglese. Sostenne la libertà di coscienza, essendo per lui la presenza/esperienza di Dio nella coscienza umana come “flebile luce” al centro della sua spiritualità:

«Chi può negare l’esistenza della coscienza? Chi non avverte la forza dei suoi comandi? Eppure quanto è debole la luce che la investe, quanto debole ne è l’influenza, a paragone con l’evidenza del vedere e del toccare che costituisce il fondamento della scienza fisica!… In colui che è fedele alla propria coscienza, la debole luce della verità diventa ogni giorno più chiara» (Opere: Utet, Torino 1988, 1173; 524).

Il suo fu un itinerario del cuore e della mente in Dio creatore e nel suo Verbo fatto uomo. Per lui tale cammino della fede è concepito e nasce, ha inizio e si sviluppa da un’attitudine e propensione del cuore: «La salvaguardia della fede è una retta disposizione di cuore. È questa che, oltre a darle origine, la disciplina, proteggendola dal fanatismo settario e dalla credulità.

È la santità, o spirito d’obbedienza, o nuova creatura, o intelligenza spirituale, o comunque la vogliamo chiamare, a costituire il principio vivificante ed illuminante della vera fede, a darle occhi, mani e piedi. È l’amore che forma il bruto caos nell’immagine del Cristo. La fede che giustifica, sia essa pagana, ebrea o cristiana, è una fides formata charitate” (è una fede che si forma praticando la carità). Noi crediamo perché amiamo» (ivi, 640; 641).

Un debito di amore

La fede deve all’amore l’orientamento, la stabilità, la fermezza, la coerenza del suo agire. È anch’essa flebile lume, una presunzione di amore, ma non un’ipotesi a caso o una illusione di amore, ma uno slancio nel rischio della relazione all’altro, al suo e nostro sentire così alternante, differenziato; e dunque è

«un avanzare nella penombra, ma non alla cieca e senza punti di riferimento; il passare da una verità nota a qualcosa d’ignoto, ma mantenuto nello stretto sentiero della verità dalla legge dell’obbedienza, dalla luce divina che l’anima e la guida. Questa luce, sia essa debole ed oscura come nei pagani, o fulgida come nei cristiani; sia solo il faticoso risveglio della coscienza, oppure la carità dello Spirito, una timida speranza o la pienezza dell’amore, è, in ogni economia religiosa, l’unico principio che ci renda accetti a Dio per mezzo dei meriti del Cristo» (ivi, 651).

Luce da luce; cuore a cuore

Il Credo cristiano confessa Gesù Cristo, l’Unigenito figlio di Dio come “luce da luce” e così colui che dimorava in una inaccessibile e abbagliante luce grazie alla sua umanità, per la sua carne, è divenuto per noi una “luce gentile”. Così egli si è fatto guida, un passo un altro passo, “landa per landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà; e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso dei volti».

Questo sentire e ‘senso interiore’ (inward sense) della fede di Newman, questa luminosità segreta, kindly light, questa intimità feconda, Newman la esprimeva con le parole di sant’Agostino: “il cuore parla al cuore” (Cor ad cor loquitur). La coscienza, luogo del generarsi e dispiegarsi della fede come libertà che si affida, è così compresa da lui come impronta (éikon) sensibile, intellettiva e volitiva dell’amore del Dio creatore e della sua paternità. Di più: un legame intersoggettivo e amoroso per la venuta del Figlio in umanità, per grazia, è unita alla stessa fede filiale di Gesù che diviene per lei culmine e fonte.

Un’impronta d’amore è pure la fede.

L’inquietudine del cuore

Non è incantesimo la fede ma risveglio, veglia, un avanzare nella libertà come conquista e dramma: perché «il nostro cuore è sempre inquieto e senza riposo».

Newman visse così una fede, aperta come libertà che si affida con un pieno abbandono a Dio e al suo Cristo: «io non chiedo di vedere ciò che mi attende all’orizzonte, un passo solo mi sarà sufficiente» e questo nella ricerca continua di un cristianesimo più autentico.

Per questo, grazie allo studio dei Padri della Chiesa, intese rinnovare la fede anglicana segnata dal secolarismo e dal liberalismo e attraverso i Padri fu portato a scoprire la cattolicità, una sola chiesa indivisa, la chiesa di Cristo, secondo l’unità delle origini fino a decidere il passaggio della conversione al cattolicesimo nel 1845.

Se l’ingresso nella Chiesa cattolica dileguò i dubbi e le inquietudini precedenti, la sua decisione segnò tuttavia anche l’inizio di altre sofferenze perché fu a lungo incompreso sia dagli anglicani che dagli stessi cattolici. Ciò nondimeno i suoi studi patristici per il rinnovamento teologico e della spiritualità furono determinati anche per la sua elezione a cardinale nel 1879 da parte di papa Leone XIII.

In Newman si riscontrano tutti gli elementi che costituiscono un’autentica esperienza mistica: la presenza costante dello Spirito Santo, l’esperienza passiva di Dio, un profondo senso ecclesiale. Dopo la sua morte, indagando anche su questa esperienza della sua vita, fu beatificato il 19 settembre 2010 da papa Benedetto XVI. Successivamente, è stato canonizzato da papa Francesco il 13 ottobre 2019. Infine è stato proclamato dottore della Chiesa da papa Leone XIV nella solennità di tutti i Santi di questo 1º novembre 2025. Egli seppe riconoscere nella mistica il fermento necessario a rifondare il dogma, rendendolo più complesso e dinamico, affinché l’assenso della fede e la sua grammatica costituissero e fossero vissuti proprio come un legame di amore tra tutti i credenti.

Luce per gli altri

Fra una settimana entreremo nell’Avvento, si va incontro alla luce, alla “chiara pienezza d’amore”. Questo testo suona così come un invitatorio a mettersi in cammino, farsi lanterna per accogliere la “luce gentile”. Nell’Avvento «si preparano gli uomini e gli angeli. Parlando degli angeli dico: «Ogni soffio di vento, ogni raggio di luce e di calore, ogni bella veduta, è, per così dire, l’orlo della loro veste, l’ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio» (Opere, 164).

“Stai con me, e io inizierò a risplendere
come tu risplendi,
a risplendere fino ad essere luce per gli altri.
La luce, o Gesù, verrà tutta da te:
nulla sarà merito mio.
Sarai tu a risplendere,
attraverso di me, sugli altri.
Fa’ che io ti lodi così
nel modo che tu più gradisci,
risplendendo sopra tutti coloro
che sono intorno a me.
Dà luce a loro e dà luce a me;
illumina loro insieme a me, attraverso di me.
Insegnami a diffondere la tua lode,
la tua verità, la tua volontà.
Fa’ che io ti annunci non con le parole
ma con l’esempio,
con quella forza attraente,
quella influenza solidale
che proviene da ciò che faccio,
con la mia visibile somiglianza ai tuoi santi,
e con la chiara pienezza dell’amore
che il mio cuore nutre per te.”
(Cfr. J.H. Newman, Meditations and Devotions, London – New York – Bombay, 1907, 365; trad. in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Notiziario CEI, 4 2001, 132).

Servire a Cristo leggendo e scrivendo

A Giuseppe De Luca (1898-1962) non era sfuggita l’opera e la figura di John Henry Newman. I suoi scritti erano per lui un luogo e dimora spirituale dove si poteva ascoltare – distintamente – la voce dell’uomo e, a volte ma chiarissima, la voce di Dio. Un luogo sacro, la sua anima. Un tempio, avrebbe detto san Paolo.

De Luca figura singolare di sacerdote erudito, editore, saggista, giornalista, autore di un epistolario vastissimo – la sua opera più viva è nelle lettere (Piero Bargellini) – affermava di voler «servire a Cristo leggendo e scrivendo», «servire Dio nell’intelligenza». Avviò il progetto di una storia della pietà – “Archivio italiano per la storia della Pietà” (1951) e nel 1941 aveva fondato la casa editrice “Edizioni di Storia e Letteratura”.

È in queste edizioni che troviamo, John Henry Newman; scritti d’occasione e traduzioni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975.

Nella prima parte del volume, di 539 pagine, sono raccolti tutti gli scritti che don Giuseppe De Luca gli ha dedicato, in una trentina d’anni. La seconda parte comprende traduzioni di sermoni del Newman, di sue preghiere, prose e versi, in parte pubblicati, in parte inediti.

Scrive De Luca di Newman: «Veramente sperimentava nel suo intimo quella verità, non reale ma sentimentale, che è nel mito platonico della reminiscenza: ogni cosa che conosceva era per lui come un riconoscimento e una riconoscenza. I quattro quinti delle sue poesie, egli le scrisse durante questo viaggio, sui nostri mari, in vista delle nostre terre, dentro la nostra luce, nella nostra aria. Mentre ricordava, pensava – e pensare, pensare davvero, è per metà patire» (ivi, 105; 30-31).

 

«Noi crediamo, perché amiamo»

Newman è stato così per De Luca uno degli autori centrali delle sue meditazioni. Lo considerava figura emblematica del rinnovamento del pensiero cristiano di fronte alla modernità, perché ampliò l’idea dell’intelligenza razionale includendovi la qualità dell’esistenza spirituale e morale della persona. Solo un pensiero esistenzialmente integrato può raggiungere la verità religiosa: «Noi crediamo, perché amiamo».

Così l’idea che ogni conoscenza e ricerca del sapere nasca da un atteggiamento esistenziale, da un sentire e credere originario, istintivo che incalza senza posa l’uomo nel suo incessante cercare oltre se stesso, scaturisca da una fede come da una disposizione del cuore e della coscienza a rischiarsi verso il non ancora, è centrale nel pensiero e nella vita di Newman:

«Di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione. …Subiamo l’influenza delle persone: delle voci, delle fisionomie, delle ragioni umane… In fondo, l’uomo non è un animale raziocinante: è un animale che vede, sente, contempla e agisce… La vita è fatta per l’azione. Se ci impuntiamo a volere la prova di tutto non agiremo mai. Per agire bisogna partire da un assunto, che è appunto la fede» (Newman, Grammatica dell’Assenso, Jaca Book, Milano 1980, 56-58).

Dimmi dove mettere il piede

Così commenta De Luca in un altro articolo la lirica Lead, Kindly Light: «Nella preghiera famosa, forse la più vivente poesia religiosa dell’Ottocento, che egli scrisse in nave dall’Italia all’Inghilterra, rievocando la sua vita trascorsa, pentendosene e cioè mutando mente, egli disse al Signore più o meno così: “Non importa che tu mi faccia vedere la distant scene. Sinora studiavo io le mie mète e i miei passi. Dicevo io dove volessi andare, per quali vie. Era orgoglio. Ora non più io, ma tu, o Signore, tu portami innanzi: dimmi solo, passo dopo passo, dove io debbo mettere il piede» (John Henry Newman; scritti, 49).

“Perché amo il Crisostomo” (J.H. Newman)

Giovanni Crisostomo (344/354-407) è un padre della chiesa, fu patriarca di Costantinopoli, amato dai poveri come un padre, fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia per i loro privilegi; tanto che l’imperatrice Eudossia riuscì a mandarlo in esilio per confinarlo nel Caucaso in una piccola città dell’Armenia, a Comana Pontica, il 14 settembre.

Newman aveva una predilezione singolare per questo padre della chiesa e scrisse un testo per manifestare le ragioni di questa devozione. Ho intravisto come in filigrana in questo testo affiorare la stessa sensibilità e stile di Newman, come se la sua interiorità si riflettesse in quella del Crisostomo così da svelarci un poco di più del suo sentimento e delle affezioni della sua vita.

«Da dove viene questa devozione a S. Giovanni Crisostomo che mi porta a fermarmi sul pensiero di lui e mi commuove al suo nome, mentre di tanti altri grandi Santi, le cui memorie ricorrono nel corso dell’anno, provo devozione, ma non hanno influenza personale sul mio cuore? Tanti Santi sono morti in esilio, molti sono stati efficaci predicatori, e che altro si può scrivere sul monumento del Crisostomo se non che fu eloquente e che fu perseguitato?».

Poi egli elenca con uno stile scorrevole e coinvolgente i grandi padri Atanasio, Gregorio, Basilio Agostino e Girolamo, elencando le loro qualità e dicendo che Giovanni non aveva le loro caratteristiche spirituali e umane; né lui si era dedicato completamente allo studio delle sue opere o ne aveva scritto una vita, e tuttavia ne sentiva l’irresistibile attrazione. E si domandava come spiegare questo? Nel testo la risposta.

Newman, uno spirito gentile

Io penso che l’attrattiva di S. Crisostomo dipenda dalla sua intima simpatia e compassione per il mondo intero, non solo nella sua forza, ma anche nelle sue debolezze; dallo sguardo vivace con cui egli vede tutto quello che gli si presenta, preso in concreto, sia fatto a modo proprio, sia dotato di una natura superiore alla sua.

