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Le voci da dentro / Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento

Le voci da dentro. Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento

 Riprendiamo e pubblichiamo una lettera scritta da Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. È indirizzata Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, dottor Ernesto Napolillo, ed è un invito ad incontrare i rappresentanti delle associazioni che fanno volontariato in carcere e a conoscere l’approccio che hanno nei confronti della responsabilizzazione delle persone detenute. È un invito non casuale che segue alcuni provvedimenti restrittivi emanati di recenti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
(Mauro Presini)

Gentile dottor Napolillo, Lei è stato di recente nella Casa di reclusione di Padova e ha visto un carcere dove, pur nelle difficoltà del sovraffollamento, si cerca con la collaborazione di tutti di rispettare il mandato costituzionale, cioè di garantire a più detenuti possibile di non entrare in carcere e uscirne a fine pena come sono entrati, ma di fare un percorso realmente rieducativo, che significa crescere culturalmente, mettere in discussione le proprie scelte passate, avere voglia di fare i conti con la sofferenza provocata dai reati, nelle vittime ma anche nei famigliari delle stesse persone detenute.

Quando noi volontari raccontiamo alla società civile (le scuole, e non solo) dove nascono le scelte sbagliate, che poi portano le persone in carcere, lo facciamo perché riteniamo, e nell’esperienza di questi anni le migliaia di studenti e insegnanti che abbiamo incontrato ce lo confermano, che dal carcere si può fare autentica prevenzione.

Ma se il carcere diventerà essenzialmente quella segregazione, di cui ha parlato lei, non solo non si riuscirà a fare nessuna prevenzione, non si riuscirà a “salvare” nessun ragazzo giovane dal rischio di rovinarsi la vita e finire in galera, ma non si riuscirà neppure a creare più sicurezza per la società, perché da quel carcere “segregante” usciranno a fine pena, dal momento che prima o poi la pena per quasi tutti finisce, non delle persone più responsabili, ma delle bombe a orologeria, caricate di rabbia e pronte ad esplodere.

Le assicuriamo che a noi le regole piacciono, e nel confronto e nella delicata attività rieducativa che noi volontari portiamo avanti le poniamo al centro delle nostre azioni, ma le regole che sono state di recente fissate per qualsiasi iniziativa culturale, per qualsiasi attività “trattamentale” che avvenga in carcere sono così macchinose, che rischiano di portare alla paralisi qualsiasi istituto di pena che le debba applicare.

Pensi al paradosso della Casa di reclusione di Padova: per la presenza di una piccola sezione di Alta Sicurezza di una ventina di detenuti, gli altri 650 detenuti comuni dovranno sottostare a regole che rischiano di distruggere qualsiasi progettualità.

La burocrazia infatti, quando è ossessivamente tesa al controllo, impedisce qualsiasi cambiamento e qualsiasi crescita culturale, Ebbene, non è esagerato dire che in queste nuove disposizioni si può riconoscere proprio quella burocrazia, che è in grado di paralizzare qualsiasi iniziativa.

La circolare di recente emanata ha effetti penalizzanti per tutte le nostre attività, che dovrebbero piuttosto potersi ispirare a quelle regole penitenziarie europee, che sostengono tra l’altro che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”.

Quello che invece succede è che:

  • viene scoraggiata la società civile dall’assumersi il compito, che le è riconosciuto dalla Costituzione, di promuovere la rieducazione delle persone detenute;
  • viene così compromesso un rapporto di fiducia che da sempre è risorsa e supporto per le stesse Istituzioni
  • si rischia che aumentino enormemente autolesionismi, tentati suicidi, suicidi, aggressioni, proteste, comportamenti violenti, che segnalano quanto sono poco umane e poco dignitose le condizioni di vita nelle carceri;
  • il reato di rivolta penitenziaria, che punisce con pene fino a otto anni di carcere il detenuto che disobbedisce anche in forma nonviolenta agli ordini impartiti, provocherà più conflitti, più pene e più carcere per tutte quelle persone detenute, e sono tante, così disperate che non hanno nulla da perdere.

Siamo certi che non interessa a nessuno tornare a carceri dove il conflitto, l’aggressività, la rabbia la fanno da padroni.

Allora, per parlare di questi temi, la invitiamo a incontrare i rappresentanti delle nostre associazioni e ad aprire un dialogo. E se ha un po’ di tempo ci piacerebbe anche che partecipasse a un incontro in carcere tra le scuole e le persone detenute: si potrà così rendere conto che è da lì che bisognerebbe partire, dalla responsabilizzazione delle persone detenute, è quella la sfida vera e coraggiosa per dare un senso alle pene.

Agnese Moro, una donna straordinaria vittima di un reato atroce come l’uccisione del padre, ci ha detto più volte che NON VUOLE BUTTARE VIA NESSUNO, e sono tante le vittime di reati che come lei si sono rese conto che il carcere “cattivo”, la pena del “marcire in galera fino all’ultimo giorno” sono un male che produce soltanto altro male. E segregare le persone vuol dire solo buttarle via. Grazie dell’attenzione, siamo sicuri che accetterà il nostro invito

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/markolovric-1547694/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Marko Lovric</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Pixabay</a>

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Patto per il lavoro e il clima: perchè la Regione evita una discussione aperta?

Patto per il lavoro e il clima: perchè la Regione evita una discussione aperta?

Un fantasma si aggira nelle stanze della Regione Emilia-Romagna. Mi riferisco alla bozza di aggiornamento del Patto per il lavoro e il clima  (Vedi testo integrale in PDF)

La Regione approdò al Patto per il lavoro e il clima alla fine del 2020, con la sottoscrizione delle principali categorie e soggetti economico-sociali (Confindustria e sindacati confederali in primis), Comuni e Province, Università e Legambiente regionale, che peraltro ritirò la sua adesione nel 2023.
L’unica realtà coinvolta nella discussione dell’epoca che non condivise e non firmò il testo fu RECA (Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna), soggetto che raggruppa più di 80 tra Associazioni e Comitati attivi nel territorio regionale sui temi ambientali.

La discussione che si sta sviluppando su tale bozza e si vorrebbe concludere in tempi rapidi, entro la metà di dicembre, in termini autoreferenziali tra i soggetti firmatari del Patto del 2020, ed escludendo chi, come RECA, aveva dissentito e a cui non è stato inviato il testo.

Già questo è un dato rilevante, che la dice lunga sull’idea di partecipazione democratica che alberga nella nostra Regione e che risulta ancor più grave alla luce degli impegni che il presidente della Giunta De Pascale aveva assunto con RECA in un incontro svolto all’inizio di questa legislatura. In quell’incontro era stata espressa l’intenzione di coinvolgere tutti i soggetti, anche di chi esprime opinioni diverse, dicendo, anzi, che andava fatto in proposito ben di più rispetto alla Giunta precedente. Probabilmente l’attuale presidente della Giunta, proveniente da una città portuale, è avvezzo alle famose promesse avanzate dai marinai!

Per certi versi, è ancora più inquietante notare che il confronto in atto avviene senza aver prodotto nessun bilancio del Patto realizzato nel 2020. Nelle intenzioni, quel progetto voleva riconfermare il ruolo di regione apripista, all’avanguardia nelle politiche sociali e ambientali, riproponendo un’idea di modello sociale e produttivo cui l’intero Paese poteva guardare e al quale ispirarsi. Assumendo l’idea del contrasto al cambiamento climatico e della transizione ecologica come nuovo paradigma da affiancare a quello della promozione dei diritti del lavoro, di quelli sociali e civili.
Ebbene, a 5 anni di distanza, sarebbe necessario riflettere sul fatto che le condizioni ambientali e climatiche sono peggiorate anche nella nostra regione – basta pensare alle alluvioni del 2023 e 2024 o al dato del consumo di suolo che nel 2024 ha visto la nostra regione come quella che più l’ha incrementato – e anche che la situazione di chi lavora e dei ceti più deboli è andata indietro, con l’aumento del lavoro “povero” e della precarietà, la diminuzione del reddito, l’innalzamento delle situazioni di povertà.

Questa non volontà di produrre un ragionamento su ciò che è successo si porta poi dietro, nella nuova bozza, una serie di analisi e giudizi completamente avulsi dalla realtà che stiamo vivendo e assolutamente sbagliati. Lì si parla, per descrivere la nuova fase inaugurata dalla presidenza Trump, come del passaggio dalla “globalizzazione senza attriti” ad una “globalizzazione condizionata”. E ancora si avanza una valutazione per cui “nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2025, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato l’urgenza di rafforzare le politiche europee su alcuni fronti strategici: sicurezza, neutralità climatica, autonomia energetica, casa accessibile, qualità del lavoro. Ha rilanciato il programma per un’industria europea più competitiva e ribadito la necessità di garantire che la transizione ecologica sia anche una transizione giusta e inclusiva”.

A me pare che proprio non si colga la drammatica realtà che si sta imponendo nel mondo odierno, che è il prodotto congiunto del tentativo di affermare, con la forza e al di fuori del diritto internazionale, una nuova egemonia “imperiale” degli Stati Uniti e un inedito protagonismo di una realtà multipolare, che non è esente anch’esso di velleità di dominio, e di un decadimento dell’Europa, che abbandona il proprio modello sociale per prefigurare un’idea di sviluppo guidata dall’economia di guerra.

Non siamo in una fase di “globalizzazione condizionata”, ma di un pesante scontro commerciale e del risorgere dei nazionalismi, che si traduce nel ricorso alla guerra come normale regolamentazione dei conflitti internazionali. Nè si può sottacere che la svolta dell’Unione Europea, e della Germania in primo luogo, teorizzata proprio con il discorso della von der Lyen nel settembre scorso, si caratterizza in modo inequivocabile per pensare che il futuro dell’Unione Europea sta nel competere con gli USA e la Cina nel riarmo e nella conversione dell’apparato industriale, oggi in crisi, verso l’industria bellica.

La Regione sembra non voler capacitarsi di tutto ciò, presenta una visione edulcorata della situazione in atto, molto probabilmente perché, altrimenti, dovrebbe mettere in discussione i capisaldi di fondo su cui intende muoversi e che, invece, avrebbero la necessità di un ripensamento profondo.
In particolare, si continua a voler ignorare che il cosiddetto “modello emiliano” è alla nostra spalle da un bel po’ di tempo in qua, essendo venuti meno i suoi pilastri di fondo: un tessuto produttivo fondato sulle piccole e medie imprese, uno Stato sociale in espansione, una larga partecipazione alla vita politica e sociale, innestata su un blocco sociale coeso ed egemonizzato dalla sinistra. Questi stessi pilastri, peraltro, sono ancor più insidiati dalle trasformazioni in corso e da quelle che è prevedibile arriveranno: dalla finanziarizzazione dell’economia alle politiche di austerità, dal crescere dell’individualismo fino al riorientamento verso la conversione bellica della struttura produttiva, visto – detto un po’ sbrigativamente – la sua relazione stretta con l’economia tedesca, soprattutto nel settore metalmeccanico.

Non a caso, questa “incomprensione” genera, da una parte, la riproposizione di politiche che appaiono sempre più usurate, a partire dall’idea di una forte crescita economica quantitativa, e dall’altra uno scarto sempre più marcato tra enunciazioni di principio e scelte che si praticano concretamente. Questo ultimo dato, che era stato alla base della mancata firma di RECA al Patto per il lavoro e il clima del 2020, è ulteriormente evidente nella bozza di aggiornamento di cui stiamo parlando.

Per stare alle politiche ambientali, mi limito solo ad alcuni esempi:
– si continuano ad avanzare contenuti che sembrano utili a tutelare la risorsa acqua, ad affermare l’idea dell’economia circolare nel ciclo dei rifiuti;
– a promuovere una mobilità sostenibile nel momento stesso in cui le politiche concrete vanno nella direzione della privatizzazione dell’acqua;
– ad incrementare la produzione dei rifiuti, ad andare avanti con le grandi opere, che comportano forte consumo di suolo e incentivano il traffico veicolare privato su strada.

Sulla transizione energetica, viene riproposto l’obiettivo di coprire i consumi finali di energia elettrica con le fonti rinnovabili al 2035, ma senza che esso venga supportato da una credibile pianificazione degli interventi che lo rendano possibile. E intanto si prosegue sostenendo l’economia del fossile, come nel caso del rigassificatore e del progetto di cattura e storaggio della CO2 di Ravenna e in quello del metanodotto della “linea Adriatica”.

Infine, non si può sottacere quella che è una vera e propria perla della bozza. Mi riferisco al fatto che, nella parte finale si trova scritto un vero e proprio panegirico del ruolo della partecipazione. Tra le varie affermazioni “positive”, si legge anche che “rilievo va riconosciuto alle associazioni ecologiste, ai movimenti civici e giovanili impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici e per la giustizia ambientale: le loro competenze, la capacità di mobilitazione e la visione anticipatrice rappresentano oggi risorse preziose per l’intera comunità regionale”.
Peccato che non si trovi il modo di fare riferimento alle proposte di legge di iniziativa popolare, in specifico a quelle sui temi ambientali (acqua, rifiuti, energia e consumo di suolo) che RECA e Legambiente regionale hanno presentato ancora nel 2022, sostenute da più di 7000 cittadini emiliano-romagnoli, e che continuano a non essere discusse. Infatti, esse non passarono alla discussione in Aula nel 2024, perché la legislatura regionale si interruppe anticipatamente. Il loro iter è ripreso con la nuova legislatura e, nonostante vari confronti con i capigruppo regionali di maggioranza, tuttora non si è realizzata alcuna discussione nelle sedi competenti, né nella Commissione Ambiente e tantomeno nell’Aula legislativa.
Siamo di fronte ad un vero e proprio “vulnus” democratico, ad un atteggiamento che, volutamente, mette tra parentesi l’iniziativa dei cittadini e delle Associazioni di rappresentanza, svilendone il loro ruolo nel promuovere la partecipazione, salvo il fatto di lamentarsi, solo per un giorno, quello successivo alle votazioni, che l’astensionismo cresce sempre di più!

Insomma, siamo ben lontani dal vedere la svolta nelle politiche ambientali e sociali di cui abbisogna anche la nostra regione. Non bisogna però darsi per vinti, ma avere la consapevolezza che solo la mobilitazione dal basso può provare ad invertire questa tendenza, può mettere in discussione il “muro di gomma” che separa i cittadini dalla rappresentanza istituzionale, come si è visto in questi ultimi mesi con la grande reazione contro il genocidio a Gaza e contro le politiche di riarmo.

Cover: immagine dal video della Regione per la campagna di comunicazione dal titolo:”L’Emilia-Romagna progetta un futuro diverso, Per tutti, nessuno escluso” .

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La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare

La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare

Riflessioni laiche su una vicenda che divide e interroga

La storia della famiglia che vive nei boschi dell’Abruzzo — padre, madre e tre figli — è arrivata sulla scena pubblica con il fragore tipico di ciò che tocca l’infanzia, le scelte di vita non convenzionali e l’intervento dei servizi sociali. Un avvelenamento da funghi, la corsa in ospedale, le prime verifiche e poi l’allontanamento dei bambini, ora ospitati in una casa famiglia insieme alla madre, con il padre libero di vederli quando desidera.

Come spesso accade, la notizia è stata posta in modo da creare schieramenti: da un lato chi difende la libertà di una scelta di vita alternativa, dall’altro chi invoca la protezione dei minori. Ma la realtà è più complessa delle opposte tifoserie.

Chi decide che cosa è “buono” per un bambino?

Chi può dire quando un genitore svolge adeguatamente il proprio compito?

E su quali criteri?

Non esiste un modello unico di famiglia “giusta”: esistono funzioni — cura, protezione, contenimento emotivo — che possono essere esercitate in contesti molto diversi. La vita nei boschi può apparire radicale o disturbante, ma ciò che conta, per uno sviluppo psichico sano, è se il bambino si sente sostenuto, ascoltato e protetto.

Un dato che disturba la narrazione: bambini sereni

Nelle prime valutazioni, gli operatori hanno riscontrato bambini sereni, non spaventati, non in stato di angoscia. È un elemento importante, quasi stonato rispetto alla narrazione polarizzata che si è imposta.

La serenità non elimina i problemi, ma indica che il legame con i genitori ha una qualità affettiva significativa.

La domanda allora si sposta:

se lo stato interno dei bambini appare buono, quale rischio esatto si sta tentando di prevenire?

L’allontanamento: protezione o trauma aggiuntivo?

L’ingresso in una casa famiglia, pur con la madre presente e con la possibilità per il padre di vederli liberamente, rappresenta comunque una frattura. Ogni allontanamento introduce discontinuità e una forma di sospensione: “perché ora non posso più stare dove sono sempre stato?”. È una domanda che ogni bambino si pone, anche quando gli adulti fanno del proprio meglio per proteggerlo.

Era davvero inevitabile arrivare a questa misura?

L’avvelenamento da funghi può accadere in qualsiasi famiglia: urbana, rurale, istruita, inconsapevole. È stato un campanello d’allarme, ma non è automaticamente la prova di un’incapacità genitoriale.

Una società che fatica con la differenza

Forse questa vicenda dice più delle nostre ansie collettive che della famiglia coinvolta.

Viviamo in una società che fatica a tollerare forme di vita fuori dal registro dominante. E quando ciò che è atipico riguarda i bambini, l’ansia aumenta: scatta il bisogno di ricondurre tutto a un modello rassicurante, riconoscibile, standard.

Eppure, si potrebbe allora domandare:

che dire di quei genitori che espongono i loro figli sui social, monetizzando la loro immagine, chiedendo loro di recitare, sorridere, posare, commentare, diventare piccoli personaggi pubblici prima ancora di capire cosa significhi essere guardati?

Che dire dei bambini coinvolti in video virali, sfide, messaggi promozionali, dove la loro intimità diventa contenuto?

Sono forme di vita considerate “normali”, spesso accolte con leggerezza o addirittura con simpatia. Eppure sollevano interrogativi profondi sulla protezione dell’infanzia, sul diritto alla riservatezza, sull’uso — o lo sfruttamento — dell’immagine del minore.

Non si tratta di condannare, ma di riconoscere la asimmetria dei nostri giudizi: ciò che è culturalmente familiare ci sembra accettabile; ciò che è diverso, immediatamente sospetto.

Nel rumore della polarizzazione, i bambini rischiano di scomparire due volte: sia quando vengono idealizzati come vittime, sia quando vengono normalizzati come piccoli protagonisti mediatici.

Lavoro di ascolto e mediazione: la via rimossa dal dibattito

Se la tutela dell’infanzia è davvero il fine, allora la strada dovrebbe essere un’altra:

fare un lavoro di ascolto reale, capace di includere i genitori, di comprendere le loro ragioni e la loro visione del mondo, di cogliere lo stile di vita che hanno scelto e le risorse che possiedono.

Solo da lì può nascere una vera mediazione: modi concreti per permettere ai bambini di crescere nel loro ambiente — o in una versione più sicura dello stesso — senza essere costretti ad abbandonarlo.

Supporti esterni, presenze educative, regole di monitoraggio, sostegni pratici: ci sono molte forme attraverso cui una comunità può aiutare senza punire, affiancare senza imporre.

La tutela non dovrebbe essere una scelta binaria tra “lasciar fare” e “separare”, ma un lavoro di costruzione delicata, cucita sulle vite reali, non sui modelli astratti.

Interrogativi che restano aperti

Questa vicenda non chiede una sentenza, ma domande più profonde:

Sappiamo distinguere tra ciò che ci inquieta e ciò che mette realmente a rischio un minore?

Sappiamo ascoltare senza cercare di normalizzare?

Sappiamo costruire mediazioni invece di imporre soluzioni drastiche?

Possiamo immaginare che proteggere significhi anche custodire i legami che funzionano?

E siamo sicuri che ciò che appare “normale” sia per forza più sano di ciò che appare “diverso”?

Forse il compito più difficile è proprio questo: non giudicare subito, ma ascoltare davvero.

E ricordare che la protezione dell’infanzia non si esercita dividendo il mondo in buoni e cattivi, ma cercando — insieme — gli spazi in cui i bambini possano crescere senza perdere ciò che per loro è casa.

Cover : Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/alanajordan-25247407/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9172374″>Alana Jordan</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9172374″>Pixabay</a>
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Tecnocrazia e famiglia nel bosco

Tecnocrazia e famiglia nel bosco

Ieri mi è successo un fatto che voglio raccontare. Ero al parco con il mio cane, chiacchieravo con altre donne. Parlavamo della morte delle gemelle Kessler e discutevamo del fatto che molto dietro alla pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia, ci lasciava perplesse. La tanto ventilata autodeterminazione e libertà, parole che volano alte ogni volta che si parla di questi argomenti, non possono essere usate a strumento di propaganda. Scegliere di togliersi la vita ha un impatto forte sulla società.

Tutte consapevoli che il tema è delicato e che tocca corde profonde di sofferenza ci interrogavamo però sul fatto che dietro a queste pratiche c’è comunque un mercato. Io ho azzardato e ho proprio parlato di mercato dei corpi, del fatto che per legiferare su questo si devono trattare i corpi come da tempo trattiamo la natura, come se fossero inanimati.