Non voglio dire che un uomo religioso – e specialmente un santo – possa mai separare l’amore per la creatura dall’amore per il Creatore, o possa sentire una tenerezza per la Terra che non sgorghi dalla devozione al Cielo. Questa è la caratteristica di tutti i Santi, e io parlo qui non di quello che il Crisostomo ha in comune con gli altri, ma di quello che è suo speciale, e questa specialità, io penso, è l’interesse che egli prende a tutte le cose, non in quanto Dio le ha fatte simili, ma in quanto le ha fatte differenti le une dalle altre.

Parlo dell’affetto discriminante con cui egli accetta ognuno, per quello che è personalmente e che lo fa diverso dagli altri.

Parlo della svariata conoscenza degli uomini, per la quale li vede ad uno ad uno, per quella porzione di bene, maggiore o minore, di ordine superiore o inferiore, che si trova distintamente in essi; della sua appassionata contemplazione delle molte cose che essi fanno, compiono, producono, di tutte le loro grandi opere, come nazioni o stati; anzi persino se sono corrotti o alterati dal male, in quanto questo male lo si può considerare distinto dalla loro natura, o può essere riguardato un disordine soltanto materiale (fisiologico) distinto dal suo formale carattere di colpa.

Parlo dello spirito gentile e del temperamento geniale con cui egli guarda attorno a sé a tutte le cose che questo mondo meraviglioso contiene; della fedeltà grafica con cui le registra nella sua mente, e della prontezza e proprietà con cui se ne serve come argomento o illustrazione nel corso del suo insegnamento, secondo le occasioni.

Per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, egli non ha perduto una fibra, non trascura una vibrazione del complesso complicato del sentimento e dell’affezione umana; come il miracoloso roveto del deserto, che era avvolto dalla fiamma, ma non si consumava» (Perché amo il Crisostomo, in Rivista di Ascetica e mistica, 2 1978, 145-146).

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Ecco il Piano di Trump e Putin per la “pace” in Ucraina: un affare economico

Ecco il Piano di Trump e Putin per la “pace” in Ucraina: un affare economico

La Casa Bianca conferma che il presidente Trump sta lavorando al piano per “la fine della guerra in Ucraina, buono per entrambe le parti”.

Il nuovo Piano Usa-Russia per la “pace” in Ucraina, proposto da Donald Trump, si dice sia stato creato da un gruppo di funzionari americani e russi, tra cui l’inviato statunitense Witkoff e l’inviato russo Dmitriev. Si dice che Dmitriev sia soddisfatto dell’accordo, asserendo che Putin probabilmente lo accetterà.

Un piano con Mosca che il tycoon ha fatto recapitare dai suoi generali del Pentagono a Kiev, ha dichiarato l’ANSA. E Volodymyr Zelensky, pur non sbilanciandosi sui contenuti dell’iniziativa che appare fortemente penalizzante per gli ucraini, si è detto ‘pronto a collaborare’: ‘Ne parlerò con Trump’, ha detto mentre alcune fonti ucraine bollavano il piano come “assurdo e irricevibile”. Mosca ha affermato di non aver ricevuto alcuna informazione dagli USA attraverso i canali ufficiali sul piano di pace in Ucraina di cui hanno scritto diversi media internazionali. Lo ha detto la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, al media russo RBC: “se la parte americana avesse una qualsiasi proposta, l’avrebbero comunicata attraverso i canali in uso tra i ministeri degli esteri dei due Paesi”, ma il ministero degli esteri di Mosca non ha ricevuto niente di simile dal Dipartimento di Stato. Interessanti anche le dichiarazioni dell’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Kaja Kallas arrivando al Consiglio Affari Esteri, precisando di “non essere a conoscenza” di un coinvolgimento degli europei alla costruzione del piano di pace degli USA.

In tutto ciò non si capisce per quale motivo reale a trattare per la pace in Ucraina manchino proprio gli ucraini. Forse è l’ennesima prova – come dichiarato da analisti geopolitici e storici del calibro di Franco Cardini, Luciano Canfora e, all’epoca, Giulietto Chiesa – che la guerra in Ucraina è lo specchio di uno scontro geopolitico ed economico tra Russia e USA.

Resta quindi il mistero sulla veridicità del piano di Trump: se sia una proposta seria o un’ennesima messinscena americana. Il famigerato piano Usa-Russia consisterebbe in 28 punti che ieri Axios, che ne aveva rivelato l’esistenza, ha diffuso integralmente. Ecco di seguito i punti focali:

  • La sovranità dell’Ucraina sarà confermata;
  • promulgazione di un accordo di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa che metta fine a tutte «le ambiguità degli ultimi trent’anni».
  • «Ci si aspetta che la Russia non invada Paesi vicini e che la Nato non si espanda ulteriormente».  Comprende «garanzie di sicurezza certe» per l’Ucraina, che però si impegna (punto 7) a scrivere nella Costituzione che non entrerà nella Nato. E ancora: l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina.
  • L’Ucraina si ritirerebbe dalle zone di Donetsk e Lugansk ancora controllate dall’Ucraina. Gli ucraini dovrebbero ritirarsi dall’intero Donbass e riconoscere la piena sovranità russa. Il Donbass passerebbe così sotto la sovranità di Mosca, però sarebbe una regione demilitarizzata, dove le truppe russe non potrebbero venire dispiegate.
  • Le forze russe congeleranno le linee lungo Kherson e Zaporozhye, rinunciando alle rivendicazioni per il resto delle regioni.
  • Le forze russe si ritireranno da Kharkov e Sumy.
  • È prevista anche la riapertura della centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dai russi, la cui energia dovrebbe venire divisa in parti uguali tra Russia e Ucraina.
  • Il piano stabilisce anche che tutti i prigionieri di guerra e i corpi dei caduti saranno scambiati; tutti i civili detenuti, inclusi i bambini, verranno rilasciati.
  • L’Ucraina ridurrà il suo esercito a metà dei suoi attuali effettivi. l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina.
  • L’Ucraina cederà sull’accesso alle armi a lungo raggio.
  • Nessuna unità straniera sarà schierata in Ucraina, inclusa la forza di pace della Coalizione dei Volenterosi guidata da Regno Unito e Francia.
  • L’Ucraina non entrerà in alleanze militari, inclusa la NATO, rimanendo neutrale.
  • La NATO includerà nei suoi statuti «una disposizione secondo la quale l’Ucraina non sarà ammessa» nell’organizzazione atlantica.
  • Alla voce «garanzie» il piano spiega: «se l’Ucraina invadesse la Russia perderebbe tutte le garanzie»; se la Russia invadesse l’Ucraina «oltre a una risposta militare coordinata sarebbero ripristinate tutte le sanzioni globali»; se l’Ucraina lanciasse missili verso Mosca o San Pietroburgo senza motivo «le garanzie di sicurezza saranno invalidate».
  • Kiev si impegna a essere «Stato non nucleare» in accordo con i trattati di non proliferazione.
  • il rientro della Russia nel G8 e la cancellazione delle sanzioni, con il reintegro di Mosca nell’economia globale.
  • la Russia non ostacolerà l’uso del fiume Dnipro da parte dell’Ucraina per le attività commerciali e saranno raggiunti accordi per il libero trasporto di grano attraverso il Mar Nero.
  • All’Ucraina sarà permesso di aderire all’Unione Europea.
  • La lingua russa sarà riconosciuta come lingua ufficiale in Ucraina, al pari dell’ucraino.
  • L’Ucraina concederà uno status formale alla Chiesa Ortodossa Ucraina.
  • Necessità di «denazificare» l’Ucraina dai battaglioni paramilitari d’estrema destra, autori di pulizie etniche contro la popolazione civile del Donbass russofono.
  • Il punto 25 prevede che in Ucraina si tengano le elezioni «entro cento giorni dalla firma degli accordi».

L’accordo sarà «legalmente vincolante» e «la sua attuazione», come previsto da quello su Gaza, «sarà monitorata e garantita dal Consiglio di Pace, guidato da Trump». Una volta che le parti avranno accettato il memorandum e si saranno ritirate «il cessate il fuoco entrerà in vigore».

Il piano Trump – sebbene non si capisca chi siano gli attori coinvolti – ha le sembianze di un accordo economico tripartito tra Stati Uniti, Europa e Russia, nel quale vengono utilizzati 100 miliardi di beni russi congelati nelle banche europee, cui si aggiunge una somma simile che dovrebbe arrivare dall’Europa per la ricostruzione dell’Ucraina. Il 50% dei proventi dovrebbe andare agli Usa. Altre somme non specificate dei beni russi congelati dovrebbero essere investite in progetti bilaterali tra Washington e Mosca.

Cover: Putin e Trump – Foto  Heute.at su licenza Wikimedia Commons

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Sandro Cardinali e il suo impegno politico

Sandro Cardinali e il suo impegno politico

Sandro Cardinali è stato docente di filosofia all’Università di Ferrara, allievo di La Corte, collaborò con Mario Miegge e Carlo Carabelli, fu tra i protagonisti del ’68 a Ferrara. Segretario de Il Manifesto, ebbe anche un intenso rapporto col CDS, che nacque nel 1972 come Centro di Documentazione Sindacale, a supporto delle lotte nel petrolchimico di Ferrara, una delle fabbriche dove le innovazioni contrattuali furono più avanzate, influenzando poi anche le altre categorie nazionali.

Il Cds, animato da Pino Foschi, era un luogo di incontro, discussione (e anche scontro), tra operai, sindacalisti e studenti e quei pochi docenti universitari, allora militanti (tra cui Cardinali, Miegge, Monzoni) che aveva prodotto la rivolta del ’68, specie in quelle componenti politiche come il Manifesto, che avevano capito l’importanza di formare nelle fabbriche delegati sindacali che andassero gradualmente a sostituire le vecchie Commissioni interne.

Il rapporto fra i protagonisti del ’68 – gli studenti e quei docenti universitari (come Sandro Cardinali) – e quelli del ’69 – gli operai, come alla Montedison– non fu lineare, ma anzi carico di conflitti e però anche ricco di innesti, che portarono all’esperienza di scuola-fabbrica-quartiere, alle 150 ore (Gianni Verziaggi ne farà la sua tesi di laurea) e di molte altre intuizioni. I rinnovi contrattuali furono l’occasione prima nel ’69 poi nel ’72, di un aumento salariale in Italia senza precedenti, ma si era anche diffusa la coscienza che gli operai non erano solo “merce” da vendere, ma portatori di diritti e di proposte che potevano cambiare l’organizzazione del lavoro a vantaggio di tutti.

L’Italia stava vivendo la sua fase più bella e creativa. In quei 30 anni, iniziati nel 1945 (che poi saranno definiti gloriosi) gli imprenditori investivano, creavano beni di valore universale e col ‘68/72 ci fu anche la più grande redistribuzione salariale e sociale del paese. Tutto cresceva, salari, occupazione, Pil, diritti, benessere, rango del paese che diventerà nel 1980 la 4^ potenza mondiale.

In Sandro Cardinali, così come in altri, c’era la coscienza che si stava costruendo un mondo migliore e che eravamo nel giusto a difendere operai, poveri, diritti, uguaglianza e anche se c’era conflitto, c’era rispetto per gli imprenditori e chi creava e generava valore. Volevamo solo che fosse anche redistribuito. Purtroppo alcuni pazzoidi (sia di destra che di sinistra) imbracciarono le armi.

Ciò spiega perché anche nei film e nella cultura l’operaio entrò in modo prepotente e centinaia furono i documentari autoprodotti (allora coi video tape) con la collaborazione dei tanti comitati operai-studenti. L’operaio, invisibile, era diventato figura simbolo dell’immaginario collettivo, il nuovo eroe.

Ricordo: Trevico-Torino, di Ettore Scola; La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri; Chi lavora è proibito, di Tinto Brass; Mirafiori Lunapark, di Stefano Polito. In Romanzo Popolare Monicelli affida la parte dell’operaio protagonista al più amato attore dell’epoca, Ugo Tognazzi. E’ in questo contesto che nasce la passione di Paolo Micalizzi, ”operaio” Montedison che sarà poi socio Cds.

Ma la stessa eco si avverte nella musica, con i cantautori più popolari che denunciarono il mito della modernità, la falsa felicità prodotta dal boom economico: «Odio il boom economico. La modernità fatta di scandali e cambiali» (Guccini); e poi Endrigo, De Andrè, Jannacci, De Gregori, Bennato, Gaber.

In quel periodo nacque il femminismo e i CUB, Comitati Unitari di Base studenti-operai. A Ferrara gruppi politici come Potere Operaio, Lotta Continua e Il Manifesto, che inneggiavano a posizioni rivoluzionarie, ebbero però uno scarsissimo riscontro tra gran parte degli operai che seguivano il PCI/PSI, la sinistra DC e i sindacati. Non di meno influenzarono non poco le lotte e i contenuti che diventarono innovativi (inquadramento unico, aumenti salariali uguali per tutti, democrazia in fabbrica,…).

Su alcune questioni noi della sinistra extraparlamentare sbagliammo, ma sulle grandi questioni ci avevamo preso: la difesa di un modello socio-economico che valorizzava il lavoro e non solo il capitale (e tantomeno le rendite), l’importanza del ruolo dello Stato nell’economia, banche che fanno l’antico mestiere di prestare a tassi bassi a chi merita, l’uguaglianza come valore, avere scuola, sanità, pensione come beni universali, salari alti, cooperazione con tutti i paesi e quelli non allineati, la tassazione progressiva, una società senza poveri, uguali diritti per uomini e donne, un tempo per stare con sé e gli altri e non vivere solo di consumismo.

Tutti temi che ritornano centrali oggi, dopo la fase terribile della finanziarizzazione, avviatasi negli anni ’80 e ’90 che ha portato l’Occidente sull’orlo dell’abisso.

A Ferrara il gruppo maggioritario era quello di Potere Operaio, ma Il Manifesto, di cui Cardinali fu anche segretario, ebbe un ruolo importante e di dialogo con Cds e gli operai del petrolchimico allora impegnati su temi che diventeranno nazionali, come l’inquadramento unico, gli aumenti uguali per tutti, la formazione dei delegati di fabbrica. Cardinali che insegnava a quei tempi J.J. Russeau era amato dai suoi studenti.

Caro Sandro, quegli ideali non sono morti, vivono ancora oggi e ci sarà chi li porterà avanti, perché il desiderio di un mondo migliore non morirà mai. In tal senso le idee di Sandro e la sua umanità vivono nei nostri cuori.

Cover: Sandro Cardinali 

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Parole a capo
Daniele Cerioni: «Incantevole papavero» e altre poesie

Parole a capo <br> Daniele Cerioni: «Incantevole papavero» e altre poesie inedite.

 

La creatività consiste nel mantenere nel corso della vita qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare e ricreare il mondo. È l’onnipotenza del pensiero propria dell’età infantile.
(Donald Woods Winnicott)

 

Incantevole papavero

Sono nato fra i grappoli d’oro
e con la testa cinta di alloro.
Son cresciuto fra la polvere e la terra
deciso e avverso alla guerra.
Ho vissuto privo di nastri da mostrare
ma su montagne da scalare.
Ora campo nascosto
Fra penne e inchiostro
Camminerò coi piedi nudi
sulla bianca ghiaia
e aspetto conscio la vecchiaia.
Morirò solo e povero
Ma sarò incantevole e rosso
come un fiore di papavero.

 

 *

 

Il bacio di un angelo

 

Io la sera mi addormentavo
rapito da Morfeo…
e coi pugni chiusi
sognavo e volavo.
A volte navigavo…
Prima di addormentarmi
pregavo
e attendevo con ansia
il bacio della buonanotte
che non arrivava mai!
Ma la mattina mi svegliavo
con le labbra stampate sul volto…
Forse a baciarmi nel sonno
era un angelo
che, sbadato, cadeva dal cielo

 

*

 

La culla

 

In questo stato di perdizione
in questa culla mossa dal vento
mi dondolo e da solo mi coccolo.
In questo stato di ipnosi
provo a trovare il mio bimbo interiore
e da solo mi cullo…
Vorrei solo un bacio
o una carezza sul collo.

 

*

 

La maschera di fango

Stamattina indosserò una maschera
non da demonio, non da serpente
ma di fango,
per vivere felice la giornata.
così il dottore che mi vedrà
passeggiare per la città
Dirà che tutto va bene!
Stamattina indosserò una maschera
non da demonio, non da serpente
ma di fango o di creta…
ci sarà qualcuno che mi creda
fra le persone civili?
Che finalmente mi troveranno felice.
Esiste una maschera di fango anche per il cuore?
se così fosse fatemelo sapere
se così fosse fatemelo sapere.
Sono un collezionista di parole,
non sono un poeta
e che non beve vino
e alla sera al posto della dentiera
metterò la maschera di fango sul comodino

 

Foto di Christel da Pixabay

Daniele Cerioni (1979) è un poeta e favolista nato a Frascati. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università “La Sapienza” di Roma. Cresciuto ascoltando e apprezzando i più famosi cantautori italiani e da sempre appassionato di poesia, spinto da un’irrefrenabile voglia di esprimersi, inizia a scrivere testi nel lontano 2007, anno nel quale scrive dieci poesie; poi qualcosa si rompe e ricomincerà ad elaborare nuovi testi solamente nel marzo 2020, in piena pandemia da Covid-19. Durante il lock-down trova il tempo e l’ispirazione per poter stendere numerosi componimenti presenti nella sua prima opera “Pensieri(in)versiPAV Edizioni, 2022. Oggi Daniele, dopo la pubblicazione de “La libertà delle farfalle“, PAV Edizioni, 2024, continua a scrivere le sue poesie allargando la sua produzione anche al campo della scrittura dedicata ai più piccoli o dirette ai a quei bambini che più piccoli non sono ma sono fanciulli nell’animo. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Daniele Cerioni il 31 ottobre 2024.

Ringrazio Daniele Cerioni di averci autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie inedite.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 312° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Spallini per sempre: un nuovo libro di racconti su una passione senza fine

Spallini per sempre: un nuovo libro di racconti su una passione senza fine

Tifosi spallini per sempre’, il grande racconto della passione biancoazzurra. Edizioni della Sera, AA.VV., a cura di Cristiano Mazzoni.

Una raccolta di racconti spallini, dove la partita rimane sullo sfondo, dove protagoniste sono la passione, l’identità, la gioia d’essere un acronimo, un’iperbole di ritorno.
Dice “ma proprio adesso, anche dopo il millesimo fallimento, adesso che i biancazzurri corrono sui campi del Nonantola e del Gambettola?”
Certo, proprio ora, ancor di più. Per quei colori del cielo che hanno stregato generazioni di ferraresi e non ferraresi, per quelle righe strette che ci prendono il cuore dai tempi del cortile fino alla nostra dipartita.

E no, non sto esagerando. Venti e passa autori, eterogenei, differenti, con storie e percorsi di vita spesso agli antipodi hanno cercato di raccontare la spallinità declinandola in maniere diverse.
Ogni partita indicata nella raccolta è tassativamente autentica, il contenuto cambia a seconda delle diverse sensibilità. Dal racconto frutto di un’accurata ricerca storica, a quello più spontaneo e autobiografico, abbiamo cercato di allontanarci il più possibile dalle scontatezze e dalle ripetitive indicazioni sulla prima volta. L’arco temporale dei racconti è di circa settant’anni, dal 1957 al 2024. Il lettore, sia esso appassionato tifoso, simpatizzante o semplicemente alla ricerca di qualche ora di svago, ritroverà certamente una partita, un personaggio, un amico, un nonno di sua conoscenza.

Perché in maniera ossessiva e spesso compulsiva riteniamo la spallinità una diagnosi irreversibile? Perché questa specificità vera o presunta di una “malsana” passione per i colori che rappresentano la città?

Perché il ferrarese è la sua squadra del cuore. Gli undici ragazzi che da oltre un secolo sgambettano dalle parti di Corso Piave ne sono la sua immutata e immutabile rappresentazione. La stessa sfiga che aleggia sul simbolo del cerbiatto ne è la prova. La nebbia, il cigolio di una vecchia bicicletta coi freni a battente sul selciato di Ercole D’Este, laggiù verso la Casa del Boia sono il suo habitat. Il ferrarese, non emiliano, non romagnolo, e nemmeno veneto, rimane un essere strano, senza rappresentazione né rappresentanti. Un essere che si lamenta del caldo, del freddo e del tiepido, che bestemmia per il traffico in una giornata di pioggia ma che decide di prendere la superstrada per il mare alle undici del mattino di Ferragosto.

Un popolo in grado di spostare undicimila persone per una trasferta in serie C2, di andare in cinquemila a San Siro e di superare le cinquemila unità per l’esordio in Eccellenza. Gente strana, impastata tra umidità, zucca tritata, salama da sugo, clinto, brazadela, ciupeta e la S.P.A.L..

La S.P.A.L., appunto, il più bell’acronimo della storia calcistica italiana, dove Arte e Lavoro si mescolano, partendo da una sacrestia di salesiani fino a vincere per ben due volte la serie B. La S.P.A.L. non va raccontata partendo dalle vittorie (poche), ma dalle viscere di chiunque abbia calciato un Super Tele in un cortile di periferia.

La santificazione del dì di festa, un piatto di cappelletti fumante, una sciarpa di lana fatta all’uncinetto e il percorso fino al tempio incastonato a un chilometro dal castello di San Michele. Un tutt’uno con la città, a Ferrara non si va allo stadio o alla partita, si va “alla S.P.A.L.”, moto a luogo, trasfigurazione del tifoso con la propria squadra. In campo ci andiamo noi, quel colpo di testa, quella sforbiciata, quell’entrata vigorosa sono il nostro gesto atletico e nessuno mai potrà tagliare quel legame atavico e ancestrale.

Sabato 22 novembre alle ore 18.30 presso la libreria UBIK verrà presentato il libro “Tifosi spallini per sempre. Non mancate, vi divertirete e assaggerete il sapore romantico e unico dell’essere spallino.

Forza vecchio cuore biancoazzurro!

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il silenzio uccide, La gentilezza salva.
Una proposta di legge per “istituzionalizzare” la gentilezza

Il silenzio uccide, La gentilezza salva!
Presentata dal MIG una proposta di legge per “istituzionalizzare” la gentilezza.

(Foto di MIG)

La gentilezza nasce da gesti semplici, ogni giorno. La gentilezza è attenzione agli altri, è coltivare l’equilibrio tra il proprio benessere e quello della comunità, è rispetto delle regole, quale fondamento di una convivenza serena e civile ed è cura per ciò che ci circonda e ci rigenera. Essere gentili significa partecipare quotidianamente e con responsabilità alla vita della Comunità, trasformando le intenzioni in azioni e contribuendo a costruire insieme, passo dopo passo, un domani migliore, riconoscendo che la ricchezza nasce dall’incontro delle differenze. La gentilezza è portare in armonia mente, cuore ed emozioni e richiede l’esercizio dell’ascolto e il rispetto della diversità di pensiero. Sono questi alcuni dei valori del Movimento Italiano per la Gentilezza-MIG, nato a Parma nel 2000 grazie ai coniugi Aiassa e oggi guidato da Palermo con l’impegno di Natalia Re, quale punto di riferimento italiano del World Kindness Movement,

L’obiettivo del Movimento Italiano per la Gentilezza è semplice e ambizioso: rendere la gentilezza protagonista della quotidianità, nella convinzione che la gentilezza non sia fragilità, ma energia trasformativa, capace di cambiare relazioni, comunità e persino intere città. Con il programma “Il Valore della Gentilezza”, ispirato all’Agenda ONU 2030, il MIG agisce in ambiti cruciali, quali: sanità fatta di umanità e non solo di tecnica; giustizia come equità e dignità per tutti; spazi urbani accoglienti e sostenibili; educazione che forma cittadini consapevoli; uguaglianza globale nei diritti e nelle opportunità. Volontari, ambasciatori e testimoni portano avanti questo messaggio ogni giorno. Qui il Decalogo della Gentilezzamesso a punto dal Movimento Italiano per la Gentilezza.

Quest’anno il MIG celebra un traguardo importante: il 25° anniversario dell’Assemblea Costitutiva. Un percorso fatto di passione, di impegno civile, di piccoli gesti che nel tempo hanno costruito fiducia e speranza. E proprio in questi giorni si celebra la Settimana della Gentilezza (la Giornata della Gentilezza si è celebrata ieri 13 novembre in tutto il mondo), diventata molto più di sette giorni: un tempo diffuso, un abbraccio collettivo che si allunga e si moltiplica nelle piazze, nelle scuole, nelle istituzioni e nei cuori. Gentilezza che quest’anno è stata già celebrata a Palermo, Cirò Marina, Napoli, Genova, Castelfranco, Santena (TO), Tordandrea (PG), Fabriano (AN) e in tante altre occasioni dove la gentilezza si è fatta incontro, dialogo e testimonianza viva e che il 15 Novembre farà tappa a Roma e a Milano.

E nei giorni scorsi su impulso del MIG (la presidente Natalia Re è stata in audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, il 15 ottobre scorso), è stato presentato un disegno di legge sulla gentilezza come strumento sociale e antidoto alla violenza e l’istituzione del Servizio Nazionale degli Educatori di Strada, figure professionali dedicate alla prevenzione delle condotte violente e alla ricostruzione del tessuto sociale nei contesti più fragili.