E ho parlato del mercato dei corpi e dei pezzi di corpo riferendomi anche alla propaganda dell’utero in affitto oggi definita eufemisticamente gestazione per altri  e alla “donazione” di ovuli e sperma. Forse la morte confezionata con un farmaco letale, un medico che te la inietta e un avvocato che certifica che tutto è stato fatto secondo la legge (in realtà secondo una sentenza perché in Germania la legge non c’è ancora), non fa parte del sistema mercato? Non è forse un contratto che sancisce l’intrecciarsi di queste personalità professionali?

Si era avvicinato da poco un signore che spesso arriva al parco con il suo cane. Ci ascoltava in silenzio. Poi alla mia affermazione che c’è un mercato dei corpi e di pezzi di corpo è sbottato violentemente dicendo “la deve smettere di dire cavolate, queste sono chiacchiere da bar e di questo può parlare solo chi è competente”. Sono rimasta in silenzio per pochi secondi, si rivolgeva a me? mi sono chiesta, e perché con tanta violenza?

Non sono una che sta zitta e, quando mi sono ripresa dallo stupore, ho ribattuto che sui temi di morte e vita tutti possiamo esprimere le nostre opinioni e che queste mie riflessioni non erano fatte alla leggera. Si è allontanato senza più dire nulla. Le altre signore sono rimaste basite dalla violenza verbale con la quale mi aveva aggredito e mi hanno confessato che il signore è un giudice in pensione. Mi sono dovuta trattenere dal rincorrerlo e mordermi la lingua per non dirgli che ero felice che fosse in pensione perché così non potrà più intimidire alcuno in quel modo.

Certamente, senza volere, con le mie parole, ho risvegliato una sofferenza che lo ha spinto a reagire così, ma quello che mi ha fa accapponare è l’arroganza di alcuni che pensano che ci siano cittadini di serie A e di serie B. Quelli competenti (A) in materia, quelli specializzati sono loro che devono scegliere per il bene di tutti.  Si chiama tecnocrazia. E a me fa davvero paura.

Solo pochi anni fa ci siamo trovati ad affrontare la stessa situazione. Se avevi dubbi sul farmaco/vaccino covid eri un ‘anti-scienza’. Certi scienziati avevano la verità in tasca e denigravano quelli che si ponevano dei dubbi. Discutere era impossibile. Lo Stato decideva sul tuo corpo pena l’esclusione dalla società, l’impossibilità di lavorare, di accedere nei luoghi pubblici etc. O stavi con loro o eri un disertore, un sorcio e non vado oltre etc. La stessa magistratura è stata silente, dimenticando che la Costituzione nell’articolo 32, 2 e 21 mette al centro proprio l’autodeterminazione che è invalicabile; il Codice di Norimberga poi era diventato carta straccia.

Oggi riguardo alla famiglia nel bosco succede la stessa cosa. Si possono portare via dei bambini dal loro ambiente e strapparli ai genitori naturali solo perché alcuni hanno deciso che l’unico modo per crescerli sani e buoni è quello omologato, quello della scolarizzazione di Stato. Se non hai l’acqua corrente e il riscaldamento non li ami, vuoi il loro male. Se scegli per loro la relazione con la natura e non quella sociale non li ami.

Ma quale follia sta prendendo questi giudici? O, sarebbe meglio dire, questi tecnocrati che vogliono omologare tutti e inserirli in protocolli schedabili? Cosa sta spingendo le persone a credere che solo quelli preparati in certi campi hanno diritto di parola e tutti gli altri devono stare zitti? Se sei analfabeta allora sei privo di qualsiasi intelligenza? Ma da quando? Solo perché sai leggere non è detto che tu sappia avere relazioni sane.

Ma da quando siamo diventati così incapaci di discernimento al punto che non vediamo tutti i paradossi che il nostro mondo “primo” sta producendo?  Un medico che inietta un farmaco letale ad esempio. E da quando non riusciamo più a vedere che questo sistema ci sta portando diritti verso il totalitarismo? Altro che democrazia.

Dietro a tutto questo, ormai mi chiedo se non ci sia una regia che vuole privarci della nostra umanità, della nostra intelligenza intuitiva, del nostro senso. Perché è di questo che stiamo parlando della cancellazione dell’umanità per come l’abbiamo conosciuta, della compassione, della intelligenza emotiva e intuitiva a favore degli algoritmi delle macchine (ben confezionati da chi vuole avviarci in una certa direzione) che governeranno il nostro vivere sociale.

Spero che la voce antica dei nostri corpi urli la verità ai più e metta un freno a questa deriva totalitaria vestita a festa e agghindata con su scritto parole ormai vuote di significato: libertà, giustizia, amore, inclusione, diversità.

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Maximilian Kasy: «Possiamo proteggere la privacy dagli algoritmi di I.A. solo collettivamente»

Maximilian Kasy: «Possiamo proteggere la privacy dagli algoritmi di I.A. solo collettivamente»

«Immaginate di candidarvi per un posto di lavoro. Sapete di essere un candidato promettente con un curriculum eccellente. Ma non ricevete nemmeno una risposta. Forse lo intuite: per la preselezione dei candidati viene utilizzato un algoritmo di intelligenza artificiale. Ha deciso che rappresentate un rischio troppo grande. Forse l’algoritmo è giunto alla conclusione che non siete adatti alla cultura aziendale o che in futuro potreste comportarvi in modo tale da causare attriti, ad esempio aderendo a un sindacato o mettendo su famiglia. Non avete alcuna possibilità di comprendere il suo ragionamento o di contestarlo».

Il professor Maximilian Kasy illustra così quanto già oggi siamo in balia degli algoritmi di IA. Kasy è professore di economia all’Università di Oxford e autore del libro «The Means of Prediction: How AI Really Works (and Who Benefits)». In italiano: «La capacità di prevedere: come funziona davvero l’IA (e chi ne trae vantaggio)».

Maximilian Kasy, Professor of Economics University of Oxford (Foto di tratta da YouTube)

Kasy avverte che gli algoritmi dell’I.A. potrebbero privarci del nostro lavoro, della nostra felicità e della nostra libertà, e persino costarci la vita.

«È inutile preoccuparsi di proteggere la propria privacy digitale, anche se si mantengono riservati la maggior parte dei dettagli personali, si evita di esprimere la propria opinione online e si impedisce alle app e ai siti web di tracciare la propria attività. All’intelligenza artificiale bastano i pochi dettagli che ha su di voi per prevedere come vi comporterete sul lavoro. Si basa su modelli che ha appreso da innumerevoli altre persone come voi». Kasy ha fatto questa triste constatazione in un articolo pubblicato sul New York Times.

Concretamente, potrebbe funzionare così: le banche non utilizzano i clic individuali, ma algoritmi appositamente progettati per decidere chi ottiene un prestito. La loro IA ha imparato dai precedenti mutuatari e può quindi prevedere chi potrebbe trovarsi in mora.

Oppure le autorità di polizia inseriscono negli algoritmi dati raccolti nel corso di anni su attività criminali e arresti per consentire un «lavoro di polizia preventiva».

Anche le piattaforme dei social media utilizzano non solo i clic individuali, ma anche quelli collettivi per decidere quali notizie – o disinformazioni – mostrare agli utenti. La riservatezza dei nostri dati personali offre poca protezione. L’intelligenza artificiale non ha bisogno di sapere cosa ha fatto una persona. Deve solo sapere cosa hanno fatto persone come lei prima di lei.

Gli iPhone di Apple, ad esempio, sono dotati di algoritmi che raccolgono informazioni sul comportamento e sulle tendenze degli utenti senza mai rivelare quali dati provengono da quale telefono. Anche se i dati personali degli individui fossero protetti, i modelli nei dati rimarrebbero invariati. E questi modelli sarebbero sufficienti per prevedere il comportamento individuale con una certa precisione.

L’azienda tecnologica Palantir sta sviluppando un sistema di intelligenza artificiale chiamato ImmigrationOS per l’autorità federale tedesca responsabile dell’immigrazione e delle dogane. Il suo scopo è quello di identificare e rintracciare le persone da espellere, combinando e analizzando molte fonti di dati, tra cui la previdenza sociale, l’ufficio della motorizzazione civile, l’ufficio delle imposte, i lettori di targhe e le attività relative ai passaporti. ImmigrationOS aggira così l’ostacolo rappresentato dalla privacy differenziale.

Anche senza sapere chi sia una persona, l’algoritmo è in grado di prevedere i quartieri, i luoghi di lavoro e le scuole in cui è più probabile che si trovino gli immigrati privi di documenti.
Secondo quanto riportato, algoritmi di intelligenza artificiale chiamati Lavender e Where’s Daddy? sono stati utilizzati in modo simile per aiutare l’esercito israeliano a determinare e localizzare gli obiettivi dei bombardamenti a Gaza.

«È necessario un controllo collettivo»

Il professor Kasy conclude che non è più possibile proteggere la propria privacy individualmente: «Dobbiamo piuttosto esercitare un controllo collettivo su tutti i nostri dati per determinare se vengono utilizzati a nostro vantaggio o svantaggio».

Kasy fa un’analogia con il cambiamento climatico: le emissioni di una singola persona non modificano il clima, ma le emissioni di tutte le persone insieme distruggono il pianeta. Ciò che conta sono le emissioni complessive.

Allo stesso modo, la trasmissione dei dati di una singola persona sembra insignificante, ma la trasmissione dei dati di tutte le persone – e l’incarico all’IA di prendere decisioni sulla base di questi dati – cambia la società.

Il fatto che tutti mettano a disposizione i propri dati per addestrare l’IA è fantastico se siamo d’accordo con gli obiettivi che sono stati fissati per l’IA. Tuttavia, non è così fantastico se non siamo d’accordo con questi obiettivi.

Trasparenza e partecipazione

Sono necessarie istituzioni e leggi per dare voce alle persone interessate dagli algoritmi di IA, che devono poter decidere come vengono progettati questi algoritmi e quali risultati devono raggiungere.

Il primo passo è la trasparenza, afferma Kasy. Analogamente ai requisiti di rendicontazione finanziaria delle imprese, le aziende e le autorità che utilizzano l’IA dovrebbero essere obbligate a rendere pubblici i propri obiettivi e ciò che i loro algoritmi dovrebbero massimizzare: ad esempio, il numero di clic sugli annunci sui social media, l’assunzione di lavoratori che non aderiscono a un sindacato, l’affidabilità creditizia o il numero di espulsioni di migranti.

Il secondo passo è la partecipazione. Le persone i cui dati vengono utilizzati per addestrare gli algoritmi – e le cui vite sono influenzate da questi algoritmi – dovrebbero poter partecipare alle decisioni relative alla definizione dei loro obiettivi. Analogamente a una giuria composta da pari che discute un processo civile o penale e emette una sentenza collettiva, potremmo istituire assemblee cittadine in cui un gruppo di persone selezionate a caso discute e decide gli obiettivi appropriati per gli algoritmi.

Ciò potrebbe significare che i dipendenti di un’azienda discutono dell’uso dell’IA sul posto di lavoro o che un’assemblea cittadina esamina gli obiettivi degli strumenti di polizia preventiva prima che questi vengano utilizzati dalle autorità.
Questi sono i tipi di controlli democratici che potrebbero conciliare l’IA con il bene pubblico. Oggi sono di proprietà privata.

Il futuro dell’IA non sarà determinato da algoritmi più intelligenti o chip più veloci. Dipenderà piuttosto da chi controlla i dati e dai valori e dagli interessi che guidano le macchine.
Se vogliamo un’IA al servizio del pubblico, è il pubblico che deve decidere a cosa deve servire.

Maximilian Kasy: «The Means of Prediction: How AI Really Works (and Who Benefits)», University of Chicago Press, 2025

Cover: Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Educazione sessuo-affettiva nelle scuole: il tabù italiano

Educazione sessuo-affettiva nelle scuole: il tabù italiano

L’Italia è rimasta uno degli ultimi paesi europei in cui l’educazione affettiva e sessuale non è compresa obbligatoriamente nei programmi scolastici, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Romania e Polonia.

Ritardo non di poco conto se si prende atto che in Svezia è stata introdotta nel 1955, in Germania e Danimarca nel 1970, in Francia nel 1973, solo per elencare i più avanzati, mentre la Spagna introduce l’obbligatorietà nel 2022. Prima di analizzare gli argomenti a favore di tale “educazione scolastica” viene spontaneo chiedere le motivazioni di un ostruzionismo di così lunga durata da parte di un Paese come l’Italia, fondatore dell’UE ,che dovrebbe condividerne i valori fondamentali.

Una prima risposta la fornisce l’ex- femminista Eugenia Roccella, ora ministra della Famiglia, che dichiara che in Svezia i tassi di femminicidio sono superiori a quelli italiani, nonostante l’educazione sessuale obbligatoria (fenomeno denominato “paradosso nordico”).

La sua dichiarazione dimostra la rimozione totale della interpretazione femminista del femminicidio, che lo mette piuttosto in relazione al grado di emancipazione e indipendenza femminile, non tollerato da parte maschile per la perdita secca di potere (libertà di scelta femminile).

Ancora più esplicita nel limitare la portata dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole è stata l’approvazione in commissione Cultura della Camera, il 16 ottobre, dell’emendamento presentato dalla Lega al DDL Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico, che vieta a “figure esterne” e “attivisti ideologizzati” di svolgere attività didattiche riguardanti l’educazione sessuo- affettiva… il tema può essere affrontato solo da un punto di vista biologico e riproduttivo. A chiarimento ulteriore il ministro dell’istruzione Valditara ha specificato che i bambini non devono affrontare temi legati all’identità di genere, non devono essere indottrinati secondo le “teorie gender”.

Questa posizione, che ha l’unico pregio di chiarire le motivazioni di una tale accanita resistenza, ha sollevato critiche e obiezioni, non solo da parte delle opposizioni, ma anche e soprattutto delle figure professionali presumibilmente coinvolte nell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole.

Il dissenso è stato espresso degli Ordini degli psicologi di otto regioni (Emilia Romagna, Campania, Lazio, Abruzzo, Veneto, Puglia, Basilicata e Sicilia) per il danno recato a bambini, bambine e adolescenti nel loro sviluppo sessuale, affettivo e relazionale negando loro l’accesso a informazioni e conoscenze inerenti la realtà circostante.

Aggiungerei che l’emendamento risulta estremamente offensivo nei confronti di professionisti (psicologi, sessuologi, ma anche insegnanti) che evitano accuratamente “indottrinamenti”, generalizzazioni e specialmente ogni forma di essenzialismo (la femmina è così per natura, il maschio è così per natura) rivolgendosi a individui incarnati, unici, collocati storicamente, socialmente e geograficamente.

Secondo Save the Children, Unesco e OMS i programmi di educazione sessuale e affettiva sono finalizzati a  “promuovere la conoscenza e la consapevolezza delle proprie emozioni per riconoscerle e imparare a gestirle”.

Il crescente numero di episodi di violenza giovanile provenienti da famiglie non disfunzionali, gli efferati femminicidi messi in atto da giovanissimi “bravi ragazzi”, gli stupri collettivi di medievale memoria, attestano chiaramente come la prima agenzia educativa, la famiglia,  sia spesso all’oscuro delle problematiche affettive e relazionali dei propri figli e non abbia la capacità concreta di aiutarli.

Se la seconda agenzia educativa, la scuola, non integra con contenuti puntuali e aggiornati, non aiuta i giovani a conoscere e gestire il groviglio di emozioni che caratterizza la pubertà e l’adolescenza, giocoforza lo spazio vacante viene occupato da due “esperti” non invitati: la pornografia e i social, con gli esiti diseducativi che possiamo constatare. In confronto la conoscenza della teoria gender ha la pericolosità di un film di Walt Disney.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/dimhou-5987327/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=3575167″>Dim Hou</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=3575167″>Pixabay</a>

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Parole a capo
Bruno Mohorovich: Alcune poesie da “Parlerò di te”

Parole a capo <br> Bruno Mohorovich: Alcune poesie da “Parlerò di te”

 

«C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte, dove rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età. Quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare»
(Alda Merini)

 

Intingo la penna
nel blu notte
e scrivo
su carta increspata di nuvole,
poeta senza poesia,
parole striate di frammenti.
Punti e virgole
sono pulviscolo
in muti spazi
e pudiche attese.
Rileggo questa follia,
che affido ad un velo di vento
perché la posi alla tua finestra,
nell’ovattata luce della luna.

 

*

 

E’ per te
questa penna che prova
a scrivere una poesia
Ogni verso che fisso su questo foglio
è per te.
Nel chiaro concerto di stelle e luna
nel notturno volo di una farfalla vagabonda
nell’aria flebile d’una sera d’estate
nel profumo che spande fiori
tra note di musica che compongo
ma non so suonare
cerco di dirti,
il diletto di pensarti
la delizia del tuo abbraccio
l’incanto di sentirti vicina.
E’ per te,
quest’uomo che pensa d’esser poeta
per te.

 

*

 

Finestre chiuse in questa distesa
di notturna quiete
oltre i confini delle nere colline
Ti raggiungo nel sonno
vegliandoti
Colgo la tua stanchezza
e la ripongo fuori,
nell’ombra del silenzio
Accanto al tuo sorriso
riflesso sui tuoi disciolti capelli
mi muovo leggero
cercando quell’essenza di fiori
che liberi levigando l’aria.
Dalla tua finestra socchiusa
luci di lampare
si perdono
nell’orizzonte dei tuoi occhi

 

*

 

Nel ronzio di queste ore
nello sciame d’auto
ritornano due labbra
che nel tempo hanno smarrito
i loro baci.
Eravamo noi in quella via,
consumata dai nostri passi
che ci siamo persi
nell’indaco di una sera.
Eravamo ancora noi
col sorriso di sempre
in quella stessa via
che ci siamo ritrovati.

 

*

 

Nella velata notte
che cela il lagrimar delle stelle,
un sussurro di musica
ci suggerisce i ricordi.
Seduti su una panchina
il fremito del vento
ci offre una fragranza di fiori.
Il brusio delle nostre voci,
sul limitare della nostalgia
si schiude in un sussulto.

E vestimmo di sorrisi
le nostre rughe

 

*

 

Giocano a fare Dio
le nuvole
mentre il sole esala
gli ultimi raggi.
In sottofondo
partecipo
raccolto nel rimpianto
tra il verde che declina alla sera
e l’inusuale tintinnio d’un canto.
Ho raccolto la tua voce
e m’invento un dialogo.

 

Foto di dae jeung kim da Pixabay

 

Bruno Mohorovich è nato a Buenos Ayres il 3/3/1953, istriano, attualmente vive a Perugia. Ha vissuto a Pesaro quasi 20 anni dove ha curato eventi letterari e organizzato collettive di pittura. Ha 2 lauree in Sociologia e Lettere; si è sempre occupato di critica cinematografica e didattica del cinema nella scuola.
Nel 2015 ha diretto il corto sul XX Canto dell’Inferno della “Commedia” di Dante, nell’ambito delle celebrazioni per la nascita del sommo poeta, promosso dalla Loescher Editrice e dall’Accademia della Crusca ottenendo il Primo premio ex aequo alla Fiera Internazionale del libro di Torino. L’opera è stata realizzata con gli studenti del CLA (Centro Linguistico Ateneo – ‘Università agli Studi di Perugia).
Ha curato la pubblicazione “Saulo Scopa – fotografie e cortometraggi 1998 – 2008”, “Cinema in… – 3 voll.”per le edizioni AIART – Associazione Spettatori, il libro “Nuovo Cinema…scuola” per Era Nuova, e per i tipi della Bertoni Editore, i libri di poesie “Storia d’amore – una fantasia”, “Tempo al tempo” e “Parlerò di te”.

Sempre per la Bertoni Editore, del quale attualmente è coordinatore del marchio “poesiaedizioni”. Ha curato le antologie poetiche “Marche – omaggio in versi” e “Napoli – omaggio in versi”, i volumi “La città tra desiderio e utopia”, dedicata a Perugia e “Atarcònt – immagini pesaresi” dedicata alla città di Pesaro, i calendari “PoesiaNatura” e “Alberi”, le trilogie “Inni” e le “Agende poetiche”, oltreché curatore di due collane poetiche.

 

Ringrazio Bruno Mohorovich di averci autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 313° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista

Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista

Sono le prime parole con cui Nathan – il padre dei tre bambini strappati a lui e a sua moglie – commenta il provvedimento in un’intervista di Daniele Cristofani pubblicata oggi sul quotidiano Il Centro (L’intervista integrale è stata trasmessa ieri sera, in due puntate speciali di Zoom, storie del nostro tempo, alle 18.50 e alle 23.15, sull’emittente televisiva Rete8).

L’ordinanza cautelare del Tribunale dei Minori de L’Aquila non si è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione – in quanto giustamente i bambini seguivano il metodo unschooling  ma sul pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione – previsto dall’articolo 2 della Costituzione – “produttiva di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”.

Secondo il tribunale “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare può avere effetti significativi sullo sviluppo del bambino, che si manifestano sia in ambito scolastico che non scolastico”.

Fra le folli motivazioni “sentenziate” dal tribunale dei minori de L’Aquila, si legge anche che sarebbe necessario allontanare i minori dall’abitazione familiare, “in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge”.

Inoltre, “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del periodo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori.

 

Quindi il tribunale ha disposto la sospensione della potestà genitoriale a padre e madre che con tre figli minori, fra i 6 e gli 8 anni, oltre che l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare e il loro collocamento in una casa famiglia e nominato un tutore provvisorio dei minori, l’avvocata Maria Luisa Palladino.

Il tribunale parla di “lesione del diritto alla vita di relazione”, senza nemmeno accorgersi che il diritto alla vita di relazione nelle nostre società industrializzate e opulente viene violato ogni giorno, perchè abbiamo dimenticato come vivere. Il diritto alla relazione viene violato in nome della crescita economica, della competizione, dell’efficientismo e dell’utilitarismo, dell’incomprensione e l’incapacità di dialogare sul posto di lavoro: tutti pronti a correre pregando di arrivare prima degli altri per qualche salto di carriera, per qualche soldo in più che sia esso per profitto o per sopravvivenza, ma non sicuramente per vivere in pace.

Il diritto alla relazione è violato dalla virtualizzazione delle relazioni, dall’espropriazione delle relazioni umani, dagli smartphone dati in mano ai bambini di 3 anni, dal diffondersi dell’apatia, dal non distinguere il valore delle proprie azioni e dal non capire il senso del limite.

Per non parlare dell’individualismo epidemico, dell’atomizzazione indotta dal consumismo, della diffusione capillare di un linguaggio sempre più violento e che induce alla violenza, dai crescenti fenomeni di bullismo e autolesionismo nei giovanissimi, dalla crescita esorbitante dell’abuso di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti; dal dilagare di uomini che uccidono le donne per possesso o senso di proprietà e dal dilagare di giovani ragazzi adolescenti che molestano o stuprano le loro coetanee.

Questo è quello che vivono costantemente i nostri giovani in un brutale circolo vizioso, perchè non si dà il giusto valore alle cose e si finisce nella disumanizzazione: le persone cessano di essere considerate un fine e diventano un mezzo.

Il tribunale si dimentica che tutte queste situazioni provengono da persone che vivono la nostra società e da essa continuano a imparare l’incapacità di relazionarsi.

Quindi, nella nostra società, il problema è pedagogico e culturale. Ma al posto di vederlo e di mettere a fuoco il lassismo pedagogico e il vuoto educativo che si sta generando in questa “modernità liquida”, come direbbe Zigmunt Bauman, si punta il dito contro chi sta fornendo a tutti noi un esempio drastico, estremo ma alternativo di educazione e di vita.

Siamo davvero sicuri che i figli di Nathan e Catherine abbiano problemi di relazione? Siamo davvero sicuri che il loro diritto a relazionarsi sia stato leso? Bisogna vedere che tipo di relazione si intende. Sicuramente il tribunale ha interiorizzato, da tradizione e cultura giuridico-istituzionale liberale, una prospettiva antropocentrica di relazione per la quale relazionarsi vuol dire che gli umani si relazionano con gli umani. Si potrebbe adottare un prospettiva eco-centrica più ampia, affermando che relazionarsi significa relazionarsi al mondo, non inteso – come direbbe Ulrich Beck – “al sistema-mondo”, inteso come “alle cose della Natura”.

Una domanda sorge spontanea: i nostri figli si sanno relazionare come i figli di Nathan e Catherine si relazionano alla Natura, alle piante, agli animali, ai sassi, all’acqua, ai torrenti, al suolo e ai lombrichi?

La risposta è drammaticamente negativa, nonostante il Tribunale de L’Aquila si preoccupi dei “rischi igienici” a cui andrebbero incontro i figli di Nathan e Catherine in un stile di vita rurale. Il tutto mentre i figli della nostra società sono schizzinosi nei confronti di tutto ciò che è naturale, inseguiti da genitori ancora più schizzinosi di loro che vorrebbero una Natura sterile –  priva di microbi, batteri e virus – per non farli ammalare. Eppure sono gli stessi genitori schizzinosi pronti ad accompagnare i loro figli a mangiare da BurgerKing, McDonald, RoadHouse e altre catene di junk food.

Questo è il risultato di una società che ha perso la cultura dell’igiene naturale per lasciar spazio all’igienismo. Conclusione: generazioni di giovani illusoriamente felici, malnutriti e medicalizzati, che non sopravvivrebbero nemmeno venti minuti ad un blackout mondiale.

Mi risulta che queste situazioni non siano nemmeno concepibili dai figli di Nathan e Catherine, i quali invece saprebbero benissimo cosa fare nel bel mezzo di un blackout totale e non avrebbero problemi ad intrattenersi con i propri animali o fare un bagno nel torrente.

La risposta è ancora più cruda: i nostri figli non solo non sanno relazionarsi alle cose della Natura, ma non sanno nemmeno relazionarsi al “sistema mondo” che invece vivono. Spesso, i nostri figli, vivono vite per procura di fronte ai dispositivi tecnologici e digitali (ma anche tv) a guardare serie tv, videogiochi, film stupidi, fiction americane e reality. Il fenomeno sempre più diffuso degli hikikomori non è fantascienza, ma un trend in aumento nella nostra società.

Anche per quanto riguarda la sessualità, la mancanza di relazioni nella nostra società è un problema non indifferente. Come afferma il grande psicanalista Luigi Zoja, la presunta “sessualità disinibita” nei giovani di oggi è pura apparenza, segnata invece da una crisi del desiderio che teme corpo, emozioni e sentimenti.

La psicanalista Laura Pigozzi, riflettendo sulla deriva dell’erotismo tra i giovani, ha parlato di iposessualità nei giovani: c’è grande disponibilità di erotismo e di corpi offerta dalla Rete (OnlyFan), ma ciò non fa crescere il desiderio nella realtà. I ragazzi diffidano sempre più delle relazioni sentimentali e fisiche perché sono stati educati ad avere paura del mondo esterno, del diverso, sono iperprotetti; questo ha reso la sessualità meno reale. Il sesso viene percepito sempre più come una performance, da maschi e femmine, che genera ansia. I giovani che si chiudono nelle loro stanze rifiutando ogni contatto sociale. È un approccio rarefatto al desiderio in cui ci si espone sempre meno all’altro: al suo corpo e al rischio delle emozioni.

Oggi stiamo crescendo una società di bambini etichettati fin dalla nascita, dove la diversità o è vista come un problema, o come un disagio, o come vittimismo o come autocompiacimento e mai come valore intramontabile. Un società malata che imbottisce i propri figli di psicofarmaci, che dà a loro smartphone senza i giusti strumenti, che investe nelle “competenze” e sempre meno sulla conoscenza, sull’esercitare il pensiero e il senso critico.

Mi risulta che tutti questi problemi di relazione siano presenti – nella nostra società odierna – tra soggetti che in questa società sono nati e cresciuti senza conoscere alcuna “estraniazione rurale”.

In questo contesto, bisognerebbe capire se la relazione deve essere intesa come “obbligo” (come sembra intenderlo il Tribunale) o come “diritto” (come dovrebbe essere) e, nel caso fosse considerato un “diritto”, dovremmo essere in grado – come società – di garantirlo, e di una certa qualità. Cosa che non mi pare siamo in grado di fare. Qual è dunque la logica che ci spinge a voler insegnare agli altri come fare relazione e a relazionarsi, se siamo noi i primi a non riuscire a concepire un futuro nelle nostre relazioni?

Alla nostra società manca una cultura che sia in grado di educare alle relazioni, mentre invece è molto brava a spiattellare sui media mainstream nazionali il caso di una famiglia che non vuole saperne nulla di questa modernità futile, effimera e anti-educativa.

Questa famiglia è stata presa mediaticamente come capro espiatorio affinchè l’opinione pubblica la brutalizzasse, si indignasse di loro e puntasse il dito. Anche se questo era l’intento, fortunatamente non è avvenuto. Per evitare di analizzare come il potere disciplinare (citando Foucault), l’istruzione – quella riduzionista occidentale – e le sue istituzioni – ovvero la società e la cultura di mercato – stiano oggi massacrando le relazioni, si addita chi nella propria semplicità si dedica alla creazione autentica di relazioni. Perchè questo è il fulcro del discorso.

Qual è la colpa di questa coppia di genitori anglo-australiani che hanno deciso di vivere in semplicità nei boschi abruzzesi? Educare liberamente i loro figli in mezzo alla Natura e al contatto con essa, con un maestro privato; vivere secondo un stile di vita ecologico e naturalistico in una bellissima casetta in mezzo al bosco a Palmoli, in provincia di Chieti; vivere secondo il ritmo lento della Natura, trascorrendo una vita serena e tranquilla lontano dal caos, dal rumore e dalla frenesia della società industrializzata; autosostenersi totalmente con pannelli solari, pozzo di acqua privato, legna a volontà, tanti animali e tanto amore.

I media hanno parlato della famiglia di Nathan e Catherine come di una “famiglia neorurale”, come se il ruralismo fosse qualcosa di vecchio e antico da ripudiare. In realtà il ruralismo è vivere l’essenza della vita, lontano dalle mode, dai consumi, dall’effimero, dai veleni dell’esistenza come l’avidità, la stupidità e la collera… che immancabilmente generano sofferenza a lungo tempo.

Questa famiglia – secondo il Tribunale e una fetta dell’opinione pubblica – dovrebbe forse fare come tutte le altre famiglie medie italiane: insegnare ai propri figli a guardare Uomini e Donne, Temptation Island, L’Isola dei Famosi, il Grande Fratello; a guardare cartoni animati stupidi e diseducativi o addirittura a piazzarli davanti a videogame volti allo sviluppo estremo di adrenalina e serotonina.

Si chiama schizofrenia ontologicamentre il vuoto educativo e la rarefazioni delle relazioni imperversano nella società di oggi, inaugurando un’epidemia di apatia, le istituzioni di questa stessa società reprimono modelli alternativi proprio di educazione, di pedagogia, di società ecologica e di crescita umana.

La schizofrenia ontologica è arrivata a livelli tali che una famiglia che vive in una casa in un bosco è percepita come un pericolo, forse perché può essere un modello da seguire… E questo fa ancora più paura al potere.

Nell’epoca in cui si esaltano sviluppo e progresso, chi prova ad allontanarsene deve essere punito. Come osi non sottometterti alle bollette? Come osi privarti della tv, dell’auto a rate, dello smog incensante? Come puoi impedire ai tuoi figli di far scoprire il tossico mondo dei social media? Come puoi non ambire nel vedere i tuoi figli che girano video su TikTok? Come osi non sottometterti alla dittatura dell’algoritmo? Come osi cercare uno stile di vita che abbandona il materialismo della società capitalista e consumista per dedicarti ad un risveglio politico, etico e spirituale?

Come osi non allacciarti alla corrente, usufruendo di un panello solare costruito artigianalmente? Come osi non allacciarti all’acquedotto, preferendo usare l’acqua di fonte gratuita dal pozzo sul proprio terreno? Come osi non allacciarti al gas in questo periodo storico dove, con la guerra in Ucraina, abbiamo fatto di tutto per boicottare il North Stream russo per rimpinguare le casse USA con il gas liquido? Come osa questa gente usare la loro legna come negli ultimi 170.000 anni di storia?

Questi sono gli interrogativi che si pone il necropotere della società del controllo.

Chi sceglie l’autodeterminazione, la libertà educativa, le relazioni di cura autentiche ed evita di crescere i propri figli come lo fa la massa, ovvero a suon di cellulari, antidepressivi, influencer, centri commerciali, omologazione e conformismo, rappresenta da un lato una vera minaccia per il quieto vivere del gregge al macello, ma dall’altro rappresenta un esempio concreto di come si possa portare bellezza nella propria vita fuori dagli schemi effimeri della società consumista ed industriale di massa.

[…]

Articolo pubblicato su Pressenza il 22.11.2025

Cover: https://pixabay.com/it/photos/log-cabin-villetta-casa-finlandia-1886620/

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Alice ed Ellen Kessler: nemmeno la morte ci separerà

Alice ed Ellen Kessler: nemmeno la morte ci separerà

Alice ed Ellen Kessler non hanno vissuto semplicemente insieme: hanno vissuto come una soltanto. Iconiche gemelle della televisione europea, scelgono di morire nello stesso momento all’età di 89 anni tramite suicidio assistito.
Nella loro casa in Germania, un medico e un avvocato assistono le due sorelle mentre azionano il dosatore che avvia la somministrazione del farmaco letale.
La decisione è lucida, ponderata, coerente con tutta la loro vita.

La loro esistenza è sempre stata una forma di co-esistenza: stessa carriera, stessi ritmi quotidiani, appartamenti sullo stesso pianerottolo collegati da una sala comune, che dividevano solo quando litigavano, tirando su una parete mobile. E, soprattutto, hanno un’identità speculare condivisa. Non si sposano né costruiscono famiglie separate: l’idea che una delle due rimanga sola è per entrambe inconcepibile. La loro identità non si differenzia mai del tutto. La morte, in questa prospettiva, non appare come una frattura, ma come l’ultimo atto di continuità.

Simbolicamente potente è anche la loro disposizione testamentaria: le ceneri devono essere mescolate insieme e unite a quelle della madre. Anche se la legge tedesca non lo consente, l’intenzione rivela il desiderio profondo di fondersi, non solo l’una con l’altra, ma con la radice originaria della loro esistenza.

Secondo Lacan, il soggetto si costituisce attraverso la separazione: l’ingresso nel simbolico presuppone che il bambino accetti di non essere tutt’uno con la madre e con l’immagine speculare dell’Altro.
Nei gemelli, e ancor più in coppie così intimamente legate, questo processo assume una forma diversa: l’Altro non è un’entità esterna, ma una presenza identica, quasi un’estensione del proprio corpo.

Nel caso delle Kessler, ciascuna funge da specchio stabile e continuo per l’altra. Non sono solo doppie, ma un punto di identificazione reciproco così forte da rendere impensabile una vita separata. L’ipotesi lacaniana di un soggetto che cerca unità attraverso l’immagine trova qui un esempio radicale: l’immagine speculare non è un passaggio, è destino.

La scelta di morire insieme incarna questa coerenza interna: l’una non può sopravvivere all’altra senza fratturare la propria identità. L’idea che una delle due possa “andarsene prima” è dolorosa e inaccettabile. Il “noi gemellare” si percepisce indiviso fino alla fine: non due soggetti che condividono la vita, ma una struttura psichica che esiste solo nella reciproca presenza.

La storia delle Kessler racconta una vita vissuta come un tutt’uno e una morte che ne rispecchia con coerenza la profonda fusione. Morire nello stesso momento e desiderare di fondersi simbolicamente con l’altra e con le radici della propria esistenza non è un rifiuto della vita, ma un atto di fedeltà assoluta a un modo di essere che è sempre duale, mai singolare. Mostrano come alcune esistenze si tengono in equilibrio solo quando restano intrecciate fino all’ultimo respiro.

Cover: immagine da MAM-e  Dizionario dello Spettacolo 

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Vite di carta /
La violenza accanto

Vite di carta. La violenza accanto

Leggo La vita accanto di Mariapia Valadiano e avverto confusamente dove si posiziona nel territorio dei libri che conosco: il gps della mia lettura avanza in zone via via diverse e mi fa provare, specie nelle ultime pagine, una sensazione doppia. Da una parte c’è il coinvolgimento nella storia che ha tratti originali, come fu detto fin dal momento della candidatura allo Strega 2011 da Cesare Segre.

Dall’altra la percezione che siano davvero tanti i riferimenti a mondi letterari di questo secolo e dei due precedenti. Come una torta dai tanti sapori che ha attinto da un folto ricettario.

Ho preso appunti su appunti mentre leggevo, tracciando il percorso dell’intreccio dei fatti ma spostandomi spesso su altri fili narrativi tra loro paralleli: ora sull’evoluzione di un personaggio e poi di un altro, ora su episodi laterali dall’andamento carsico, scomparsi dall’alveo principale del racconto e poi riapparsi verso la foce.

La storia è quella di Rebecca, la cui bruttezza fino dalla nascita è lo stigma che la marchia e decide per lei una vita di clausura nel palazzo di famiglia, lontano dagli occhi malevoli e dalle chiacchiere trancianti della città di Vicenza. La bruttezza agisce come una forza centrifuga che allontana da lei la madre, prima di tutto.

Allontana per i primi anni gli altri bambini, le strade e le piazze della città. Chi le sta davvero vicino è la domestica di casa, alla quale il padre ha delegato per debolezza la cura quotidiana della bambina.

La sorella del padre sembra intervenire nella vita di Rebecca quando entra nella casa con la sua esuberanza misteriosa, ma non porta amore. Porta il desiderio di affermazione di sé in un ambiente familiare che si è spento dopo la nascita della bambina, nel momento in cui la depressione ha coperto di silenzio la madre e l’ha tenuta reclusa nella sua stanza affacciata sul fiume Retrone.

La voce narrante è quella di Rebecca ed è sua la prospettiva con cui vengono messi a fuoco i familiari, gli unici che frequenta da bambina. Poi entrano nel suo campo visivo i compagni di scuola, se va bene indifferenti verso di lei, quando non la chiamano mostro e se ne tengono lontani. Si fa amica soltanto con la compagna di banco, la grassa logorroica Lucilla che è una luce anche di fatto nella sua vita appartata.

La struttura del racconto segue le volute della crescita di Rebecca, della consapevolezza che si fa chiara sulla famiglia con i suoi scheletri dentro gli armadi, con la passione per la musica che le viene trasmessa, ma che in lei valorizza un talento speciale. La vita accanto, quella del mondo, sembra ferirla di meno mentre come pianista prende consistenza col tocco delle sue mani.

Quando è adolescente conosce la signora De Lellis, grande pianista nonché madre del suo insegnante di pianoforte, e con lei accresce la propria forza interpretativa.

Leggo su veloci recensioni che la passione per il pianoforte la salva, la colloca altrove rispetto agli egoismi e alle doppiezze familiari. Certo, ma non è solo la musica a darle l’identità. C’è il rapporto mai consumato con la madre che tuttavia trova un risarcimento dopo la sua morte. Rebecca esplora, accarezza, riordina la stanza dove la donna si è rinchiusa per anni, prima di gettarsi nelle acque del fiume, di “essere pietra sul fondo”.

Trova e legge il suo diario, trova gli acquerelli dedicati ai fiori e riempie di margherite e di lavanda i vasi e il terrazzo della casa. Ritrova la madre mentre mette a fuoco la debolezza di carattere del padre, l’inettitudine a proteggere le donne della sua famiglia.

Le pagine finali sciolgono i molti nodi narrativi prendendo la direzione ora del romanzo d’appendice col lieto fine che ritrae Rebecca serena e avvolta da nuove sicurezze: Lucilla con la figlioletta che vanno a vivere insieme a lei; la sua bruttezza che si è attenuata grazie a un consolatorio intervento di chirurgia estetica.

Ora si dissolve, altresì, l’atmosfera da romanzo gotico a cui rimandava la mostruosità di Rebecca, con la repulsione che ingenerava nei coetanei. Quella sua solitudine totale nell’infanzia faceva pensare alla solitudine tragica della creatura del dottor Frankenstein, e accomunava così due esseri  sensibilissimi, puniti dalla ignoranza cattiva degli uomini.

Il tema della violenza è a un passo. Nel romanzo avvelena prima di tutto il vissuto di Rebecca: le usano violenza la insipienza del padre che non la protegge e la vox populi vicentina che la denigra.

La madre, che non ha ricevuto l’aiuto adeguato alla sua forma depressiva, nel suo diario chiama “la Mostra” la sorella del marito e lui è “il bugiardo”.

Quanto alle famiglie che le ruotano intorno, basti ricordare che la madre del maestro De Lellis ha subito una violenza carnale incestuosa, della quale viene informata Rebecca e con lei il lettore. L’agnizione però si ferma qui, il maestro non saprà mai chi è il suo vero padre.

In casa di Lucilla, come risposta disperata alle annose violenze del padre si consuma l’uccisione dell’uomo. La colpevole sembra la madre, tuttavia nel finale scopriamo un’altra verità.

A fronte di eventi strappalacrime come questi la scrittura di Veladiano ha fidelizzato i lettori con uno stile asciutto ed esatto. A sua volta l’ambientazione contemporanea riesce a tenere lontana l’atmosfera del romanzo dalla tradizione ottocentesca, specie da quella scapigliata: al gusto di ritrovare l’orrido nelle pieghe riposte della società ha sostituito il brusio volubile delle chiacchiere vicentine.