La proposta di legge punta ad introdurre la gentilezza come 13° indicatore BES (Benessere Equo e Sostenibile), al pari degli altri parametri che definiscono la qualità della vita dei cittadini. Alla proposta di legge si affiancano anche due testi collegati, il primo rivolto al mondo dell’istruzione e che ha l’obiettivo di promuovere la gentilezza come metodo educativo e di prevenzione del bullismo anche online e l’altro rivolto al mondo del lavoro e alla pubblica amministrazione in particolare, con l’obiettivo di favorire ambienti professionali inclusivi e rispettosi, liberi da molestie e discriminazioni. Come parte integrante della proposta è stata sviluppata anche una “Carta dei Sei Valori della Gentilezza” composta da sei principi fondamentali: rispetto, ascolto, solidarietà, equità, pazienza e generosità. La Carta è stata pensata per essere usata per orientare le politiche pubbliche, dalla gestione dei servizi sociali alla promozione della cultura, fino alla definizione delle politiche economiche.

L’“istituzionalizzazione” della gentilezza è già avvenuta in alcuni Paesi che hanno normato il tema. E’ il caso del Giappone che ha adottato leggi che promuovono il rispetto reciproco e l’inclusione culturale, come ad esempio, il Programma di Educazione alla Tolleranza nelle scuole che punta a insegnare ai giovani l’importanza della gentilezza e del rispetto verso gli altri, in particolare verso le minoranze e le persone con disabilità. In Canada, invece, dal 1988 c’è il Multiculturalism Act, una legge federale che promuove la multiculturalità come un valore fondamentale per la società canadese. In Bhutan è stata introdotta la Felicità Interna Lorda (GNH), una misura di benessere volta a guidare le politiche pubbliche, in alternativa al prodotto interno lordo (PIL) tradizionale, che si concentra su 4 aree principali: sviluppo economico, conservazione culturale, protezione ambientale e governance buona. In Australia sono in vigore il National Day of Action Against Bullying and Violence e diverse leggi e iniziative locali per combattere il bullismo e la violenza, in particolare nelle scuole. Nei Paesi Scandinavi, infine, la gentilezza, il rispetto e l’inclusione sociale sono promossi come parte integrante delle politiche pubbliche.

Qui l’audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della presidente del Movimento Italiano per la Gentilezza-MIG, Natalia Re.

… grazie a Carlotta, che mi ha invitato a scrivere di Gentilezza

In copertina: Foto di Lucas Cabello da Pixabay 

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L’Europa non crolla sotto le bombe. Si sta svuotando dall’interno

L’Europa non crolla sotto le bombe. Si sta svuotando dall’interno

Santiago del Cile – da pressenza del
Quest’articolo è disponibile anche in: SpagnoloFrancese
(Foto di Smowl)

L’Europa non sta crollando a causa di missili, invasioni o città ridotte in macerie. La frattura viene dall’interno. Ciò che sta accadendo è più lento e pericoloso di una guerra, e milioni di giovani europei se ne vanno perché non c’è futuro per loro dove sono nati. E mentre tutto questo accade, Bruxelles discute regolamenti che nessuno legge. L’emorragia non fa rumore, ma sta svuotando il cuore del continente.

Dietro questa migrazione silenziosa si cela un modello esausto. Le economie europee sono cresciute senza condivisione, hanno incorporato senza inclusione, hanno promesso sicurezza ma hanno consegnato precarietà. In Italia, Grecia e Portogallo, intere generazioni vivono con salari insufficienti a sostenere una vita dignitosa. In Francia, lo stato sociale è diventato un campo di battaglia. In Germania, la prosperità non è più sufficiente a sostenere la propria narrazione. Il continente sta invecchiando, diventando isolato e burocratico, e il suo peggior nemico non è esterno; è la disillusione.

Questa disillusione sta rimodellando la politica europea. In Ungheria, Polonia, Paesi Bassi e Francia, i partiti ultranazionalisti stanno crescendo nel vuoto lasciato dalle socialdemocrazie. Al nord, Svezia e Finlandia si stanno orientando verso la militarizzazione. Al sud, Spagna e Italia brancolano tra stanchezza e rabbia. L’Europa non teme più il futuro, ma lo evita. Il continente che un tempo dettava il corso del mondo ora si chiede come sopravvivere alla propria disillusione. La frattura europea non sarà un’esplosione, ma una lenta scomparsa demografica, morale e politica.

L’esodo silenzioso che l’Europa nasconde

Negli ultimi dodici anni l’Europa ha perso più di 8,3 milioni di giovani. Non si tratta di una stima soggettiva, ma di dati ufficiali forniti da Eurostat e dalla Banca Mondiale. La sola Romania ha visto emigrare 3,7 milioni di persone dal 2007, il più grande esodo civile dalla Seconda Guerra Mondiale. La Lettonia ha perso il 25% della sua popolazione tra il 2000 e il 2023. La Bulgaria ha perso più di 2 milioni di abitanti in trent’anni e non ci sono stati bombardamenti. C’è un’evacuazione economica al rallentatore.

Nel 2023, oltre 400.000 spagnoli sotto i 35 anni vivevano fuori dalla Spagna. Il Portogallo ha il 10% della sua popolazione totale che vive all’estero. L’Italia registra oltre 1.200.000 emigranti qualificati dal 2008, per lo più medici, ingegneri e personale sanitario. L’Europa non sta perdendo turisti. Sta perdendo coloro che sostengono il suo domani.

La cosa più rivelatrice è che non fuggono dalla Russia o dalle guerre, fuggono dal costo degli alloggi, dai salari stagnanti, dal lavoro precario e da un sistema in cui l’energia e la tecnologia costano più che in qualsiasi altra area del pianeta. Mentre Bruxelles gioca a regolamentare il futuro, il futuro sta uscendo dalla porta.

I 13 paesi che stanno già retrocedendo

Nell’Europa orientale, la fuga umana ha le dimensioni di un’intera economia. La Romania ha perso quasi il 20% della sua popolazione e oltre 60 miliardi di dollari in talento produttivo accumulato dal 2007.

La Lettonia ha perso l’equivalente di 12 miliardi di dollari all’anno in capitale umano, con l’evaporazione del 25% della sua forza lavoro dal 2000. La Lituania, con un PIL di appena 76 miliardi di dollari, ha visto evaporare una popolazione equivalente a 15 miliardi di dollari in produttività futura e la Polonia ha perso lavoratori qualificati per un valore stimato di 100 miliardi di dollari in tasse non riscosse dal 2010.

Il sud vive un altro livello di collasso. La Grecia ha un debito superiore ai 400 miliardi di dollari, con più di 500.000 giovani emigrati in seguito alla crisi; il Portogallo supera i 280 miliardi di dollari di debito pubblico, mentre 1,5 milioni di portoghesi vivono all’estero, pari a oltre il 15% del PIL perso in produttività. La Spagna supera i 32 miliardi di dollari all’anno in fuga netta di giovani che emigrano e non tornano. In Italia si sono persi professionisti qualificati per un valore di oltre 200 miliardi di dollari nell’ultimo decennio, tra cui 70.000 medici e tecnici sanitari.

L’energia industriale in Europa è arrivata a costare 300 dollari per MWh nel 2022, mentre negli Stati Uniti non supera i 70 dollari. L’Italia ha un debito pari al 140% del PIL, equivalente a 3,1 trilioni di dollari; e in Grecia, Portogallo e Romania i salari minimi superano di poco gli 800 dollari al mese. Non se ne vanno a causa di una guerra, se ne vanno perché il modello è crollato di fronte al costo della vita e della produzione e l’Europa continua ad esistere sulle mappe, ma non più nelle decisioni vitali.

Il centro crolla. Germania e Francia già ne risentono

La fuga non è più solo umana. È industriale. La Germania ha perso oltre 90 miliardi di dollari in investimenti industriali diretti tra il 2022 e il 2024, dirottati verso Stati Uniti e Cina. BASF ha trasferito 10 miliardi di dollari in un nuovo mega impianto chimico a Zhanjiang. Volkswagen, BMW e Mercedes hanno confermato che oltre 50 miliardi di dollari in nuovi impianti per veicoli elettrici saranno installati fuori dall’Europa, principalmente in Texas e Shanghai, e non si tratta di speculazioni.

L’attrattiva degli Stati Uniti è puramente energetica e fiscale. Lo Stato federale sovvenziona fino a 7.500 dollari per ogni auto elettrica prodotta localmente. L’elettricità industriale in zone come il Texas costa 30 dollari per MWh, contro i 90-120 dollari per MWh della Germania post-Nord Stream. Ogni megafabbrica che sceglie il Texas invece dell’Europa rappresenta tra i 5 e i 10 miliardi di dollari di PIL futuro annuo che svanisce dal continente.

La Francia, dal canto suo, non esporta più talenti, ma li importa. Nel 2023 ha reclutato più di 25.000 medici stranieri, principalmente dal Marocco, dalla Tunisia e dal Senegal, per sostenere un sistema ospedaliero collassato per mancanza di personale locale. Il deficit previsto supera i 12 miliardi di dollari all’anno per la sostituzione di lavoratori qualificati. Le università francesi formano meno ingegneri di quanti ne richieda l’industria del Paese. L’Europa non solo ha perso il monopolio produttivo, ma sta perdendo anche la capacità umana di ricostituirlo con la propria gente.

L’Europa è un luogo che viene abbandonato

Il simbolo più evidente non è nelle frontiere, ma negli aerei in partenza. Più di un milione di portoghesi vivono oggi in Francia, generando oltre 15 miliardi di dollari all’anno di PIL per un altro Paese e più del 70% non intende tornare, secondo i dati dell’Osservatorio Portoghese sull’Emigrazione. Il Portogallo ha già perso in capitale umano l’equivalente del 20% della sua economia attuale.

La Lettonia è il caso più estremo del Baltico. È passata da 2,3 milioni di abitanti nel 2000 a soli 1,8 milioni nel 2023. Una perdita del 25% della sua popolazione attiva, valutata in oltre 30 miliardi di dollari in produttività futura evaporata. Si tratta di una scomparsa demografica non causata da guerre. Il Paese esiste sulle mappe, ma non sarà più in grado di sostenere da solo la sua piramide lavorativa e fiscale.

La Spagna subisce una fuga silenziosa e strategica. Ogni anno se ne vanno più di 100.000 professionisti qualificati, tra cui medici, scienziati e ingegneri che generano in altri paesi un output stimato superiore a 25 miliardi di dollari all’anno in valore aggiunto perso. Germania, Regno Unito e Svizzera accolgono questi talenti senza pagare per la loro formazione.

Gli Stati Uniti e la Cina vincono. L’Europa si limita a osservare

Gli Stati Uniti stanno assorbendo l’industria che l’Europa non è più in grado di sostenere. Dal 2022 le aziende europee hanno annunciato oltre 200 miliardi di dollari di investimenti industriali trasferiti sul suolo statunitense, attratti da energia tre volte più economica e sussidi federali diretti dall’Inflation Reduction Act per 369 miliardi di dollari. La sola Germania ha dirottato 100 miliardi di dollari in progetti chimici, automobilistici e farmaceutici verso il Texas, la Louisiana e l’Ohio. Washington non sta conquistando le fabbriche, le sta ricevendo senza resistenza.

La Cina gioca su un altro piano. Acquista energia quattro volte più economica rispetto all’Europa grazie a contratti con la Russia e l’Arabia Saudita inferiori a 10 dollari per MWh e, con questo divario, sta sostituendo l’Europa come esportatore globale. Nel 2024 il surplus commerciale cinese con l’UE ha superato i 400 miliardi di dollari, e Pechino sta attirando i giovani ricercatori europei che non riescono più a trovare finanziamenti locali. Solo nel 2023 la Cina ha attirato più di 12.000 scienziati europei con contratti superiori a 120.000 dollari l’anno, cosa inaccessibile nelle università europee in regime di austerità.

Nel frattempo, Bruxelles investe migliaia di ore nella legislazione sui caricabatterie USB e sulle quote di emissione, ma non è riuscita a fissare un prezzo energetico stabile per la sua industria né un piano reale per trattenere i talenti. La discussione è normativa e la fuga è globale. L’Europa continua a parlare e i suoi figli non ascoltano più.

2030: l’UE può continuare ad esistere… ma vuota

L’Unione Europea può arrivare al 2030 istituzionalmente intatta, con un parlamento funzionante, una commissione che emana direttive e vertici diplomatici impeccabili. Ma dietro questa facciata potrebbe esserci un continente vuoto, senza tessuto industriale, senza forza lavoro giovane e senza un reale potere strategico. Il rischio non è il collasso istituzionale, è l’irrilevanza.

Se l’attuale tendenza continuerà, l’Europa perderà più di 1,5 trilioni di dollari in investimenti industriali accumulati tra il 2024 e il 2030 a favore degli Stati Uniti e dell’Asia e più di 15 milioni di lavoratori potrebbero uscire dal sistema produttivo europeo senza essere sostituiti dalle nuove generazioni.

L’età media in Italia e Germania supererà i 50 anni, mentre in paesi come l’India è di 29 anni. Non è solo un problema demografico, è una rottura della spinta economica.