Nota bibliografica:

  • Mariapia Valadiano, La vita accanto, Einaudi, 2011
  • Mary Shelley, Frankenstein, Feltrinelli, 2013

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La vita va così

Il film “La vita va così”, che ha aperto il festival del Cinema di Roma, è ispirato alla storia vera del pastore sardo Ovidio Marras e alla sua battaglia contro i giganti del cemento e la speculazione edilizia

La vita va così

Ieri sera sono andata a vedere “La vita va così”. Mi avevano detto che ne valeva la pena perché molto “ carino”. Ne vale la pena! è molto più che carino. È un film che con delicatezza, ironia, coraggio racconta bene la spaccatura non più sanabile tra due prospettive che guardano al futuro. Da una parte lo sguardo degli imprenditori del nord, impersonato da Diego Abatantuono, presidente di un grande gruppo immobiliare, e dai suoi collaboratori, convinti che tutto abbia un prezzo: la terra, il lavoro, la vita stessa e, dall’altra, il pastore sardo che con un semplice no, rifiuta il fatto che la terra dove sorge la sua casa, la terra del padre del padre del padre, abbia un valore commerciale , sia solo terra che scorre tra le dita.

Il regista Riccardo Milani ha detto in una intervista che con questo film ha voluto affrontare il conflitto che si crea tra il desiderio di sviluppo e la fame di lavoro di certe comunità, desideri legittimi, e  la tutela dell’ambiente. Io  in questo film ho visto di più, ho visto due mondi che guardano al futuro in modo diverso.  La tenacia del mondo antico ancestrale non scolarizzato, un mondo che si procura il necessario senza grandi eccedenze, senza certezze se non quella che il sole, dopo la notte, sorge sempre, che si scontra contro l’idea di un mondo in continua e illimitata crescita,  in continuo sviluppo dove tutto è programmato, protocollato,  scolarizzato, già calcolato e somministrato  alla comunità come una realtà ineluttabile.

Il nord che rappresenta il “ progresso” non è descritto dal regista come solo cattivo e arrogante;  di fronte alla tenacia di un pastore sardo  fortemente radicato  nell’idea che tra  la terra e  lui stesso non c’è separazione, il presidente del colosso immobiliare, sembra interrogarsi.

La certezza che non siamo i padroni della terra e delle sue ricchezze, ma siamo i padroni della nostra vita e della nostra casa e  che quello spazio è invalicabile , è la  motivazione che anima, per anni, la resistenza di questo semplice pastore difronte allo strapotere dell’impero immobiliare.

La magia del film è che il regista tiene in equilibrio i due sguardi sul mondo in modo sapiente.
Il nord è descritto ricco e un po’ sborone, ma agisce con la convinzione di portare il progresso e una qualità di vita più alta nella profonda sarda.  Il presidente del gruppo immobiliare, però intuisce che nel no ostinato di questo pastore  c’è tutta la sua dignità e gli riconosce un enorme coraggio nel rifiutare una cifra più che milionaria.
Sono  trattati anche con ironia e delicatezza, i  conflitti  che si creano  all’interno della comunità e della famiglia del pastore, perché tutti hanno l’aspettativa che lui dica di si, perché nell’ottica che sviluppo e progresso sono indissolubilmente legate, chi rifiuta una proposta milionaria è solo un pazzo e un egoista che pensa solo a se stesso a non ha a  cuore le sorti di chi gli sta intorno.

Ma non si vince mai da soli. Sarà la figlia, che all’inizio del film non sa da che parte stare, perché  si sente divisa tra le ragioni di chi le chiede di convincerlo  a vendere e l’amore per lui , ad accompagnarlo nella battaglia legale contro il colosso immobiliare.

In lei si risveglia piano piano il valore sacro della terra quando assiste al saccheggio di chi guida le ruspe che senza alcuna cura, estirpa ulivi centenari, interra tubature,  cementifica  e distrugge senza pietà tutto ciò che circonda la casa della sua infanzia. È un urlo viscerale il suo. La dignità è legata a doppio nodo con la sorte di quel cielo e di quella terra che l’ha vista crescere.  Lei è quella terra, venderla sarebbe vendere se stessi. Ed è qui il vero strappo.

Chi si è disconnesso dalle sue radici, quasi tutti, non vede che “vendere” la propria casa, la propria terra dove si è cresciuti è vendere se stessi a un sistema che ti renderà schiavo per sempre.
Alla crescita illimitata  questo pastore si pone come limite . Lui sardo quasi analfabeta, ha un’ intelligenza intuitiva fenomenale e un certezza talmente limpida da non sentire mai il bisogno di spiegare il suo NO.  Ed è qui la spaccatura. Questa intelligenza intuitiva in realtà è una dote umana che abbiamo tutti ma che abbiamo dimenticato di avere o forse sarebbe meglio dire che ci insegnano da tempo  ad accantonare in nome del superbo “ logos” occidentale. Se solo attivassimo un pochino di quell’intelligenza vedremmo chiaramente che la tanto agognata ricchezza che ci viene  prospettata dal “sistema progresso” sarà nostra solo se accetteremo di vendere la nostra stessa natura, noi stessi.

È  questo che ho amato del film, siamo tutti immersi in questo sistema e nella narrazione che senza progresso non c’è futuro,  ma possiamo scegliere di essere come il pastore, possiamo dire di NO , un no senza spiegazioni logiche e “ di buon senso “ e diventare il limite a un sistema che nella sua folle corsa verso la crescita illimitata ci sta portando alla morte di senso.  Perché è questo che fa il pastore, si rifiuta di uccidere la sua anima; la sua missione su questa terra non è negoziabile. È talmente semplice e banale da capire che mi chiedo perché siamo ancora qui a domandarci che scelta fare.

In copertina: foto da pressenza 

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Parole e figure / Arrivano i Mumin! E Vida sia. Strenne Natalizie

Si avvicina il Natale, tempo di consigli illustrati. Escono in libreria, con Iperborea, “Vida e la missione di Re Inverno”, di Bjarne Reuter e “Arriva il Natale nella Valle dei Mumin”, di Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund

In Vida e la missione di Re Inverno, la poesia e lo humour del danese Bjarne Reuter incontrano la magia dell’inverno nordico in questo romanzo illustrato che ha per protagonisti una bambina e un folletto. Un “libro dell’avvento” in 24 capitoli che si possono leggere uno al giorno fino alla vigilia di Natale.

Per un’improvvisa bufera di neve, Vida e il fratello Karl rimangono bloccati a casa del nonno, che vive in un paesino sperduto nella natura con il gatto Mosè, il pappagallo Paolo e il cavallo Salomone von Olsen. Il nonno è una fonte inesauribile di storie, come quella del suo eroico viaggio per mare da Capo Buongiorno a Capo Buonanotte, ma nel bosco innevato vicino alla sua casa Vida incontra un vero folletto! O meglio, sarà un vero folletto solo quando avrà superato la prova a lui assegnata da Re Inverno, che consiste nel trovare entro il giorno di Natale «uno stivale di chiardiluna, un gilet di ragnatela, un dente caduto con un brivido e una goccia di crepuscolo». Comincia così l’impresa segreta di Vida per aiutare il folletto nella sua bizzarra e poetica missione, tra sorprese, meraviglie e trovate spassose, in un emozionante conto alla rovescia fino al 25 dicembre, nella speciale magia dell’inverno nordico.

Bjarne Reuter, Vida e la missione di Re Inverno, Illustrazioni di Anna Forlati, Iperborea, Milano, 2025, 160 p.

Bjarne Reuter, scrittore e sceneggiatore, è uno dei più noti e amati autori danesi per l’infanzia e l’adolescenza. Le sue opere, spesso adattate per il cinema, sono state tradotte in più di venti lingue e hanno ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi, come il Premio del Ministero della Cultura Danese, il Premio dei Librai Danesi, il Premio Søren Gyldendal e il Deutscher Jugendliteraturpreis. Iperborea ha pubblicato Hodder e la fata di poche parole, vincitore del Premio Andersen 2023 nella categoria 9-12 anni, e Elise e il cane di seconda mano, finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2021.

La famiglia dei Mumin è risvegliata dal letargo invernale per affrontare un’entità sconosciuta e forse pericolosa: il Natale.

I Mumin sono una famiglia di troll speciali, simili a buffi e teneri ippopotami, che abitano in una casa a forma di stufa di maiolica. Curiosi, eccentrici, comici e poetici, vivono continue avventure insieme ai loro tanti amici, a metà tra le fattezze umane e quelle degli animali più strani. In questa avventura è inverno, la stagione del lungo letargo dei Mumin. A interromperlo sono le grida allarmate dell’Emulo: “Il Natale sta arrivando e voi ve ne state qui a dormire!” Il Natale? Che cos’è? Sarà pericoloso! Tra manicaretti da cucinare, regali da preparare e abeti da addobbare, nella valle c’è un gran fermento che i Mumin non riescono a capire. E molto spesso quello che non si capisce fa paura…

Da un classico di Tove Jansson, una storia che parla di amicizia, comunità, famiglia, calore e gentilezza. E, ovviamente, di Natale.

Per sapere (o ricordare) qualcosa di più dei Mumin ne abbiamo già scritto…

Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund, Arriva il Natale nella Valle dei Mumin, Iperborea, Collana I Miniborei, Milano, 2025, 40 p.

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Nella Giornata nazionale contro la violenza sulle donne, vale la pena tentare un discorso che non si lasci catturare dalle semplificazioni che dominano lo spazio pubblico. Da anni assistiamo a una narrazione che individua nel patriarcato, nel maschilismo tossico, nei “narcisisti patologici” e nell’uomo che uccide la donna indifesa, l’unico schema possibile.
È un racconto rassicurante perché offre una spiegazione univoca: da una parte il carnefice, dall’altra la vittima. Ma questa narrazione è riduttiva, non regge alla prova della clinica e, soprattutto, non permette una vera prevenzione.

Dire che “la violenza è maschile” semplifica ciò che, invece, è profondamente complesso.
Quando parliamo di uomini incapaci di tollerare la separazione dall’Altro, non stiamo parlando di un’essenza maschile né di un destino culturale immutabile. Stiamo parlando di soggetti – singolari, mai intercambiabili – la cui struttura psichica rimanda al loro rapporto con l’Altro primario, con la mancanza, con il limite simbolico. Ma sottolineare questo non significa spostare l’intero peso della responsabilità sulla figura materna o su una donna reale: vorrebbe dire, ancora una volta, semplificare.

Il punto, infatti, non è individuare un colpevole unico – il maschile, il materno, l’educazione, la cultura – ma riconoscere che il fenomeno è strutturale, multilivello, e riguarda il modo in cui ciascun soggetto accede alla separazione, alla mancanza, al desiderio dell’Altro.

Per questo la narrazione dominante finisce per occultare la complessità:

– crea un maschile “da aggiustare”;

– produce un femminile “da proteggere”;

– e ignora completamente la singolarità del legame, dell’incastro, della scelta.

La realtà clinica e sociale, invece, ci mostra altro.

Anche i fenomeni di violenza agita da donne sono in aumento, così come i fenomeni di bullismo al femminile. Parliamo di ragazze che esercitano violenza su altre ragazze, o su altri soggetti, senza che ciò trovi posto nella narrazione che vorrebbe il femminile come luogo esclusivo della cura e il maschile come luogo esclusivo della distruttività. È un dato che conferma una verità fondamentale: la violenza non ha genere.

E anche il caso della pagina Facebook “Mia moglie”, dove un grande gruppo di uomini derideva le proprie compagne, lo dimostra ulteriormente: l’amministratrice della pagina era una donna. Non perché “le donne siano peggiori”, ma perché il godimento che spinge verso l’umiliazione dell’altro non appartiene a un sesso. È umano. È strutturale. È trasversale.

Allo stesso modo, il versante femminile delle vittime non può essere compreso attraverso la retorica dell’innocenza passiva.
La domanda clinicamente pertinente è: perché alcune donne restano incastrate in relazioni invischianti, mentre altre no?

Ma da questa prima domanda ne derivano inevitabilmente molte altre, altrettanto cruciali:

– Che cosa cercano, esattamente, in quei legami così stretti da diventare soffocanti?

– Quale tipo di mancanza tenta di colmare quella relazione che appare, dall’esterno, distruttiva?

– Quale immagine di amore portano con sé e da dove viene?

– Che cosa fa sì che riconoscano come “amore” qualcosa che invece le inghiotte?

– Che cosa impedisce loro di separarsi quando il legame diventa evidentemente a rischio?

– Quale fantasma incontra il fantasma dell’altro, producendo l’incastro?

Fragilità antiche – difficoltà nel tollerare la solitudine, confini interni labili, un bisogno di conferma che precede l’incontro amoroso – possono rendere più facile confondere la fusione con l’amore, più difficile leggere i segnali dell’invasione, più complicato dire “no” senza sentirsi crollare.

Quando queste fragilità incontrano uomini che, a loro volta, non tollerano la separazione, nasce l’incastro: due soggetti che si agganciano nello stesso punto cieco, ciascuno impedito – per ragioni diverse – a sostenere il movimento della distanza.

Ed è proprio qui che si gioca il tema della prevenzione.

La prevenzione non consiste nel rieducare un genere, né nel cercare un colpevole unico. La prevenzione consiste nel non creare vittime:

– dare alle ragazze strumenti per costruire confini interni solidi;

sostenerle nella possibilità di stare nella solitudine senza viverla come abbandono;

aiutarle a leggere i segnali del legame;

permettere loro di riconoscere la differenza tra amore e annullamento;

metterle nella posizione simbolica di poter scegliere, prima di essere catturate.

E, allo stesso tempo, la prevenzione consiste nel permettere ai ragazzi di accedere alla separazione senza viverla come annientamento, di fare esperienza della mancanza senza percepirla come rovina, di tollerare l’Altro che se ne va senza doverlo annientare.

Non tutte restano prigioniere.

Non tutte diventano vittime.

E non tutti gli uomini diventano carnefici.

Per affrontare davvero la violenza, dobbiamo accettare che essa non ha genere. Ha una struttura, una storia soggettiva, un nodo specifico nel rapporto con l’Altro.

È nella complessità, non nella semplificazione, che possiamo finalmente ritrovare la possibilità di scegliere.

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Finanziaria 2026: come funziona (male) la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35% al 33%

Finanziaria 2026: come funziona (male) la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35% al 33%

Il Governo ha destinato 2,6 miliardi alla riduzione delle imposte volendo favorire il ceto medio, cioè coloro che dichiarano tra 28mila e 50mila euro, dopo aver destinato l’anno precedente alcuni miliardi alla riduzione delle imposte per coloro che dichiarano meno di 28mila euro. E’ una buona idea ma non si capisce perché non abbia concentrato le poche risorse solo sulla classe 28-50mila a cui sono andati in realtà non tutti i 2,6 miliardi ma solo la metà (1,3). Infatti una parte andrà a favore di chi dichiara tra 50mila e 75 mila e altrettanto tra chi dichiara tra 75mila e 200mila.
Oltre non ci sono benefici fiscali. Con la scusa di favorire il ceto medio, si è favorito anche chi ha redditi da lavoro tra 50mila e 200mila che sono persone abbienti.

Effetti della riduzione da 35 a 33% dell’aliquota Irpef in milioni di euro

Fonte: Agenzia delle Entrate

Com’è noto la propensione al consumo cresce col diminuire del reddito, per cui una manovra di questo tipo ha un impatto modesto sulla crescita e dà pochissimo a salari che sono stati falcidiati dal fiscal drag.
Con la crescita dell’inflazione infatti il passaggio da uno scaglione all’altro aumenta la tassazione per tutti e in rete ci sono ampi studi di quanto hanno perso tutte le fasce dei contribuenti dipendenti dal lavoro.

L’Upb (Ufficio Parlamentare di bilancio) ha messo in luce che anche chi guadagna oltre 200mila euro avrà comunque un beneficio medio di 379 euro, quando gli operai che superano di poco i 28mila euro avranno solo 23 euro all’anno in meno di imposte (ma teorici, perché, col fiscal drag, ne perdono molti di più).

Una vera riforma sarebbe portare la tassa di successione al livello di quello che si fa in Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, in modo da tassare non al 4% oltre un milione di euro di eredità, ma molto di più e in modo progressivo per incassare da chi riceve molti milioni o miliardi. In questo modo l’Italia incasserebbe circa 10 miliardi all’anno rispetto a un miliardo di oggi.

Avrebbe così più risorse per finanziare scuola e sanità e anche procedere ad ulteriori riduzioni per chi guadagna fino a 28mila euro all’anno, visto che i salari sono inferiori a quelli di 30 anni fa.

Cover: immagine di Fisco7

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Migrare nel tempo: il Sud che ci accompagna nel futuro

Migrare nel tempo: il Sud che ci accompagna nel futuro

La migrazione come tensione temporale: qualche riflessione su  “Meridionali si diventa” di Sandro Abruzzese

La vita è un viaggio e bisogna avere il coraggio
di andare oltre i confini
.”
[S. Abruzzese]

La migrazione è spesso raccontata come una questione che riguarda lo spazio: persone che si muovono da un luogo all’altro, spinte da guerre, crisi economiche, cambiamenti climatici. Ma forse, più profondamente, migrare è una questione di tempo. È il desiderio innato dell’essere umano di spostarsi verso il futuro, di dilatare il proprio tempo vitale, quello della propria famiglia, della propria comunità, del proprio paese.

In Meridionali si diventa. Scritti 2015-2025 (Rogas Edizioni, 2025), Sandro Abruzzese ci offre una narrazione che va oltre la geografia. Il Sud, in questo libro, non è solo un luogo fisico, ma una condizione esistenziale, una traiettoria di trasformazione. Il viaggio non è solo quello che porta, ad esempio, dal Meridione al Settentrione, ma quello che attraversa il tempo, la memoria, l’identità.

Il luogo dell’identità, il primo ordine del mondo, è stato, per me, il microcosmo del paese. […] Tutto, a dispetto del tempo, ovunque vada, ancora riesce sorprendentemente a partire e ritornare in quella valle.”

Questa frase sembra riassumere bene il messaggio carsico del libro: il paese d’origine non è abbandonato, ma portato con sé, come una lente attraverso cui guardare il mondo. Il migrante non fugge ma si allontana per….osservare “da vicino” e, nel farlo, trasforma se stesso e il luogo da cui proviene.

La migrazione temporale diventa così un’osservazione scientifica, uno studio “matto e disperato” sulla wilderness (NdA: uso questa parola nell’accezione di Gary Snyder cosicché  la “wilderness” è uno spazio fisico non solo esterno, ma è anche una dimensione interiore che consente un rapporto più autentico con la propria natura  e quella del natio borgo selvaggio)

Abruzzese partendo dalla sua esperienza di insegnante “emigrato” al Nord pare riflettere sulla questione meridionale come fenomeno che non si esaurisce nella sua dimensione geografica ma si prolunga nel tempo come condizione identitaria. L’autore di Casa per casa sembra cioè condividere la stessa idea di  Lucio Mastronardi che, nella sua trilogia dei “meridionali di Vigevano”, rappresenta il migrante come colui che non cambia soltanto luogo ma che entra in una nuova temporalità.

Ricordiamo che fu lo stesso Italo Calvino a definire il capitolo di meridionali al telefono di Mastronardi come la parte più bella del libro in quanto a suo dire mostrava “la temporalità sospesa del migrante con il telefono” che diventava a tutti gli effetti un ponte tra due tempi piuttosto che tra due luoghi (NdA: qui si potrebbe aprire una aggiornata riflessione sull’epopea del famoso ponte sullo stretto quale agognato paradiso dei “migranti”).

Se la trilogia di Vigevano metteva in scena un’ Italia divisa nel tempo dove il Sud arcaico e il Nord industriale convivevano nel corpo del migrante, gli scritti di Abruzzese confermano e smontano la retorica del trasferimento risolutivo: la migrazione è una condizione cronica dell’ individuo che si rinnova ad ogni generazione, liberandosi un po’ alla volta di antichi e stantii stereotipi.

Al Meridione oggi dobbiamo guardare liberandoci dal paradigma dell’arretratezza, come a uno dei termometri della nazione e dell’Europa.”

In questa prospettiva, anche il benemerito progetto Erasmus può essere letto come questa nuova forma di migrazione. Non una fuga, ma una dilatazione del tempo verso il futuro. I giovani che si spostano da Grottaminarda a Stoccolma, da Ferrara a Lisbona, non cercano solo un’esperienza formativa: cercano una casa nel futuro, un’Europa senza confini, dove l’identità si costruisce nella relazione.

Erasmus è l’emblema della migrazione che non cancella l’origine, ma la integra in un orizzonte più ampio. Questo tensione temporale del viaggio è una forma di restanza in movimento, per usare il termine caro a Vito Teti e ripreso da Abruzzese. Restare, in questo senso, significa camminare nei margini, viaggiare negli spazi invisibili, costruire ponti tra ciò che si è e ciò che si diventa. Restare  vuol dire, in questo senso, spingersi ai margini.

Per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine.”

Per questo Abruzzese ci invita a guardare al Sud non come periferia, ma come termometro dell’Europa. Il Sud è il luogo dove si avvertono prima le crisi, ma anche dove si possono immaginare le soluzioni. È il luogo della memoria, ma anche della profezia.