Il continente può trasformarsi in quello che molti analisti definiscono già il suo destino silenzioso, in altre parole un museo globale, con città da cartolina che accolgono turisti cinesi, arabi e statunitensi che contribuiscono con oltre 600 miliardi di dollari all’anno alla spesa turistica… mentre anche l’industria europea si riduce a pezzi da museo. L’Europa può continuare a esistere, senza forza, senza progetti e senza un proprio futuro.

L’Europa si sta dissolvendo

L’Europa non sta affrontando un’invasione né un crollo improvviso. Sta affrontando qualcosa di più pericoloso. Si sta dissolvendo silenziosamente, non a causa della guerra, ma dell’irrilevanza. Per aver delegato l’energia alla Russia, l’industria alla Cina e la strategia agli Stati Uniti. Per aver insegnato al mondo la democrazia e i diritti, ma aver dimenticato di difendere con lo stesso rigore la propria sovranità materiale.

C’è ancora margine. Forse cinque anni, non di più. Se l’Europa riuscirà a riprendere il controllo del prezzo e dell’origine della sua energia, se deciderà di produrre dove vive e non solo di consumare ciò che altri producono, se tornerà a considerare il talento giovane una priorità invece che una risorsa da esportare, allora potrà non solo sopravvivere, ma rinascere, ma l’orologio non segna più decenni, bensì cicli elettorali.

L’Europa non è condannata a scomparire. È condannata a scegliere se continuare ad amministrare rovine gloriose o ricostruire un futuro che non dipenda da nessun altro. E questa decisione non sarà presa dai discorsi ufficiali. Saranno quelli che oggi stanno facendo le valigie a prenderla.

Bibliografia:

. Eurostat, Demographic Trends & Migration Report 2023–2024
. FMI, Regional Outlook on Europe — Structural Decline Indicators
. Banco Mundial, Global Talent Drain & Human Capital Flight in the EU
. IEA, Energy Price Divergence between EU–US–China 2022–2024
. Comisión Europea, European Industrial Competitiveness Report 2024
. OECD, The Silent Migration Crisis in Southern Europe
. Bloomberg & Financial Times, Factory Exodus & IRA vs EU Analysis 2023–2024
. McKinsey Global Institute, Industrial Relocation and Talent Flows 2030 Risk Model


Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.

Parole e figure / Il tempo che volevi

In uscita il 20 novembre, con Kite edizioni, “Il tempo che volevi”, di Michela Nodari, porta il lettore nell’attimo presente. Quello che conta davvero.

Tempus fugit. Non è un semplice aforisma che riporta alle Georgiche di Virgilio ma la dura e cruda realtà. E noi umani-umanoidi ormai non lo sappiamo più riconoscere.

Gli africani dicono che loro hanno il tempo, mentre gli occidentali l’orologio. Come dar loro torto. Noi scalpitiamo, ci affanniamo, pianifichiamo, corriamo, ma dove?

Esiste un tempo macrocosmico, quello della vita, indipendente dal potere e dal volere dell’uomo, che evolve nel cambiamento delle stagioni, nello scorrere dei giorni suddivisi in secondi, minuti e ore, in giorno e notte. Un tempo dettato dalle regole e dai calendari. Quello che nessuno oggi ha mai, soprattutto gli adulti.

Ma c’è anche il tempo in senso microcosmico, che è il tempo come spazio storico di vita realmente e personalmente o collettivamente vissuto da un individuo o da una comunità, secondo le proprie esigenze particolari, il sapere specifico, le conoscenze, gli strumenti, le esperienze. Quello dettato dai sentimenti, dalle paure e dai dolori, dai momenti felici e tristi, dalle emozioni e dalle sensazioni. Dai battiti del cuore.

Ogni giorno ricordo a me stessa che il dono più prezioso che possiamo fare è il nostro tempo, fatto di attenzione e di ascolto. Il tempo per un genitore anziano, per un bambino che ci chiama a giocare, per una carezza e un abbraccio spesso rimandati.

Michela Nodari, in Il tempo che volevi, ci riporta ad un altro tempo, quello vero, quello che conta, quello che non si dimentica e che aiuta ad andare avanti.

il tempo che volevi

In un mondo in cui tutti corrono senza mai fermarsi, esiste, infatti, un tempo diverso. È il tempo dell’infanzia, quello che i grandi spesso dimenticano di cercare. Quello che deve esserci ancora e sempre, quello che non è mai perduto. Prima che sia tardi.

Michela Rodari ci presenta un albo delicato che è una meravigliosa riflessione sul nostro rapporto con il tempo e un autentico ed accorato invito a rallentare, osservare e a vivere pienamente il presente, lontano dalla frenesia che scandisce le nostre giornate.

Perché il tempo che davvero conta è sempre qui, in attesa di essere riconosciuto. Amato, desiderato e abbracciato.

Perché ci vuole tanto tempo per diventare giovani. E il momento giusto è sempre adesso.

Michela Nodari, Jesús Cisneros (illustratore), Il tempo che volevi, Kite, Padova, 2025, 32 pp.

il tempo che volevi

Le voci da dentro / Dove sono finiti tutti i fiori?
Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza della violenza

Dove sono finiti tutti i fiori?
Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza della violenza

Diffondo una comunicazione a cura di C.A.R.P.A. aps (Centro Artistico di Ricerca Periferie Attive) che invita alla partecipazione allo spettacolo teatrale  Where have all the flowers gone?” (“Dove sono finiti tutti i fiori?”). Comunque la pensiate, buona partecipazione.
(Mauro Presini)

Saranno dieci detenuti, partecipanti al percorso “Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere”, a presentare lo spettacolo “Where have all the flowers gone?“, con drammaturgia e regia di Marco Luciano, in collaborazione con Veronica Ragusa e Andrea Zerbini. Gli appuntamenti sono per giovedì 4 e venerdì 5 dicembre 2025 alle 18:00 e sabato 6 dicembre 2025 alle 17:00 all’interno della Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara.

Lo spettacolo è un viaggio poetico e corale tra fragilità e resistenza, ispirato al libro “L’intelligenza dei fiori” di Maurice Maeterlinck.

Il tema centrale è la capacità dei fiori di crescere in condizioni avverse, offrendo un’immagine di resistenza silenziosa e stimolandoci a ripensare il rapporto tra fragilità e forza.

Where have all the flowers gone?porta in scena dieci detenuti che, come fiori resilienti, cercano spiragli di luce nel terreno arido della guerra, vista da un luogo di reclusione.

Dieci corpi, dieci voci, dieci storie che sfidano la durezza del cemento, in un canto collettivo che è un atto di insubordinazione contro la violenza.

Dieci corpi, dieci voci provenienti da diversi angoli del mondo portano la stessa domanda: dove sono finiti i fiori?
Attorno a questo quesito si sviluppa un viaggio teatrale che mostra come, persino nei luoghi più chiusi, l’umanità coltivi sempre il desiderio di sbocciare.


Prenotazione necessaria:

I posti sono limitati e su prenotazione da effettuare all’indirizzo mail carpa.redazione@gmail.com entro mercoledì 19 novembre 2025, allegando una copia fronte-retro di un documento di identità valido.

Il costo del biglietto è di 10 euro; a coloro che invieranno l’iscrizione sarà poi indicata via mail la piattaforma su cui effettuare il pagamento.

Il Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere, diretto da Marco Luciano, coinvolge stabilmente due gruppi: un primo gruppo formato da circa venti detenuti di diverse nazionalità, impegnati in ruoli attoriali, musicali e tecnici; un secondo gruppo, composto da detenuti in regime di detenzione protetta. Quest’ultimo è attualmente impegnato nella realizzazione di un podcast in tre puntate dal titolo “Se non son gigli…”, che sarà presto presentato sulle piattaforme social di C.A.R.P.A. aps.

Where have all the flowers gone?” è parte del Festival “Trasparenze di teatro carcere”, appuntamento annuale di restituzione, formazione e dialogo fra artisti, detenuti, educatori, operatori penitenziari e pubblico.

Il festival è organizzato dal Teatro del Pratello in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Chiesa Valdese.

Il Laboratorio Permanente di Creazione Teatrale in Carcere a cura di CARPA è realizzato con il contributo del Comune di Ferrara e del Ministero della Giustizia.

Le foto della copertina e nel testo sono state scatta da Mauro Presini durante un precedente spettacolo del gruppo. 

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Le mille luci di New York, al centro di un mondo dal cuore di tenebra

Le mille luci di New York, al centro di un mondo dal cuore di tenebra

Un immigrato di origine indiana e ugandese nato a Kampala, 34 anni, musulmano, che si autodefinisce socialista, è appena diventato sindaco di New York. Il suo nome è Zohran Kwame Mamdani.

Prova a rileggere la frase sopra. Leggila lentamente. Presta attenzione alle origini, al credo religioso, all’età, all’ideologia professata, alla città. Prova a pronunciare il suo nome. Vai a vedere dov’è l’Uganda.

Se qualcuno avesse ipotizzato una cosa del genere solo un anno fa, gli avrei riso in faccia. Avrei ritenuto molto meno fantascientifico che una fumata bianca annunciasse un Papa nero. New York è la città in cui, 24 anni fa, un gruppo di musulmani suicidi ha costretto due aerei di linea a fare rotta contro le Torri Gemelle del World Trade Center e a schiantarvisi contro, causando quasi tremila morti, l’immagine tragica più iconica del ventunesimo secolo. New York non è una città capitalista, è la città capitalista. New York è la città in cui risiede il più elevato numero di miliardari in dollari, i billionaires. New York è la città al mondo, fuori da Israele, in cui risiedono la maggior parte delle persone di ascendenza ebraica: circa due milioni. La parola “socialismo” in questa città è sempre suonata più blasfema della parola “fascismo” . New York è la città di Donald Trump, il politico-imprenditore-presidente bianco più ricco, gaglioffo e capitalista del pianeta, la cui elezione è sembrata meno incredibile agli italiani che agli statunitensi, semplicemente perché noi ci siamo passati prima di loro.

Un anno fa Mamdani godeva dell’uno per cento dei consensi nella corsa a sindaco. E’ riuscito a conquistare il consenso del 51% dei votanti, che sono andati alle urne in massa, come non succedeva da 50 anni. Tutto questo è accaduto nonostante, durante la campagna elettorale, Mamdani sia stato accusato di ogni nefandezza: di essere comunista (negli Stati Uniti è un insulto),  jihadista, antisemita, immigrato.

Di fronte a queste accuse, Mamdani non ha annacquato nessuna delle sue convinzioni. Ha ribadito di essere un socialista, ma non ha mai detto di essere comunista. Ha rivendicato con orgoglio il suo essere musulmano, ma non ha mai parlato di sharia. Ha precisato che riconoscerebbe Israele così come riconoscerebbe ogni stato che assicurasse pari diritti a ognuno dei suoi cittadini, a prescindere da razza e religione, e non praticasse l’apartheid (nota: qualcuno chiese di “riconoscere” il Sudafrica razzista che teneva in galera Mandela? Il Sudafrica esisteva, e basta. Non aveva, al tempo, bisogno di riconoscimenti, piuttosto di boicottaggi e sanzioni). Quanto all’immigrato, ricevere quest’accusa da gente che è immigrata per definizione, perchè se non lo fosse sarebbe il discendente di un Navajo, di un Apache o di un Seminole, è veramente comico: ma di questi tempi l’ICE distingue tra immigrati bianchi, i buoni, e colorati, i cattivi (compresi i nativi americani, a volte oggetto di espulsione dalla terra che i loro antenati abitano da millenni). Tra i buoni, annoveriamo Donald Trump, Elon Musk (che non è nato negli Stati Uniti, esattamente come Mamdani), David Zuckerberg. Tra i cattivi, tutti i colored, a meno che non siano ricchi. Negli Stati Uniti il colore della pelle è sempre un problema, a meno che non diventi ricco e di successo: allora, la pelle si sbianca.

Che la comunità musulmana della Grande Mela lo abbia votato in massa non sorprende, ma ovviamente non sarebbe bastato per vincere. Si stima che un ebreo newyorchese su tre abbia votato per lui, e che i 3/4 dei giovani sotto i trent’anni abbiano votato per lui. Il suo programma è incentrato sulla restituzione di New York a tutti i suoi cittadini, anziché solo a quelli che se la possono permettere, che sono sempre di meno: congelamento degli affitti, asili nido universali, trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare – 200.000 immobili in dieci anni. Come trovare i soldi? Prevalentemente, attraverso un aumento delle tasse sui ricchi (tax the rich).

“Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza eguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l’efficacia dell’impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego del capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta.”  Sembra una frase di Mamdani che descrive la situazione nel 2025. Invece è di Franklin Delano Roosevelt, ed è stata pronunciata nel 1938.  Eppure, se pensi che sia stato semplice costruire un consenso di massa su un programma di redistribuzione di base del reddito – un programma quindi niente affatto comunista, ma piuttosto rooseveltiano – stai sottovalutando la potenza dei finanzieri e speculatori miliardari, alcuni ebrei, che hanno finanziato la propaganda contro Mamdani. Tutti contro Mamdani, tranne uno: George Soros. E’ incredibile come la definizione di “speculatore ebreo” ridiventi demoniaca quando riferita a George Soros e torni ad essere la naturale descrizione di abili uomini d’affari quando si parla di Bill Ackman o di Vanguard o di Blackrock. E’ incredibile come l’appoggio della famiglia Soros, ebreo ungherese, sia interpretato dai commentatori destrorsi come la prova che Mamdani è finto, è sostenuto dalla grande finanza ebraica, che improvvisamente ridiventa sporca e cattiva quando sostiene un candidato progressista, mentre è rappresentata come l’inevitabile “fine della storia” quando sta dalla parte del privilegio, della ricchezza insensata, della sperequazione priva di freni. E come improvvisamente l’antisemitismo complottista rispunti proprio dalle parti dei grandi difensori del regime e dello stato di Israele, quelli che accusano di antisemitismo chiunque si permetta di criticare l’ideologia sionista e segregazionista che comanda da tempo in Israele stessa.

Dopodiché: vincere delle elezioni, per quanto avere vinto questa elezione appaia già, a me, un’impresa eccezionale, è meno complicato che governare una città come New York.  Alcuni dei punti del programma del neosindaco sono ineccepibili socialmente e moralmente, ma di ardua attuazione. L’aumento dell’aliquota dell’imposta sulle società per allinearla all’11,5% del New Jersey, che farebbe introitare 5 miliardi di dollari; la tassa del 2% in più sulle persone che guadagnano più di 1 milione di dollari, che secondo le sue stime farebbe incassare 4 miliardi di dollari; sono misure che devono fare i conti anzitutto con la governatrice dello Stato,  la democratica e sicuramente progressista (nel capo dei diritti civili) Kathy Hochul, che è in corsa per la rielezione il prossimo anno, la quale ha già escluso di voler tassare i ricchi. Poi deve fare i conti con Trump, che ha dichiarato di voler trasferire il minimo di fondi federali a New York per rendere la vita impossibile al finanziamento dei programmi sociali della città; contro questo ricatto Mamdani ha ingaggiato un plotone di avvocati per contrastare in punta di diritto le minacce del presidente. Infine c’è la possibilità che i billionaires se ne vadano da New York, cercando riparo in qualche paradiso fiscale o semplicemente in qualche località della Florida dove l’obbligo fiscale sarebbe decisamente più blando. Si sa: i ricchi possono spostarsi facilmente, i poveri restano, la classe media anche. In realtà sono già anni che questo “esodo” avviene, e si calcola che abbia eroso la base imponibile di New York di circa 500 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.

Appare quindi già chiaro a chiunque non sia pazzo che la corrispondenza, almeno parziale, tra le “promesse” di Mamdani e la loro concreta attuazione passerà necessariamente per dei compromessi. Servirà una gigantesca opera di instaurazione di relazioni diplomatiche con la parte meno avida dell’establishment, per non vanificare le aspettative generate nell’enorme movimento di rinascita dell’entusiasmo per la politica che Mamdami è stato capace di generare attorno alla sua figura.

 

Photos: wikimedia commons

 

Horacio Oliveira e la finzione come verità dell’esperienza: Cortázar con Chiaromonte

Horacio Oliveira e la finzione come verità dell’esperienza: Cortázar con Chiaromonte

Come abbiamo più volte ripetuto nelle precedenti puntate, nel suo saggio Credere e non credere, Nicola Chiaromonte afferma che la storia non è solo l’insieme degli eventi che accadono, ma anche – e soprattutto – ciò che accade agli uomini e alle donne che li vivono.

La verità dell’esperienza umana, secondo Chiaromonte, non si lascia catturare dalla cronaca o dalla storiografia ufficiale: essa si rivela piuttosto nella finzione, nella letteratura, nella capacità dell’immaginazione di restituire la complessità dell’esistenza. La verità ha più chance di essere catturata dai personaggi paradigmatici dei romanzi di Stendhal (Fabrizio del Dongo, Julien Sorel, Lucien Leuwen) o dalle protagoniste dei romanzi di fantascienza di Doris Lessing, Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood

Scrive Chiaromonte:

«La verità dell’esperienza umana non si lascia mai ridurre a un concetto astratto o a una formula storica. Essa si manifesta, se mai, nella finzione, là dove l’immaginazione riesce a cogliere ciò che nella realtà resta nascosto».

Questa concezione trova un’eco profonda nell’opera di Julio Cortázar, e in particolare in Rayuela, romanzo-labirinto che si offre come un esperimento radicale di scrittura e di lettura. Cortázar non intende raccontare una storia nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto mettere in scena un’esperienza: quella di un uomo, Horacio Oliveira, che cerca un senso nel caos del mondo, e che proprio attraverso la finzione tenta di afferrare la verità della propria esistenza.

La struttura stessa del romanzo è una sfida alla linearità narrativa (e dunque della cosiddetta Storia con la S maiuscola). Rayuela è composto da 155 capitoli, ma può essere letto in almeno due modi: in sequenza tradizionale (capitoli 1–56) o seguendo un ordine “alternativo” suggerito dallo stesso autore, che include anche i “capitoli prescindibili”.

Questa struttura a salti – da cui il titolo stesso, Rayuela, cioè “il gioco del mondo” o “campana” – non è un semplice espediente formale, ma una dichiarazione di poetica: la realtà (e dunque la “Storia”) non è un continuum ordinato, ma un insieme di frammenti, di vuoti, di possibilità.

E così in un tale esperimento Cortázar  invita il lettore a partecipare attivamente, a costruire il proprio percorso, a vivere la lettura come esperienza esistenziale.

In questo senso, Rayuela non è solo un romanzo, ma un dispositivo epistemologico. Oliveira, il protagonista, è un intellettuale disilluso, un flâneur metafisico che si muove tra Parigi e Buenos Aires, tra la riflessione astratta e il disordine della vita. La sua relazione con la Maga, la sua partecipazione al  circolo intellettuale parigino chiamato il Club del Serpente, la sua deriva solitaria, sono tutte tappe di un percorso che non mira alla verità come possesso, ma come esperienza vissuta, spesso fallimentare.

In un passaggio emblematico, Oliveira si chiede:

«E se cominciassimo a non dire più parole, a lasciare che le cose parlassero da sole, che scivolassero come pesci tra le nostre mani?»[Rayuela, cap. 21]

Questa immagine del pesce che sfugge tra le mani è straordinariamente vicina alla visione chiaromontiana della verità come qualcosa di elusivo, che non si lascia afferrare con la forza del concetto. Le “parole” qui non sono solo linguaggio, ma anche ideologie, sistemi, narrazioni precostituite. Oliveira intuisce che la realtà più profonda si manifesta solo quando si rinuncia al controllo, quando si accetta di lasciar parlare le cose stesse, nella loro opacità e nel loro silenzio. È un invito a un ascolto radicale, che Chiaromonte avrebbe riconosciuto come autentico atto di conoscenza.

Un’altra citazione significativa è:

«Forse a furia di cercarmi, a furia di cercarla, ci eravamo persi irrimediabilmente» [Rayuela, cap. 41]

Qui si coglie la consapevolezza tragica del fallimento della ricerca di senso. Ma è proprio in questo fallimento che si apre lo spazio della finzione come conoscenza. La perdita non è solo personale, ma storica: è la condizione dell’uomo moderno, smarrito in un mondo che ha perso i suoi riferimenti. Oliveira e la Maga si cercano, ma non si trovano; eppure, è in questo smarrimento che si rivela la verità dell’esperienza. Come scriveve Chiaromonte:

«La finzione non è un modo per evadere dalla realtà, ma per penetrarla più a fondo, per coglierne il senso umano, che sfugge alla pura registrazione dei fatti».

Come si è detto, Nicola Chiaromonte individua in alcuni personaggi della grande narrativa europea (in particolare di Stendhal) esempi di figure che, pur immerse nella storia, non si lasciano ridurre a essa. Sono uomini che vivono gli eventi non come semplici comparse, ma come soggetti attraversati da tensioni morali, da dilemmi interiori, da una ricerca di senso che li rende paradigmatici. In questo senso, Horacio Oliveira può essere considerato il loro erede moderno, o meglio, il loro equivalente in un’epoca in cui la crisi del senso ha raggiunto una radicalità inedita.

Fabrizio del Dongo, protagonista de La Certosa di Parma, è l’archetipo dell’uomo che si getta nella storia con entusiasmo, ma che finisce per sperimentarne l’assurdità. La sua partecipazione alla battaglia di Waterloo è emblematica: crede di vivere un momento epico, ma si ritrova spaesato, incapace di comprendere ciò che accade intorno a lui. È un personaggio che incarna la distanza tra l’ideale e il reale, tra l’immaginazione e la concretezza degli eventi.

Allo stesso modo, Oliveira attraversa la storia del suo tempo – la Parigi esistenzialista, la Buenos Aires della repressione – senza mai sentirsi davvero parte di essa. Come Fabrizio, è un testimone disorientato, un uomo che cerca nella letteratura e nella riflessione filosofica un ordine che la realtà gli nega.

Julien Sorel, il giovane ambizioso de Il rosso e il nero, rappresenta invece la tensione tra l’ascesa sociale e la fedeltà a se stessi. La sua intelligenza e la sua sensibilità lo pongono in conflitto con un mondo che premia la mediocrità e punisce l’autenticità. Julien è un personaggio tragico perché consapevole della propria finzione: sa di recitare un ruolo, ma non può farne a meno.

Anche Oliveira è un uomo diviso: tra il desiderio di comprendere e l’incapacità di agire, tra l’ironia e la disperazione, tra l’intellettualismo e la fame di vita. Come Julien, è un personaggio che si muove in un mondo che non riconosce più come proprio, e che cerca nella finzione – letteraria e personale – una via di fuga, o forse una forma di resistenza.

Infine, Lucien Leuwen, protagonista dell’omonimo romanzo incompiuto di Stendhal, è forse il più vicino a Oliveira per la sua natura di uomo “in bilico”. Lucien è un giovane brillante, ma costantemente sospeso tra l’azione politica e la riflessione interiore, tra l’ambizione e il dubbio. La sua storia è segnata da un continuo oscillare tra possibilità e rinuncia, tra desiderio e disillusione.

Anche Oliveira vive in una condizione di sospensione: incapace di scegliere, di aderire, di appartenere. La sua esistenza è una “rayuela”, un gioco di salti e di cadute, di tentativi e di fallimenti. Ma è proprio in questa instabilità che si manifesta la sua verità: una verità che, come per i personaggi di Stendhal, non si lascia ridurre a una morale o a una lezione, ma si offre come esperienza vissuta, come interrogazione aperta.

In definitiva, Horacio Oliveira si inserisce in una genealogia di personaggi che, secondo Chiaromonte, incarnano la possibilità di pensare la storia non come successione di fatti, ma come campo di esperienza. Se Fabrizio, Julien e Lucien sono i testimoni di un’epoca in cui l’individuo cercava ancora di misurarsi con la “Storia”, Oliveira è il testimone di un tempo in cui la storia sembra aver perso ogni centro, e in cui solo la finzione può restituire la profondità dell’umano.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/amic_-47306316/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9290162″>amic</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9290162″>Pixabay</a>

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Per certi Versi / Il verso del lupo

Il verso del lupo

Seduta su un freddo gradino
conto i miei anni

uno stormo di uccelli
tinge di nero miei occhi
poi fugge via
avanza la sera
con l’abito a lutto
ha perso la luce
sul sentiero del giorno

si mescola al buio
il male del cuore
divento io notte
nel verso di un lupo
che non riesce a tacere

In copertina: Foto di Himel Deb Nath Apu da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Perché MPS conquista Mediobanca (e Generali)?

Perché MPS conquista Mediobanca (e Generali)?

La più antica banca italiana, MPS (Monte dei Paschi di Siena), quasi fallita, ha conquistato Mediobanca, la più prestigiosa banca d’affari italiana, formando il 3° polo bancario italiano.
Procede così la concentrazione bancaria anche in Italia dove ormai sono quasi tutte banche private. La Germania ha 4 volte il numero delle banche italiane e ciò spiega perché in Italia il 43% dei Comuni sia rimasto senza banche e soffrano le piccole imprese con meno di 50 addetti che contribuiscono al valore aggiunto nazionale per il 47% rispetto al 33% della Germania e al 30% della Francia.

MPS è sempre stata nell’orbita della sinistra che governava la Toscana.
E’ diventata statale nel 2017 dopo essere mezzo fallita, avendo sbagliato ad acquistare Antonveneta nel 2007. Venne ricapitalizzata sotto il Governo Renzi con 5,3 miliardi (2/3 delle azioni vanno al MEF, Ministero dell’Economia e Finanze, ma l’esborso dello Stato si stima sia stato attorno ai 10 miliardi), con la benedizione al salvataggio di Stato della UE. Si riprende pian piano e nel febbraio 2022, con l’inizio dei grandi profitti delle banche, chiama Luigi Lovaglio, già banchiere a Unicredit che ha salvato 3-4 banche, tra cui il Credito Valtellinese che poi rivende a Credit Agricole per un miliardo.

Mediobanca fa gola al Governo Meloni e il ministro Giorgetti non lo nega. E’ il salotto buono della finanza italiana, che incide da sempre sul capitalismo italiano e il ruolo che svolse nelle privatizzazioni delle PPSS (Partecipazione Statali) e lo scontro (vincente) che ebbe con Craxi, nonostante fosse primo ministro negli anni ’80.
Banca d’affari di rango internazionale con azionisti potenti come il fondo finanziario speculativo Black Rock (5%) e imprenditori emergenti come Delfin (Essilux Del Vecchio 17,9%), Caltagirone (10,2%), imprenditore edile romano (vicino da sempre a Meloni), che cercano di scalzare il Ceo Alberto Nagel da anni ma senza riuscirci, pur col 30% delle azioni Mediobanca.

Giorgetti, in accordo con Lo Vecchio e Caltagirone, convince così Lovaglio a scalare Mediobanca. Gli altri imprenditori e fondi seguiranno il Governo, anche perchè Mediobanca controlla (col 13%) Assicurazioni Generali (700 miliardi di asset). L’aumento delle azioni e bonus fiscali delle due banche darà poi solo a Lo Vecchio e Caltagirone una plusvalenza di 1,2 miliardi, in un momento in cui le banche fanno i massimi extraprofitti dell’ultimo ventennio che il Governo tassa in minima parte, nonostante le promesse di quando era all’opposizione. Insieme fanno 8 miliardi di ricavi e 3 miliardi di utile (profitti impensabili per una manifattura).

Il Ceo di MPS è il lucano Luigi Lovaglio (1955), laureatosi a Bologna, che inizia al Credito Italiano (gruppo Unicredit) e farà strada risanando banche in Bulgaria e Polonia. I suoi amici di Bologna lo consideravano un “cattocomunista”. Ora però il Governo è di destra e dietro l’operazione c’è la regia del Ministro del Tesoro Giorgetti (Lega, laurea alla Bocconi) che vuole creare un 3° polo bancario italiano (dopo Unicredit e Intesa San Paolo), saldamente italiano e controllato dallo Stato, mostrando che, al momento opportuno, più che il libero mercato contano gli “amici”. Come mai?

Si è capito da tempo quanto la finanza conti sullo sviluppo della manifattura e dei singoli Paesi. Senza prestiti le imprese non vanno da nessuna parte, anche se hai idee brillanti e la finanza conta sempre di più. Da 40 anni si cerca di favorire il “libero” mercato ma, di fatto, oltre alla Cina, dove lo Stato governa eccome, molti Stati liberisti (USA in primis e specie con Trump) intervengono sempre più nell’economia e nelle imprese, perché lasciar fare solo al libero mercato non porta più vantaggi sociali, ma solo arricchimenti a pochi.

Un esempio tra tanti l’obbligo imposto a Nvidia da Trump di dare allo Stato il 15% dei propri profitti che fa vendendo in Cina, ma anche il ritorno dello Stato al mercantilismo (dazi) per portare nuove manifatture in Usa o partecipare con soldi pubblici ad investimenti privati dove lo Stato vuole avere l’ultima parola. La Germania ha varato un piano da mille miliardi e di riarmo e ha metà banche statali e la Francia è andata consolidando asset strategici in cui lo Stato è ben presente.

L’Italia ha smantellato tutta la sua presenza pubblica nelle banche e l’unica che rimaneva un po’ pubblica era MPS (con 5% di azioni, una minoranza che potrebbe però “dare la linea” e vigilare). La conferma che la Politica se vuole conta è che tutti gli azionisti sia industriali che finanziari (Vanguard, Fidelity, Black Rock) hanno seguito il Governo (la Politica) lasciando in brache di tela Nagel.

La nuova strategia del Governo Meloni non credo sia quella delle vecchie Partecipazioni Statali e dell’IRI. Il Governo vuole un polo bancario-finanziario privato, ancorato all’Italia, in cui avere voce in capitolo. Pur rimanendo azionista di minoranza, vuole presidiare interessi lasciando che sia il mercato (leggi borsa) a garantire il controllo principale come si è fatto anche con Poste e alcune grandi utilities (Hera,…), dove il mercato si combina con la vigilanza pubblica, essendo in gioco il futuro del capitalismo italiano.

Il Governo “ha quindi una banca”, anzi due e forse tre con Generali.
Nel 2025 le grandi banche italiane (solo quelle quotate in borsa) arriveranno a un fatturato di 75 miliardi di euro e 27,5 miliardi di utili. Una redditività netta di settore monstre, circa dieci volte quella del settore manifatturiero a cui le banche fanno prestiti. E ciò spiega il pericolo di una finanza che perde di vista il sottostante (manifattura e veri valori), in un mondo dove il debito globale è 54 volte il Pil mondiale.

L’Italia ha la gestione del risparmio più cara al mondo (per i clienti, imprese e famiglie) e non mancano sospetti di collusione sulle condizioni di credito in cui il nostro Antitrust sembra seguire l’antica massima: forte coi deboli e debole coi forti.

Adesso il governo è entrato negli assetti di controllo di MPS e Mediobanca (e dunque di Generali). La svolta è storica, dopo decenni di ritirata dello Stato dalle banche. Si tratta di vedere se svolgerà un ruolo di sostegno davvero di imprese e famiglie o proseguirà in quelle logiche finanziarie, separate dall’economia reale, che hanno indebolito Italia, UE e Usa e fatto crescere Cina e BRICS.

In teoria potrebbe mitigare i danni del capitalismo liberista, usando capitali pazienti per finanziare le nostre imprese (specie quelle piccole e medie che resistono da anni stringendo la cinghia e che rappresentano l’immenso valore dell’Italia), supportando Ricerca & Sviluppo, innovazioni e strategie di lungo periodo, oltreché aiutare i consumi delle famiglie con tassi di interesse “umani”.

Non escludo che si voglia copiare anche il Giappone, facendo acquistare agli italiani (e banche italiane) quasi tutto il debito pubblico per ridurre gli interessi dello Stato sul suo debito (87 miliardi nel 2025). Il Giappone non ha mai separato Tesoro e Banca centrale, come l’Italia fece (sbagliando) nel 1981, consentendo di acquistare il debito pubblico a tassi di interesse bassissimi (a volte addirittura negativi).

Potrebbe però anche essere solo l’occasione per premiare i propri “amici”, alcune grandi imprese salite sul carro del nuovo Governo.
Lo vedremo nei fatti: se il credito riparte verso tutti (PMI, piccole medie imprese e famiglie) a bassi tassi di interesse e con capitali pazienti per strategie di lungo periodo, oppure l’ennesima occasione in cui politici & grandi famiglie si accordano per fare i propri interessi.

Photo cover: Arco senese, palazzo Salimbeni – immagine Wikimedia Commons 

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Jacek

Jacek

Jacek è un polacco di Varsavia che dorme spesso sui gradini bianchi in S. Petronio a Bologna, oppure se fortunato, ha una camera nel dormitorio in San Donato, che divide con Julian, alcolizzato. Jacek accetta lavoretti, se hai una faccenda pignola chiama Jacek lui è in grado di mettere a posto qualsiasi cosa, conosce il legno e il ferro, il marmo, la ceramica, il giardino, gli alberi e i fiori, non ha cellulare, viaggia camminando con scarpe grosse con le quali misura il mondo, giacche con cappuccio e un ombrello blu che qualcuno gli ha regalato un giorno che diluviava. Ha uno zaino con la roba estiva, quando arriva l’inverno la restituisce al Baraccano per quella invernale perché dice, mica posso girare con due zaini. Ex alcolizzato ogni mattina passa tre ore in ospedale Maggiore e chiacchiera con dottori e infermieri, fa scorta di Alcover (serve a assopire la voglia di alcool), pranza e fa pennichella sui lettini del pronto, poi ritorna in piazza Maggiore, dice, tanto posso dormire lì, “mi si è pure il cinema all’aperto” e ride.

Jacek vive la vita che vuole, ha bevuto tanto, è stato un violento rissoso, che poi racconta episodi di lui bimbo con i cugini e già il nonno faceva loro assaggiare il vino o la vodka, una sorellina che proteggeva, chissà dove è finita mi dice e guarda ho ancora tre foto, la bimba bionda, faccia di porcellana, un vestito liso a fiori e sandalini sorride a riva di un lago gelido.
Ha girato il mondo con le sue gambe forti, una purezza che nemmeno un diamante tagliato perfetto, scavalcato carceri e comunità, parla e ti guarda fissamente, faccia slavata piena di spigoli, capelli corti color paglia e quell’accento forte di zinco e rame che ti ricorda un papa guerriero.

Mi dice, sai hanno ricoverato Julian il mio compagno di dormitorio, starà via un mese, e sai lui voleva vedere in tv solo cartoni animati e io dovevo uscire, non sopporto lui che beve, vomita è sporco, non sopporto la sporcizia e la debolezza, e ora questa è la mia vacanza, un mese!!!!, entro in camera, tutte lenzuola  pulite, accendo ventilatore, mi tolgo i vestiti mi spaparazzo a letto con panini e bibite e guardo fino a notte i film che voglio, ho visto due volte Arma letale!! e faccio il caffè Lavazza, mica quello delle macchinette che è schifoso, mmmmmmhhhhhh, tu devi sentire il profumo!!! e chiude gli occhi. Tutto questo detto con un tale godimento estasiato, come una esatta, piccola, immensa libertà, che nemmeno i vacanzieri alle Maldive o gli ospiti di hotel a dieci stelle o i compratori di gioielli stratosferici, una felicità così precisa e invadente che pure io gli ho invidiato, un godimento gigante, totale e bambino.
Quando entra in pub viene al banco, appoggia lo zaino, mi chiede una aranciata  perché no, niente vodka vero? mi sorride e col suo accento tagliente come vetro rotto mi racconta meraviglie.
Mi insegni a vivere.
Ti voglio bene Jacek

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Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

Mai più rider sotto pioggia o caldo estremi

da Collettiva 13 novembre 2025

Mentre la proposta Griseri-Prisco è ferma in Parlamento, un’inchiesta Nidil rivela che il 33% degli infortuni è causato da condizioni di allerta meteo

La proposta Griseri-Prisco

Per questo a dicembre scorso è stata depositata una proposta di legge, cosiddetta Griseri-Prisco, che vuole tutelare i lavoratori del food delivery in tutte le stagioni. Peccato che languisca in parlamento da quasi un anno e che sia ancora in attesa di essere calendarizzata per la discussione o, in alternativa, che diventi un emendamento alla manovra finanziaria.

Rilanciata ieri con una presentazione alla Casa rider di Firenze, luogo di riposo e ristoro con servizi di informazione e supporto, ha l’obiettivo di mettere al centro la vita e la sicurezza degli worker del food delivery.

Un ammortizzatore sociale 

Come? “Con un ammortizzatore sociale che tuteli i lavoratori quando c’è un evento meteo – ha dichiarato Chiara Gribaudo, deputata Pd e prima firmataria della proposta di legge -, perché dire soltanto ‘fermatevi e non lavorate’ non è certo una copertura seria”.

Già lo scorso anno durante le sessioni della finanziaria, la proposta era stata trasformata in un emendamento alla manovra, con un fondo sperimentale di tre anni. Il governo però l’aveva bocciata. E l’ha rispedita al mittente anche dopo, quando è stata ripresentata nei decreti successivi, dove c’era compatibilità di materia. Adesso il nuovo tentativo di rilancio per poterla vedere discutere ed eventualmente approvare: la legge di bilancio e il decreto sicurezza sul lavoro.

O la vita o il reddito

“La proposta Griseri-Prisco rappresenta un passo concreto nella giusta direzione – afferma Roberta Turi, segretaria nazionale Nidil Cgil -: consentire la sospensione delle consegne e garantire un’indennità ai rider nei giorni di emergenza climatica. Nessuno deve essere costretto a scegliere tra lavorare rischiando la vita o rinunciare a un reddito indispensabile. Da anni denunciamo le condizioni di questi lavoratori e i risultati della nostra ultima inchiesta nazionale parlano chiaro: questo è un lavoro pagato poco, costoso da svolgere e privo di tutele effettive”.

Pedalare senza coperture

Ogni giorno migliaia di persone pedalano o guidano per consegnare beni essenziali, ma restano senza ammortizzatori sociali, senza copertura in caso di malattia o di allerta meteo. Come dimenticare le immagini dell’alluvione a Bologna di ottobre 2024, che mostravano le strade allagate e i rider in bicicletta che continuavano le consegne nonostante l’allerta rossa proclamata dal Comune?