In conclusione: migrare è… diventare. Migrare è, cioè, un processo ontologico, poetico, politico. È il gesto di chi ha fiducia nel tempo, nella possibilità di costruire un mondo nuovo. In questo senso, Abruzzese ci offre non solo una testimonianza, ma una visione: quella di un Sud che non si lamenta, ma si trasforma, che non si chiude, ma si apre, che non si perde, ma si ritrova nel futuro.

Meridionali si diventa in rapporto alla nascita della civiltà tecnologico-industriale.”

E forse, europei si diventa proprio così, come hanno fatto da sempre i meridionali: migrando nel tempo, costruendo ponti, dilatando il presente verso un futuro dove ogni luogo può essere una casa decisamente più estesa, nello spazio e nel tempo, di un natio borgo selvaggio.

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Nient’altro che fiori

“Una volta c’era un centro commerciale, adesso è tutto coperto di fiori. Se questo è il paradiso, vorrei avere un tagliaerba”

Talking Heads, Flowers (1988)

 

Nient’altro che fiori

La vicenda della famiglia anglo-australiana composta da Catherine Birmingham, Nathan Trevallion e dai loro tre figli, che dopo un tratto di vita “normale” ha scelto di vivere in una casetta nel bosco vicino a Chieti, senza luce acqua e gas, senza scuola, senza “civiltà tossica”, mi ha evocato la canzone dei Talking Heads “Nothing but flowers“(qui). Il testo parla di una coppia di moderni Adamo ed Eva che vive in uno stato di natura che ha riconquistato i suoi spazi a danno di ipermercati, pizzerie, autostrade, parcheggi, completamente soppiantate da campi fioriti, alberi e uccellini cinguettanti. Niente cinema, centri commerciali, negozi, aeroporti, stazioni. Niente più civiltà. Solo fiori, fiumi, natura incontaminata. Un incubo bucolico. Un sardonico David Byrne conclude il pezzo, che si sviluppa su una stravagante aria musicale afro-latina con echi hawaiani, cantando uno sconsolato “usavamo il microonde, adesso mangiamo noci e frutti di bosco; qui c’era un discount, ora è diventato un campo di pannocchie; non mollarmi qui, non posso abituarmi a questo stile di vita”.

Ma non voglio ridere della famiglia Trevallion. Un tribunale italiano gli ha appena sottratto i tre figli minori, affidandoli ad una casa protetta. Se non ci fosse stata una malandrina intossicazione da funghi raccolti nel bosco a mandare all’ospedale tutti, probabilmente li avrebbero lasciati stare. Probabilmente li avrebbero lasciati stare, fino a che il tetto di casa non fosse crollato sotto il peso di una nevicata eccezionale, o per una scossa di terremoto; oppure fino a che qualche ficcanaso non avesse segnalato alle forze dell’ordine di andare a controllare quella gente strana. Quindi no, non li avrebbero lasciati stare. Non li avrebbero lasciati stare anzitutto perché non minacciavano, non avevano armi, non spaventavano. Se fossero stati soggetti prepotenti, dagli atteggiamenti intimidatori, avrebbero vissuto giorni più tranquilli. Purtroppo la cronaca facilita le generalizzazioni: non possiamo incolpare il tribunale dei minori de L’Aquila della morte del bambino di nove anni a Muggia, Trieste, per mano della madre, cui un altro giudice lo aveva appena riaffidato. Resta in entrambi i casi uno sgradevole sapore di burocrazia, che qualche volta conduce alla tragedia.

Il giudice invoca problemi di stabilità e igienico sanitari dell’abitazione. Chissà se in giro per l’Italia ci sono famiglie cui hanno sottratto i figli perché il tetto non regge, o potrebbe non reggere, una brutta nevicata, o per assenza di adeguati presidi antisismici. O perché si lavano tutti con l’acqua attinta da un pozzo e si scaldano con una stufa a legna, come facevano cinque famiglie su dieci, ottant’anni fa. Se la logica fosse questa, temo che il trenta per cento delle famiglie italiane sarebbe orfano di prole.

La ragione preminente però, quella che ha indotto il Tribunale dei minori a sottrarre i tre figli dalla dimensione familiare, pare sia il danno alla vita di relazione derivante da uno stile di vita che potrebbe essere «produttivo di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore». Di sicuro, non è uno stile ordinario: i ragazzini non vanno a scuola, e la loro istruzione è affidata ai genitori affiancati da un insegnante privato.

Come sempre accade in questi casi che diventano pubblici, migliaia di sociologi e psicologi della domenica sputano le loro sentenze. Non ho la minima intenzione di aggiungere la mia, né contro i genitori né contro i giudici. Confido che il provvedimento – che spero assolutamente temporaneo – di allontanamento dei figli dalla “casa nel bosco” convinca questa coppia che le scelte radicali vanno rispettate, ma possono essere anche meno intransigenti. Il fanatismo rende cattive le buone cause, così come le ideologie, così come le religioni.

Dopodiché: battezzare i figli, fargli fare il catechismo, la comunione, la cresima per forza, (così come dare loro una educazione coranica da quando sono in fasce), mettergli in mano uno smartphone all’età di quattro anni, nutrirli a merendine e cocacola e portarli in passeggino in mezzo a strade inquinate dall’ossido di azoto – come succede a otto bimbi su dieci nella nostra way of life, per tacere di quelle famiglie dove succede di peggio – può essere considerato più nocivo del fatto di passare l’infanzia dentro un bosco. Ma anche cooptare i propri figli di sei e otto anni dentro una dimensione di integralismo anticonformista, antimodernista, antitecnologico e socioselettivo, non è detto che sia un bene. Diventare anticonformisti o anticonvenzionali è il frutto di un processo che non può che trarre origine dal conformismo del proprio ambiente, rispetto al quale maturare progressivamente una posizione critica. Non si può diventare individui anticonvenzionali per imposizione, senza frequentare, almeno in parte, le convenzioni sociali, culturali, religiose del proprio tempo e luogo. Altrimenti il rischio è quello di diventare i conformisti dell’anticonformismo.

I Trevallion forse un giorno sorrideranno di questa situazione, e spero apprenderanno, come dovremmo fare tutti, che le migliori intenzioni possono fare molti danni se diventano dogmi; che avere un bagno in casa può essere un progresso, anziché una resa alla civiltà tossica; che rischiare di trasformare i propri figli in hikikomori ecologici non è la soluzione contro un mondo inquinato e malvagio. Lo stesso sforzo di equilibrio lo facciano i giudici e gli assistenti sociali chiamati a indirizzare la vita dei minori: professionisti dei quali spesso apprezziamo lo zelo burocratico, molto meno la capacità di mettere realmente al centro il bene dei bambini.

 

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Pizzeria Vecchia Spal
(un racconto)

Pizzeria Vecchia Spal

Del suo funerale l’ho saputo soltanto il giorno dopo.

Zenone non lo vedevo da un paio di mesi. Ogni settimana andavo alla sua pizzeria di via Concia a mangiare la mia solita bufalina, ma a servire trovavo sempre e soltanto Adelmo, suo nipote.

Colpa mia, non ci ho proprio pensato che non si facesse vedere in giro per problemi di salute. A suo nipote non m’è nemmeno venuto in mente di chiedergli come stesse il nonno, perché non avrei mai immaginato che quella vecchia stanga potesse ammalarsi. È che ogni tanto aveva le sue paturnie e stava senza farsi vedere per qualche settimana. Poi, una sera lo ritrovavi tra i tavoli che raccontava a questo e quello le sue storielle, come sempre.

Certo, aveva superato gli ottanta ormai, ma era un pezzo d’uomo d’un metro e novanta per oltre un quintale. Per noi era sempre stato una roccia. Zenone e la sua pizzeria c’erano da sempre, almeno da quando ho memoria. E tutti noi del circolo biancazzurro li immaginavamo  entrambi indistruttibili ed eterni. Lui era il nonno di tutti e il suo locale era caldo e accogliente come una seconda casa.

Pochi giorni dopo aver appreso della sua morte ho saputo che a settembre aveva fatto una polmonite dalla quale era guarito ma che l’aveva indebolito molto. Per scongiurare una ricaduta gli avevano detto d’uscire il meno possibile e soprattutto d’evitare i luoghi affollati. Era per questo che in pizzeria non si vedeva più.

Alla fine m’han detto che la causa della morte è stato un attacco di cuore nel sonno. Secondo i suoi famigliari la sera prima andò a letto presto perché si sentiva più stanco del solito. Quando la mattina entrarono in camera sua per svegliarlo, sembrava che dormisse profondamente ma s’accorsero che era freddo e non respirava più.

Visto la fine che fanno i vecchi malati negli ospedali, dopotutto credo si sia scelto il modo migliore per andarsene da sto mondo.

Ricordo ancora le tante volte che si sedeva al nostro tavolo e ci raccontava di quando giocava nella Spal. Gli piaceva soprattutto ricordare quel giorno che aveva conosciuto Paolo Mazza in persona venuto a far visita alla squadra giovanile. Il presidente gli aveva stretto la mano complimentandosi perché – diceva – l’allenatore puntava molto su di lui. E prima d’andarsene, il commendatore l’aveva salutato con l’augurio di vederlo presto in prima squadra.

Lo raccontava con gli occhi lucidi, si commuoveva sempre quando parlava della sua parentesi da calciatore. Ed era vero che era una promessa, almeno finché non ebbe quell’incidente.

Lui che tornava sempre a casa dagli allenamenti con la bici, che piovesse o nevicasse, col gelo d’inverno e l’afa d’estate. Però il giorno dell’incidente la colpa fu tutta della nebbia, la maledetta, che in quello strano inizio giugno aveva ingabbiato Ferrara e provincia dentro una cortina grigia da non veder niente da qui a lì. Della botta tremenda ricordava ben poco, soltanto che pedalava sullo stradone di ghiaia per Boara dove abitava coi suoi, che sentì un urto fortissimo che lo fece volare giù nel canale alla sua destra, poi il buio totale. E meno male che l’autista del camioncino che l’aveva investito si fermò a prestargli soccorso, sennò sarebbe rimasto tramortito in acqua col rischio d’annegare.

Zenone ci disse che si svegliò dal coma soltanto il giorno dopo al Sant’Anna, e che dell’incidente non si ricordava niente. Si ritrovò immobilizzato a letto con entrambe le gambe fratturate, una forte lussazione alle vertebre lombari, una commozione cerebrale, e una promettente carriera da calciatore appena cominciata e già finita.

Ricordo che nelle sue parole si poteva cogliere ancora una tale amarezza che pareva che la cosa gli fosse appena capitata.

Raccontò che, tra cure e riabilitazione, per tornare a camminare come prima ci mise quasi un anno. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, dopo aver soffiato sulle candeline della sua torta immaginaria, una sorta di pagnotta addolcita nel latte e caffè d’orzo, prese le stampelle e le lanciò fuori dalla finestra. Lo fece d’istinto come spesso gli succedeva, e fu liberatorio. Quel giorno aveva festeggiato i suoi diciott’anni e il suo ritorno a usare le gambe come tutti gli altri, o quasi. Infatti ricominciò a camminare, andare in bicicletta e fare qualsiasi altra cosa… tranne che giocare a pallone.

Fu un duro colpo per tutti. Per i suoi genitori che speravano di riscattarsi da una vita di sacrifici col successo del loro unico figlio maschio. Per il suo allenatore che vedeva in lui un giovane talento pronto per la serie A.

E fu un duro colpo che lo stesso Zenone non riuscì mai a superare completamente. Lo si capiva dai discorsi che faceva tutte le volte che si fermava a parlare al nostro tavolo. In fondo raccontava sempre le stesse storie, anche se lo faceva in modo divertente. Aveva la battuta pronta con tutti e il sorriso sempre stampato in faccia, però s’avvertiva in lui un certo non so che di malinconico.

E già, i sogni spezzati non smettono mai di far male, te li porti dentro tutta la vita come una spina piantata nel fianco. Ogni tanto la senti che ti punge, soprattutto quando ripensi al passato.

Come poteva essere e com’è stato, se solo quella dannata nebbia fuori stagione non si fosse messa in mezzo a cambiargli la vita per sempre.

Zeno Traboni, il gigante della difesa, fisico prestante, velocità e piedi buoni. Per le sue caratteristiche fisiche e tecniche veniva impiegato come un jolly. Mancino naturale, giocava a sinistra come terzino, ma all’occorrenza veniva impiegato al centro come stopper e regista difensivo. Un gioiello del vivaio, un ferrarese doc col sangue biancazzurro. A diciassette anni giocava ancora nel campionato dei cadetti, ma aveva il futuro garantito in prima squadra e sarebbe stato una sicura bandiera della Spal.

Zeno il futuro campione, e invece poi… Zeno lo zoppo!

Dalle fratture a femore e tibia era guarito abbastanza bene, ma era stato il danno alla schiena a causargli una specie di menomazione permanente. All’ospedale, subito dopo l’incidente, per le lesioni alla spina dorsale s’era temuta la paraplegia, cioè che potesse perdere l’uso delle gambe. Invece la sua forte tempra l’aiutò in qualche modo a scongiurare il peggio e lentamente, dopo mesi di dolorosa fisioterapia, tornò a una vita normale. Anche se quell’andatura strana e un po’ buffa, che per noi era il suo biglietto da visita, faceva capire a tutti, ogni volta che lo vedevamo camminare, che da quel fatidico tre giugno del ‘57 non era stato più in grado di correre.

Fu questa la principale conseguenza del suo incidente, e fu questo il problema che gli precluse la carriera di calciatore.

Eppure, quando si trovava ancora in ospedale – come raccontava sempre – era convinto che, una volta guarito, avrebbe potuto riprendere a giocare. E ne erano convinti anche quelli della società che gli fecero avere un biglietto d’auguri firmato da tutti i suoi compagni di squadra e dal mister in persona.

Ricordo come fosse ieri di quando Zenone venne a sedersi al mio tavolo e, avendo io appena finito la mia pizza, m’offrì un caffè e un ammazzacaffè.

Aveva lo sguardo assorto e sorseggiammo il nostro caffè in religioso silenzio. Poi, versandomi la sua speciale grappa in un bicchierino, mi disse: «Senti, t’ho mai raccontato della partita in cui avrei dovuto esordire in serie A?»

«No… non mi pare!»

«Vuoi che te la racconto? Guarda che è interessante sai!»

«Certo Zeno, m’hai messo curiosità… Raccontami!»

E Zenone, con gli occhi che gli brillavano, iniziò così a raccontare.

«Dunque guarda, è stato il lunedì del mio incidente Alla fine dell’allenamento venne Tabanelli, propria lu, l’allenatore dei titolari, a dirmi che domenica sarei andato a San Siro con la prima squadra. Che sarei andato in panchina e che c’era la possibilità di entrare al posto di Vinyei che aveva preso un pestone durante la gara contro la Triestina. Se non recuperava l’avrei sostituito io!»

Fece una pausa scolandosi il suo grappino. Io feci altrettanto e lui mi riempì di nuovo il bicchiere. Poi riprese il racconto.

«Capito ragazzo? Avrei debuttato contro il Milana diciassette anni appena compiuti! Sarei stato il giocatore più giovane della squadra a giocare in serie A, al più zovan ad tuti… E naturalmente non vedevo l’ora di dirlo a mio padre e mia madre. Forse è per questo che non ho visto quel camion. Correvo come un matto, a cureva come ‘n mat… Su quello stradone, poi con quella nebbia… Ma non vedevo l’ora d’arrivare a casa e dirlo a tutti!» fece un sospiro, «Vacca boia che fregatura! Invece che a San Siro son finito al Sant’Anna!»

Era vero purtroppo, come dargli torto? Il destino gli aveva giocato proprio un brutto scherzo. Zeno ebbe l’incidente lunedì sera, mentre tornava a casa dall’allenamento, e poco prima il suo allenatore gli aveva comunicato che la domenica successiva avrebbe esordito in serie A. Non si può superare una roba del genere, pensavo. E infatti Zenone, dopo oltre cinquant’anni, ci rimuginava ancora.

Diceva sempre che se avesse avuto vent’anni e l’incidente gli fosse capitato adesso, con le cure che ci sono ora, sarebbe potuto guarire del tutto anche nella schiena. Avrebbe ripreso a giocare come prima e la sua carriera di calciatore non si sarebbe interrotta sul nascere, ne era assolutamente convinto.

Dopo un altro grappino Zenone parlò finalmente di quella partita. «Allora, se non ricordo male ci mancava ancora un punto per avere la certezza matematica di restare in serie A. Andare a giocare a Milano con la prima in classifica che aveva lo scudetto già in tasca non sarebbe stata una passeggiata, ma ci dava la speranza che un pari era possibile, e quei ragazzi s’erano convinti che almeno un punto l’avrebbero portato a casa…» Bevve d’un sorso l’ennesimo grappino e me ne versò ancora un altro. «Quell’anno lì il Milan era proprio forte, e infatti ha vinto lo scudetto… Ma quella domenica l’abbiamo battuto uno a zero con un gol… speta pur… di Di Giacomo!»

«Avevate fatto il colpaccio Zeno!» dissi io.

«Avevate? Casomai loro… Io non c’entro, ero all’ospedale!»

«Vabbé, cosa vuol dire? Eri anche tu uno di loro, anche se non hai giocato.»

«Sì sì, diciamo così… Comunque ricordo che fu una vera festa!»

La sua voce s’incrinò, quel ricordo l’aveva emozionato, anche se cercava in tutti i modi di nasconderlo. «Prosit!» esclamò.

Buttammo giù altri due grappini.

«La verità è che erano tutti motivati a riscattare la sconfitta in casa contro la Triestina della domenica precedente. E giocarsi la salvezza contro il Milan a San Siro è stato uno stimolo in più per tirar fuori gli attributi. Pensa che Vinyei è stato il migliore dei nostri!»

«Chi, quello che avresti dovuto sostituire!?»

«Esatto! Sono sicuro che se fossi andato con loro, se agh fuss stà anca mi, avrei guardato tutta la partita in panchina… Per come s’era messa in campo, sarebbe stato un rischio far entrare un debuttante di diciassette anni. Quella domenica lì l’ungherese ha fatto il fenomeno!»

«Dici? Magari saresti entrato lo stesso per sostituire qualcun altro…»

«Mah… chi può dirlo? Forse avrei giocato al posto di Boldi che aveva sostituito Lucchi rimasto a casa per una borsite. Me lo ricordo bene Lucchi, veniva sempre a trovarmi qui in pizzeria. Io e Gelio siamo stati amici fino alla sua morte, nel novantanove.»

«Me lo ricordo anch’io Gelio Lucchi… s’era messo a fare l’assicuratore, mi pare.»

«Già è vero!»

«E tu ti sei messo a far le pizze!»

«Sì, ma le mie pizze son buone. Dì la verità!»

Ridemmo e lui mi versò il quinto grappino. «Fortuna che son venuto a piedi!» dissi, «Anche sta grappa è buona, Zeno…»

Mi sentivo la lingua grossa, e non sapevo quanto avrei ancora tenuto. Ma Zenone reggeva l’alcol più di tutti noi messi insieme e non dava segni di cedimento. «Riprosit!» brindammo di nuovo, poi riempimmo il sesto bicchierino.

«È Nardini Riserva! Ne ho due casse in magazzino…» specificò.

La bottiglia era quasi vuota, così decisi di darmi un limite e che una volta finita avrei detto basta.

Zenone però non la voleva smettere né di brindare e né di raccontare.

«Pensa che quella domenica abbiamo battuto il Milan per la prima volta… erano i più forti, non una squadretta qualunque! Ci giocava Liedholm, il mio idolo…»

«Già… me l’avevi detto che t’ispiravi a lui.»

«Sì beh… lui era un centrocampista e faceva il regista. Io ero difensore…» sospirò, «Lui è stato un campione, io non son stato nessuno!»

«Non sminuirti Zeno, qui tutti sanno quanto eri bravo a giocare…»

«Ma tu mi hai mai visto giocare? M’at mai vist

«No, però chi t’ha visto giocare diceva che eri bravo, e poi lo sapevano tutti, dai…»

«Quelli che m’han visto giocare son morti tutti oramai… Non è rimasto più nessuno… più nisun

«Però quella maglia è rimasta!» risposi io indicando la parete in fondo alla saletta.

Zenone puntò lo sguardo in quella direzione, strinse gli occhi e s’accertò che nella saletta fossimo rimasti soltanto noi due. «Speta!» disse. S’alzò da tavola e andò a prendere la cornice appesa alla parete.

La cornice era grande e conteneva una vecchia maglia azzurra della Spal, tutta ricoperta di firme. Appoggiò il cimelio sul nostro tavolo, mostrandomelo con orgoglio.

Io quella maglietta l’avevo già vista tante volte. Ogni volta che ero andato a mangiare la pizza da Zeno, lei era sempre stata lì al centro della parete.

Era un pezzo di storia della Spal: una maglia da gioco appartenuta a Zeno che i giocatori reduci dalla vittoria contro il Milan, quel famoso nove giugno del ’57, gli avevano fatto avere qualche giorno dopo, mentre lui era ricoverato in ospedale.

Me lo disse proprio quella sera. «Queste sono le firme di tutta la squadra. È stata… una dimostrazione d’affetto!» disse, «Questa maglia era mia e il povero Carminati, che lavorava come magazziniere lì al campo della Spal dove m’allenavo, me la portò in ospedale firmata da tutti… C’è anche la firma di Tabanelli…»

Zenone riempì altri due grappini lasciando la bottiglia vuota, capii che sarebbero stati gli ultimi della serata. E meno male, pensai. Ma capii anche che quella bevuta l’avrei ricordata a lungo, perché prima d’allora non l’avevo mai visto, il mio vecchio amico, emozionarsi a quel modo. Complice la grappa, senz’altro. Ma complice anche e soprattutto quel passato di ricordi dolciamari che Zenone, proprio quella sera, aveva deciso di condividere col sottoscritto.

«Fu proprio Duilio Carminati ad aver l’idea, l’è stà lu… Era amico di mio padre, han fatto la guerra assieme… Fu lui che andò dai ragazzi a fargli firmare la mia maglia!» spiegò.

«Davvero un bel gesto.» dissi io.

Lui annuì. «Da bon… In quel momento è stato il più bel regalo che potevano farmi!»

Prese in mano il bicchiere e lo rigirò tra le dita guardandone a lungo il contenuto. Compresi che i suoi pensieri erano altrove, persi in quel lontano passato.

«Con quest’omaggio mi hanno voluto dire che mi consideravano uno di loro, nonostante quello che m’era successo.» disse, «In quei giorni ero fermo a letto ma tutti avevano la speranza, io per primo, che sarei tornato a giocare… Invece è andata com’è andata.»

«Comunque sia, Zeno, lasciatelo dire… tu sei un grande!»

«Ah sicuro… un gran pizzaiolo!»

Ridemmo di nuovo e buttammo giù l’ultimo grappino. S’era fatto veramente tardi e sentivo che una micidiale sonnolenza alcolica stava rapidamente prendendo il posto dell’ebbrezza provocata dai sette grappini di Zenone. Era tempo di tornare a casa.

«Stasera mi hai fatto davvero un gran regalo a sopportare tutte le mie chiacchiere, amico mio.» disse.

«Il regalo l’hai fatto tu a me, Zeno.» risposi, «Le tue storie sono un tuffo nel passato che fa bene al cuore, credimi!»

Mi abbracciò e ci salutammo.

Dopo quella sera lo rividi e gli parlai altre due o tre volte. Sempre nella sua pizzeria, sempre circondato da amici e gente che gli voleva bene. Tutti se lo ricordano per la sua gentilezza sincera e per quel suo buonumore contagioso che metteva a proprio agio chiunque. Io ho avuto il privilegio di conoscerne la malinconia, un sentimento intimo che ha condiviso con pochissimi di noi.

Ora sono al cimitero di San Luca e, siccome al funerale non c’ero, sto andando a trovarlo adesso per salutarlo un’ultima volta.

Suo nipote Adelmo m’ha detto che la cappella di famiglia si trova sulla destra in fondo al vialetto centrale. Eccola!

Ho già un groppo alla gola e so che quando vedrò la sua foto sulla lapide sarà difficile trattenere le lacrime…

 

Eccoti qui Zeno. Sono venuto a trovarti come mi ero ripromesso, pronto a leggere il tuo epitaffio e commuovermi… E invece no.

Come solito, pure stavolta mi hai spiazzato e, anche se mi bruciano gli occhi, sei riuscito a strapparmi l’ennesimo sorriso.

Sulla lapide di marmo bianco avorio, appena sotto la tua foto, è incisa una frase a caratteri maiuscoli:

RAGAZZI STATE ALLEGRI,
SON TORNATO A GIOCARE.

Nota
Questo racconto fa parte del volume fresco di stampa “‘Tifosi spallini per sempre’, il grande racconto della passione biancoazzurra. Edizioni della Sera, AA.VV., a cura di Cristiano Mazzoni.

In copertina:
La formazione protagonista dell’impresa di San Siro, quando la Spal sconfisse i padroni di casa del Milan di Liedholm e Schiaffino già campione, guadagnandosi la salvezza con una giornata d’anticipo.

Portiere:                   Renato Bertocchi

Difensore:                Benito Boldi

Difensore:                Alberto Delfrati

Difensore :               Jeno Vinyei

Centrocampista:     Guglielmo Costantini

Centrocampista:     Edoardo Dal Pos

Centrocampista:     Carlo Novelli

Attaccante:              Pietro Broccini

Attaccante:              Beniamino Di Giacomo

Attaccante:              Adelmo Prenna

Attaccante:              Nils-Ake Sandell

Allenatore:              Paolo Tabanelli

Presidente:              Paolo Mazza

Il 9 giugno 1957, la penultima domenica di campionato, la Spal espugnò il Meazza battendo i campioni rossoneri per uno a zero con un gol di Beniamino Di Giacomo. Grazie a quella vittoria i biancazzurri poterono continuare la loro avventura in serie A.

Lo stesso giorno /
Quella notte, il terremoto e la luna

Quella notte, il terremoto e la luna

23 novembre 1980: era domenica, proprio come oggi. La prima scossa, violentissima e senza preavviso, arrivò alle 19 e 34 minuti. Il terremoto colpisce, e in alcuni casi rade al suolo, decine di paesi. In Irpinia e nell’alta Lucania si contarono 2.914 vittime (secondo le stime più attendibili), 8.848 feriti e  280.000 sfollati. Oggi, dopo una lunga emergenza e una lenta ricostruzione, quei magnifici borghi appaiono spopolati e abbandonati come prima del sisma.

Ecco, mettiti seduta.
Hai mezzora di tempo? Raccontami ancora quella storia.

Ero in  camera da letto, stavo alla finestra, appoggiata al davanzale, ripassavo fisica per la lezione di domani. Mia sorella, lei è più grande di me, era in sala da pranzo con le vecchie zie. Mio padre e mia madre erano andati ad Avellino, all’ospedale, li stavamo aspettando. Mi ricordo tutto di quel momento, non puoi dimenticare quando viene giù il mondo.

A sedici anni è bello vivere in un paese. Teora era bellissima, oggi non c’è rimasto quasi niente, anche la chiesa si è sbriciolata. Sai, i banchi della chiesa li aveva fatti mio padre nella sua falegnameria. Così, anche quella domenica, faceva freddo ma c’era un gran sole, ero stata tutto il giorno con il gruppo degli amici a girare su è giù per il paese. Non so se mi divertivo, stavo bene. 

Ma quella sera non avevo voglia di studiare. Così decido di tornare  in camera da pranzo, dall’altra parte della casa,  e chiudo la porta della camera. É lì che è successo, ma non capivo cos’era quella cosa. Ho letto che la scossa è durata 90 secondi, ma io non sentivo più il tempo. Sentivo il pavimento che ballava e quel rumore sordo che saliva, era il ringhio di un orco cattivo,  il ruggito di un  drago. Dopo ho saputo che nella fantasia popolare dei paesi del Sud il terremoto è immaginato come un drago che dorme laggiù, nel ventre della Terra, e improvvisamente si risveglia, borbotta, si scuote.

Ho appena chiuso la porta e sento uno scoppio, come una bomba. Invece era crollata la camera da letto e tutto il pezzo di casa che affacciava su via Nazionale. Solo la porta era rimasta in piedi. Chiusa. Sul vuoto. Il rombo continuava, gli scoppi,  il buio, la polvere e la calce che si posavano sui vestiti. Sono corsa fuori insieme agli altri, gridavo ma non so cosa gridavo.

Stavamo in un gruppetto vicino a casa, al buio assoluto, in una nebbia di polvere. Mi ero aggrappata alla piccola balaustra all’inizio della salita di via del Calvario, la nostra via. Non so perchè, avevo solo questo pensiero: che ero stata cattiva, che avevo fatto qualcosa di male. Aspettavo mio padre che finalmente era riuscito a raggiungerci.

Siamo scesi verso Tarantino, è come noi chiamiamo Largo Europa. Il rombo era cessato, ma nel buio si sentivano le grida, i pianti, le corse per raggiungere le case dei parenti. A Teora c’è una piccola caserma di carabinieri, scampata dal terremoto. Un carabiniere era stato nel terremoto dl Friuli. Allora i carabinieri con l’altoparlante della macchina ci hanno detto di scendere, scendere giù. Siamo scesi due tornanti, insieme, verso il campo sportivo. Ricordo una vecchia vestita di nero che gridava le orazioni al padreterno.

Fuori dal centro del paese, in alto nel cielo, c’era la luna piena. L’unica luce. Era una luna gialla come una zucca, luminosissima ed enorme. Mai più ho visto una luna così grande. Era la nostra guida, la nostra fortuna, ma era troppo grande, faceva paura, era forse una minaccia o la promessa della nostra disgrazia. 

Da quel momento, da quella sera di domenica è cambiato tutto. Il paese di Teora è un moribondo. Nella mia vita c’è un prima e un dopo, per sempre. 

Note:
– Un grazie particolare a Giuseppina Guarino che mi raccontato la storia di quella notte.
– Il video sull’evento dell’Istituto Storico Istituto Luce: [Qui]
– Un video antologico sul paese di Teora realizzato da Raffaele Nardella, un volontario impegnato nell’emergenza: [Qui] 
– Da rileggere la novella di Luigi Pirandello “Ciaula scopre la luna” [Qui il PDF]
In copertina: Centro Storico di Teora (Avellino) dopo il sisma del 23 novembre 1980 – Foto dell’Archivio Sorico dei Beni Culturali
Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Per certi Versi / Pelle di borotalco

Pelle di borotalco

 

Ribelli i tuoi mattini

d’ombra le tue notti

dentro un bicchiere vuoto

di alcool principiante

 

gira il soffitto

 

il primo bacio sulle labbra

ti ruba il sonno

 

sarai pelle di borotalco

e pelle di cuoio

 

sarai uomo e donna

nei vortici del tempo

diventerai grande

 

ora ama i sospiri

la cioccolata calda

e i baci

 

In copertina: Foto di Artur Skoniecki da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Maria Mancino è nata a Campobasso e vive attualmente a Imola. Scrive poesie fin da piccola. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive. Appassionatasi alla narrativa, ha pubblicato racconti con le case editrici: Negretto, FuocoFuochino e Fernandel. Da Babbomorto Editore hanno visto la luce le tre raccolte poetiche: “Bianco Spino”, “Mani d’argilla” e “Bacio di carta”, nonché il racconto “Uccel di bosco”. Nel settembre 2020, pubblica con l’Edizione Apostrofo: “I plumcake del nonno” un libro che attraverso i ricordi d’infanzia, delinea la mentalità, le tradizioni e la semplicità dei suoi luoghi. Sempre con l’Edizione Apostrofo nel marzo 2021 pubblica la raccolta poetica: “Nascosta è in lui la mia follia”. Più di recente, ha pubblicato “La memoria della betulla“, Il Babi Editore 2024; “Fiori di corallo“, Selvatiche edizioni 2025; “Da grande farò il bidello“, Selvatiche edizioni 2025.

Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Speranza e apocalisse nel pensiero contemporaneo

Cosa significa vivere quando il mondo, così come lo conosciamo, sembra dissolversi? In tempi segnati da crisi ecologiche, guerre, estinzioni di massa, disorientamento culturale e smarrimento simbolico, la filosofia e l’antropologia (ma anche la scienza) sembrerebbero tornare a interrogarsi sulla fine del mondo vista non come un evento cosmico, ma come esperienza umana di perdita del senso.

Il filosofo tedesco Wolfram Eilenberger, nel suo recente I fantasmi del presente (Feltrinelli, 2025) propone una riflessione sulla condizione attuale dell’umanità, attingendo alla nozione di speranza radicale elaborata dal filosofo e psicoanalista statunitense Jonathan Lear: una forma di speranza che resiste anche quando le coordinate culturali e simboliche sono crollate, quando non si sa più cosa sperare.

Questa speranza non è ottimismo, ma apertura al possibile, anche nel vuoto.

A questa visione si potrebbe affiancare, per affinità tematica, il pensiero dell’antropologo italiano Ernesto De Martino, che nella sua analisi delle apocalissi culturali in La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, 2019) descrive il momento in cui la “presenza” dell’uomo nel mondo vacilla, minacciata dalla perdita di senso e operabilità.

Tuttavia, De Martino non si arresta alla diagnosi: propone un ethos del trascendimento, una capacità di reinventare il mondo attraverso nuovi simboli, riti e narrazioni. La fine del mondo non è più soltanto una profezia escatologica o un evento cosmico da temere: è diventata una esperienza culturale e psicologica del presente.

Nel suo libro Wolfram Eilenberger esplora il pensiero di Adorno, Sontag, Foucault e Feyerabend per comprendere le fratture ideologiche che segnano il nostro tempo. La domanda che attraversa il testo è radicale: “Come si può tentare di pensare di nuovo dopo aver guardato nell’abisso?”.

Eilenberger si confronta con la crisi della filosofia stessa, chiedendosi se gli ideali dell’Illuminismo siano perduti per sempre e se la scienza, l’arte e la democrazia abbiano ancora qualcosa da promettere. In questo scenario, la filosofia non è più guida, ma spazio critico di resistenza, capace di offrire una via d’uscita attraverso il pensiero.

La nozione di speranza radicale, mutuata da Jonathan Lear, diventa centrale: è la speranza che resiste anche quando non si sa più cosa sperare. Lear la elabora studiando la crisi dei Crow, una tribù nativa americana che ha perso il proprio mondo simbolico.

La vita della tribù dei Corvi era praticamente scandita dalle frequenti guerre con le tribù nemiche dei Sioux, Cheyenne e Piedi Neri. Quando l’esercito degli Stati Uniti divenne un nemico comune dell’intera popolazione indiana, i Corvi si allearono proprio con quelli che vedevano come gli inevitabili vincitori: accettarono in questo modo la loro unica possibilità di sopravvivenza rinunciando a una vasta area del loro territorio.

Il capo dei Corvi, Plenty Coups (“abbondanza di incursioni”), poco prima di morire ricordò che quell’accordo fu una mossa giusta perché aveva assicurato che la più preziosa e sacra porzione delle loro terre restasse alla tribù, intatta e indisturbata, ma ammise anche che gli anni successivi a quell’accordo di pace furono anni senza eventi a cui si potesse dare un significato e concluse il suo discorso con una frase che divenne l’inizio del libro di Jonathan Lear sulla speranza radicale: «Dopo questo non è successo nulla».

Quella frase fu interpretata da Lear in modo paradigmatico: le azioni a cui non può essere attribuito alcun significato culturale non possono essere considerate avvenimenti.

Eilenberger riprende questa storia di Lear e la frase di Plenty Coups per provare a descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo e la necessità di una speranza che non si fondi su contenuti, ma sulla possibilità stessa di sperare nel… nulla.

Questa diagnosi filosofica trova un insospettabile riscontro nell’antropologia di Ernesto De Martino, che nella sua opera postuma, La fine del mondo, descrive la crisi della presenza come rischio antropologico universale. Per De Martino, la “presenza” è la capacità dell’uomo di essere nel mondo con senso e operabilità. Quando questa capacità viene meno, si entra in una condizione di smarrimento culturale, che può assumere forme psicopatologiche o apocalittiche.

Per renderci partecipi di questo sentire, De Martino racconta che, durante una spedizione etnografica, un vecchio contadino di Marcellinara gli indicò la strada da seguire per arrivare in una certa località, accompagnandolo personalmente in macchina. Lungo il percorso,  non riuscendo più a vedere il campanile posto al centro del villaggio, il contadino cominciò a manifestare agitazione, disagio e angoscia per la progressiva scomparsa di quella immagine che evidentemente rappresentava lo sfondo della sua quotidianità e, per così dire, il centro del proprio mondo.

Da qui l’intuizione dell’antropologo sul termine apocalisse (“rivelazione”) e il suo stretto legame con la fine di un mondo anche personale inteso come l’insieme di eventi, rumori e immagini che conferiscono senso alla propria esistenza.

De Martino così distingue tra apocalissi culturali, cioè narrazioni simboliche che disciplinano la fine e aprono a un nuovo inizio, e apocalissi psicopatologiche, insorgenze non elaborate culturalmente, che portano alla paralisi, all’angoscia e alla disperazione.

La sua preoccupazione è che l’Occidente, dopo la Shoah e Hiroshima, sia affacciato su una “nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile”.

In entrambi i racconti, quello del capo dei Crow e quello del contadino, la crisi non è solo esterna, ma interna al senso stesso dell’umano. La fine del mondo è la fine del mondo come lo conosciamo, come lo abitiamo, come lo comprendiamo.

Eilenberger e De Martino convergono nel riconoscere che la vera apocalisse è la perdita del senso, e che la risposta non può essere il silenzio, ma una forma di resistenza simbolica e culturale.

Se quindi la crisi è perdita del senso, la resistenza non può che consistere in forme di reinvenzione del senso. Eilenberger e De Martino propongono due figure emblematiche di questa resistenza: la speranza radicale e l’ethos del trascendimento.

La speranza radicale, secondo Jonathan Lear, è ciò che resta quando tutto ciò che dava senso alla vita è crollato. È la speranza che non si appoggia su oggetti o progetti, ma sulla possibilità stessa di continuare a sperare. Lear la descrive come una forma di apertura al futuro, anche quando non si sa più cosa attendere. Eilenberger la assume come chiave per leggere il nostro tempo: “La filosofia può ancora offrirci una via d’uscita per affrontare la crisi del nostro tempo”.

De Martino, dal canto suo, propone l’ethos del trascendimento come atteggiamento culturale e antropologico che consente all’uomo di superare la crisi della presenza. “Perché vi sia un mondo – scrive – occorre emergere da esso, non coincidere immediatamente con la situazione ma staccarsene”. Il trascendimento è la capacità di non coincidere con il caos, di separarsi, di reintegrare l’io attraverso riti, narrazioni, istituzioni. È ciò che lo sciamano compie nel mondo magico, ma anche ciò che la cultura può fare nel mondo moderno.

Entrambe le figure – speranza radicale ed ethos del trascendimento – indicano una possibilità di rinascita. Non si tratta di tornare indietro, ma di inventare nuovi modi di abitare il mondo, di costruire nuovi simboli, di riattivare la presenza. In questo senso, la filosofia e l’antropologia non sono discipline del passato, ma pratiche di resistenza e di futuro.

Se la crisi del presente è una crisi del senso, e se la resistenza si manifesta nella speranza radicale e nell’ethos del trascendimento, allora la rinascita non può che avvenire attraverso una reinvenzione simbolica del mondo. In questo processo, la cultura – intesa come insieme di pratiche, narrazioni, riti, linguaggi e istituzioni – assume un ruolo centrale: non come decorazione del reale, ma come condizione di possibilità dell’umano.

Per Ernesto De Martino, la cultura è ciò che protegge l’uomo dalla dissoluzione. È il dispositivo che consente di “tenere la presenza”, di non naufragare nel caos. Quando la cultura vacilla, l’individuo rischia di perdere la propria operabilità nel mondo. Ma proprio in questo rischio si apre la possibilità di trascendere la crisi, di inventare nuovi modi di essere  e… il rito, il mito, la parola, il gesto: tutto concorre a ricostruire la presenza.

Questa visione dialoga con la proposta di Wolfram Eilenberger, che vede nella filosofia non una disciplina astratta, ma una pratica di resistenza simbolica. La filosofia, come la cultura, non offre soluzioni immediate, ma “spazi” di pensiero in cui il senso può essere riattivato. La speranza radicale, in questo contesto, non è una fuga dalla realtà, ma una forma di apertura al possibile, una disponibilità a reinventare il mondo anche nel vuoto. “La filosofia non può salvare il mondo, ma può salvare il pensiero” – sembra suggerire Eilenberger – e salvare il pensiero significa salvare la possibilità di senso.

La rinascita simbolica, dunque, non è un ritorno al passato, ma una reinvenzione del presente. È ciò che accade quando, nel cuore della crisi, l’uomo riesce a dire “ancora”, a compiere un gesto, a pronunciare una parola, a immaginare un futuro. È ciò che De Martino vede nel rito magico, ma anche nella poesia, nella musica, nella narrazione. Ed è ciò che Eilenberger intravede nella filosofia come pratica di apertura.

In questo senso, la fine del mondo (e la rivelazione) non è mai definitiva. È una soglia, un passaggio, una possibilità. E la cultura – come spazio simbolico condiviso – è ciò che consente di attraversare questa soglia senza perdersi. La speranza radicale e l’ethos del trascendimento non sono solo risposte alla crisi: sono forme di rinascita, atti di fiducia nel potere umano di reinventare il mondo.

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Le voci da dentro / Una partita dietro le sbarre

Le voci da dentro  / Una partita dietro le sbarre

Sabato 15 novembre alle ore 10 presso il campo sportivo della casa Circondariale di Ferrara si è svolta una partita di rugby fra la squadra degli atleti detenuti (Rugby 27) ed una selezione di giocatori del Cus Ferrara.