“Oltre il 30 per cento degli infortuni è causato da condizioni climatiche estreme, e quasi il 60 per cento degli incidenti non viene denunciato – dice ancora Turi –. È un lavoro senza garanzie, dove la presunta autonomia nasconde spesso sfruttamento”.

Le battaglie legali degli ultimi anni portate avanti dalla Cgil e dalle sue categorie, da Palermo a Torino, da Milano a Firenze, hanno già stabilito che chi lavora sotto il controllo dell’algoritmo deve essere riconosciuto come lavoratore subordinato, con diritti e sicurezza garantiti.

Superare il cottimo

“Ora è tempo che anche il legislatore ne tragga le conseguenze – aggiunge Turi -, superando definitivamente il cottimo e costruendo un sistema di tutele universali, a partire proprio dalle situazioni di rischio climatico. Con questa proposta la politica può e deve colmare un vuoto che i rider non possono più sopportare da soli”.

Alcune Regioni hanno introdotto con ordinanze il divieto di lavorare nel caso di condizioni meteorologiche estreme, ma senza integrazione salariale il lavoratore si trova di fronte alla scelta tra salute e salario.

Muhammad, rider

“Siamo sempre esposti, al caldo, al freddo, alla pioggia – racconta Muhammad, rider di Firenze -. Quando fa troppo caldo o troppo freddo restiamo anche dodici ore in strada ad aspettare, senza consegne e alla fine torniamo a casa senza aver guadagnato niente. Ore sotto il sole, senza protezione, o sotto la pioggia e questo fa male, fisicamente e mentalmente. Poi a volte si cade, ci si fa male, e se succede un problema non si lavora più. Siamo tutti partite Iva: anche se non lavoriamo, dobbiamo comunque pagare le tasse”.

In sciopero per la dignità del lavoro

“Questa legge è anche un banco di prova politico – conclude Turi -. La politica deve decidere da che parte stare: con chi lavora o con chi specula sull’insicurezza. Il 12 dicembre la Cgil sarà in sciopero generale per la dignità del lavoro, salari giusti e giustizia sociale. È tempo di scegliere: noi, come Nidil e come Cgil, lo abbiamo fatto da tempo”.

Cover; Rider a Bologna – foto Raffaele Angius su X

MANI CHE SBUCCIANO LE CIPOLLE

Mani che sbucciano le cipolle

“Con le mani sbucci/Le cipolle/Me le sento addosso/Sulla pelle
E accarezzi il gatto/Con le mani/Con le mani tu puoi/Dire di sì
Far provare nuove sensazioni/Farti trasportare dalle emozioni
È un incontro di mani/Questo amore/Con le mani se vuoi/Puoi dirmi di sì […]”

Così inizia la canzone Con le mani di Zucchero e Gino Paoli pubblicata nel 1987 nell’album Blue’s. La canzone racconta di come le mani possono esprimere amore, sensazioni ed emozioni. Tutto avviene attraverso le mani. Forse perché non si può (o non si vuole) parlare, ma solo sentire. Sbucciare cipolle è uno dei gesti più comuni che provoca lacrime involontarie. Anche se il movimento è consueto, la reazione è forte “Me le sento addosso/sulla pelle” e suggerisce un’emozione profonda.

Ciò che colpisce di questa canzone è la fisicità che riesce a esprimere. La persona che sbuccia le cipolle è presente in modo tangibile. Non solo la si vede, la si sente addosso anche quando non c’è. È una presenza che lascia impronte tattili e sensoriali.

Si evocano mani forti, che sanno fare, che lavorano, che toccano davvero. Mani che non accarezzano soltanto, ma che agiscono, fanno qualcosa che resta sul corpo dell’altro. Dopo aver sbucciato le cipolle, l’odore resta sulle mani, sulla pelle. È una metafora potente di qualcosa che rimane addosso, come un ricordo, un legame, una ferita che non se ne va.

Le mani che sbucciano sono lente, precise, testimoniano movimenti pieni di abitudine e cura. Le dita afferrano la cipolla con fermezza, il pollice spinge contro la buccia secca e rumorosa, sollevandola a strappi piccoli, ma decisi. Ogni gesto è accompagnato da un leggero scricchiolio, mentre la buccia esterna si sfoglia come carta secca.

Può esserci molta grazia anche nella fatica. Le mani si muovono con un ritmo che sembra antico, quasi rituale. C’è una lacrima che spunta per malinconia e per la pungente verità che le cipolle sanno tirar fuori. C’è sempre poesia in un gesto lento e cadenzato, ma bisogna saperla cogliere e vivificare.

Il tramite delle mani è sicuramente efficace. Sono un medium simbolico importante e uno strumento di una potenza sorprendente. Le loro articolazioni permettono gesti complessi e precisi e il loro spostarsi armonioso evoca la bellezza del movimento e la complessità della situazione. La fisicità delle mani è uno dei simboli più potenti e poetici dell’esperienza umana. Le mani sono strumenti ma anche ponti tra l’interno e l’esterno, tra il pensiero e l’azione, tra noi e gli altri. Quando si parla della poesia espressa dalle mani, si tocca un linguaggio silenzioso ma eloquente, capace di narrare senza parole.

Diversi sociologi e studiosi si sono occupati del tema delle mani, specialmente in riferimento alla comunicazione non verbale, all’espressione delle emozioni, al carattere e al loro significato culturale. Figure come l’antropologo e sociologo statunitense Edward T. Hall, noto per i suoi studi sulla prossemica e le culture dello spazio, hanno analizzato come la gestualità e l’uso delle mani siano diverse nelle varie culture, rivelando importanti aspetti sociali.

La gestualità è considerata un elemento fondamentale del linguaggio non verbale, capace di arricchire o persino contraddire il messaggio verbale. Gesti inconsci possono rivelare pensieri e sentimenti nascosti. Le mani sono anche uno strumento per esprimere il nostro temperamento, la nostra grazia, aggressività, o tensione interiore. In molte culture, le mani sono considerate un “biglietto da visita” per il mondo, rappresentano aspetti della persona che possono influenzare le percezioni e le interazioni sociali. L’uso e il significato dei gesti delle mani possono variare significativamente da una cultura all’altra, riflettendo norme e modi di pensare anche molto diversi.

In psicanalisi e nell’arte le mani sono spesso viste come prolungamento dell’inconscio, toccano ciò che le parole non sanno dire. Ad esempio, Donald Winnicott ha affrontato il tema del “tocco” nelle relazioni precoci. Nei primi legami madre-bambino il movimento delle mani è fondamentale. Le mani della madre (o della figura di accudimento) sono spesso il primo veicolo di cura, contenimento e protezione.

Le mani che tengono, lavano, nutrono e accarezzano, sono manifestazioni del cosiddetto “holding”, ovvero del contenimento fisico ed emotivo che permetto al bambino di sviluppare un senso di sicurezza.  Marion Anderson, psicologa Junghiana, parla esplicitamente di “hands” in psicoterapia, cioè delle mani come strumenti per manifestare l’inconscio, tramite attività non verbali (argilla, sabbia, pittura).

Questi organi flessuosi diventano mezzi attraverso cui emerge l’immagine interna, quell’ “immagine interiore” che la parola da sola non coglie. Il concetto junghiano che “spesso le mani possono risolvere un enigma con cui l’intelletto ha lottato invano” (come cita Anderson rifacendosi a Jung) sottolinea proprio la capacità delle mani di portare alla luce aspetti psichici che la mente cosciente non riesce a formulare.

Le mani sono profondamente legate all’identità. Le impronte digitali sono uniche, nessun’altra parte del corpo dice tanto della nostra singolarità biologica. Le mani fanno il mondo: costruiscono, plasmano, scrivono, distruggono. Sono anche segnate dal tempo, invecchiano, si deformano, portano i segni del lavoro o della malattia, raccontano una storia personale e sociale legata al momento in cui si sono mosse come eleganti ragni, disegnando ghirigori aerei nel bel mezzo di relazioni forse occasionali e spesso importanti.

Le mani sono il primo contatto con il mondo. Toccano, cercano e afferrano. Sbucciano le cipolle. Si aprono alla vita e sanno trattenerla. Nel loro movimento c’è un sapere muto, antico, che non ha bisogno di parole, le mani capiscono prima della mente. Ricordano il corpo della madre, il calore del primo tocco, la promessa silenziosa di essere accolti.

Sono confini sensibili dell’anima, estensioni del pensiero e del cuore. Con le mani si crea, si scrive, si distrugge. Con le mani si ama, si nutre, ci si difende. Ogni piega del palmo, ogni cicatrice, ogni tremore contiene un racconto. Anche nel gesto più piccolo come una carezza, una stretta, un pugno chiuso, passa la densità di una vita intera. Sono corpo che sente e corpo che fa. Sono presenza, confine, ferita e cura. Quando le parole non bastano, le mani parlano. E spesso dicono la verità.

Quando penso alle mani, vedo sempre mia madre che cucina, taglia, affetta, pela, sbuccia le cipolle. Essendo la presidente di una fondazione che gestisce servizi per l’infanzia, vedo le mani delle maestre della nostra scuola che tagliano e incollano carta, feltro, legnetti, conchiglie. Mani che piegano felpe e cappotti, che mettono grembiuli ed estraggono velocemente dalle tasche fazzoletti di carta, che sanno mettere una bavaglia con due dita, mentre con le rimanenti indicano a qualcuno di mettersi seduto che arriva la pastasciutta.

Le mani piccole dei bambini, senza segni d’età e con le dita corte, ma piene di vita e di attesa. Mani protese verso il tempo che verrà, verso tutto ciò che si potrà vedere e capire, verso la necessità fisica di protezione, nutrimento e calore, verso il bisogno d’amore che solo in parte una scuola piò colmare. Il resto è nel tempo che sarà. Adesso un po’ d’amore, più in là tantissimo di più, auguriamolo a tutti.

Vedo anche le mani delle insegnanti della scuola primaria, che è ubicata al piano superiore del nostro stesso edificio. Mani che scrivono alla lavagna, sui quaderni, sui registri, indicano posizioni da tenere e da evitare, accompagnano un complimento o un rimprovero, si uniscono per essere più convincenti o più incisive. D’inverno si strofinano per il freddo.

Le mani della cuoca della mensa che, come quelle di mia madre mescolano, tagliano, affettano, infornano, impiattano. Mani che forniscono cibo ai bambini e in questo loro fare quotidiano sono azione, concretezza e fisicità. Mani che lavorano e che invecchiano, che si arrossano che sono storia e ricordo, partenza e cammino.

Sono mani che testimoniano vita, che esprimono forza e rigore, che raccontano, che segnano, che parlano di noi. Sono testimoni di quello che facciamo tutti i giorni, cercando di insegnare alle nuove generazioni comportamenti curiosi, rispettosi ed etici. Se dovessimo scegliere delle mani tra tutte, penso che sceglieremmo quelle della maestra E. che è la nostra insegnante più giovane, e quella della “fu” contessa Fenaroli, il cui lascito ha permesso alla fondazione di nascere, moltissimi anni fa.

James Hilmann parla delle mani come “manifestazioni” del destino, come simboli del fato che si esprime attraverso la mano archetipica. Sono “fatti” del destino perché, attraverso il loro lavoro, realizzano la vocazione (il “codice dell’anima”) che è stata data a ogni individuo dal suo daimon. Il daimon è una forza che guida ogni persona verso un percorso unico e irripetibile, tale percorso si manifesta concretamente attraverso l’azione delle mani che portano a compimento questa vocazione. Hillman afferma che corpo e anima sono inseparabili.

Il corpo non è un contenitore dell’anima, ma una sua espressione. In questa visione le mani non sono semplici strumenti fisici, ma veicoli attraverso cui l’anima si manifesta. Nell’atto di creare, toccare, curare, distruggere o pregare, c’è una qualità psichica, simbolica e archetipica. E proprio questa convinzione di Hilmann chiude, a parer mio, il cerchio.

Le mani che sbucciano le cipolle sono nient’altro che un piccolo frammento della nostra anima, un incontro poetico tra un po’ d’azione e molto sentimento.

BIBLIOGRAFIA

  • Edward T. Hall (1959), The Silent Language – DOUBLEDAY & COMPANY, INC., GARDEN CITY, NEW YORK
  • Donald W. Winnicott (1996) I bambini e le loro madri – Raffaello Cortina Editore
  • Mario Trevi (2020) Leggere Jung – Carocci editore
  • James Hilmann (2009) Il codice dell’anima – Adelphi

SITOGRAFIA

Testo della canzone di Zucchero Fornaciari “Con le mani”: https://www.zucchero.it/testi/con-le-mani/

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/planet_fox-4691618/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7479211″>Alexander Fox | PlaNet Fox</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7479211″>Pixabay</a>

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