Nella conferenza stampa di presentazione della partita, l’assessore allo sport Francesco Carità ha dichiarato: “Le associazioni sportive che fanno anche volontariato sul nostro territorio, uniscono l’attività fisica a finalità benefiche o solidali nel nome dell’inclusione, è lavoro che questa Amministrazione vuole sostenere. Apprezzo come vi sia attenzione anche al benessere psicologico che può dare l’attività fisica questa iniziativa rende i detenuti protagonisti e li aiuta a riconquistare anche l’idea che ci possa essere un futuro”.

Stefano Cavallini, presidente di Rugby 27, ha detto: “Questo evento moltiplica l’energia dei nostri detenuti, che non vedono l’ora di scendere in campo in questa gara di Rugby Seven con il CUS. Sono ragazzi che approfittano del rugby per avere più disciplina nella vita, e noi stessi vediamo come lo sport li stia decisamente aiutando a migliorare. Siamo supportati da tutte le realtà attorno a noi, soprattutto dal Comune. Per quanto riguarda i progetti futuri, dopo la partita con il CUS, il nostro sogno è sfidare il Giallo Dozza Rugby, squadra di rugby del Carcere di Bologna”.

La direttrice della casa Circondariale, Maria Martone, ha riferito: “Questo progetto va avanti da tanti anni nel nostro carcere e si sta consolidando sempre più e crediamo molto in questo percorso: grazie al sostegno economico del nostro Provveditorato Regionale che crede in questa iniziativa avremo anche la possibilità di acquistare nuove attrezzature per rendere ancora più fruibile il progetto. Crediamo nel valore dello sport in generale e del rugby nello specifico”.

Annamaria Romano, responsabile dell’area educativa del Carcere di Ferrara, ha confermato: “Soprattutto in ambito rieducativo lo sport e il rugby in particolare crea una condizione di benessere psicofisico e aiuta i detenuti a uno stile di vita più attivo e proattivo, oltre al valore del rispetto delle regole, dell’altro e al senso di squadra”.

Fausto Mariotti, delegato del CUS Ferrara Rugby, ha condiviso a pieno il senso di questa iniziativa e ha proposto di moltiplicare questo genere di eventi per aprire ulteriormente gli orizzonti.

Credo che il rugby sia uno fra gli sport più formativi, più educativi e che più aiuta a prendere consapevolezza di sé e del proprio comportamento verso i compagni, gli avversari e le regole. È perfetto quindi per una buona rieducazione. Peccato che in questa bella occasione di sport, che ha creato tante attese e grande entusiasmo nei ragazzi ristretti, non sia corrisposto un impegno adeguato da parte del Cus Ferrara che non è riuscito a convocare 15 giocatori per una partita importante, dall’alto valore simbolico.

Grazie infinite quindi ai sette rugbisti del Cus Ferrara e ai loro accompagnatori che hanno scelto di partecipare. Di seguito il resoconto di Francesco che, oltre che giocare a rugby, frequenta la redazione del giornale del carcere Astrolabio.
(Mauro Presini)

Rugby 27 incontra il CUS Ferrara

di Francesco T.

Sabato 15 novembre 2025 si è tenuta presso la Casa Circondariale Di Ferrara una partita di rugby fra la squadra dell’Istituto: il Rugby 27 e il Cus Ferrara.

È sempre un’occasione speciale quando delle persone dall’esterno entrano volontariamente in carcere per partecipare alle attività dell’istituto.

Da subito si è percepita una sana rivalità fra entrambe le squadre, visto che era una partita amichevole ma anche perché credo che, al di là della prestazione sportiva, ambedue ambissero a vivere delle esperienze personali che solo da un evento del genere può scaturire.
Dopo i primi tentativi di socializzazione, abbiamo iniziato con qualche giro di campo e degli esercizi di riscaldamento che entrambe le squadre hanno effettuato insieme. Dopodiché si è passati ai fatti.

Si è disputata una partita di rugby a sette, visto che i giocatori del Cus Ferrara erano solo sette.

La partita è iniziata con il vantaggio da parte del Rugby 27 dopo pochi minuti;  la squadra di casa ha dominato la partita per entrambi i tempi, durati circa 10 minuti l’uno. Sul finale, un incidente sportivo ha scombinato un po’ gli assetti, visto che un giocatore del Cus Ferrara è stato trasportato via dal campo in barella.
In seguito all’infortunio, abbiamo deciso di scambiarci le maglie e abbiamo continuato a giocare a squadre miste. La partita si è conclusa con un simbolico 5 a 5.

Ho scritto simbolico perché tutti gli atleti e pure gli spettatori si sono resi conto da subito che la squadra di casa aveva un gran vantaggio, sia atletico che motivazionale. Però, ripeto, è stata una partita amichevole e il 5 a 5 simbolico ha soddisfatto tutti perché, a vincere, è stato lo sport.

L’evento si è concluso con un “terzo tempo” nel teatro della prigione, dove le squadre hanno consumato insieme bevande e cibo offerti dal presidente del Rugby 27 e, insieme, hanno visto la partita Italia contro Sud Africa.

Tra i complimenti reciproci e la condivisione di esperienze (sportive e non) è terminata una bella giornata di sport.

Nella foto di copertina: i ragazzi del Cus Ferrara Rugby insieme a Stefano Cavallini davanti all’entrata del carcere di Ferrara.

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Presto di mattina /
Luce gentile

Presto di mattina. Luce gentile

Guidami tu luce gentile (“Lead, Kindly Light”)

Guidami Tu, Luce gentile,
attraverso il buio che mi circonda,
sii Tu a condurmi!
La notte è oscura e sono lontano da casa,
sii Tu a condurmi!
Sostieni i miei piedi vacillanti:
io non chiedo di vedere
ciò che mi attende all’orizzonte,
un passo solo mi sarà sufficiente.
Non mi sono mai sentito come mi sento ora,
né ho pregato che fossi Tu a condurmi.
Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;
ma ora sii Tu a condurmi!
Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura,
il mio cuore era schiavo dell’orgoglio;
non ricordare gli anni ormai passati.
Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,
e certo mi condurrà ancora,
landa dopo landa, palude dopo palude,
oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;
e con l’apparire del mattino
rivedrò il sorriso di quei volti angelici
che da tanto tempo amo
e per poco avevo perduto.
(John Hernry Newman, In mare, 16 giugno 1833, cfr. Luce nella solitudine. Viaggio e crisi di Newman in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1989).

Questa poesia/preghiera segna un passaggio drammatico nella vita John Henry Newman (1801-1890), che la compose quando era ancora anglicano, sulla nave che lo portava dalla Sicilia nella sua Inghilterra. Scaturisce da un momento di turbamento e da un tempo di oscurità rischiarato da una “luce gentile” e non solo per una grave malattia che lo aveva portato quasi alla morte durante il suo viaggio in Italia, ma per la sofferta decisione, lui di confessione anglicana, di entrare nella chiesa cattolica. Questa Kindly Light, immagine e presenza della santità ospitale di Cristo nella coscienza e nel mondo, attraversa tutta la sua opera, soprattutto nelle omelie alla sua gente.

Definito dallo storico e critico letterario francese Henri Brémond «genio complesso, poeta e mistico», Newman è stato un credente, presbitero anglicano, teologo e filosofo inglese. Sostenne la libertà di coscienza, essendo per lui la presenza/esperienza di Dio nella coscienza umana come “flebile luce” al centro della sua spiritualità:

«Chi può negare l’esistenza della coscienza? Chi non avverte la forza dei suoi comandi? Eppure quanto è debole la luce che la investe, quanto debole ne è l’influenza, a paragone con l’evidenza del vedere e del toccare che costituisce il fondamento della scienza fisica!… In colui che è fedele alla propria coscienza, la debole luce della verità diventa ogni giorno più chiara» (Opere: Utet, Torino 1988, 1173; 524).

Il suo fu un itinerario del cuore e della mente in Dio creatore e nel suo Verbo fatto uomo. Per lui tale cammino della fede è concepito e nasce, ha inizio e si sviluppa da un’attitudine e propensione del cuore: «La salvaguardia della fede è una retta disposizione di cuore. È questa che, oltre a darle origine, la disciplina, proteggendola dal fanatismo settario e dalla credulità.

È la santità, o spirito d’obbedienza, o nuova creatura, o intelligenza spirituale, o comunque la vogliamo chiamare, a costituire il principio vivificante ed illuminante della vera fede, a darle occhi, mani e piedi. È l’amore che forma il bruto caos nell’immagine del Cristo. La fede che giustifica, sia essa pagana, ebrea o cristiana, è una fides formata charitate” (è una fede che si forma praticando la carità). Noi crediamo perché amiamo» (ivi, 640; 641).

Un debito di amore

La fede deve all’amore l’orientamento, la stabilità, la fermezza, la coerenza del suo agire. È anch’essa flebile lume, una presunzione di amore, ma non un’ipotesi a caso o una illusione di amore, ma uno slancio nel rischio della relazione all’altro, al suo e nostro sentire così alternante, differenziato; e dunque è

«un avanzare nella penombra, ma non alla cieca e senza punti di riferimento; il passare da una verità nota a qualcosa d’ignoto, ma mantenuto nello stretto sentiero della verità dalla legge dell’obbedienza, dalla luce divina che l’anima e la guida. Questa luce, sia essa debole ed oscura come nei pagani, o fulgida come nei cristiani; sia solo il faticoso risveglio della coscienza, oppure la carità dello Spirito, una timida speranza o la pienezza dell’amore, è, in ogni economia religiosa, l’unico principio che ci renda accetti a Dio per mezzo dei meriti del Cristo» (ivi, 651).

Luce da luce; cuore a cuore

Il Credo cristiano confessa Gesù Cristo, l’Unigenito figlio di Dio come “luce da luce” e così colui che dimorava in una inaccessibile e abbagliante luce grazie alla sua umanità, per la sua carne, è divenuto per noi una “luce gentile”. Così egli si è fatto guida, un passo un altro passo, “landa per landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà; e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso dei volti».

Questo sentire e ‘senso interiore’ (inward sense) della fede di Newman, questa luminosità segreta, kindly light, questa intimità feconda, Newman la esprimeva con le parole di sant’Agostino: “il cuore parla al cuore” (Cor ad cor loquitur). La coscienza, luogo del generarsi e dispiegarsi della fede come libertà che si affida, è così compresa da lui come impronta (éikon) sensibile, intellettiva e volitiva dell’amore del Dio creatore e della sua paternità. Di più: un legame intersoggettivo e amoroso per la venuta del Figlio in umanità, per grazia, è unita alla stessa fede filiale di Gesù che diviene per lei culmine e fonte.

Un’impronta d’amore è pure la fede.

L’inquietudine del cuore

Non è incantesimo la fede ma risveglio, veglia, un avanzare nella libertà come conquista e dramma: perché «il nostro cuore è sempre inquieto e senza riposo».

Newman visse così una fede, aperta come libertà che si affida con un pieno abbandono a Dio e al suo Cristo: «io non chiedo di vedere ciò che mi attende all’orizzonte, un passo solo mi sarà sufficiente» e questo nella ricerca continua di un cristianesimo più autentico.

Per questo, grazie allo studio dei Padri della Chiesa, intese rinnovare la fede anglicana segnata dal secolarismo e dal liberalismo e attraverso i Padri fu portato a scoprire la cattolicità, una sola chiesa indivisa, la chiesa di Cristo, secondo l’unità delle origini fino a decidere il passaggio della conversione al cattolicesimo nel 1845.

Se l’ingresso nella Chiesa cattolica dileguò i dubbi e le inquietudini precedenti, la sua decisione segnò tuttavia anche l’inizio di altre sofferenze perché fu a lungo incompreso sia dagli anglicani che dagli stessi cattolici. Ciò nondimeno i suoi studi patristici per il rinnovamento teologico e della spiritualità furono determinati anche per la sua elezione a cardinale nel 1879 da parte di papa Leone XIII.

In Newman si riscontrano tutti gli elementi che costituiscono un’autentica esperienza mistica: la presenza costante dello Spirito Santo, l’esperienza passiva di Dio, un profondo senso ecclesiale. Dopo la sua morte, indagando anche su questa esperienza della sua vita, fu beatificato il 19 settembre 2010 da papa Benedetto XVI. Successivamente, è stato canonizzato da papa Francesco il 13 ottobre 2019. Infine è stato proclamato dottore della Chiesa da papa Leone XIV nella solennità di tutti i Santi di questo 1º novembre 2025. Egli seppe riconoscere nella mistica il fermento necessario a rifondare il dogma, rendendolo più complesso e dinamico, affinché l’assenso della fede e la sua grammatica costituissero e fossero vissuti proprio come un legame di amore tra tutti i credenti.

Luce per gli altri

Fra una settimana entreremo nell’Avvento, si va incontro alla luce, alla “chiara pienezza d’amore”. Questo testo suona così come un invitatorio a mettersi in cammino, farsi lanterna per accogliere la “luce gentile”. Nell’Avvento «si preparano gli uomini e gli angeli. Parlando degli angeli dico: «Ogni soffio di vento, ogni raggio di luce e di calore, ogni bella veduta, è, per così dire, l’orlo della loro veste, l’ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio» (Opere, 164).

“Stai con me, e io inizierò a risplendere
come tu risplendi,
a risplendere fino ad essere luce per gli altri.
La luce, o Gesù, verrà tutta da te:
nulla sarà merito mio.
Sarai tu a risplendere,
attraverso di me, sugli altri.
Fa’ che io ti lodi così
nel modo che tu più gradisci,
risplendendo sopra tutti coloro
che sono intorno a me.
Dà luce a loro e dà luce a me;
illumina loro insieme a me, attraverso di me.
Insegnami a diffondere la tua lode,
la tua verità, la tua volontà.
Fa’ che io ti annunci non con le parole
ma con l’esempio,
con quella forza attraente,
quella influenza solidale
che proviene da ciò che faccio,
con la mia visibile somiglianza ai tuoi santi,
e con la chiara pienezza dell’amore
che il mio cuore nutre per te.”
(Cfr. J.H. Newman, Meditations and Devotions, London – New York – Bombay, 1907, 365; trad. in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Notiziario CEI, 4 2001, 132).

Servire a Cristo leggendo e scrivendo

A Giuseppe De Luca (1898-1962) non era sfuggita l’opera e la figura di John Henry Newman. I suoi scritti erano per lui un luogo e dimora spirituale dove si poteva ascoltare – distintamente – la voce dell’uomo e, a volte ma chiarissima, la voce di Dio. Un luogo sacro, la sua anima. Un tempio, avrebbe detto san Paolo.

De Luca figura singolare di sacerdote erudito, editore, saggista, giornalista, autore di un epistolario vastissimo – la sua opera più viva è nelle lettere (Piero Bargellini) – affermava di voler «servire a Cristo leggendo e scrivendo», «servire Dio nell’intelligenza». Avviò il progetto di una storia della pietà – “Archivio italiano per la storia della Pietà” (1951) e nel 1941 aveva fondato la casa editrice “Edizioni di Storia e Letteratura”.

È in queste edizioni che troviamo, John Henry Newman; scritti d’occasione e traduzioni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975.

Nella prima parte del volume, di 539 pagine, sono raccolti tutti gli scritti che don Giuseppe De Luca gli ha dedicato, in una trentina d’anni. La seconda parte comprende traduzioni di sermoni del Newman, di sue preghiere, prose e versi, in parte pubblicati, in parte inediti.

Scrive De Luca di Newman: «Veramente sperimentava nel suo intimo quella verità, non reale ma sentimentale, che è nel mito platonico della reminiscenza: ogni cosa che conosceva era per lui come un riconoscimento e una riconoscenza. I quattro quinti delle sue poesie, egli le scrisse durante questo viaggio, sui nostri mari, in vista delle nostre terre, dentro la nostra luce, nella nostra aria. Mentre ricordava, pensava – e pensare, pensare davvero, è per metà patire» (ivi, 105; 30-31).

 

«Noi crediamo, perché amiamo»

Newman è stato così per De Luca uno degli autori centrali delle sue meditazioni. Lo considerava figura emblematica del rinnovamento del pensiero cristiano di fronte alla modernità, perché ampliò l’idea dell’intelligenza razionale includendovi la qualità dell’esistenza spirituale e morale della persona. Solo un pensiero esistenzialmente integrato può raggiungere la verità religiosa: «Noi crediamo, perché amiamo».

Così l’idea che ogni conoscenza e ricerca del sapere nasca da un atteggiamento esistenziale, da un sentire e credere originario, istintivo che incalza senza posa l’uomo nel suo incessante cercare oltre se stesso, scaturisca da una fede come da una disposizione del cuore e della coscienza a rischiarsi verso il non ancora, è centrale nel pensiero e nella vita di Newman:

«Di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione. …Subiamo l’influenza delle persone: delle voci, delle fisionomie, delle ragioni umane… In fondo, l’uomo non è un animale raziocinante: è un animale che vede, sente, contempla e agisce… La vita è fatta per l’azione. Se ci impuntiamo a volere la prova di tutto non agiremo mai. Per agire bisogna partire da un assunto, che è appunto la fede» (Newman, Grammatica dell’Assenso, Jaca Book, Milano 1980, 56-58).

Dimmi dove mettere il piede

Così commenta De Luca in un altro articolo la lirica Lead, Kindly Light: «Nella preghiera famosa, forse la più vivente poesia religiosa dell’Ottocento, che egli scrisse in nave dall’Italia all’Inghilterra, rievocando la sua vita trascorsa, pentendosene e cioè mutando mente, egli disse al Signore più o meno così: “Non importa che tu mi faccia vedere la distant scene. Sinora studiavo io le mie mète e i miei passi. Dicevo io dove volessi andare, per quali vie. Era orgoglio. Ora non più io, ma tu, o Signore, tu portami innanzi: dimmi solo, passo dopo passo, dove io debbo mettere il piede» (John Henry Newman; scritti, 49).

“Perché amo il Crisostomo” (J.H. Newman)

Giovanni Crisostomo (344/354-407) è un padre della chiesa, fu patriarca di Costantinopoli, amato dai poveri come un padre, fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia per i loro privilegi; tanto che l’imperatrice Eudossia riuscì a mandarlo in esilio per confinarlo nel Caucaso in una piccola città dell’Armenia, a Comana Pontica, il 14 settembre.

Newman aveva una predilezione singolare per questo padre della chiesa e scrisse un testo per manifestare le ragioni di questa devozione. Ho intravisto come in filigrana in questo testo affiorare la stessa sensibilità e stile di Newman, come se la sua interiorità si riflettesse in quella del Crisostomo così da svelarci un poco di più del suo sentimento e delle affezioni della sua vita.

«Da dove viene questa devozione a S. Giovanni Crisostomo che mi porta a fermarmi sul pensiero di lui e mi commuove al suo nome, mentre di tanti altri grandi Santi, le cui memorie ricorrono nel corso dell’anno, provo devozione, ma non hanno influenza personale sul mio cuore? Tanti Santi sono morti in esilio, molti sono stati efficaci predicatori, e che altro si può scrivere sul monumento del Crisostomo se non che fu eloquente e che fu perseguitato?».

Poi egli elenca con uno stile scorrevole e coinvolgente i grandi padri Atanasio, Gregorio, Basilio Agostino e Girolamo, elencando le loro qualità e dicendo che Giovanni non aveva le loro caratteristiche spirituali e umane; né lui si era dedicato completamente allo studio delle sue opere o ne aveva scritto una vita, e tuttavia ne sentiva l’irresistibile attrazione. E si domandava come spiegare questo? Nel testo la risposta.

Newman, uno spirito gentile

Io penso che l’attrattiva di S. Crisostomo dipenda dalla sua intima simpatia e compassione per il mondo intero, non solo nella sua forza, ma anche nelle sue debolezze; dallo sguardo vivace con cui egli vede tutto quello che gli si presenta, preso in concreto, sia fatto a modo proprio, sia dotato di una natura superiore alla sua.

Non voglio dire che un uomo religioso – e specialmente un santo – possa mai separare l’amore per la creatura dall’amore per il Creatore, o possa sentire una tenerezza per la Terra che non sgorghi dalla devozione al Cielo. Questa è la caratteristica di tutti i Santi, e io parlo qui non di quello che il Crisostomo ha in comune con gli altri, ma di quello che è suo speciale, e questa specialità, io penso, è l’interesse che egli prende a tutte le cose, non in quanto Dio le ha fatte simili, ma in quanto le ha fatte differenti le une dalle altre.

Parlo dell’affetto discriminante con cui egli accetta ognuno, per quello che è personalmente e che lo fa diverso dagli altri.

Parlo della svariata conoscenza degli uomini, per la quale li vede ad uno ad uno, per quella porzione di bene, maggiore o minore, di ordine superiore o inferiore, che si trova distintamente in essi; della sua appassionata contemplazione delle molte cose che essi fanno, compiono, producono, di tutte le loro grandi opere, come nazioni o stati; anzi persino se sono corrotti o alterati dal male, in quanto questo male lo si può considerare distinto dalla loro natura, o può essere riguardato un disordine soltanto materiale (fisiologico) distinto dal suo formale carattere di colpa.

Parlo dello spirito gentile e del temperamento geniale con cui egli guarda attorno a sé a tutte le cose che questo mondo meraviglioso contiene; della fedeltà grafica con cui le registra nella sua mente, e della prontezza e proprietà con cui se ne serve come argomento o illustrazione nel corso del suo insegnamento, secondo le occasioni.

Per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, egli non ha perduto una fibra, non trascura una vibrazione del complesso complicato del sentimento e dell’affezione umana; come il miracoloso roveto del deserto, che era avvolto dalla fiamma, ma non si consumava» (Perché amo il Crisostomo, in Rivista di Ascetica e mistica, 2 1978, 145-146).

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/pexels-2286921/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1853025″>Pexels</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1853025″>Pixabay</a>

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Ecco il Piano di Trump e Putin per la “pace” in Ucraina: un affare economico

Ecco il Piano di Trump e Putin per la “pace” in Ucraina: un affare economico

La Casa Bianca conferma che il presidente Trump sta lavorando al piano per “la fine della guerra in Ucraina, buono per entrambe le parti”.

Il nuovo Piano Usa-Russia per la “pace” in Ucraina, proposto da Donald Trump, si dice sia stato creato da un gruppo di funzionari americani e russi, tra cui l’inviato statunitense Witkoff e l’inviato russo Dmitriev. Si dice che Dmitriev sia soddisfatto dell’accordo, asserendo che Putin probabilmente lo accetterà.

Un piano con Mosca che il tycoon ha fatto recapitare dai suoi generali del Pentagono a Kiev, ha dichiarato l’ANSA. E Volodymyr Zelensky, pur non sbilanciandosi sui contenuti dell’iniziativa che appare fortemente penalizzante per gli ucraini, si è detto ‘pronto a collaborare’: ‘Ne parlerò con Trump’, ha detto mentre alcune fonti ucraine bollavano il piano come “assurdo e irricevibile”. Mosca ha affermato di non aver ricevuto alcuna informazione dagli USA attraverso i canali ufficiali sul piano di pace in Ucraina di cui hanno scritto diversi media internazionali. Lo ha detto la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, al media russo RBC: “se la parte americana avesse una qualsiasi proposta, l’avrebbero comunicata attraverso i canali in uso tra i ministeri degli esteri dei due Paesi”, ma il ministero degli esteri di Mosca non ha ricevuto niente di simile dal Dipartimento di Stato. Interessanti anche le dichiarazioni dell’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Kaja Kallas arrivando al Consiglio Affari Esteri, precisando di “non essere a conoscenza” di un coinvolgimento degli europei alla costruzione del piano di pace degli USA.

In tutto ciò non si capisce per quale motivo reale a trattare per la pace in Ucraina manchino proprio gli ucraini. Forse è l’ennesima prova – come dichiarato da analisti geopolitici e storici del calibro di Franco Cardini, Luciano Canfora e, all’epoca, Giulietto Chiesa – che la guerra in Ucraina è lo specchio di uno scontro geopolitico ed economico tra Russia e USA.

Resta quindi il mistero sulla veridicità del piano di Trump: se sia una proposta seria o un’ennesima messinscena americana. Il famigerato piano Usa-Russia consisterebbe in 28 punti che ieri Axios, che ne aveva rivelato l’esistenza, ha diffuso integralmente. Ecco di seguito i punti focali:

  • La sovranità dell’Ucraina sarà confermata;
  • promulgazione di un accordo di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa che metta fine a tutte «le ambiguità degli ultimi trent’anni».
  • «Ci si aspetta che la Russia non invada Paesi vicini e che la Nato non si espanda ulteriormente».  Comprende «garanzie di sicurezza certe» per l’Ucraina, che però si impegna (punto 7) a scrivere nella Costituzione che non entrerà nella Nato. E ancora: l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina.
  • L’Ucraina si ritirerebbe dalle zone di Donetsk e Lugansk ancora controllate dall’Ucraina. Gli ucraini dovrebbero ritirarsi dall’intero Donbass e riconoscere la piena sovranità russa. Il Donbass passerebbe così sotto la sovranità di Mosca, però sarebbe una regione demilitarizzata, dove le truppe russe non potrebbero venire dispiegate.
  • Le forze russe congeleranno le linee lungo Kherson e Zaporozhye, rinunciando alle rivendicazioni per il resto delle regioni.
  • Le forze russe si ritireranno da Kharkov e Sumy.
  • È prevista anche la riapertura della centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dai russi, la cui energia dovrebbe venire divisa in parti uguali tra Russia e Ucraina.
  • Il piano stabilisce anche che tutti i prigionieri di guerra e i corpi dei caduti saranno scambiati; tutti i civili detenuti, inclusi i bambini, verranno rilasciati.
  • L’Ucraina ridurrà il suo esercito a metà dei suoi attuali effettivi. l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina.
  • L’Ucraina cederà sull’accesso alle armi a lungo raggio.
  • Nessuna unità straniera sarà schierata in Ucraina, inclusa la forza di pace della Coalizione dei Volenterosi guidata da Regno Unito e Francia.
  • L’Ucraina non entrerà in alleanze militari, inclusa la NATO, rimanendo neutrale.
  • La NATO includerà nei suoi statuti «una disposizione secondo la quale l’Ucraina non sarà ammessa» nell’organizzazione atlantica.
  • Alla voce «garanzie» il piano spiega: «se l’Ucraina invadesse la Russia perderebbe tutte le garanzie»; se la Russia invadesse l’Ucraina «oltre a una risposta militare coordinata sarebbero ripristinate tutte le sanzioni globali»; se l’Ucraina lanciasse missili verso Mosca o San Pietroburgo senza motivo «le garanzie di sicurezza saranno invalidate».
  • Kiev si impegna a essere «Stato non nucleare» in accordo con i trattati di non proliferazione.
  • il rientro della Russia nel G8 e la cancellazione delle sanzioni, con il reintegro di Mosca nell’economia globale.
  • la Russia non ostacolerà l’uso del fiume Dnipro da parte dell’Ucraina per le attività commerciali e saranno raggiunti accordi per il libero trasporto di grano attraverso il Mar Nero.
  • All’Ucraina sarà permesso di aderire all’Unione Europea.
  • La lingua russa sarà riconosciuta come lingua ufficiale in Ucraina, al pari dell’ucraino.
  • L’Ucraina concederà uno status formale alla Chiesa Ortodossa Ucraina.
  • Necessità di «denazificare» l’Ucraina dai battaglioni paramilitari d’estrema destra, autori di pulizie etniche contro la popolazione civile del Donbass russofono.
  • Il punto 25 prevede che in Ucraina si tengano le elezioni «entro cento giorni dalla firma degli accordi».

L’accordo sarà «legalmente vincolante» e «la sua attuazione», come previsto da quello su Gaza, «sarà monitorata e garantita dal Consiglio di Pace, guidato da Trump». Una volta che le parti avranno accettato il memorandum e si saranno ritirate «il cessate il fuoco entrerà in vigore».

Il piano Trump – sebbene non si capisca chi siano gli attori coinvolti – ha le sembianze di un accordo economico tripartito tra Stati Uniti, Europa e Russia, nel quale vengono utilizzati 100 miliardi di beni russi congelati nelle banche europee, cui si aggiunge una somma simile che dovrebbe arrivare dall’Europa per la ricostruzione dell’Ucraina. Il 50% dei proventi dovrebbe andare agli Usa. Altre somme non specificate dei beni russi congelati dovrebbero essere investite in progetti bilaterali tra Washington e Mosca.

Cover: Putin e Trump – Foto  Heute.at su licenza Wikimedia Commons

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Sandro Cardinali e il suo impegno politico

Sandro Cardinali e il suo impegno politico

Sandro Cardinali è stato docente di filosofia all’Università di Ferrara, allievo di La Corte, collaborò con Mario Miegge e Carlo Carabelli, fu tra i protagonisti del ’68 a Ferrara. Segretario de Il Manifesto, ebbe anche un intenso rapporto col CDS, che nacque nel 1972 come Centro di Documentazione Sindacale, a supporto delle lotte nel petrolchimico di Ferrara, una delle fabbriche dove le innovazioni contrattuali furono più avanzate, influenzando poi anche le altre categorie nazionali.

Il Cds, animato da Pino Foschi, era un luogo di incontro, discussione (e anche scontro), tra operai, sindacalisti e studenti e quei pochi docenti universitari, allora militanti (tra cui Cardinali, Miegge, Monzoni) che aveva prodotto la rivolta del ’68, specie in quelle componenti politiche come il Manifesto, che avevano capito l’importanza di formare nelle fabbriche delegati sindacali che andassero gradualmente a sostituire le vecchie Commissioni interne.

Il rapporto fra i protagonisti del ’68 – gli studenti e quei docenti universitari (come Sandro Cardinali) – e quelli del ’69 – gli operai, come alla Montedison– non fu lineare, ma anzi carico di conflitti e però anche ricco di innesti, che portarono all’esperienza di scuola-fabbrica-quartiere, alle 150 ore (Gianni Verziaggi ne farà la sua tesi di laurea) e di molte altre intuizioni. I rinnovi contrattuali furono l’occasione prima nel ’69 poi nel ’72, di un aumento salariale in Italia senza precedenti, ma si era anche diffusa la coscienza che gli operai non erano solo “merce” da vendere, ma portatori di diritti e di proposte che potevano cambiare l’organizzazione del lavoro a vantaggio di tutti.

L’Italia stava vivendo la sua fase più bella e creativa. In quei 30 anni, iniziati nel 1945 (che poi saranno definiti gloriosi) gli imprenditori investivano, creavano beni di valore universale e col ‘68/72 ci fu anche la più grande redistribuzione salariale e sociale del paese. Tutto cresceva, salari, occupazione, Pil, diritti, benessere, rango del paese che diventerà nel 1980 la 4^ potenza mondiale.

In Sandro Cardinali, così come in altri, c’era la coscienza che si stava costruendo un mondo migliore e che eravamo nel giusto a difendere operai, poveri, diritti, uguaglianza e anche se c’era conflitto, c’era rispetto per gli imprenditori e chi creava e generava valore. Volevamo solo che fosse anche redistribuito. Purtroppo alcuni pazzoidi (sia di destra che di sinistra) imbracciarono le armi.

Ciò spiega perché anche nei film e nella cultura l’operaio entrò in modo prepotente e centinaia furono i documentari autoprodotti (allora coi video tape) con la collaborazione dei tanti comitati operai-studenti. L’operaio, invisibile, era diventato figura simbolo dell’immaginario collettivo, il nuovo eroe.

Ricordo: Trevico-Torino, di Ettore Scola; La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri; Chi lavora è proibito, di Tinto Brass; Mirafiori Lunapark, di Stefano Polito. In Romanzo Popolare Monicelli affida la parte dell’operaio protagonista al più amato attore dell’epoca, Ugo Tognazzi. E’ in questo contesto che nasce la passione di Paolo Micalizzi, ”operaio” Montedison che sarà poi socio Cds.

Ma la stessa eco si avverte nella musica, con i cantautori più popolari che denunciarono il mito della modernità, la falsa felicità prodotta dal boom economico: «Odio il boom economico. La modernità fatta di scandali e cambiali» (Guccini); e poi Endrigo, De Andrè, Jannacci, De Gregori, Bennato, Gaber.

In quel periodo nacque il femminismo e i CUB, Comitati Unitari di Base studenti-operai. A Ferrara gruppi politici come Potere Operaio, Lotta Continua e Il Manifesto, che inneggiavano a posizioni rivoluzionarie, ebbero però uno scarsissimo riscontro tra gran parte degli operai che seguivano il PCI/PSI, la sinistra DC e i sindacati. Non di meno influenzarono non poco le lotte e i contenuti che diventarono innovativi (inquadramento unico, aumenti salariali uguali per tutti, democrazia in fabbrica,…).

Su alcune questioni noi della sinistra extraparlamentare sbagliammo, ma sulle grandi questioni ci avevamo preso: la difesa di un modello socio-economico che valorizzava il lavoro e non solo il capitale (e tantomeno le rendite), l’importanza del ruolo dello Stato nell’economia, banche che fanno l’antico mestiere di prestare a tassi bassi a chi merita, l’uguaglianza come valore, avere scuola, sanità, pensione come beni universali, salari alti, cooperazione con tutti i paesi e quelli non allineati, la tassazione progressiva, una società senza poveri, uguali diritti per uomini e donne, un tempo per stare con sé e gli altri e non vivere solo di consumismo.

Tutti temi che ritornano centrali oggi, dopo la fase terribile della finanziarizzazione, avviatasi negli anni ’80 e ’90 che ha portato l’Occidente sull’orlo dell’abisso.

A Ferrara il gruppo maggioritario era quello di Potere Operaio, ma Il Manifesto, di cui Cardinali fu anche segretario, ebbe un ruolo importante e di dialogo con Cds e gli operai del petrolchimico allora impegnati su temi che diventeranno nazionali, come l’inquadramento unico, gli aumenti uguali per tutti, la formazione dei delegati di fabbrica. Cardinali che insegnava a quei tempi J.J. Russeau era amato dai suoi studenti.

Caro Sandro, quegli ideali non sono morti, vivono ancora oggi e ci sarà chi li porterà avanti, perché il desiderio di un mondo migliore non morirà mai. In tal senso le idee di Sandro e la sua umanità vivono nei nostri cuori.

Cover: Sandro Cardinali 

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Parole a capo
Daniele Cerioni: «Incantevole papavero» e altre poesie

Parole a capo <br> Daniele Cerioni: «Incantevole papavero» e altre poesie inedite.

 

La creatività consiste nel mantenere nel corso della vita qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare e ricreare il mondo. È l’onnipotenza del pensiero propria dell’età infantile.
(Donald Woods Winnicott)

 

Incantevole papavero

Sono nato fra i grappoli d’oro
e con la testa cinta di alloro.
Son cresciuto fra la polvere e la terra
deciso e avverso alla guerra.
Ho vissuto privo di nastri da mostrare
ma su montagne da scalare.
Ora campo nascosto
Fra penne e inchiostro
Camminerò coi piedi nudi
sulla bianca ghiaia
e aspetto conscio la vecchiaia.
Morirò solo e povero
Ma sarò incantevole e rosso
come un fiore di papavero.

 

 *

 

Il bacio di un angelo

 

Io la sera mi addormentavo
rapito da Morfeo…
e coi pugni chiusi
sognavo e volavo.
A volte navigavo…
Prima di addormentarmi
pregavo
e attendevo con ansia
il bacio della buonanotte
che non arrivava mai!
Ma la mattina mi svegliavo
con le labbra stampate sul volto…
Forse a baciarmi nel sonno
era un angelo
che, sbadato, cadeva dal cielo

 

*

 

La culla

 

In questo stato di perdizione
in questa culla mossa dal vento
mi dondolo e da solo mi coccolo.
In questo stato di ipnosi
provo a trovare il mio bimbo interiore
e da solo mi cullo…
Vorrei solo un bacio
o una carezza sul collo.

 

*

 

La maschera di fango

Stamattina indosserò una maschera
non da demonio, non da serpente
ma di fango,
per vivere felice la giornata.
così il dottore che mi vedrà
passeggiare per la città
Dirà che tutto va bene!
Stamattina indosserò una maschera
non da demonio, non da serpente
ma di fango o di creta…
ci sarà qualcuno che mi creda
fra le persone civili?
Che finalmente mi troveranno felice.
Esiste una maschera di fango anche per il cuore?
se così fosse fatemelo sapere
se così fosse fatemelo sapere.
Sono un collezionista di parole,
non sono un poeta
e che non beve vino
e alla sera al posto della dentiera
metterò la maschera di fango sul comodino

 

Foto di Christel da Pixabay

Daniele Cerioni (1979) è un poeta e favolista nato a Frascati. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università “La Sapienza” di Roma. Cresciuto ascoltando e apprezzando i più famosi cantautori italiani e da sempre appassionato di poesia, spinto da un’irrefrenabile voglia di esprimersi, inizia a scrivere testi nel lontano 2007, anno nel quale scrive dieci poesie; poi qualcosa si rompe e ricomincerà ad elaborare nuovi testi solamente nel marzo 2020, in piena pandemia da Covid-19. Durante il lock-down trova il tempo e l’ispirazione per poter stendere numerosi componimenti presenti nella sua prima opera “Pensieri(in)versiPAV Edizioni, 2022. Oggi Daniele, dopo la pubblicazione de “La libertà delle farfalle“, PAV Edizioni, 2024, continua a scrivere le sue poesie allargando la sua produzione anche al campo della scrittura dedicata ai più piccoli o dirette ai a quei bambini che più piccoli non sono ma sono fanciulli nell’animo. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Daniele Cerioni il 31 ottobre 2024.

Ringrazio Daniele Cerioni di averci autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie inedite.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 312° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Spallini per sempre: un nuovo libro di racconti su una passione senza fine

Spallini per sempre: un nuovo libro di racconti su una passione senza fine

Tifosi spallini per sempre’, il grande racconto della passione biancoazzurra. Edizioni della Sera, AA.VV., a cura di Cristiano Mazzoni.

Una raccolta di racconti spallini, dove la partita rimane sullo sfondo, dove protagoniste sono la passione, l’identità, la gioia d’essere un acronimo, un’iperbole di ritorno.
Dice “ma proprio adesso, anche dopo il millesimo fallimento, adesso che i biancazzurri corrono sui campi del Nonantola e del Gambettola?”
Certo, proprio ora, ancor di più. Per quei colori del cielo che hanno stregato generazioni di ferraresi e non ferraresi, per quelle righe strette che ci prendono il cuore dai tempi del cortile fino alla nostra dipartita.

E no, non sto esagerando. Venti e passa autori, eterogenei, differenti, con storie e percorsi di vita spesso agli antipodi hanno cercato di raccontare la spallinità declinandola in maniere diverse.
Ogni partita indicata nella raccolta è tassativamente autentica, il contenuto cambia a seconda delle diverse sensibilità. Dal racconto frutto di un’accurata ricerca storica, a quello più spontaneo e autobiografico, abbiamo cercato di allontanarci il più possibile dalle scontatezze e dalle ripetitive indicazioni sulla prima volta. L’arco temporale dei racconti è di circa settant’anni, dal 1957 al 2024. Il lettore, sia esso appassionato tifoso, simpatizzante o semplicemente alla ricerca di qualche ora di svago, ritroverà certamente una partita, un personaggio, un amico, un nonno di sua conoscenza.

Perché in maniera ossessiva e spesso compulsiva riteniamo la spallinità una diagnosi irreversibile? Perché questa specificità vera o presunta di una “malsana” passione per i colori che rappresentano la città?

Perché il ferrarese è la sua squadra del cuore. Gli undici ragazzi che da oltre un secolo sgambettano dalle parti di Corso Piave ne sono la sua immutata e immutabile rappresentazione. La stessa sfiga che aleggia sul simbolo del cerbiatto ne è la prova. La nebbia, il cigolio di una vecchia bicicletta coi freni a battente sul selciato di Ercole D’Este, laggiù verso la Casa del Boia sono il suo habitat. Il ferrarese, non emiliano, non romagnolo, e nemmeno veneto, rimane un essere strano, senza rappresentazione né rappresentanti. Un essere che si lamenta del caldo, del freddo e del tiepido, che bestemmia per il traffico in una giornata di pioggia ma che decide di prendere la superstrada per il mare alle undici del mattino di Ferragosto.

Un popolo in grado di spostare undicimila persone per una trasferta in serie C2, di andare in cinquemila a San Siro e di superare le cinquemila unità per l’esordio in Eccellenza. Gente strana, impastata tra umidità, zucca tritata, salama da sugo, clinto, brazadela, ciupeta e la S.P.A.L..

La S.P.A.L., appunto, il più bell’acronimo della storia calcistica italiana, dove Arte e Lavoro si mescolano, partendo da una sacrestia di salesiani fino a vincere per ben due volte la serie B. La S.P.A.L. non va raccontata partendo dalle vittorie (poche), ma dalle viscere di chiunque abbia calciato un Super Tele in un cortile di periferia.

La santificazione del dì di festa, un piatto di cappelletti fumante, una sciarpa di lana fatta all’uncinetto e il percorso fino al tempio incastonato a un chilometro dal castello di San Michele. Un tutt’uno con la città, a Ferrara non si va allo stadio o alla partita, si va “alla S.P.A.L.”, moto a luogo, trasfigurazione del tifoso con la propria squadra. In campo ci andiamo noi, quel colpo di testa, quella sforbiciata, quell’entrata vigorosa sono il nostro gesto atletico e nessuno mai potrà tagliare quel legame atavico e ancestrale.

Sabato 22 novembre alle ore 18.30 presso la libreria UBIK verrà presentato il libro “Tifosi spallini per sempre. Non mancate, vi divertirete e assaggerete il sapore romantico e unico dell’essere spallino.

Forza vecchio cuore biancoazzurro!

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi