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“Noi esistiamo”
Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna

“Noi esistiamo”. Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna

Quando, nel marzo del 1960, il batterista Max Roach pubblicò un disco dal titolo “We insist! Freedom now suite” (Noi insistiamo! La suite della libertà subito) aveva l’urgenza di attirare l’attenzione del mondo sul razzismo dilagante che pervadeva la società americana dell’epoca.

Significativa è la copertina dove si vedono tre ragazzi neri che praticano il lunch counter sit-in; in pratica, consumano il pranzo in un bar per soli bianchi e ci rimangono fino all’ora di chiusura, seguendo una pratica non violenta ispirata da Martin Luther King che suggeriva di restare nella zona per bianchi nonostante l’invito del titolare ad andare nei locali per neri.

È evidente il riferimento a quel disco, a quel periodo e a quelle lotte, che ha fatto la famosa cantante jazz Dee Dee Bridgewater quando, iniziando la sua tournée internazionale, ha voluto intitolare lo spettacolo: “We exist!” (Noi esistiamo).

Noi esistiamo” è un vero e proprio grido di lotta per affermare che di strada se ne è fatta tanta, ma molta ancora ne resta da fare per riuscire a creare un presente inclusivo e per progettare un futuro di pace.

Noi esistiamo” è un manifesto scritto a caratteri cubitali per dire che esistiamo come persone, esistiamo come donne e uomini dalla pelle di colori diversi, esistiamo come esseri umani unici.

Noi esistiamo” è una provocazione anche rispetto agli stereotipi e ai pregiudizi che fanno credere ai più che un quartetto composto da una cantante nera e da tre giovani donne musiciste (provenienti da Paesi diversi) sia musicalmente meno dotato rispetto ad un quartetto di musicisti maschi.

Nel concerto del 4 novembre scorso, organizzato dal Bologna Jazz Festival al Teatro Manzoni di Bologna, Dee Dee Bridgewater con la sua voce straordinaria, insieme alla pianista Carmen Staaf, alla contrabbassista Rosa Brunello e alla batterista Julie Saury hanno insegnato ai presenti che la qualità musicale non dipende dal sesso ma dalla preparazione, dalla sintonia e dall’empatia che chi suona riesce a creare con gli altri musicisti e con il pubblico.

Dee Dee Bridgewater riesce davvero a stare sul palco dimostrando bravura, eleganza, fierezza, carisma e forza, mentre le musiciste che ha scelto per il suo tour sono bravissime nel dare un contributo originale e significativo ad ogni brano che così risulta impreziosito. Il quartetto dialoga musicalmente in maniera ineccepibile e l’armonia che ne deriva è fantastica.

Per la Bridgewater, che oggi è universalmente riconosciuta come una delle migliori cantanti in attività, il jazz ha a che fare con la libertà e la democrazia; non è un caso quindi che abbia scelto di riarrangiare e di interpretare nei suoi concerti una serie di brani molto significativi che rappresentano una sintesi della sua storia personale.

Sono canzoni che parlano di discriminazione, di segregazione, di consapevolezza, di protesta, di lotta, di riscatto e del sogno di una società in cui le persone possano vivere da protagoniste del proprio destino, indipendentemente dal colore della pelle.

Nell’ordine, il quartetto ha interpretato magistralmente: People make the world go round (“Le persone fanno girare il mondo”) portata al successo dagli Stylistics nel 1971, Danger zone un vecchio brano di Percy Mayfield, un gigante delle ballate blues (“Sai che il mondo è in subbuglio, la zona pericolosa è ovunque, ovunque”), Trying times della grande Roberta Flack (La gente parla sempre della disumanità dell’uomo verso l’uomo ma tu cosa stai cercando di fare per rendere questa terra un posto migliore?), Mississippi goddam di Nina Simone (“L’Alabama mi ha fatto arrabbiare così tanto. Il Tennessee mi ha fatto perdere il sonno. E tutti sanno del Mississippi, accidenti. Tutto ciò che voglio è l’uguaglianza”), How it feels to be free di Billy Taylor (“Vorrei sapere come ci si sente ad essere liberi, vorrei poter spezzare tutte le catene che mi trattengono, vorrei poter dire tutte le cose che dovrei dire. Dirle ad alta voce, dirle chiaramente perché tutto il mondo le senta”), Throw it away di Abbey Lincoln (“Non puoi mai perdere nulla se ti appartiene”) e sempre della stessa interprete And it’s supposed to be love (“Ti sbattono a terra, ipnotizzano il tuo cervello, ti mandano all’altro mondo, e questo dovrebbe essere amore?”).

Ha terminato il concerto con una sorpresa, eseguendo una versione molto coinvolgente di Gotta serve somebody di Bob Dylan (“Potrebbe essere il Diavolo o potrebbe essere il Signore ma dovrai servire qualcuno”).

Dopo l’ovazione tributata più che meritatamente dal pubblico con una standing ovation, Dee Dee è tornata in scena per ringraziare e presentare Daisy, una bella cagnolina che rappresenta il suo “supporto emotivo”.

L’intero quartetto è poi salito di nuovo sul palco per un bis portentoso: una bella versione di Compared to what, scritta da Gene McDaniels ma resa famosa dal pianista Les McCann (“Il Presidente, ha la sua guerra, la gente non sa a cosa serva. Se hai un dubbio, lo chiamano tradimento. Dannazione!”)

Dee Dee Bridgewater e le musiciste che hanno suonato con lei hanno dato vita ad un concerto bellissimo, una performance efficace in termini comunicativi, un atto di una potenza politica enorme.

Non è casuale quindi che io torni a citare il pensiero del filosofo e sociologo tedesco Walter Benjamin quando affermava che “Quando la politica diventa spettacolo, spesso incivile, allora lo spettacolo deve diventare politica, civile”.

Lo faccio per ricordare ai lettori e a me stesso che abbiamo tutti un gran bisogno di una politica buona, quella che non viene espressa solo dai cosiddetti politici ma che viene praticata da tutte e tutti coloro che si impegnano per la crescita emotiva e relazionale di una società.

Anche le musiciste ed i musicisti hanno sicuramente un ruolo fondamentale in un processo di cambiamento che parta dal basso, a cominciare da se stessi.

Cover e fotografie nel testo di Mauro Presini

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Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Come abbiamo già ricordato nei precedenti articoli [Qui] [Qui] Nicola Chiaromonte nella sua attività di critico letterario e teatrale ha proposto una lettura della finzione come forma privilegiata di verità storica.

Non si tratta di una verità documentaria, ma di una verità che emerge dal rapporto tra l’individuo e l’evento, laddove l’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade a qualcuno. In questo senso la fiction del romanzo, diventa il luogo in cui si può indagare l’autentico rapporto tra l’essere umano e la storia, tra soggettività e catastrofe, tra sopravvivenza e trasformazione.

Qui per poter leggere meglio il presente intendiamo applicare il metodo di Chiaromonte alla fantascienza intendendola come “documento storico”, lettura chiaromontiana degli eventi del nostro presente.

Lo faremo attraverso alcuni romanzi di fantascienza scritti da tre autrici che hanno ridefinito il genere, spostando il centro della narrazione dalla figura dell’uomo a quella della donna. Si tratta di  Memorie di una sopravvissuta di Doris Lessing, I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.

In ciascuno di questi testi, la finzione non è evasione, ma rivelazione. Le protagoniste non sono eroine nel senso classico, ma testimoni di eventi che le travolgono e le trasformano. Le stesse autrici sembrano conformarsi al metodo di Chiaromonte dando vita alla storia “documentale” che parte dalla situazione presente,  attraverso la narrazione di storie (future) che riguardano corpi, libertà e memorie delle proprie protagoniste.

Nel romanzo Memorie di una sopravvissuta (1974), Doris Lessing costruisce un mondo in disfacimento, dove una donna senza nome – la protagonista invisibile – osserva il collasso della società e la crescita di una bambina, Emily, che le è stata affidata, senza alcuna spiegazione, insieme al suo inseparabile cane-gatto Hugo. Il tono è quieto, quasi contemplativo, e la narrazione si svolge in una dimensione sospesa tra realtà e sogno, tra cronaca e visione.

Secondo il metodo di Nicola Chiaromonte, ciò che conta non è tanto l’evento in sé, quanto il modo in cui esso si riflette nella coscienza di chi lo vive. La protagonista infatti non è un’eroina che agisce, ma una testimone che accoglie l’evento, lo lascia accadere, lo trasforma in memoria. In questo senso, la finzione di Lessing diventa una forma di verità storica: non quella dei fatti, ma quella dell’esperienza.

Non posso dire che cosa accadde. Non posso dire come accadde. Posso solo dire che accadde.

Quanti di noi sottoscriverebbe questa frase nella disperata ricerca di comprendere il presente che abbiamo sotto gli occhi!

Questa frase, che ricorre più volte nel testo, è emblematica se rapportata al metodo di Chiaromonte: l’evento non è spiegabile, comprensibile (storicismo volgare), ma solo narrabile. La protagonista non cerca di comprendere il collasso sociale, né di opporvisi. Lo osserva, lo registra, lo vive. E nel farlo, rivela una verità più profonda: quella del tempo interiore, della resistenza silenziosa, della cura.

Emily, la bambina, è l’altra figura centrale. Cresce, cambia, si ribella, si innamora. Ma soprattutto, attraversa il mondo. E la protagonista invisibile (la voce narrante) la accompagna, senza mai imporsi. In questo rapporto si manifesta una forma di maternità non biologica, ma esistenziale: la donna diventa custode dell’evento, archivio vivente della trasformazione.

Emily era cambiata. Non era più la bambina che mi era stata affidata. Era diventata qualcosa d’altro, qualcosa che io non potevo comprendere, ma che dovevo accettare.”

Il romanzo si chiude con una scena enigmatica: la protagonista e Emily attraversano un muro, entrando in una dimensione altra, forse simbolica, forse reale. Questo passaggio è il culmine della finzione come verità: non c’è spiegazione, ma c’è rivelazione. Il muro è il confine tra il mondo visibile e quello invisibile, tra la storia ufficiale e quella interiore.

Attraversammo il muro. E dietro il muro c’era il giardino. Non un giardino come quelli che conosciamo, ma un giardino che era anche memoria, sogno, possibilità.”

Nel romanzo I reietti dell’altro pianeta (1976), Le Guin costruisce un sistema binario con due pianeti, Urras e Anarres, che incarnano due visioni opposte del mondo. Urras è ricco, gerarchico, patriarcale; Anarres è povero, anarchico, egualitario. Il protagonista, Shevek, è un fisico teorico che cerca di costruire un ponte tra i due mondi, ma il vero cuore del romanzo è la tensione tra utopia e realtà, tra ideali e compromessi.

Secondo Nicola Chiaromonte, la verità storica non si manifesta nei sistemi ideologici, ma nella relazione con l’evento. In questo senso, Le Guin non propone una distopia né una utopia, ma una finzione critica che interroga il lettore sul senso della libertà, della comunità, della responsabilità. E lo fa soprattutto attraverso le figure femminili, in particolare Takver, compagna di Shevek, che incarna una forma di resistenza quotidiana e relazionale.

Takver era la mia vera rivoluzione. Non nei libri, non nei dibattiti, ma nel modo in cui mi guardava, nel modo in cui stava con me.”

Takver non è una figura marginale: è co-creatrice dell’evento. La sua presenza trasforma la ricerca scientifica di Shevek in un atto etico, incarnato. La finzione di Le Guin, in questo senso, rivela una verità storica che non è quella delle rivoluzioni, ma quella dei legami. La donna non è spettatrice, ma agente di cambiamento, anche quando il cambiamento è invisibile o viene montato ad arte come storia con la S maiuscola.

Il romanzo è costruito in modo circolare, con un’alternanza tra passato e presente, tra Anarres e Urras  perché… la storia non è lineare, ma esperienziale. L’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade (e può riaccadere) a qualcuno, e quel qualcuno è sempre situato, incarnato, vulnerabile.

La libertà non è un dono. È una scelta continua. È il peso che portiamo ogni giorno.”

Le Guin mostra che la libertà non è assenza di vincoli, ma capacità di stare nel vincolo e provare a trasformarlo. E le donne del romanzo – Takver, Bedap, le madri, le lavoratrici – incarnano questa libertà incarnata, relazionale, non eroica ma resistente.

In questo senso, I reietti dell’altro pianeta sarebbe stato scelto da Chiaromonte alla pari dei 5 romanzi da lui considerati in Credere e non credere per la sua analisi “storiografica”: la finzione non è costruzione ideologica, ma rivelazione esistenziale. La verità storica emerge nel modo in cui i personaggi vivono l’evento, lo attraversano, lo trasformano. E la donna, in Le Guin, è il luogo dove questa trasformazione si compie.

Nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood nel suo romanzo del  1985 Il racconto dell’ancella, nella teocrazia totalitaria chiamata Gilead, le donne sono private di ogni diritto e ridotte a funzioni biologiche. Le “ancelle” sono costrette alla procreazione per conto delle élite dominanti. La protagonista, Difred (Offred), racconta la sua storia in frammenti, tra ricordi del passato e resistenza silenziosa nel presente.

Qui la verità storica verrebbe scritta da una teocrazia come quelle che in questo momento caratterizzano il nostro presente (si pensi all’Iran, a Israele ma anche agli USA di Trump, alla Russia ortodossa di Putin e al Partito Unico cinese).

Nel romanzo della Atwood la protagonista non è una ribelle nel senso classico, ma una testimone. La sua voce, che narra in prima persona, è il luogo dove la finzione si fa verità: non una verità oggettiva, ma una verità esperienziale, incarnata.

Mi racconto questa storia per non dimenticare. Per non diventare pazza.”

La narrazione è un atto di sopravvivenza. Difred non ha potere, ma ha memoria. E la memoria, in Atwood, è resistenza. Qui la finzione distopica non è evasione, ma vero e proprio documento: un modo per registrare ciò che potrebbe accadere, ciò che è già accaduto, ciò che accade ogni giorno in forme diverse.

Niente cambia istantaneamente: in una vasca che si scalda lentamente, non ti accorgi di essere bollita.”

Questa frase è centrale per annoverare anche questo romanzo tra le prove a carico del “metodo  chiaromonte”: l’evento non è sempre catastrofico, ma può essere graduale, insinuante. La verità storica non è solo quella delle rivoluzioni, della “battaglia di Waterloo”, ma anche quella delle trasformazioni silenziose, delle normalizzazioni del male. E la donna, in Atwood, è il luogo dove questa verità si manifesta: nel corpo, nella voce, nella memoria.

Difred non è sola. Le altre donne – Serena Joy, Moira, Zia Lydia – incarnano diverse forme di adattamento, resistenza, complicità. Ma tutte sono dentro l’evento, e tutte lo rivelano. La finzione di Atwood è polifonica, e proprio in questa pluralità si rivela la verità storica: non un’unica narrazione, ma una costellazione di esperienze.

Quando ti tolgono la libertà, ti tolgono anche il linguaggio. E allora devi inventarlo.”

La lingua, in Atwood, è il primo luogo della resistenza. Difred inventa il suo racconto, lo frammenta, lo nasconde. Ma proprio in questa frammentazione si rivela la verità: la donna non è solo vittima, ma archivio vivente dell’evento. E la finzione, lungi dall’essere menzogna, è il mezzo attraverso cui questa verità può essere detta.

Nel metodo di Nicola Chiaromonte, la finzione non è una fuga dalla realtà, ma il suo più autentico riflesso. È solo attraverso l’immaginazione – quella “specie particolare di verità storica” che è la finzione – che possiamo accedere all’esperienza autentica dell’individuo, e, più in profondità, alla Grande Esperienza che ci accomuna tutti e che chiamiamo Vita.

I tre romanzi analizzati non sono semplici esercizi di genere, ma atti di testimonianza. In ciascuno, la donna non è solo protagonista: è generatrice di senso, custode dell’evento, narratrice della trasformazione.

Lessing ci mostra una donna che accoglie il collasso del mondo come soglia verso una nuova forma di memoria. Le Guin ci offre una figura femminile che, nella reciprocità, costruisce ponti tra mondi e tra visioni. Atwood ci consegna una voce che, nel frammento e nella resistenza, storicizza l’oppressione e la trasforma in racconto.

Chi meglio di una donna – che è biologicamente e simbolicamente generatrice – può raccontare la Vita? E chi meglio di una narratrice può storicizzarla, cioè renderla esperienza condivisibile, trasmissibile, universale?

E forse, a questo punto, varrebbe la pena porre rimedio a una questione (anche “storicamente”) incontrovertibile: c’è una storia che non può essere del tutto scritta, non perché manchino i fatti ma perché sono mancati  gli sguardi di tante, tantissime protagoniste invisibili, donne che non si permetterebbero mai di dire “abbiamo fatto la Storia” perché sanno bene che sono le storie, proprio quelle non ancora narrate, ad… averle fatte.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/pexels-2286921/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pexels</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pixabay</a>

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Per certi Versi / Intreccio giunchi

Intreccio giunchi

Compiuta è la fioritura
acerbe sono le spighe

ma è così matura la bellezza
sento il tuo calore
nell’intimo tocco
dei piedi nudi
prima dell’addio

mi faccio nuvola
poi pioggia
divento sole
poi neve
ma è già tempo andare

intreccio giunchi
con le mani callose
di mio nonno
e occhi pieni
di abbandono

 

In copertina: lavorazione dei cestini-immagine di sardegnaturimo.it

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Le tasse aumentano, anche se ci raccontano il contrario

Le tasse aumentano, anche se ci raccontano il contrario

Non ci sarebbe bisogno di statistiche o studi analitici: ogni volta che andiamo a fare la spesa ci accorgiamo che riempire il carrello ci costa un po’ di più, e il nostro stipendio ci sembra sempre più misero. In più arriva l’Istat a legittimare questa sensazione, documentando una riduzione del potere d’acquisto degli stipendi pari all’8,8% in quattro anniCosa significa questo? Che anche se gli stipendi aumentano nominalmente, l’inflazione aumenta in misura maggiore. Quindi ci sembra di avere più soldi in tasca, ma riusciamo a comprare meno cose.

Ma anche quando otteniamo aumenti adeguati, la beffa è dietro l’angolo: ci troviamo a subire un aumento nascosto delle imposte a causa del meccanismo del fiscal drag. Per spiegare di cosa si tratta, è necessario fare un esempio pratico. Immaginiamo un lavoratore che nel 2021 aveva un reddito imponibile di € 35.000. Com’è noto, i redditi vengono tassati con aliquote progressive. Quindi:

  • nessuna tassazione sui primi € 8.500

  • il 23% sullo scaglione tra € 8.500 e € 28.000

  • il 35% sullo scaglione tra € 28.000 e € 50.000

(Nel nostro esempio non prenderemo in considerazione l’ultimo scaglione, quello superiore ai 50.000 euro, tassato al 43%).

Il nostro lavoratore immaginario pagherà quindi:

  • il 23% su (28.000-8.500) = € 4.485

  • il 35% su (35.000-28.000) = € 2.450

per un totale di € 6.935. L’aliquota media applicata al suo reddito sarà quindi pari al 19,81%.

Immaginiamo che il nostro ipotetico lavoratore rientri tra i fortunati che riescono ad avere un rinnovo contrattuale con aumento di stipendio tale da fargli recuperare del tutto l’inflazione. Quindi, sommando le variazioni dei prezzi al consumo nel quadriennio in esame, avrebbe un aumento dell’17,6%: questo porterebbe il suo reddito imponibile a € 41.160. Di fatto, pur avendo più soldi in tasca, dovrebbe avere il medesimo potere d’acquisto, considerando che l’aumento di stipendio sarà esattamente pari all’aumento dei prezzi. Eppure… avrà ancora la sensazione di aver perso qualcosa. Sensazione legittima: pur non avendo aumentato la sua capacità di spesa, per il fisco sarà più ricco. Proviamo a ricalcolare le tasse sul nuovo importo:

  • il 23% su (28.000-8.500) = € 4.485

  • il 35% su (41.160-28.000) = € 4.606

per un totale di € 9.091. Non solo l’importo complessivo delle imposte è aumentato, e questo potrebbe essere comprensibile a seguito dell’aumento nominale. Ma – ed è qui che scatta l’aumento nascosto – la sua aliquota media è salita al 22,09%. Se prima dell’aumento il livello della sua tassazione era del 19,81%, l’aver subito una tassazione media del 22,09% lo ha portato a pagare circa 937 euro in più, a fronte di un potere d’acquisto invariato.

Il meccanismo può apparire complesso, e difficilmente viene compreso appieno dai contribuenti: che tuttavia si accorgono, ancora una volta, che fanno fatica a riempire il carrello della spesa, e non capiscono il motivo:  ma non avevano avuto il pieno recupero dell’inflazione? Tra l’altro la situazione ipotizzata è quella ottimale, che nella realtà dei rinnovi contrattuali non si verifica quasi mai. Nella grande maggioranza dei casi, l’importo del rinnovo è inferiore all’inflazione, generando un effetto perverso: chi lavora ha al tempo stesso una riduzione del potere d’acquisto, ed un aumento della tassazione media.

Il meccanismo sarà anche complesso, ma è ben chiaro a chi governa, che si guarda bene dall’applicare correttivi. Che sarebbero piuttosto semplici: basterebbe alzare le soglie degli scaglioni, adeguandole all’inflazione. Ma questo farebbe venir meno un incremento delle entrate che ha, fra i suoi meriti, quello di non venire immediatamente percepito, e quindi di non generare dissenso nei confronti di chi governa.

Che nel frattempo annuncia un taglio delle tasse, decisamente beffardo. Lo scaglione tra €28.000 e € 50.000 resta invariato, ma l’aliquota applicata scende al 33% (dall’attuale 35%).

Riprendendo il nostro esempio, per il lavoratore che ha appena ottenuto l’aumento il taglio delle tasse ammonterebbe a:

  • – 2% su (41.160-28.000) = € 263 circa.

In sintesi: mentre gli sventola davanti uno sconto di € 263 il fisco gli sottrae, senza dirglielo, € 674 (cioè la differenza tra € 937 dovuti all’aumento dell’aliquota media e € 263 restituiti)Senza contare che la riduzione dell’aliquota scatta solo per redditi superiori ad € 28.000. Cioè la minoranza dei contribuenti italiani, considerando che il valore medio delle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2024 non raggiunge i 25.000 euro. Questo vuol dire che per circa 7 contribuenti su 10 non ci sarà nessuna riduzione, ma subiranno comunque gli effetti perversi del fiscal drag.

Un vero capolavoro: lasciar aumentare le tasse mentre ci si vanta di averle tagliate. George Orwell e il suo immaginario Grande Fratello erano dei dilettanti al confronto.

Photo cover: Nature morte, tasse et théière – Camille Pissarro – Museum Langmatt – https://de.wikipedia.org/

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Vite di carta L'imperatore della gioia e Ocean Vuong

Vite di carta /
Le domande dei buoni libri: “La vegetariana” di Han Kang

Vite di carta / Le domande dei buoni libri: La vegetariana di Han Kang

La forza di un libro può cambiare i nostri pensieri, succede se i libri sono di valore.

Giorni fa mi arriva in biblioteca a Poggio Renatico La vegetariana di Han Kang, premio Nobel 2024 per la Letteratura. Lo ritiro e subito ne leggo l’incipit, che mi pare incolore: “Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante.” Chi parla in prima persona è il marito della protagonista, Yeong-hye e in questa prima parte del libro la sua narrazione si distende a descrivere le qualità ordinarie della moglie, la storia del loro matrimonio e la stranezza, l’unica, che lei ha compiuto in tanti anni. In seguito a un sogno di animali uccisi ha smesso di mangiare la carne.

Vado avanti a leggere e comincia a coinvolgermi lo sguardo di quest’uomo così distante dalla moglie, senza risorse per conoscerla prima di poterla capire, così concentrato sulla sua modesta carriera e sul quieto vivere come vessillo per vivere bene. Lei, intanto, è tenace nel rifiutare la carne e si allontana ogni giorno di più dalla cultura famigliare nella quale è cresciuta. Non la piega nemmeno lo schiaffo che le dà il padre, padrone autoritario della infanzia dei figli, come si scoprirà. La sua reazione è fulminea: è la festa della nuova casa della sorella maggiore In-hye, e lei davanti a tutti i familiari, al fratello Yeong-ho, ai genitori e ai cognati afferra un coltello e si taglia un polso.

La prima parte finisce con il suo ricovero in ospedale e il sangue rappreso sulla camicia del marito, mentre l’anziana madre le porta in stanza del cibo per spingerla a nutrirsi di carne, come prima.

Leggo la seconda e la terza parte e resto incatenata alla narrazione in terza persona, in cui il punto di vista è prima quello del cognato, marito di In-hye e padre del piccolo Ji-woo che ha cinque anni; infine nell’ultima parte è quello di In-hye, sorella maggiore e di fatto unico sostegno per Yeong-hye nella fase finale della vita.

Nella seconda parte viene raccontato l’approccio inusuale del cognato alla fisicità velata di mistero di Yeong-hye: lui la cattura come se fosse un’opera d’arte in progress, le dipinge il corpo di fiori sgargianti e poi la possiede con forza. Lei, che ha già fatto alcuni mesi di ospedale e fuori di lì conduce una vita sempre più silenziosa al riparo della propria casa, va in frantumi. Vuole far nascer fiori dal proprio corpo, vuole volare e si sporge dal balcone.

Mentre anche la seconda parte finisce in ospedale, il romanzo si fissa sulla figura della sorella In-hye. Che ha chiamato l’ambulanza per la sorella e anche per ricoverare il marito. Entrando in casa di Yeong-hye per portarle del cibo, ha scoperto entrambi in flagrante dopo il risveglio e da donna forte e pratica quale si è sempre mostrata ha preso provvedimenti.

La terza parte, la più straziante, quella scritta meravigliosamente come e più delle altre due, racconta la visita di In-hye nell’ospedale fuori Seul dove ha collocato la sorella, pagando le spese del  ricovero e facendole visite più frequenti dopo la fuga nella vicina foresta che Yeong-hye ha fatto tre mesi prima, alla ricerca di una sua agognata metamorfosi.

È la parte in cui In -hye racconta la sua sofferenza e l’insonnia che, come è accaduto alla sorella, le arrossa gli occhi e la fa sentire esausta. Per rispondere alla immagine che ha da sempre dato di sé a tutti quanti e a se stessa, continua a fare fronte alle necessità di chi ama, il figlio e la sorella, cercando di fare del suo meglio.

Ma lì, mentre attende di entrare nella stanza di Yeong-hye morente, mentre parla col medico che vista la sua gravità la vuole trasferire all’ospedale generale, assiste allo squarcio nel cielo di carta, come accade a tanti personaggi pirandelliani. Si vede vivere. Si pone le domande esiziali: forse sua sorella ha cercato fin da bambina la morte? Sarà che ha subito le percosse e la violenza del padre più di ogni altro in famiglia?

Arrivano le risposte. Una, soprattutto. Accade quando finalmente ascolta le ultime parole della sorella; comprende che sta andando in uno spazio che è oltre, in una dimensione che si allontana dall’umano per trasfondere il suo corpo tra gli altri alberi del bosco, albero esso stesso. Fatto di radici, rami e foglie. Non serve assumere cibo, bastano l’acqua e il sole.

Arrivano anche le domande che pongo a me stessa, sulla pazzia e sui territori a cui conduce. Possibile che sia il solo canale che può condurre a incontrare la natura e la terra? Che la fratellanza con gli alberi si stabilisca solo attraverso una metamorfosi che rinnega il vissuto della socialità con gli altri umani. Che la sorellanza con le foglie e con i rami riconduca all’antico mito di Dafne, ancora una volta a causa della sofferenza e della ripulsa?

Come nella scrittura così profonda di Han Kang, anche nei suoi personaggi, specie femminili, è contenuta una buona dose di bellezza. Lo dice la nudità senza imbarazzi né remore di Yeong-hye, il suo accogliere le foglie e i colori che il cognato le dipinge sulla pelle. Può ricordare la Ermione dannunziana, a patto di convertirne la sinergia con il bosco in un sentire totalmente naturale, senza alcun compiacimento.

 

 

 

Nota bibliografica:

  • Han Kang, La vegetariana, Adelphi, 2016

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Manovra finanziaria, Istat: più soldi ai più ricchi. Bankitalia: non riduce disuguaglianze

Manovra finanziaria, Istat: più soldi ai più ricchi. Bankitalia: non riduce disuguaglianze.

Istat e Bankitalia oggi audite in Commissione hanno espresso i loro rilievi sulla Manovra. Chiamarla stroncatura è forse istituzionalmente eccessivo ma la sostanza non cambia. Prima il presidente dell’Istat Francesco Maria Cheli, poi il vice capo Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia Fabrizio Balassone hanno illustrato le loro osservazioni davanti alla commissione Bilancio di Camera e Senato, in audizione sulla Legge di Bilancio.

È una manovra modesta. Stiamo parlando di 18,7 miliardi, calcola Istat: “Corrispondenti a meno di un punto percentuale di Pil, ed è finanziata sostanzialmente in pareggio di bilancio”. Ma la vera denuncia arriva nella frase successiva: “Una quota consistente di finanziamento è garantita da misure non strutturali, come la rimodulazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e il contributo di banche e assicurazioni”. Ora ci domandiamo: ennesima rimodulazione del Pnrr e in quale direzione? E poi, siamo davvero certi che il contributo di banche e assicurazioni arriverà, e soprattutto in quale forma? Prestito, anticipo o cosa?

Irpef e riduzione delle tasse

Ma quale riduzione delle tasse a favore del ceto medio. Già la Cgil ha dimostrato conti alla mano come la rimodulazione delle aliquote Irpef praticamente non porterà nessun beneficio a chi ha redditi medi e bassi, e per di più a causa del fiscal drag il governo ha prelevato indebitamente 25 miliardi nel triennio 2022-2024 dalle tasche di lavoratrici e lavoratori.

Ora è Istat ad attestare che i vantaggi della rimodulazione delle aliquote portando quella al 35% al 33% vanno soprattutto – meglio dire quasi esclusivamente – nelle tasche delle famiglie più ricche. In ogni caso stiamo parlando di un minor gettito di 2,4 miliardi, chi ne beneficerà?

Secondo Bankitalia ci sono criticità anche sul fronte degli sgravi fiscali per i rinnovi contrattuali, dagli interventi di detassazione “emergono incertezze sulle modalità di attuazione della misura e sul perimetro dei beneficiari”. Inoltre, l’impatto sulla contrattazione sarebbe contenuto: “La capacità delle nuove norme di accelerare i rinnovi appare limitata”, ha spiegato Balassone, ricordando che circa il 40% dei dipendenti privati ha già accordi in vigore oltre il 2026.

Si favoriscono i ricchi

Le cifre di cui stiamo parlando sono presto fatte. Scrive Francesco Maria Cheli che la modifica delle aliquote “coinvolgerebbe poco più di 14 milioni di contribuenti, con un beneficio annuo pari in media a circa 230 euro”. Dunque, 230 diviso i 12 mesi dell’anno fa 19,1 euro al mese. Ma a chi andranno? E qui lo sconcerto arriva forte portando con sé la domanda: ma al ministero del Tesoro sanno far di conto? Si legge nell’Audizione dell’Istat: “Oltre l’85% delle risorse sono destinate alle famiglie dei quinti più ricchi della distribuzione del reddito: sono infatti interessate dalla misura oltre il 90% delle famiglie del quinto più ricco e oltre due terzi di quelle del penultimo quinto”. E per di più, è sempre l’Istituto ad affermarlo: “Per tutte le classi di reddito il beneficio comporta una variazione inferiore all’1% sul reddito familiare”.

Sul piano redistributivo, Bankitalia rileva che la manovra fa poco per ridurre le disuguaglianze tra le famiglie: “Le misure a sostegno del reddito non comportano variazioni significative nella distribuzione del reddito disponibile”, ha sottolineato Balassone. La riduzione dell’aliquota Irpef per il secondo scaglione di reddito, ha aggiunto, “favorisce i nuclei appartenenti ai due quinti più alti della distribuzione, sebbene con un impatto percentualmente modesto”, mentre gli interventi di assistenza sociale si concentrano sui redditi più bassi, ma con effetti anch’essi “limitati”.

I conti, negativi, della sanità

La domanda che forse può essere solo sussurrata è: ma visto che la riduzione delle aliquote Irpef favorisce le famiglie più ricche non sarebbe meglio mettere quei 2,4 miliardi di minor gettito nella sanità pubblica? Ce ne sarebbe bisogno davvero visti i numeri snocciolati da Cheli. Sono oltre 41 i miliardi spesi di tasca propria dalle famiglie per consentire ai propri cari di curarsi, vista l’inefficienza della sanità pubblica. Ma a questa cifra ne va affiancata una più allarmante: nel 2024 il 9,9% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a curarsi per problemi legati alle liste di attesa, alle difficoltà economiche o alla scomodità delle strutture sanitarie: si tratta di 5,8 milioni di individui, a fronte di 4,5 milioni nell’anno precedente (7,6%). A rinunciare alle cure sono soprattutto gli anziani e le donne.

In questi numeri c’è lo svelamento delle menzogne del governo. Non è affatto vero che si è risolto il problema delle liste di attesa, visto che queste lungaggini sono tra le prima cause della rinuncia alle cure, così come non è vero che tanti soldi sono stati destinati alla sanità pubblica visto che oltre un milione di cittadini in più non si è curato mettendo così seriamente a rischio la propria salute.

Il fallimento dei bonus

In conferenza stampa Meloni non solo ha difeso la logica dei bonus ma ha affermato che aumentano gli aiuti alle famiglie perché si reitera il bonus mamme. Ma stiamo parlando di uno strumento perverso, non fosse altro perché arriva a un quarto scarso delle lavoratrici con figli alle quali arriverà un contributo di 60 euro mensili. A parte la scarsità del contributo, ma tutte le altre madri lavoratrici?

Pensioni, attenzione al meccanismo di adeguamento

Balassone ha invitato alla prudenza sul fronte pensionistico: “Sarebbe meglio non toccare troppo il meccanismo di adeguamento dei requisiti di accesso alla pensione alla speranza di vita”, ha affermato, ricordando che tale sistema è stato introdotto “per una questione di equità intergenerazionale, al fine di mantenere un equilibrio tra tempo di lavoro e pensione”. Un suo indebolimento, ha aggiunto, potrebbe comportare “un aumento della spesa in prospettiva che renderebbe più complessa la gestione della finanza pubblica”, pur riconoscendo che l’intervento previsto è “limitato nel tempo”.

Ufficio complicazione affari semplici

Più volte abbiamo denunciato come soprattutto i cittadini e le cittadine più fragili facciano davvero fatica sia a conoscere i propri diritti che a riuscire ad ottenerli. Ci sarebbe, quindi, bisogno di semplificare. Invece Meloni, Giorgetti e chi per loro “studia” le misure da inserire in manovra o si sono sbagliati o non hanno capito cosa hanno fatto. Hanno però raccontato che hanno ampliato i criteri per la definizione dell’Isee, ebbene – sempre secondo Istat – la riforma, dello strumento, che riguarda una serie di agevolazioni (dall’assegno unico al bonus nido), “il legislatore introduce una nuova tipologia di Isee che si andrebbe ad aggiungere a quelle già esistenti (Isee ordinario, Isee universitario, Isee minorenni con genitori non coniugati, Isee socio sanitario, Isee socio sanitario residenze, Isee corrente), aumentando il grado di complessità dello strumento“. Anche in questo caso, davvero un bel risultato.

Taglio dell’Irpef: 408 euro ai dirigenti, 23 agli operaiirpef

La riduzione di due punti di aliquota Irpef “riguarderà poco più del 30% dei contribuenti (circa 13 milioni, che sono oltre i 28.000 euro di reddito), determinando a regime una riduzione di gettito Irpef di circa 2,7 miliardi, cifra leggermente inferiore a quanto riportato nella Relazione tecnica”. Lo rileva la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio Lilia Cavallari in audizione sulla manovra in Parlamento. “Circa il 50% del risparmio di imposta va ai contribuenti con reddito superiore ai 48.000 euro, che rappresentano l’8% del totale”, aggiunge, precisando che “il beneficio medio è pari a 408 euro per i dirigenti, 123 per gli impiegati e 23 euro per gli operai. Per i lavoratori autonomi è di 124 euro e per i pensionati di 55 euro”.

* ) Roberta Lisi
Giornalista con interessi nel campo della comunicazione politica, economica, sociale e del lavoro. Giornalista parlamentare dal 2016 e per oltre 10 anni redattrice di RadioArticolo1. È attenta alle tematiche dell’emancipazione femminile. Ha collaborato alla stesura dell’«Agenda ottomarzo», al bimestrale «Leggendaria» e al mensile «Noi donne» e ha pubblicato Il tempo della maternità (1993). Per Donzelli ha curato, con Altero Frigerio, Lavorare è una parola (2020), Pubblico è meglio (2021). Per Strisciarossa, nel 2023 ha collaborato alla stesura di Facciamo Pace.

In copertina: diseguaglianza – immagine di unsic.it

Presto di mattina /
L’albero delle nebbie

Presto di mattina. L’albero delle nebbie

Nebbia

no, la nebbia non quella
di novembre tra i fossi
miei della Cesana
o fitta al Monte del Vescovo
sopra ceppi e cipressi,
restano punte verdi
e isole sospese
di quercelle, si perdono foglie,
s’alzano grida,
ma uno scotano rosso
la trapassa,
e t’appartiene,
t’appartiene il filare
che più non vedi

Tra piante e nebbia

sempre con voi boschi
e le memorie, contro la fuga
orrida dei giorni?
sempre alle foglie attaccato,
a questi rami di scotano
arancioni per l’autunno?
no, non nei miei campi,
in una macchia immensa
siamo entrati, Jacopo,
estranea alle memorie,
e la nebbia sale
su dal mare,
cancella il pungi topo,
il muschio verde,
grigia più del fungo
velenoso che li cresce
e pende…
ora è nera la nebbia,
nera ogni foglia,
solo una bacca rossa,
non la conosco,
magari nasce solo in questa selva
d’una luce s’accende
fioca e tenace
(Umberto Piersanti, L’albero delle nebbie, Einaudi, Torino 2008, 80; 126-127)

“No, la nebbia non è quella di novembre…”. «Di che nebbia si tratta allora? Di quella che fa nera ogni cosa, la vita; solo una bacca rossa, debole lume, tenace resiste. In questa macchia di nebbia, caligine impalpabile, sono entrati il poeta e il figlio Jacopo, segnato da grave autismo. Nebbia. È il mondo del figlio boscaglia di nera nebbia estranea alla memoria che, salendo alla coscienza, cancella ogni cosa.

Il poeta non può penetravi se non sfiorandola con le parole. Così la parola poetica che spunta appena sopra la pervasiva bruma, assomiglia allo “scotano rosso” e alle sue infruttescenze vaporose dall’effetto nebbioso, che trapassa il grigio raccogliendo in sé quello che non puoi vedere. E annota Piersanti: «L’albero delle nebbie è lo scotano: il suo acceso colore rosso-arancione nei giorni d’autunno attraversa anche la nebbia più folta» (ivi 161).

Parole inzuppate di nebbia

In agguato, ai margini delle radure, il bracconiere di parole attende che scenda la nebbia, solo allora si aggira furtivo tra i tronchi abbattuti, ramaglie in disfacimento, tra i ceppi divelti, muschi, muffe, fogliame fradicio, in decomposizione. Anche lì forse nell’assurdità del vivere possibili tracce di vita, di una segreta complicità e resistenza.

È uscita, per i tipi di Adelphi che ne ha pubblicato le opere negli anni, un’ultima raccolta inedita di scritti di Emile Cioran: Esercizi negativi, Milano 2025.

L’assurdo e il non senso della vita sono invece la nera nebbia in cui sono inzuppate le parole, il pensiero filosofico, la vita stessa del saggista e aforista rumeno Emil Cioran (1911- 1995), reso apolide dal destino e francese da vocazione letteraria. Agli inizi era vicino all’esistenzialismo; se ne distanziò gradualmente per praticare sempre più un pessimismo radicale e un nichilismo provocatorio rivolto soprattutto ad ogni forma di ideologia.

Prossimo a una filosofia dell’assurdo sostenuta dall’amico Eugène Ionesco, posizione presa per l’impossibilità di poter spiegare la realtà percepita come esclusivamente insensatezza e irrazionalità, egli scrive: «Quello che ci distingue dai nostri predecessori è la disinvoltura davanti al Mistero. L’abbiamo persino sbattezzato: così è nato l’Assurdo… Inganno dello stile: dare alle tristezze abituali una forma insolita, abbellire le piccole sventure, addobbare il vuoto, esistere mediante la parola, mediante la fraseologia del sospiro o del sarcasmo!» (Sillogismi dell’amarezza, Adephi, Milano 2001, 15).

«Giornate intere in cui devo lottare contro questa nebbia che mi scende sul cervello… Il clima del deserto è l’unico adatto alla mia natura. E non solo il clima; il deserto intero mi chiama, mi affascina, mi è necessario. Invece mi trascino nelle città; soffoco in strada, sto accanto agli umani. Io valgo solo in quanto non aderisco al mondo» (Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001, 91).

“Il sorriso grigio della nebbia”

«Nella passione del vuoto solo il sorriso grigio della nebbia anima ancora la decomposizione grandiosa e funebre del pensiero. Dove siete, nebbie crudeli e ingannatrici, se indugiate a invadere una mente offuscata? In voi vorrei distruggere la mia amarezza e nascondere un terrore più vasto del crepuscolo del vostro fluttuare! Quale Nord scende nel mio sangue!» (Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, Milano 2024, 151).

E tuttavia anche nella nebbia troviamo minimi spazi di manovra, stretti pertugi rischiarati; brevi intervalli luminescenti che ravvivano e sfumano il limite delle cose: «A un certo punto, avvolto nella bruma sul sentiero che domina la Senna, mi sono ripetuto questa frase capitale di Valéry: “Il sentimento di essere tutto e il fatto evidente di non essere nulla”, senza provare alcun brivido disperato.

Al contrario, una grande sicurezza, il sentimento di una certezza senza incrinature… 27 febbraio. Cinque ore di passeggiata nella nebbia, tra Etampes e Dourdan. La nebbia, l’unica cosa che non mi ha mai deluso, la cosa più riuscita sulla faccia della terra… 29 ottobre – Nebbia leggermente dorata, e foglie color rame, al Luxembourg. Ma in me l’autunno è ancora più avanzato… Ieri, nella foresta di Rambouillet. — Nebbia e pioggerella – è quel che ci vuole per il camminatore. La nebbia ravviva qualsiasi cosa sfumandone i contorni, soprattutto quando si insinua in una foresta. Ogni albero sembra allora una preghiera materializzata» (ivi, 1127; 1406; 346; 796).

Una nebbia fatta di nulla e di amarezza

Anche da questa nebbia fatta di nulla, nebbia di decomposizione delle forme e di ogni altra cosa o affezione, in questa nera e disperata oscurità resistono le parole oltre se stesse. Sta un resto di poetica anche se sospesa nel vuoto, segnata da ambiguità e contraddizioni, soggetta a continue metamorfosi.

In un saggio di Paolo Vanini, Cioran e l’utopia. Prospettive del grottesco, Mìmesis 10, Mimedizioni, Milano 2018 egli ha inteso mostrare come il grottesco sia una delle caratteristiche della poetica di Cioran, dove grottesco etimologicamente richiama un luogo lontano dalla luce. Il grottesco è il mondo estraniato con una struttura ambivalente, in una forma ad un tempo ridicola e terrificante:

«Cioran matura la consapevolezza che quella degli uomini è una realtà la cui fisionomia tende al deforme, all’irregolare, all’eccentrico – in una parola, al grottesco: a ciò che è bizzarro e aberrante nello stesso istante, a ciò che muove al riso pur non suscitando allegria, a una figura la cui mostruosità e il cui fascino dipendono dalla fusione di parti ed elementi tra di loro incompatibili, a una commistione demoniaca di infimo e sublime che eccede le consuetudini della bellezza, della bruttezza e della normalità» (ivi, 23).

E ancora: «Ogni volta che passeggio nella nebbia, è più facile svelarmi a me stesso. Il sole ci rende estranei a noi stessi perché, mostrando il mondo, ci lega ai suoi inganni. Ma la nebbia è il colore dell’amarezza … Vi è tanta nebbia nel cuore dell’uomo, che i raggi di un sole qualsiasi, una volta entrati, non ne escono più. E vi è tanto vuoto nei suoi sensi dissipati, che colombe folli, le ali lacerate dai venti, errano sulle vie che lo avvicinavano al mondo» (Crepuscolo dei pensieri, 23; 178).

Le parole, una tattica di resistenza

La parola tuttavia resta, per Cioran, l’unico modo per sopravvivere e addolcire l’assurdo del vivere, anche se l’afflizione non conosce riscatto: «Se per un prodigio le parole svanissero, la nostra ebetudine, la nostra angoscia diverrebbero intollerabili. L’improvviso mutismo ci ridurrebbe al supplizio più crudele. E l’uso del concetto che ci dispensa dal contatto con terrori che attraversano la vita.

Noi diciamo: la morte e questa astrazione ci impedisce di vederla, di percepirne l’infinito e l’orrore. Battezziamo le cose e gli eventi per eluderne l’Inesplicabile intrinseco e terrificante. L’attività dello spirito è così un imbroglio salutare, un sistematico gioco di prestigio. Ci permette di circolare dentro una realtà addolcita, confortante e inesatta… Ma quando si ritorna in sé e si è soli – senza la compagnia delle parole- si riscopre l’universo privo di qualificazioni, l’oggetto puro, l’evento nudo» (Esercizi negativi, 152-153).

Anche se la parola poetica non conosce speranza: «Tra la poesia e la speranza l’incompatibilità è totale. Giacché la poesia non esprime se non ciò che si è perduto o ciò che non è – nemmeno ciò che potrebbe essere. Il suo significato ultimo: l’impossibilità di ogni attualità. E in tal senso che il cuore del poeta non è nient’altro che lo spazio interiore e incontrollabile di una appassionata decomposizione. Chi mai oserebbe chiedersi come egli abbia sentito la vita, dal momento che è stata la morte a renderlo vivo?» (ivi, 129), tuttavia si afferma pure: «La vera poesia comincia al di là della poesia; e questo vale anche per la filosofia, per ogni cosa» (Sillogismi dell’Amarezza, Adelphi, Milano 2001, 15).

Vicino da lontano l’assoluto come la poesia: «Sono infinitamente più vicino alla musica e alla poesia che non alla saggezza o alla religione. Il fatto è che per me l’assoluto è questione di umore. Esige continuità, ed è proprio quello che mi manca» (Quaderni, 10101).

“Esercizi di Ammirazione”

C’è anche vita dentro le nebbie. Non solo Esercizi negativi dunque, ma Esercizi di ammirazione. È il caso proprio di una raccolta che porta questo titolo, un lavoro raffinato sulla lingua e linguaggi d’altri, ritratti di scrittori dove l’ammirazione non manca di contrasti e battibecchi molto accesi. Non è intellettualismo, quello di Cioran, ma tende all’esercizio più grande: quello di affrontare i problemi e i paradossi della realtà permeata dalle nebbie dei suoi travagli, tormenti, contraddizioni.

Il ritratto di Maria Zambrano coglie con grande lucidità la natura originaria della sua parola. Nascente dall’esperienza incandescente dell’Altro e non dal linguaggio riflessivo su di esso, «Maria Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea, ha salvaguardato la sua essenza unica mettendo l’esperienza dell’Insolubile al di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato la filosofia. È vero ai suoi occhi solo ciò che precede o segue il detto, solo il verbo strappato agli intralci dell’espressione o, come dice magnificamente, la palabra liberada del lenguaje.

Fa parte di quegli esseri che si rimpiange di incontrare troppo raramente, ma ai quali non si smette di pensare e che si vorrebbe capire o almeno intuire. Un fuoco interiore che si sottrae, un ardore che si dissimula sotto una rassegnazione ironica: in Maria Zambrano tutto sfocia in altro, tutto comporta un altrove, tutto. Se si può discutere con lei di qualsiasi cosa, si è comunque sicuri di scivolare presto o tardi verso interrogativi capitali senza seguire per forza i meandri del ragionamento» (Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, E-book, Adelphi, Milano 2014, 95).

Lei non era di qui…”

Emil Cioran con le parole “Lei non era di qui” si riferisce, pur non nominandola, a Susana Soca, (1906-1959), poetessa uruguaiana, vissuta dal 1938 al 1948 in Francia, sua ispiratrice a cui dedica un ritratto negli Esercizi di ammirazione: «L’ho incontrata due volte soltanto. È poco. Ma lo straordinario non si misura in termini di tempo. Fui conquistato di colpo dalla sua aria d’assenza e di spaesamento, dai suoi sussurri (lei non parlava), dai suoi gesti incerti, dai suoi sguardi che non aderivano agli esseri né alle cose, dal suo portamento di spettro adorabile.

“Chi è lei? Da dove viene?” era la domanda che si sarebbe voluto rivolgerle a bruciapelo. Non avrebbe potuto rispondere, a tal punto si identificava con il proprio mistero o riluttava a tradirlo. Nessuno saprà mai come faceva a respirare, per quale smarrimento cedeva ai sortilegi del fiato, né che cosa cercava fra noi. Quello che è certo è che non era di qui e condivideva la nostra caduta soltanto per educazione o per qualche curiosità morbosa.

Solo gli angeli e gli incurabili possono ispirare un sentimento analogo a quello che si provava in sua presenza. Fascinazione, sovrannaturale malessere! Nell’istante stesso in cui la vidi, mi innamorai della sua timidezza, una timidezza unica, indimenticabile, che le conferiva l’aspetto di una vestale stremata al servizio di un dio clandestino oppure di una mistica devastata dalla nostalgia o dall’abuso dell’estasi, per sempre inadatta a recuperare l’evidenza!» (ivi, 111).

Lei non era qui… Chissà perché a scorrere questo ritratto già dalla prima volta mi è venuto da associarlo all’immagine della “parola originaria” che si genera nell’esperienza, che gemina dalla trasparenza dell’intuizione; parola originaria che tuttavia si sottrae, o meglio si dissolve oscurandosi nel momento in cui diventa parola originata nel grigio della nebbia del linguaggio.

Insonnia nel vento che muove il desiderio

«Il gemito del vento nella notte è l’immagine del tempo, che, risvegliato violentemente dalla sua marcia sonnolenta, cerca di porvi fine in un’ultima furia. … E noialtri – i cui ricordi sepolti sono attizzati dalla sua vertigine – dal vento veniamo strappati a noi stessi, assieme a tutto il nostro passato» (Finestra sul nulla, Adelphi, Milano 2022, 43).

Nella sua vita Emil Cioran fu segnato e tormentato pesantemente dall’insonnia, «vertiginosa lucidità» – il «disastro per eccellenza», il «nulla senza tregua» – così egli scriveva per ingannare le notti interminabili di veglia per non uscire di senno.

Insonnia: il suo dramma è il tempo che non passa, sosta sulla soglia tra l’essere e il nulla, tra l’assoluto e l’assurdo, terra contrastata, lacerata, in ostaggio tra due contendenti: il rifiuto e l’invocazione. Così «l’insonnia ci dispensa una luce che non desideriamo, ma alla quale inconsciamente tendiamo. La reclamiamo nostro malgrado, contro di noi. Per suo tramite – e a discapito della nostra salute – cerchiamo altro, verità pericolose, nocive, tutto ciò che il sonno ci ha impedito di intravedere. Eppure quelle insonnie ci liberano dalle nostre facilità e dalle nostre finzioni solo per metterci di fronte a un orizzonte bloccato: esse illuminano le nostre impasse. Ci condannano mentre ci liberano: equivoco inseparabile dall’esperienza della notte» (ivi 101).

L’esperienza dell’insonnia: veleno e farmaco, irritazione e consolazione, stridente e dolce tra sterpi e anemoni: «Una volta che il veleno dell’insonnia ti ha depravato l’essere, niente può più accadere sotto il sole senza irritarti. Tranne, forse, un dialogo di fiori sulla morte» (Crepuscolo dei pensieri, 120).

«Solo il pensiero di Dio mi tiene ancora in piedi. Quando annienterò la mia fierezza, potrò coricarmi nella sua culla misericordiosamente profonda e addormentare le mie insonnie, con la consolazione del Suo vegliare? Al di là di Dio non ci resta altro che il desiderio di Lui. Ogni stanchezza nasconde una nostalgia di Dio» (ivi, 179).

Sotto l’albero delle nebbie

L’insonnia cantilena nel vento che alita sulla bruma sibilando e sillabando il ruminare dei pensieri: “ch’è la vita, [questa] vita che si dispera e che perdura”?

Notte d’insonnia e vento
gli anemoni lucenti
tra gli sterpi
non ora che il vento penetra
e fischia alle serrande
avvolge e schianta rami
su palazzi, torri di metallo,
è sceso dall’Atlantico schiumoso
tra le chiese di Francia,
gli ampi castelli,
ora nell’Appennino urla e s’affanna
poi geme come il male
che mi tiene – mi duole il petto
e il piede – qui aggrappato,
strette le mani contro la spalliera

distante, quanto
quasi non rammenti
la banderuola che stride
sul torrione un altro volto
chiama, altra vicenda
chiude, la dispone
tra Mondavio e quei monti
giù al confine
e tra il vento ripeti
ch’è la vita,
vita che si dispera
e che perdura
(Umberto Piersanti, Nel tempo che precede, Einaudi, Torino 202, 117-118)

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/ilonaburschl-3558510/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5822148″>Ilona Ilyés</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5822148″>Pixabay</a>

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

MELONI-MACRON: IL NUOVO ASSE DEL PROIBIZIONISMO

Meloni e Macron, spesso litigiosi, inaugurano una “santa alleanza” neoproibizionista e si mettono alla guida del rilancio della war on drugs. Mentre nel mondo la società civile è impegnata a riformare l’approccio repressivo, fallimentare da ogni punto di vista.
L’articolo di Leonardo Fiorentini su l’Unità del 24 ottobre 2025.

Macron e Meloni hanno bisticciato fino all’altro ieri, almeno fino al bacio di giugno che ha teatralmente normalizzato i rapporti fra Italia e Francia. Ora cercano un terreno comune per dare l’abbrivio utile al riavvicinamento: cosa c’è di meglio della lotta alla droga per farlo?
Del resto, fin dal secolo scorso la lotta contro il “problema globale delle droghe” è diventata il terreno ideale per superare le divisioni fra gli Stati. Dimostrarsi inflessibili contro il demone della droga è riuscito a unire per decenni USA, URSS, Cuba, Cina e Iran. Certo, oggi – nel pieno della dottrina Trump – i rapporti sono molto più fluidi, oltre che tesi, ma le droghe restano un jolly sempre utile da pescare.
Così, a margine del vertice della Comunità politica europea (EPC) a Copenaghen, che ha approvato un documento sulle droghe ricco di parole d’ordine tanto solenni quanto invecchiate male, Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno lanciato congiuntamente la nuova Coalizione europea contro la droga. Se i leader europei si impegnano a “salvaguardare l’integrità delle nostre società”, il presidente francese e la premier italiana si mettono alla guida della riscossa della war on drugs. Cosa che farà felice il sottosegretario Mantovano, che ritrova una sponda internazionale dopo essere appena uscito – improvvisamente – dal gruppo Pompidou sulle droghe del Consiglio d’Europa, forse troppo incline a tener conto delle evidenze sull’efficacia della riduzione del danno.Nello scarno comunicato di Palazzo Chigi – agli uffici stampa basta evocare il demone per far serata – si sottolinea l’importanza della piena attuazione del principio follow the money. L’azione di repressione dell’offerta dimostra del resto ogni giorno la propria inefficacia.
A guardare i dati diffusi in questi giorni dalla Direzione centrale dei servizi antidroga, si comprende bene come i sequestri di sostanze siano assolutamente incapaci di incidere sul mercato illegale. Basta un sequestro “record” per far impennare le quantità, che crollano inesorabilmente l’anno successivo. Succede un po’ per tutte le sostanze, ma quest’anno è lampante per la cocaina (–44% di quantità sequestrata a fronte di un aumento del 10% delle operazioni) e per le droghe sintetiche (+419% di dosi sequestrate a fronte di “sole” 379 operazioni, +12%).
L’unico reale dato di novità che emerge dalla relazione è il trend del crack, i cui sequestri sono quasi quadruplicati dopo il Covid, mentre gli arresti sono decuplicati dal 2019.
Eppure di crack il governo non parla, impegnato com’è nella sua crociata contro la canapa o nell’evocare lo spettro del fentanyl. Quando ne parla, lo fa strumentalmente e male, come successo per le pipette distribuite a Bologna, al limite invocando qualche inutile zona rossa e lasciando la patata bollente ai sindaci (soprattutto a quelli di centrosinistra), che devono gestire gli effetti di spaccio e consumo nei quartieri.Follow the money diventa così l’asso di briscola: se non si riesce ad impedire il mercato, tanto vale cercare di individuare e intercettare i proventi del narcotraffico. Peccato che anche lì le cose non vadano storicamente benissimo. Se si stima, benevolmente, che i sequestri di narcotici rappresentino il 5-10% della quantità immessa sul mercato, per quanto riguarda il recupero del denaro riciclato questa percentuale scende sotto l’1%.Ma in fondo che importa che funzioni o meno? L’importante è costruire l’unità contro il male e poter raccontare di una nuova “Santa Alleanza” dei “puri” contro i “peccatori”. Una linea di restaurazione che vede gli Stati Uniti di Trump in pole position, nel tentativo di riportare il mondo sulla retta via della sacralità e ineluttabilità della war on drugs.Questa però fa ormai acqua da tutte le parti, tanto che perfino il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) ha pubblicato un rapporto che intreccia per la prima volta in maniera organica politiche sulle droghe e Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (SDG).
Il report sottolinea come i mercati illegali, dominati dal crimine organizzato, ostacolino sviluppo, sicurezza e democrazia, mentre la criminalizzazione alimenta stigmatizzazione e barriere nell’accesso ai servizi sanitari. Allo stesso tempo, le comunità più marginalizzate – dai piccoli produttori rurali ai consumatori – pagano il prezzo più alto.
Anche l’UNDP invita a un cambio di paradigma: integrare le politiche sulle droghe nelle strategie di sviluppo sostenibile, valorizzare approcci equi e sensibili al genere, promuovere mercati legali regolamentati che garantiscano democrazia, giustizia sociale, tutela ambientale e rispetto dei diritti umani.Non è quindi un caso che, replicando quanto fatto a marzo nella sessione plenaria della Commissione droghe dell’ONU (CND), gli USA abbiano ribadito – intervenendo recentemente a una riunione a Vienna – che “gli SDG sono irrilevanti quando si tratta di impedire ai criminali di diffondere veleno nelle nostre comunità.” Il tentativo è quello di far tornare “la CND al suo mandato principale e smettere di sprecare tempo e risorse su questioni politiche controverse”, concentrandosi invece “sull’interruzione dell’approvvigionamento di droga e sulla sicurezza delle nostre comunità”.Proprio lo scorso marzo la CND aveva deciso di porre sotto revisione l’intero sistema di controllo sulle droghe (vedi l’Unità, 29 marzo 2025). E in questi giorni, a Ginevra, il 48° Expert Committee on Drug Dependence (ECDD) dell’OMS rilascerà il rapporto sulla revisione critica della foglia di coca.Si tratta di un processo richiesto dalla Bolivia con il sostegno della Colombia per salvaguardare l’uso tradizionale indigeno, che potrebbe rivelarsi epocale. La bozza del documento conclude che «la ricerca non ha rivelato evidenze di danni clinicamente significativi per la salute pubblica associati all’uso della foglia di coca». Non solo: ricorda che «la letteratura scientifica contemporanea resta coerente con il rapporto OMS-UNICRI del 1995», già allora favorevole a una distinzione netta tra foglia di coca e cocaina e rimasto in un cassetto per pressioni politiche.

Per la prima volta da decenni, un organismo tecnico delle Nazioni Unite riconosce ufficialmente che la criminalizzazione della foglia di coca non ha basi sanitarie. La coca viene descritta come una pianta complessa e benefica, ricca di alcaloidi, flavonoidi e fenoli, con effetti stimolanti lievi, antinfiammatori e antiossidanti, e con un uso tradizionale che da secoli sostiene il lavoro, la salute e la cultura delle popolazioni andine. Non ci sono prove di dipendenza significativa né casi documentati di overdose fatale. E, soprattutto, il Comitato evidenzia che «la documentazione scientifica dimostra in modo robusto i danni sostanziali per la salute pubblica associati alle strategie di controllo della coca, a tutte le scale».
Dietro questa frase ci sono le fumigazioni al glifosato in Colombia, le persecuzioni ai coltivatori indigeni, le esposizioni tossiche, gli aborti spontanei e le malattie respiratorie e cutanee studiate e collegate direttamente alle politiche di eradicazione.

La revisione scientifica, se raccolta dall’OMS in forma di raccomandazione come fu per la cannabis nel 2020, aprirebbe la strada alla richiesta formale di rimozione della foglia di coca dalla Tabella I della Convenzione ONU del 1961, dove è tuttora equiparata a eroina e cocaina pura. Per i popoli andini, e per chi da anni denuncia l’assurdità del bando globale, questo rapporto rappresenta una rivincita storica della scienza contro il proibizionismo neocolonialista.

Non bastassero UNDP e OMS a guastare i piani di restaurazione, ci si mette anche il Consiglio dei diritti umani dell’ONU (HRC), che la scorsa settimana ha riaffermato che la politica sulle droghe deve essere pienamente allineata agli strumenti internazionali sui diritti umani.
Il Consiglio ha approvato, respingendo a larga maggioranza tutti gli emendamenti peggiorativi presentati dalla Russia, una risoluzione presentata dalla Colombia e sostenuta da 35 Paesi che conferma e amplia quanto già affermato nel 2023 (quando anche l’Italia fu fra i firmatari). Il testo riconosce formalmente il ruolo del sistema ONU per i diritti umani – dal Consiglio (HRC) all’Alto Commissariato (OHCHR) – come interlocutore a pieno titolo nella politica globale sulle droghe, tradizionalmente dominio degli organismi di Vienna (CND e UNODC). Per la prima volta, l’HRC si impegna a “rimanere investito della questione” e invita i propri meccanismi a condividere contributi e raccomandazioni con la Commissione sugli stupefacenti. Oltre a questo, consolida e amplia il riferimento alla riduzione del danno, l’impegno contro la discriminazione razziale e a tutela dei popoli indigeni. Infine, l’OHCHR riceve il mandato di redigere un nuovo rapporto sulle implicazioni delle politiche sulle droghe per i diritti di donne e ragazze.

A guardare quel che succede fra New York, Ginevra e Vienna ci sarebbe solo da gioire per la società civile internazionale impegnata nella riforma. Purtroppo, avviene nel momento di più bassa autorevolezza degli strumenti del multilateralismo ONU, messi a dura prova dal bullismo diplomatico e dalle azioni criminali che mettono in discussione l’esistenza stessa del diritto internazionale.

Un esempio – che passa in secondo piano rispetto a quanto accade altrove, a partire dalla Palestina – sono gli attacchi militari “antinarcotici” voluti da Trump contro le imbarcazioni di presunti trafficanti venezuelani nel Mar dei Caraibi: vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, rappresentazione plastica dell’impunita violazione delle più elementari norme del diritto internazionale. E forse anche del “nuovo ordine mondiale” che qualcuno vorrebbe imporre.

Tornando in Europa preoccupa il dibattito all’interno dell’Unione, che da alcuni anni ha riportato al centro la repressione, marginalizzando anche nei canali di finanziamento la progettualità legata alla ricerca e alla riduzione del danno. Da questo approccio neoproibizionista, certamente influenzato dalla presa di potere delle destre sovraniste, pare viziata anche la nuova strategia europea sulle droghe, su cui la commissione ha iniziato le consultazioni.

In un mondo che chiede riforme, l’Europa tentenna e lascia spazio alla restaurazione che trova nuovi alfieri a Parigi e a Roma. Ma fuori dai palazzi, la società civile non si arrende: è lì, tra chi combatte lo stigma, cura, riduce i danni e costruisce alternative, che si intravede la direzione giusta. Quella che in Italia porta alla contro-conferenza sulle droghe, il 6-7-8 novembre alla Città dell’Altra Economia a Roma.

In copertina: Meloni e Macron, immagine su licenza Wikimedia Commons

“Cartel de los Soles”, la favola del “narco-Stato” per giustificare la guerra di Trump contro il Venezuela

“Cartel de los Soles”, la favola del “narco-Stato” per giustificare la guerra di Trump contro il Venezuela

Credo che sia importante partire con una chicca. Quando il Comandante Hugo Chavez, notoriamente astemio, rivelò nel 2008 di masticare abitualmente pasta di foglie di coca, una sorta di chewing gum tradizionale ed artigianale tipica dell’America Latina che – chiunque voglia tenersi lontano da pregiudizi e stereotipi razzisti e colonialisti – sa essere una delle tante usanze quotidiane delle popolazioni nuestramericane.  Durante un discorso lungo quattro ore dinnanzi all’Assemblea Nazionale, Chavez affermò: «Mastico coca ogni giorno, al mattino (…) e guardate come sto. (…) Ve la consiglio» – mostrando i bicipiti agli interlocutori e dichiarando chiaramente che come Fidel Castro gli inviava «il gelato Coppelia e molte altre cose» che gli arrivavano «regolarmente dall’Havana», così anche il presidente Boliviano Evo Morales lo omaggiava di «pasta di coca». Gli indigeni boliviani e peruviani masticano foglie di coca regolarmente, come stimolante, regolatore della pressione, per non sentire la fame e durante i rituali ancestrali del culto di Pachamama, essendo tutto questo consentito dalla legge. Spiegava a tal riguardo il Miami Herald – quotidiano statunitense pubblicato a Miami dal 1903 di proprietà della The McClatchy Company – che la “pasta di coca” è un prodotto semiraffinato, che determina assuefazione e che viene fumata come il basuco, ovvero il residuo dell’estrazione della cocaina base, di pessima qualità e altamente nocivo[3].

Eppure, a partire da folkloristiche dichiarazioni di analisti colombiani e venezuelani, per l’Occidente colonialista, razzista e ignorante questo era simbolo dell’avallo di Chavez alla cocaina, nonché la prova che il Venezuela Bolivariano fosse un “narco-Stato” e persino “un atto illegale da parte di un capo di stato”. Ne seguirono dichiarazioni schizofreniche da parte di personalità legate a Miami e alla destra venezuelana: «È un altro segnale che Chavez ha perso completamente il senso del limite» – ha commentato Anibal Romero, docente di scienze politiche all’università di Caracas, aggiungendo – «Dimostra che Chavez è fuori controllo»«Nel momento in cui afferma di consumare pasta di coca, ammette di consumare una sostanza che è illegale, tanto in Bolivia che in Venezuela» – affermò Hernan Maldonado, osservatore politico boliviano residente a Miami, aggiungendo – «Di più, si tratta di una vera e propria accusa a Morales di essere un narcotrafficante» per avergli invitato la pasta di coca.

La realtà era molto diversa. I governi di Hugo Chavez si sono contraddistinti per la lotta al narcotraffico, sull’onda di quella che è stata la ferrea e intransigente lotta intrapresa ormai da decenni dal socialismo cubano contro la droga che periodicamente viene ribadita[4]. Basta recarsi in Venezuela per vedere con i propri occhi il lavoro anti-droga da parte della Polizia Bolivariana negli aeroporti.

Più volte in passato agenti DEA e FBI hanno espresso ammirazione verso le rigorose politiche antidroga dei comunisti cubani. Il Venezuela chavista ha sempre seguito il modello anti-droga cubano inaugurato da Fidel Castro in persona attraverso cooperazione internazionale, controllo del territorio, repressione delle attività criminali.

Spesso come argomentazione per sostenere che la Rivoluzione Bolivariana è una “dittatura criminale”, si afferma che il Venezuela sia un “narco-Stato” che inonda gli Stati Uniti di cocaina. Si tratta di una notizia veicolata dalla propaganda neocoloniale occidentale (USA ed europea) e spesso cavalcata dalle destre venezuelane in funzione anti-chavista, come successo nelle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024.

Come ha scritto giustamente la giornalista Geraldina Colotti, un giornalista serio dovrebbe chiedersi chi l’ha fatta circolare e perché, e chi l’ha alimentata con dichiarazioni fornite agli Stati Uniti in cambio di benefici giudiziari: come l’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Ugo Carvajal, poi passato nel campo di Guaidó e degli autoproclamati, secondo cui il Cartel de los Soles avrebbe dovuto invadere gli Usa con la cocaina proveniente dal Venezuela.

Il termine “Cartel de los Soles” (Cartello dei Soli) è apparso per la prima volta nel 1993. È stato coniato da due giornalisti venezuelani, Juan Carlos Issa e Rafael J. Poleo, durante un’inchiesta su due generali della Guardia Nazionale, Ramón Guillén Dávila e Orlando Hernández Villegas. Il nome deriva dalle insegne a forma di sole che i generali venezuelani di alto rango portano sulle loro uniformi, che sono diventate il simbolo di questa presunta rete di narcotraffico all’interno delle forze armate. Tutto questo avveniva il 1993, durante la Quarta Repubblica, quindi ben lontano dall’inizio della Rivoluzione Bolivariana. L’anno prima, il 4 febbraio, c’era stata la ribellione civico-militare dei militari progressisti guidati dall’allora tenente colonnello Hugo Chávez Frías, anche contro la corruzione delle Forze Armate, la cui dottrina e pratica erano dettate da quelle nordamericane, e la cui corruzione era palese e farraginosa come lo era quella della società di allora.

Rafael J. Poleo, fondatore e direttore della rivista settimanale venezuelana Zeta, una delle più influenti voci di opposizione nel panorama mediatico del paese, ha poi trasferito a piè pari quella sua scoperta per fare il proprio gioco politico contro il chavismo e al servizio degli Stati uniti.

Nel 2015, 82 giornali latinoamericani, più l’ABC spagnolo e El Diario de las Américas di Miami, pubblicarono in prima pagina articoli che sostenevano che Diosdado Cabello – vicepresidente del PSUV e ora Ministro dell’Interno, della Giustizia e della Pace, all’epoca presidente dell’Assemblea Nazionale – fosse il capo del Cartel de los Soles – il presunto “super-cartello internazionale della droga” che permetterebbe al governo chavista venezuelano di arricchirsi – e che fosse stato incriminato per questo motivo in un tribunale di New York. I giornalisti Earle Herrera e Tania Diaz guidarono un’indagine e stilarono un rapporto che dimostrava che, in realtà, non c’erano notizie, nessuna denuncia in tribunale e nessuna fonte che potesse confermare ciò che 82 giornali avevano riportato come uno scoop lo stesso giorno. Diosdado decise di sporgere denuncia e da allora, ci sono stati ricorsi e ancora ricorsi, fino a quando –  dopo 8 anni – la Corte Suprema di Giustizia non si è pronunciata a suo favore nel 2022, condannando il proprietario di El Nacional, Miguel Henrique Otero, a risarcire il danneggiato. Essendo nel frattempo Otero fuggito in Spagna, sono stati espropriati i locali del quotidiano, che Diosdado non ha tenuto per sé, ma ha devoluto al popolo, perché fossero la sede dell’Università Internazionale della Comunicazione (LAUICOM).

Nessun giornale di quelli che hanno calunniato Diosdado Cabello ha consentito un diritto di replica, secondo i criteri mitici del “pluralismo dell’informazione”, né tantomeno ha dato notizia della devoluzione di Cabello. Anzi, la menzogna è stata rimessa in circolo dopo qualche tempo come se niente fosse.

Il caso è stato riportato nel libro La comunicación liberadora (pubblicato con l’Università Internazionale della Comunicazione, LAUICOM) scritto dalla stessa Tania Diaz, ma intanto, diversi grandi quotidiani internazionali avevano avallato la falsa notizia, incuranti delle smentite.

Il meccanismo delle fake-news istituzionali è un circolo perverso che si alimenta da sé e occulta l’inesistenza di una fonte attendibile. Come affermava Diaz, è stata inscenata una “triangolazione mediatica contro il Venezuela” perché El Nacional citava El Diario de las Américas, che a sua volta faceva riferimento ad ABC, che a sua volta citava El Nacional. Si alimentavano a vicenda. Per tutti, Diosdado era “l’uomo forte del regime”, il capo del narcotraffico.

Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Trump rincara la dose e definisce il Presidente costituzionale del Venezuela, Nicolas Maduro, “il narcotrafficante più potente al mondo”, oltre ad accusarlo di armonizzare quello che sarebbe il Cartel de los Soles. Secondo questa narrazione, il governo venezuelano avrebbe messo in atto un complotto per inondare gli Stati Uniti con “qualcosa come 200-250 tonnellate di cocaina”.

Sebbene tale cifra appaia alta, è importante sapere che gli Stati Uniti sono il maggiore consumatore mondiale di cocaina; la Colombia è il maggiore produttore; e che il Venezuela non coltiva coca, non produce cocaina e, secondo le cifre del governo nordamericano, meno del 7% del totale della droga dal Sud America transita in Venezuela e che meno del 10% del traffico globale di cocaina attraversa il Paese[5], come mostrano le mappe sotto (la regione dei Caraibi orientali comprende la penisola di Guajira in Colombia).

Queste mappe, prodotte rispettivamente da Drug Enforcement Agency e Comando Meridionale degli Stati Uniti, sollevano immediatamente dubbi sul perché il Venezuela sia il Paese preso di mira.

Il mito secondo cui il Venezuela è un “narco-Stato” fu sfatato nel 2017 dall’Ufficio di Washington in America Latina (WOLA) – un think tank di Washington che generalmente sostiene le operazioni di regime-change degli Stati Uniti nella regione – nonché dalla FAIR, 15 y Ultimo, Misión Verdad, Venezuelanalysis e altri enti e siti di giornalismo investigativo.

Pino Arlacchi, già sottosegretario generale dell’ONU e direttore dell’UNDCCP (ufficio ONU per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine), ha affermato nel 2019:
«La notizia dell’incriminazione del Presidente Maduro e di membri del suo governo per traffico di droga mi ha lasciato senza parole. Osservando la persecuzione contro il Venezuela ne ho viste tante, ma sinceramente non pensavo che l’associazione per delinquere al potere negli Stati Uniti si spingesse fino a questo punto. Dopo aver fatto una rapina da 5 miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 paesi. Dopo aver messo in atto un blocco dell’intera economia del paese tramite sanzioni atroci, rivolte a colpire la popolazione civile per spingerla a ribellarsi (senza successo) contro il suo governo. E dopo un paio di falliti tentativi di colpo di stato, ecco la mossa finale, la calunnia più infamante. Il colpo è talmente fuori misura che non penso abbia conseguenze di rilievo. Né le Nazioni Unite, né l’Unione europea, né la maggioranza degli Stati del pianeta che lo scorso settembre hanno votato a favore dell’attuale esecutivo del Venezuela e del suo Presidente durante l’Assemblea generale dell’ONU, daranno il minimo peso a questo episodio di guerra asimmetrica. Non succederà nulla perché non esiste la minima prova a sostegno della calunnia secondo cui il Venezuela ha inondato gli Stati Uniti di cocaina negli ultimi anni. Sono rimasto interdetto anche perché mi occupo di anti-droga da una quarantina di anni, e non ho mai incontrato il Venezuela lungo la mia strada. Prima, durante e dopo il mio incarico di Direttore esecutivo dell’UNODC (1997-2002), il programma antidroga dell’ONU, non ho mai avuto occasione di visitare quella nazione perché il Venezuela è sempre stato al di fuori dei maggiori circuiti del traffico di cocaina tra la Colombia – il principale paese produttore – e gli USA, il principale consumatore. Non esiste se non nella fantasia malata di Trump e soci alcuna corrente di commercio illegale di narcotici tra Venezuela e Stati Uniti».

Era lo stesso Arlacchi che invitava a consultare le due fonti più importanti sul tema: il World Drug Report 2019, ovvero l’ultimo rapporto UNODC sulle droghe[6]; e il National Drug Threat Assessment del dicembre 2019, documento della DEA, la polizia antidroga americana[7].

Secondo quest’ultimo, il 90% della cocaina introdotta negli USA proviene dalla Colombia, il 6% dal Peru e il resto da origini sconosciute“Se in quel 4% rimanente ci fosse stato anche il profumo del Venezuela, esso non sarebbe passato inosservato. Ma è il rapporto ONU che fornisce il quadro più dettagliato, menzionando il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come le sedi di transito della droga verso gli Stati Uniti. E l’assessment della DEA cita i celebri narcos messicani come i maggiori fornitori del mercato USA” – sottolineava Arlacchi.

Nel 2020 il Dipartimento di Stato USA, durante l’Amministrazione Trump, stabilisce vergognosamente una taglia da 15 milioni di dollari sulla testa del Presidente costituzionale del Venezuela, Nicolas Maduro Moros, offrendola a chi avrebbe collaborato al suo arresto. Maduro viene accusato – dagli USA – di essere il capo di un «narco-Stato» che, in collaborazione con una fazione dissidente delle Farc colombiane, era responsabile di «inondare gli Stati Uniti di cocaina». Durante l’amministrazione “democratica” di Joe Biden, la taglia passa dai 15 ai 25 milioni.

Nel 2020, lo stesso Arlacchiintervistato da Ruggero Tantulli per Il Periodista, affermava che le accuse di narcotraffico e di narcoterrorismo al Presidente Nicolas Maduro e al Venezuela Bolivariano erano “spazzatura politica”«Sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po’ di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’Onu perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’Onu. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr). L’ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche». Affermava Arlacchi: «La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro».

Secondo Arlacchi si trattava dell’ennesimo tentativo di ingerenza e di colpo di stato«E’ una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la Cia e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l’idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti».

L’11 agosto 2024 l’ANSA pubblicava una notizia insolita: “Gli Stati Uniti stanno tenendo una serie di colloqui segreti per convincere il presidente venezuelano Nicolas Maduro a lasciare il potere in cambio della grazia. Lo riferiscono fonti informate al Wall Street Journal secondo le quali l’amministrazione Biden ha messo “tutto sul tavolo” per convincere il leader venezuelano ad andarsene prima della fine del suo mandato a gennaio. Maduro deve affrontare una serie di incriminazioni da parte del dipartimento di Giustizia americano e nel 2020 gli Usa hanno messo una ricompensa di 15 milioni di dollari per informazioni che potessero portare al suo arresto.[1]

Oltre a propagandare la bufala del “narco-Stato”, l’ANSA e i media mainstream atlantisti ed occidentali hanno diffuso l’idea che ci fosse in atto una trattativa tra USA e il governo bolivariano affinchè Maduro lasciasse la presidenza in cambio della cancellazione della taglia sulla sua testa. La notizia della presunta trattativa oltre ad essere falsa, era stata smentita anche dalla stessa Casa Bianca che ha definito “falsa” la notizia rilanciata, precedentemente, dal Wall Street Journal [2].

Lunedì 19 agosto 2024, è lo stesso Dipartimento di Stato USA, che attraverso il vice portavoce principale Vedant Patel, smentisce categoricamente la falsa notizia di una amnistia per Maduro e per altri alti funzionari venezuelani. Ancora una volta emergono le falsità e la guerra mediatica contro il Venezuela. Anche la Casa Bianca smentisce ma non rinuncia alla sua azione destabilizzatrice contro il Presidente Maduro e la Costituzione Bolivariana del Venezuela.

A luglio 2025, Trump ha firmato una direttiva in cui dava istruzioni al Pentagono di usare la forza militare contro alcuni “cartelli della droga” che il suo governo ha classificato come “organizzazioni terroristiche”. Quasi in contemporanea, gli Usa hanno dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Una canagliata subito ripresa ed enfatizzata dall’estrema destra venezuelana e dalla stampa mainstream occidentale filo-atlantista, che avalla l’accusa di “narco-Stato”.

Ad agosto 2025, gli Stati Uniti raddoppiano assurdamente – in contrasto con il diritto internazionale – la ricompensa offerta a chiunque fornisca informazioni utili all’arresto del presidente del Venezuela Nicolás Maduro e sul suo Ministro dell’Interno affinché possano essere processati per “traffico di droga e corruzione”. La taglia passa da 25 a 50 milioni di dollari. La decisione di raddoppiarla è stata annunciata dal procuratore generale Pam Bondi, alla quale il Ministro degli Esteri di Caracas Yvan Gil ha risposto definendo la scelta “patetica” e “propaganda politica”, usata dagli Stati Uniti per distrarre l’opinione pubblica dal caso Jeffrey Epstein. Il fine inoltre è incolpare il Venezuela Bolivariano dell’immissione negli Usa di cocaina tagliata con fentanyl. Dichiarazioni nuovamente assurde che non rispecchiano i dati ufficiali mondiali sul traffico di droga.

Come afferma Pino Arlacchi in un recente articolo su Il Fatto Quotidiano (ripubblicato da Pressenza Italia): “Il Rapporto Onu 2025, recentemente pubblicato, è di una chiarezza cristallina: solo una frazione marginale della produzione di droga colombiana passa attraverso il Venezuela nel suo cammino verso Usa ed Europa. Il Venezuela, secondo l’Onu, ha consolidato la sua posizione storica di territorio libero dalla coltivazione di foglia di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali. Il documento non fa altro che confermare i 30 rapporti annuali precedenti, che non parlano del narcotraffico venezuelano perché questo non esiste.”

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(Foto di Infografica da Limes narcotraffico Sud America)

I dati sono chiari: solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Afferma Arlacchi: “Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala. Sì, avete letto bene: il Guatemala è un corridoio di droga sette volte più importante di quello che dovrebbe essere il temibile “narco-Stato” bolivariano. Ma nessuno ne parla perché il Guatemala è a secco dell’unica droga non naturale che interessa Trump: il petrolio. Il paese ne produce lo 0,01% del totale globale.”

Anche il Rapporto Europeo sulle Droghe 2025 dell’Unione Europea, basato su dati reali e non su wishful thinking geopolitici, non cita neppure una volta il Venezuela come corridoio del traffico internazionale di droga, e ignora del tutto il Cartel de los Soles.
Secondo il Rapporto Europeo, la cocaina è la seconda droga più usata nei 27 paesi Ue, ma le sue fonti principali sono chiaramente identificate: Colombia per la produzione, America centrale per lo smistamento, e varie rotte attraverso l’Africa occidentale per la distribuzione finale. In questo scenario, Venezuela e Cuba non ci sono.

L’Europa ha bisogno di dati affidabili per proteggere i suoi cittadini dalla droga, quindi produce studi accurati.
Gli Usa hanno bisogno di giustificazioni per il loro bullismo petrolifero, quindi producono propaganda mascherata da intelligence. Eppure, anche le menzogne USA hanno un limite: quando sono smentite dalle sue stesse istituzioni anti-droga.

I Rapporti della DEA 2024 e 2025, infatti, affermano chiaramente che il Venezuela non è toccato dal narcotraffico mondiale.

L’Amministrazione per il Controllo delle Droghe degli Stati Uniti (DEA) ha riconosciuto nei suoi rapporti annuali (rapporti “National Drug Threat Assessment” del 2024 e del 2025) che gli Stati Uniti hanno un rapporto strutturale con il traffico di droga. Ha ammesso problemi estremamente gravi, come il fatto che la popolazione è immersa nel consumo di vari tipi di droghe e che il Paese è l’epicentro delle reti di traffico di droga, essendo produttore, mercato di destinazione di stupefacenti e una grande macchina finanziaria del denaro della droga.

Nel rapporto del 2024 si afferma che “i cartelli messicani ottengono carichi di diverse tonnellate di cocaina in polvere e base di cocaina dai trafficanti sudamericani, per poi contrabbandarla attraverso rotte terrestri o fluviali costiere in America Centrale, o via mare verso isole caraibiche come Porto Rico e Repubblica Dominicana, prima di introdurla negli Stati Uniti”.

In questo riferimento alle rotte caraibiche, non viene fatto alcun cenno al Venezuela. Nel rapporto del 2025, la DEA afferma che la maggior parte dei sequestri di cocaina sono stati effettuati in California, al confine con il Messico, dimostrando che gran parte del traffico di tale stupefacente avviene attraverso rotte terrestri e marittime nell’Oceano Pacifico.

In entrambi i rapporti, la DEA cita specificamente Colombia, Perù e Bolivia come paesi produttori di cocaina e fa riferimento a Messico, El Salvador, Honduras, Guatemala, Porto Rico e Repubblica Dominicana come punti chiave della rotta della cocaina verso gli Stati Uniti.

La DEA ammette nei suoi rapporti del 2024 e del 2025 che gli Stati Uniti sono il fulcro del riciclaggio di capitali provenienti dal traffico internazionale di droga. Sottolinea che sul suolo statunitense operano riciclatori di denaro che prestano i loro servizi a diverse organizzazioni criminali.

La DEA indica metodi quali case di cambio di criptovalute, portafogli digitali, trasferimenti di tipo mirror, compravendita di beni mobili e immobili tramite agenzie immobiliari statunitensi e altri meccanismi esistenti nel sistema bancario nordamericano.

Secondo la DEA, e come affermato dall’ONU (ONU contro la droga e il crimine, UNODC), il Venezuela non è un Paese produttore di droga. C’è solo un piccolo accenno al cosiddetto “Tren de Aragua” nel rapporto DEA del 2025, dopo che è stato classificato come “organizzazione terroristica”. Si tratta di un riferimento fondato su prove segrete, che non lo sarebbero se avessero un minimo di consistenza e fossero supportate da altre fonti. “Come può un’organizzazione criminale così potente da meritare una taglia di 50 milioni di dollari, essere completamente ignorata da chiunque si occupi di antidroga al di fuori degli Usa?” – si è domandato Arlacchi.

Infatti né nel rapporto del 2025, né in quello del 2024, né in nessun altro rapporto precedente della DEA, compare da nessuna parte il cosiddetto Cartel de los Solespoiché il Venezuela non figura come Paese produttore di cocaina nemmeno secondo lo stesso governo statunitense, il quale invece mediaticamente lancia accuse false.

Il Cartel de los Soles è una finzione comunicativa ed esiste solo sui tavoli di progettazione propagandistica del governo statunitense, dell’opposizione venezuelana e della destra internazionale.

Il Cartel de los Soles è una creatura dell’immaginario trumpiano. Il “cartello della droga” che sarebbe “guidato dal presidente del Venezuela Maduro” non viene citato né nel rapporto del principale organismo mondiale antidroga né nei documenti di alcuna agenzia anticrimine europea o di altra parte del pianeta.

Quello che viene venduto su Netflix come un “super-cartello della droga” in Venezuela, è in realtà un miscuglio di piccole reti locali, di qualche episodio di corruzione, un tipo di criminalità spicciola che si trova in qualsiasi Paese del mondo, inclusi gli Usa, dove – come ha ricordato Arlacchi – “muoiono ogni anno quasi 100 mila persone per overdose da oppiacei che nulla hanno a che fare col Venezuela, e molto con Big Pharma americana.”

Insomma non c’è traccia del Venezuela in alcuna pagina dei due documenti e in nessun altro materiale delle agenzie anticrimine USA degli ultimi 15 anni si fa menzione di fatti che possano anche indirettamente ricondurre alle accuse lanciate contro il legittimo Presidente del Venezuela e contro il suo governo. Il fatto stesso che in Venezuela transiti una minima parte del narcotraffico e che si veda la lotta ferrea del suo governo ad opporvisi con tutti gli strumenti, non fa del Venezuela un “narco-Stato” ma piuttosto di un governo che reprime questo fenomeno.

Si tratta quindi di spazzatura politica, che però non è stata trattata come tale nemmeno fuori dal sistema politico-mediatico degli Stati Uniti.

Vergognosa è stata l’intervista[8] pubblicata il 21 agosto 2024 su Il Corriere della Sera fatta da Roberto Saviano al giornalista venezuelano Alfred Meza, colui che ha inventato la macchina del fango contro Alex Saab[9], diplomatico venezuelano che è stato prosciolto da tutte le accuse dal giudice della Florida, Robert Scola con una sentenza dell’8 aprile 2024, a seguito dell’indulto firmato dal presidente USA Joseph Biden il 15 dicembre 2023. Il 20 dicembre 2023, Saab è stato liberato a seguito di uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti e, una volta tornato in Venezuela, ha raccontato le torture subite per fargli confessare delitti mai commessi, che avallassero l’idea del Venezuela come “narco-Stato”, e quella di Saab come “prestanome” di Nicolas Maduro[10].

Roberto Saviano ha dimostrato la sua arroganza nel dire: “Studio il narcotraffico in Venezuela da molti anni e questo mi ha permesso di conoscere diversi giornalisti che in questi anni stanno rischiando la vita per raccontare il regime di Maduro e il potere della criminalità organizzata.” Saviano non solo non ha studiato il caso del Venezuela, ma in quell’intervista non ha proposto nemmeno un dato sul narcotraffico tra Colombia e USA e nemmeno un dato sul presunto coinvolgimento del Venezuela.
Con un’operazione retorica ha intervistato Alfred Meza, dando adito alla propaganda golpista della destra eversiva che ha messo a ferro e fuoco il Venezuela post-elezioni, paragonando Maduro ad Erdogan e definendo il chavismo come “un movimento fascista”La verità è che Saviano non ha studiato la storia del Venezuela, del socialismo bolivariano e, con la sua autoreferenzialità, continua a parlare di qualcosa che non conosce perché, se conoscesse, avrebbe i brividi solo ad interfacciarsi con quelli che calunniano la Rivoluzione Bolivariana e i suoi governi.

Il vero obiettivo della finzione comunicativa e propagandistica del Cartel de los Soles non è la droga, ma il controllo strategico delle vaste risorse naturali e minerarie del Venezuela, comprese le più grandi riserve di petrolio del pianeta, interamente gestite da un governo socialista e antimperialista i cui proventi reinvesti per il 75% in piani sociali. Siamo dentro alla trama di un film di Hollywood già visto, in cui gli Usa provano a costruire l’immagine del nemico cattivo per giustificare l’ennesima guerra, l’ennesima invasione militare per una “causa umanitaria”.

Note:

[1] https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2024/08/11/usa-offrono-a-maduro-la-grazia-se-lascia-il-potere_e3896f11-15c4-4cea-ae38-891b4d0bddf0.html

[2] https://www.cdt.ch/news/mondo/non-abbiamo-offerto-la-grazia-a-maduro-360272

[3] https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/chavez-choc_mastico_coca_ogni/

[4] https://italiano.prensa-latina.cu/2024/08/16/cuba-ribadisce-la-sua-intransigenza-di-fronte-al-traffico-di-droga/?fbclid=IwY2xjawEvvehleHRuA2FlbQIxMQABHd8EkRt8uBmPE4WxwK70HVNoq6cfOVFQpOCGQPdHo-cZQZVYSelvVuX5yA_aem_lfxxG74btAgrS5HR6izSaA

[5] https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/

[6] World Drug Report 2019, https://wdr.unodc.org/wdr2019/prelaunch/WDR19_Booklet_4_STIMULANTS.pdf

[7] National Drug Threat Assessment 2019, https://www.dea.gov/sites/default/files/2020-02/DIR-007-20%202019%20National%20Drug%20Threat%20Assessment%20-%20low%20res210.pdf

[8] Roberto Saviano, Alfredo Meza: «Quanti errori a sinistra su Chávez e Maduro. Ora il Venezuela è nel caos»

https://www.corriere.it/esteri/24_agosto_21/saviano-intervista-alfredo-meza-chavez-maduro-venezuela-e08fa362-840f-47f3-bfd7-7fc208a70xlk.shtml?refresh_ce

[9] Geraldina Colotti, Alex Saab. Lettere di un sequestrato, Multimage, 15 novembre 2022

[10] https://www.pressenza.com/it/2024/04/alex-saab-prosciolto-da-tutte-le-accuse/

Fonti:

“National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2024). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2024-05/5.23.2024%20NDTA-updated.pdf

“National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2025). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2025-07/2025NationalDrugThreatAssessment.pdf

Presidente colombiano Gustavo Petro difende Maduro dall’accusa di “narcoterrorismo”. Gustavo Petro, presidente di un paese – la Colombia – dove il narcotraffico ha ancora un grosso peso sulla politica, ha dichiarato: “Il Cartel de los Soles non esiste, è un racconto usato dall’imperialismo per criminalizzare il Venezuela e attuare un intervento militare per controllarne le risorse; è la scusa fittizia dell’estrema destra per rovesciare i governi che non le obbediscono”.  https://www.youtube.com/watch?v=Xf7ghNJ366U

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__la_grande_bufala_contro_il_venezuela_la_geopolitica_del_petrolio_travestita_da_lotta_alla_droga/5871_62413/

https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/

https://italiacuba.it/2025/08/29/il-rapporto-chiave-della-dea-per-il-2024-non-menziona-ne-il-venezuela-ne-il-cartello-dei-soli/

Questo articolo è già uscito con altro titolo su pressenza del 8 ottobre 2025

In copertina: (Foto di La Tercera)

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Parole a capo /
Cosimo Lamanna: alcune poesie da «A volte invece il cielo non esiste»

Parole a capo <br> Cosimo Lamanna: Alcune poesie da «A volte invece il cielo non esiste»

Chiunque creda che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva
(Paracelso)

*

Così come si conta il mare
di tutte le paure, le onde
sul filo della superficie a stento
si tocca a volte il fondo
e a volte invece il cielo
non esiste.

*

Vorrei che le parole fossero
sculture incompiute
mani capaci
di generare da pietra.

*

Mi piace questa luce
che non illumina e non sveglia
mi piace questa luce
che non amplifica e non sfiora
tra il mio tratto ancora incerto
e la linea da cui affiori.

*

Di quanto amore occorra
dell’acqua necessaria
lo capirai dal peso
magari sollevandomi
con dita leggerissime
per un attimo tra i gigli
osserva in controluce
il tempo che fa ora
e quello che farà.

*

 

Motori in lontananza
dissodano il vento
forse solo per poco
ma risale leggero
al sicuro
dentro l’ombra degli alberi.

*

 

Guardalo passare
questo maggio impaginato
come un velo sulle rocce
dei tuoi pensieri in ombra.
E non ti sia di peso questa sera
non c’è più nulla che tu debba dimostrare
al tempo o al tuo stupore
ogni volta che un dolore capita
(Poesie tratte da: A volte invece il cielo non esiste, RP LIBRI, 2025. Prefazione di Antonio Bux, postfazione di Mara Venuto.)

*

Poesia - L'anello di Möbius - RPlibri

Cosimo Lamanna è nato a Napoli nel 1970 e  attualmente vive a Roma. Ha pubblicato La stanza accanto (Controluna, 2018), Inchiostro per il  prossimo inverno (ivi, 2019), Canzoni controfuoco  – lettere dalla primavera (Tabula fati, 2021), Il diamante e la grafite (ivi, 2022) e Zolle (ivi, 2023). Nel 2023 esordisce nel mondo della canzone d’autore,  in veste di paroliere e co-produttore, fondando con  i musicisti pugliesi Toni Dedda e Marcello Colaninno il collettivo “Coanda”, con il quale pubblica l’album, che al suo interno accoglie contributi poetici  di Mara Venuto e Marisa Martinez Pérsico, Le vite  altrove (AngappMusic, 2024; cinquina finalista alla  50ª edizione delle Targhe Tenco, sezione “opera  prima”). In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie dell’autore l’8 febbraio 2024.
Ringrazio di cuore Cosimo Lamanna per avermi autorizzato la pubblicazione di alcune poesie tratte dalla sua ultima fatica letteraria.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 310° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Cover: immagine da pixabay

Affitti brevi & piano casa:
affari per pochi, problemi per molti

Affitti brevi & piano casa: affari per pochi, problemi per molti

Gli “host” (soggetti ospitanti) di immobili offerti su AirBnB in Italia sono ormai 350mila e gestiscono in media 2,1 appartamenti per ciascuno. Ma su tutte le piattaforme digitali le unità immobiliari erano 750mila nel 2024 e sono in forte crescita.

Già prima della pandemia le notti prenotate erano 39 milioni e sono arrivate nel 2024 a 52,9 milioni. Hanno superato nettamente i 2,2 milioni di posti letto messi sul mercato dagli alberghi e nel 2024 sono arrivati a offrire 3,2 milioni di posti. Per i centri italiani di attrazione l’impatto è fortissimo e binario: meno spazi, meno servizi, più congestione, tempi e costi di spostamento più alti e prezzi potenzialmente più cari su molti acquisti per la parte di popolazione che non vive di turismo; più posti di lavoro, maggiori fatturati e potenzialmente più investimenti per l’altra che invece di turismo vive.

L’esplosione dei ricavi delle piattaforme di ospitalità (da 2,7 a 8,8 miliardi dal 2017 al 2024, da 2,2 milioni di posti letto a 3,2 con ricavi da prezzo medio per stanza a notte saliti complessivamente da 111mila a 167 mila in 7 anni, con ricavi medi per “ospitante” da 11mila a 24mila annui), come ogni nuova tecnologia ha creato vincenti e perdenti. Crea un conflitto distributivo nella società: chi guadagna 24mila euro all’anno da questa attività paga (21%) 1.350 euro di imposte in più – troppo poco – di un lavoratore che percepisce la stessa cifra (per effetto della no tax area). Inoltre ha un “effetto marginale” sugli altri affitti, di lavoratori, giovani coppie, studenti universitari, etc. perché alza gli affitti di tutti e questo spiega perché da 5 anni l’incremento degli affitti è maggiore della stessa inflazione (nel 2025 +4% anziché +2%). In sostanza il messaggio al paese e che si manda ai giovani è “vivete di rendita, non studiate, nè lavorate ma guadagnate mettendo a rendita la casa ereditata”.

Nel ‘900 c’era il capitalismo classico con proletari e capitalisti. I primi vendevano solo il loro lavoro e il più ricco dei proletari guadagnava meno del più povero dei capitalisti. Nel capitalismo attuale crescono le disuguaglianze, ma c’è sempre più chi guadagna sia dal lavoro che dal capitale o dalla rendita, ha una seconda casa (sono 9 milioni in Italia) che affitta. Sono soprattutto ricchi e ceti medi ma anche lavoratori con bassi salari che affittano per sopravvivere (sono 900mila le case con affitti brevi, in crescita).

Così cresce l’homoploutia (così l’ha chiamata Branko Milanovic in Capitalismo contro capitalismo), cioè lavoratori che guadagnano sia dal lavoro che dal capitale. Ecco perché il Governo Meloni, che difende i ceti più ricchi, ha difficoltà a tassare questi affitti brevi che impediscono alle giovani coppie o ai lavoratori di trovare casa. Ci sono sempre più persone che guadagnano sia dal lavoro sia dal capitale (speculano in borsa, coi bitcoin,…) o con rendite (affitti della casa). E’ un fenomeno che riguarda soprattutto i ricchi, ma coinvolge ceti medi e una crescente piccola parte di “proletari”. Ciò spiega la difficoltà ad alzare la tassa (giusta) sugli affitti brevi che ora è 21% sulla prima abitazione e 26% dalla seconda in poi.

L’inchiesta giudiziaria di Milano sulla casa ha messo in luce, al di là della corruzione, quanto sia inadeguata la risposta dei Comuni al fabbisogno di casa a prezzi accessibili per le famiglie povere ed operaie. Una ricerca di Nomisma del 2022 aveva mostrato come in Italia il 43% delle famiglie fosse in debolezza sociale (con problemi di salute, disabili, lavoro precario, dipendenze, solitudine), il 28% in debolezza economica (redditi insufficienti per arrivare a fine mese) e il 12% in debolezza abitativa (redditi bassi in case inadeguate, a rischio sfratto, etc.). Negli ultimi 30 anni è cresciuto in modo enorme chi è in seria difficoltà per la casa (giovani, coppie, single separati, anziani soli, famiglie sfrattate, lavoratori di città,…), mentre è calato sia l’intervento di edilizia popolare (Erp) che quello sociale convenzionato (Ers) [1].

La crisi finanziaria del 2008 (made in Usa) ha portato poi al fallimento di molte imprese private, con il blocco dei mutui, per cui abbiamo in molte città interi palazzi non finiti e inutilizzabili.

Negli anni ’70 la condizione di una famiglia operaia cambiava radicalmente se abitavi o meno in una grande città. Chi stava in affitto in città era in condizioni di povertà relativa per gli alti affitti o il prezzo della casa, per cui con lotte sindacali si riuscì ad accrescere il patrimonio pubblico delle case popolari ed inserire nelle paghe un contributo specifico (Gescal) che finanziava le case popolari.

Oggi per il 18% di famiglie in affitto (4,7 milioni, che salgono al 23% nelle città del Nord), il problema si è acuito sia perché sono cresciuti i prezzi degli affitti (450/500 euro al Nord nel 2024, fonte Istat) e ancor più quelli delle case e i relativi mutui (3,8 milioni pagano un mutuo, 581 euro la rata nazionale e 618 al Nord), sia i poveri (da 4,8 milioni del 2012 a 5,7 nel 2024), sia milioni di famiglie con salari più bassi del 1990 (caso unico in Europa), tra cui 4 milioni di occupati (che non fanno parte dei poveri) che guadagnano non più di mille euro al mese.

Gli affitti e i prezzi delle case crescono sia per lo sviluppo per “poli” tipico del capitalismo, sia per l’overtourism nelle città (specie d’arte e universitarie). Così infermieri, impiegati, insegnanti, operai, conducenti di bus, etc. faticano sempre più a lavorare nelle città perché impossibilitati a pagare un affitto decente.

Nelle città della UE gli affitti sono cresciuti negli ultimi 15 anni del 18% e il prezzo delle case del 48%. I sindaci delle principali città UE hanno stimato che ci vorrebbe un piano da 300 miliardi solo per le loro città.

Nel 1990, finita la lotta contro l’URSS, si avviò un capitalismo (finanziario e globalista) che non aveva più bisogno di dimostrare che le nostre società tutelavano gli operai meglio del comunismo, per cui si abolirono gradualmente una serie di tutele tra cui il contributo Gescal (GEStione CAse Lavoratori). Si sono così azzerati i piani per le case popolari, con la solita idea che ci pensasse il libero mercato a risolvere tutto.

Il patrimonio pubblico delle case non cresce più e comincia ad essere in parte venduto per ristrutturare gli alloggi; una parte rimane persino sfitta perché inabitabile (a Ferrara, per es., sono 900 gli alloggi sfitti su 3.330 Erp), proprio mentre cresce il fabbisogno.

Per fortuna ci sono state iniziative di cooperative (per es. quella de Il Castello di Ferrara) che hanno offerto alle giovani famiglie e anziani alloggi popolari da acquistare versando una somma iniziale e poi una sorta di mutuo-affitto mensile in modo da riscattare la casa dopo 20-30 anni riducendo l’affitto mensile da una media di 560-690 euro nel mercato libero a 420 euro. Esempi poco seguiti da altri Comuni (se si escludono Bologna, Modena, Torino, Milano).

Poichè un quarto degli affitti nelle case popolari non viene pagato (anche per via dell’impoverimento in atto da 30 anni nelle fasce più deboli e degli immigrati che occupano il 25% delle case Erp, a Ferrara il 14%), la strategia del “pubblico” è quella di affidare la “grana” ai privati con accordi pubblico-privati in cui i privati si impegnano (in cambio di oneri zero e aree a costo zero) a costruire una percentuale di alloggi popolari o a prezzo calmierato. Poiché la negoziazione è fatta tra Sindaci/assessori/funzionari e grandi imprese è facile capire quanto sia bassa (più del dovuto) la quota che finisce all’edilizia “popolare” e quanto alti siano i prezzi al mercato libero (a Milano in periferia il costo di acquisto al mq. è 4mila euro e la stanza in studentato, quando è calmierato, a 850 euro mensili).

Questi effetti sono il frutto della crescente indifferenza dei partiti, Sindaci e cittadini al bene pubblico, alla politica. La scomparsa di movimenti sindacali e civili e la crescente centralizzazione (scomparsa dei quartieri, delle comunità critiche), per cui tutto viene deciso in alto tra pochi, che è anche il modello tecnocratico attuale della UE e che piace a molti Sindaci (c’è forse qualcosa che è stato oggetto di consultazione popolare negli ultimi 25 anni?).

Si è così imposto il “modello Milano “dove il Comune mette a disposizione di imprenditori privati aree a costo zero, in cambio di una percentuale di case sia con affitti calmierati (es.: 600 euro al mese per 80 mq.) dove la percentuale della quota sociale è però irrisoria, lasciando senza entrate gli stessi Comuni.

In Emilia-Romagna, dove pure c’è l’esperienza più diffusa di alloggi popolari, quasi il 15% degli alloggi sfitti è abbandonato e inutilizzabile, data la ‘vecchiaia’ degli edifici: il 42% è stato costruito più di 50 anni fa. C’è poi la morosità incolpevole. Famiglie povere che non riescono a pagare e che vengono sfrattate o che finiscono il periodo di locazione. Il sistema Erp, pressato tra case da ristrutturare, mancanza di fondi e scarse entrate non è più in grado di svolgere la sua funzione sociale.

A Vienna, che è il caso più virtuoso in Europa, il patrimonio pubblico riguarda il 40% delle case, a Milano il 6-7%, come altrove al Nord (al Sud l’Erp non esiste). Servirebbe un grande piano nazionale (o ancor meglio europeo) coinvolgendo non le solite grandi imprese ma anche quelle piccole e medie e non profit, cooperative e negoziando prezzi e percentuali per avere città sostenibili.

Servono anche banche pubbliche e capitali pazienti che finanzino a tassi onesti (2-3%). MPS, unica banca ad avere lo Stato come azionista, e che ora controlla Mediobanca e Assicurazioni Generali, lo farà? Già ci sono investimenti in tal senso da parte di Cassa Depositi e Prestiti (CDP, holding pubblica finanziaria del Ministero del Tesoro) e della BEI (Banca europea degli investimenti) e il Governo ha proposto un piano da 650 milioni. Ma sono briciole rispetto a quanto si potrebbe fare.

Servono 12 miliardi per 50mila alloggi. L’esperienza di Vienna e quella di cooperative come Il Castello di Ferrara sono di esempio. Comuni, Pubbliche Amministrazioni, la Confindustria stessa sono preoccupate che senza case accessibili non si trovino più lavoratori nelle città per far funzionare fabbriche e servizi. E paradossalmente l’aumento di iscritti all’Università aggrava la disponibilità di affitto per i lavoratori, se si pensa che solo a Ferrara ci sono ben 10mila fuori sede ogni anno a caccia di una stanza che rimangono esclusi dai 1.400 posti in studentati (nel 2026 ce ne saranno 109 in più: briciole…).

Il Comune di Ferrara è obbligato dalla legge regionale a riservare nel nuovo PUG almeno il minimo (20%) agli alloggi Ers. Altre città come Bologna ne prevedono il 30%, ma il 20% non sarebbe male, se il Comune non avesse previsto che si possono anche non fare, pagando al Comune una piccola penale.

In una situazione drammatica per centinaia di famiglie forse si aspetta il 2040, quando le immatricolazioni all’università caleranno del 40%.

Non sarebbe ora di avviare un piano casa a buon mercato per chi vuole mettere su famiglia o solo lavorare in città? L’Italia è diventata, dopo la Germania, in rapporto agli abitanti, il maggior esportatore mondiale, ma gli incentivi potrebbero andare anche a chi è senza casa o è un problema secondario? Senza sviluppare la Domanda Interna crescono solo le disuguaglianze. E pensare che si possono fare un sacco di profitti e occupati anche sviluppando la domanda interna. Ma la UE, come i Governi, devono fare scelte: o armi o piani sociali. La terza via non esiste.

[1] Nomisma stimava per l’Emilia-R. 32mila famiglie con un affitto superiore al 30% del reddito famigliare ed altrettante con affitti oltre il 50%. Nel comune di Ferrara Istat stima nel 2019 11.867 alloggi in affitto, di cui 943 in Ers (7,9%).

In copertina: immagine Public domain pictures

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Il progetto di ricerca del gruppo “Ferrara, le donne e la città”: Dal vivere gli spazi al progettare i luoghi

Pubblichiamo questo importante documento frutto del progetto di ricerca promosso da gruppo “Ferrara, le donne e la città” per sollecitare una nuova consapevolezza dei bisogni, delle difficoltà e dei diritti delle donne nel vivere urbano.
(Redazione di Periscopio )

WOMEN’S WISE WORKSHOPS
“DAL VIVERE GLI SPAZI AL PROGETTARE I LUOGHI”

PROGETTO PARTECIPATIVO WWW. ATTRAVERSARE CONOSCERE COPROGETTARE 

Responsabile scientifico: Letizia Carrera, docente di Sociologia del territorio presso l’Università di Bari, coordinatrice del Laboratorio di Studi Urbani URBALAB 

Il progetto di ricerca è stato promosso dal gruppo “Ferrara, le donne e la città” al fine di sollecitare  una nuova consapevolezza dei bisogni e dei diritti delle donne nell’esperienza urbana, mettere in luce  le difficoltà e i problemi che le donne affrontano nella vita quotidiana riguardo alla mobilità, alla  sicurezza, ai servizi, agli spazi di relazione, ripensare in concreto gli spazi della città, le periferie, la  mobilità, la cura dell’ambiente urbano attraverso il confronto con le esigenze e le esperienze di vita  vissuta per giungere a possibili proposte di interventi sulla città.  

Attraverso esperienze di laboratori urbani e di riflessione collettiva, le partecipanti al processo di  ricerca-azione hanno esplorato lo spazio urbano, condividendo percezioni, bisogni e proposte per  rendere la città più inclusiva e attenta alle esigenze delle donne. 

I risultati vengono resi pubblici e presentati agli Amministratori con l’auspicio di contribuire a creare,  in prospettiva, le condizioni per una migliore qualità della vita delle donne e degli altri attori urbani  nella città. 

“La città accogliente e friendly per le donne è una città che sa tendere all’obiettivo di essere inclusiva,  sostenibile e people friendly“. 

Il laboratorio WWW trova la sua matrice teorica nel principio del “diritto alla città” tematizzato dal filosofo francese Henri Lefebvre e che si declina sia come diritto a vivere pienamente la città, sia come diritto a partecipare alla sua progettazione.  

Questa teorizzazione è il fondamento dei principi di democrazia territoriale – il diritto a una città di qualità a prescindere dallo specifico luogo di residenza andando oltre il limite della città “spezzata” tra centro e periferie -, e di quello di giustizia sociale – diritto a poter fruire delle opportunità e dei servizi messi a disposizione dalla città a prescindere dalla specifica dotazione individuale di risorse economiche, culturali e sociali. Il richiamo evidente è alla teoria della capabilities di Amartya Sen e Martha Nussbaum che ritiene imprescindibile centrare l’attenzione sulle reali opportunità fruibili dai soggetti (opportunities) più che sulla loro mera presenza nello spazio urbano 

PREMESSA 

Le città sono storicamente progettate secondo un immaginario maschile, che spesso ignora i bisogni e le esperienze quotidiane delle donne. L’adozione del “gender mainstreaming” nella pianificazione urbana può permettere di superare alcuni limiti di questo approccio, favorendo un accesso equo ai servizi e una maggiore partecipazione ai processi decisionali. 

“Le donne vivono ancora la città con una serie di barriere fisiche, sociali, economiche e simboliche che condizionano la loro vita quotidiana” ( Leslie Kern 2019), ma è proprio a partire da questi ostacoli

che proprio loro possono generare una nuova visione urbana: più sensibile, più umana, più sostenibile. 

Le città infatti non sono neutre. Sono state progettate da urbanisti maschi per soddisfare modelli maschili di vita centrati sul lavoro produttivo, su spostamenti lineari, su tempi rigidi, su strutture pensate per un uomo adulto, sano, motorizzato. Ma la vita reale, quotidiana, è ben più complessa e a pagarne il prezzo sono soprattutto le donne, con le loro giornate frammentate tra lavoro, cura, spostamenti multipli, carichi familiari. 

Da queste analisi discende la seconda declinazione del diritto alla città a cui si è fatto riferimento, che richiama in modo stringente la necessità che gli amministratori e i progettisti dialoghino in modo continuo e sostanziale con i cittadini e, naturalmente con le cittadine, riconosciuti quali portatori di specifiche competenze e di un sapere connesso alla pratiche quotidiane 

Molte città hanno già iniziato a integrare la parità di genere nelle politiche urbanistiche, sociali e culturali: a Vienna, a Barcellona, ad Amsterdam, a Bilbao si sono realizzati interventi che, soddisfacendo i bisogni e i diritti delle donne, hanno contribuito ad attivare processi di uguaglianza dei diritti e percorsi di transizione ecologica. 

Per il cambiamento è necessaria un approccio sistemico abbandonando una visione unicamente economica del mondo per assumere una visione ecologica, in grado di collegare le complesse dinamiche della vita quotidiana con la tutela dei beni comuni ( aria, acqua, suolo) e la garanzia dei servizi ai cittadini ( educazione, sanità, trasporti ). Le donne, per la loro esperienza di vita, sono portatrici di una visione sistemica, complessa, capace di tenere insieme tempi, relazioni, spazi e necessità. Oggi più che mai è di questa complessità che abbiamo bisogno. 

“Le donne possono dare un contributo determinante a immaginare un nuovo modello di convivenza urbana, con la forza delle loro idee, con i loro bisogni e desideri, mettendo a nudo quello che non funziona e che potrebbe cambiare, rivelando le asimmetrie nella ripartizione del potere e delle responsabilità”( Elena Granata 2023 ). 

Da queste premesse deriva l’urgenza di iniziare ad elaborare, con la partecipazione diretta delle donne e sulla base dell’analisi dei loro bisogni, proposte concrete di modifica della città da sottoporre agli Amministratori. Proposte che parlino di trasporti più accessibili, di spazi pubblici sicuri e accoglienti, di orari urbani compatibili con la vita reale, di servizi di prossimità. 

OBIETTIVI  

  • Rilevare le percezioni femminili dello spazio e delle sue pratiche d’uso: comprendere come le donne vivono e percepiscono gli spazi urbani, identificando aree che favoriscono o ostacolano la loro mobilità e sicurezza. “Spazi e luoghi gender friendly per progettare città people friendly”. 
  • Promuovere l’empowerment sociale e politico: incoraggiare le donne a diventare agenti attive nel processo di progettazione urbana, fornendo loro strumenti per rilevare esigenze e bisogni ed esprimere proposte.
  • Influenzare le politiche urbane: utilizzare i dati raccolti durante i laboratori urbani per avviare un dialogo con le amministrazioni territoriali e proporre soluzioni concrete di infrastrutturazione urbana per garantire una maggiore inclusività e attenzione alle esigenze di genere. 

METODOLOGIA 

Poiché l’intento prioritario era dare voce alle donne della città, si è adottato il consolidato metodo della ricerca sociologica qualitativa che consente di esplorare fenomeni sociali complessi e di acquisire comprensione delle dinamiche sociali, tramite il punto di vista dei soggetti e il significato che essi attribuiscono alle loro esperienze. 

QUI un testo esplicativo di Letizia Carrera, docente che ha curato la ricerca. 

DAL «progettare per» AL «progettare con» 

Il progetto Women’s Wise Walkshops è centrato sulla premessa di riconoscere la competenza delle cittadine e dei cittadini che abitano i luoghi. È fondato su un processo partecipativo complesso che persegue un duplice obiettivo: ascoltare, dare struttura e amplificare le voci di chi abita la città e promuovere il coinvolgimento civico e la connessione tra attori sociali diversi al fine di una progettazione urbana partecipata. 

FASI e STRUTTURA del progetto e impianto delle attività di ricerca-azione 

  1. Identificazione, in collaborazione con associazioni locali e gruppi organizzati del territorio, di donne che presentino tratti sociali differenziati in una logica intersezionale. 
  2. Conduzione di interviste semi-strutturate con le donne residenti nei quartieri selezionati come riferimento territoriale per i laboratori urbani. 
  3. Organizzazione di focus group basati sui risultati iniziali emersi dai protocolli di intervista e misurazione degli iniziali investimenti individuali sulle pratiche partecipative. 
  4. Implementazione di walkshop urbani, progettati sulla base del modello delle dérive situazioniste, ma con una maggiore declinazione sociale, che coinvolgano donne di diverse età e background sociali. 
  5. Creazione di mappe tematiche basate su metodologie partecipative e rivalutazione del livello di engagement delle cittadine coinvolte nei diversi percorsi. 
  6. Sviluppo di un documento condiviso che sintetizzi le osservazioni e i rilievi raccolti dalle tre fasi precedenti, delineando infine una serie di raccomandazioni di politiche urbane e interventi concreti per gli spazi urbani. 
  7. Realizzazione di tavoli di confronto con la cittadinanza e con gli amministratori locali, sulla base dei dati emersi per un dialogo e una riflessione condivisa sui risultati per l’elaborazione di specifiche politiche urbane.

Fasi di realizzazione della ricerca  

  • Individuazione di due quartieri, uno centrale e uno periferico, diversi per caratteristiche e problematicità in cui svolgere la ricerca: quartiere Arianuova-Giardino e quartiere Krasnodar. 
  • Realizzazione di 65 interviste semistrutturate e realizzate in presenza rivolte a un campione di donne dei due quartieri diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Fasce di età 18/35, 36/65, over 65. Interviste semistrutturate finalizzate alla raccolta di dati relativi a comportamenti, valutazioni, rappresentazioni dello spazio urbano e delle pratiche quotidiane, e di proposte per il miglioramento della qualità della vita del territorio. 
  • Realizzazione di 2 focus groups: uno per quartiere, coinvolte complessivamente 25 residenti, diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Discussione di gruppo, a partire dai macrotemi emersi dall’elaborazione e dell’analisi delle interviste condotte nella fase precedente, finalizzata a raccogliere esperienze, idee, riflessioni, proposte delle partecipanti sui diversi temi urbani. 
  • Realizzazione di 2 walkshops: uno per quartiere, coinvolte complessivamente 26 residenti, diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Laboratori urbani organizzati in due diverse fasi: a) realizzazione di camminate osservazionali (dérive) attraverso i luoghi urbani individuati come oggetto della riflessione condivisa con lavoro individuale: ogni partecipante osserva, riflette e prende appunti. b) Confronto sul tema individuato e sulle osservazioni ottenute, all’interno di uno spazio chiuso. 
  • Realizzazione di 2 incontri, uno per quartiere, con tutte le partecipanti al focus group e al laboratorio urbano, per la discussione di gruppo sui materiali emersi dal lavoro complessivo trattati con il metodo delle Word Clouds per l’analisi del contenuto e con quello dell’analisi tematica. 
  • Elaborazione di un documento condiviso che avanzi ipotesi di (ri)progettazione dello spazio urbano inteso quale elemento materiale e immateriale; 
  • Realizzazione di un evento pubblico nel quale sono stati presentati e discussi i risultati emersi dall’analisi dei materiali esito del percorso di ricerca. 

I risultati emersi dal laboratorio WWW Ferrara mostrano con nettezza le potenzialità di questo metodo di indagine sociale in grado sia di cogliere dimensioni e rappresentazioni sottostanti i comportamenti e sia di mettere a valore un sapere pratico e quotidiano di esperibilità dei luoghi. 

Premessa necessaria dalla quale non si può prescindere è il riconoscimento di elevati livelli di fiducia nutrito dai cittadini nei confronti dell’amministrazione e la convinzione di essere parte di un percorso condiviso e sinergico per implementare nuovi progetti per migliorare l’infrastrutturazione materiale e immateriale dello spazio e quindi garantirne una maggiore vivibilità per tutti i diversi tipi di cittadini. 

I dati emersi, al pari di quelli generati dalle altre esperienze metodologiche, non vanno quindi interpretati come sterili critiche rivolte all’amministrazione, quanto, invece, come un percorso partecipato di ripensamento e di miglioramento degli elementi materiali e immateriali della città per aumentarne il livello di vivibilità.

RISULTATI 

Per risultati si intendono le proposte operative emerse dal lavoro di ricerca al fine di riprogettare la città secondo una prospettiva di genere, per una città a misura di tutti i suoi abitanti: “una mappatura sociale per policy urbane di città gender/people friendly”. 

Proposte sintetizzate esposte per aree tematiche 

Mobilità 

  • Pianificazione di una mobilità dolce, sicura e intermodale che si confronti con i tragitti complessi e frammentati spesso compiuti dalle donne ( lavoro, accompagnamento figli, acquisti, cura di persone anziane). 
  • Rafforzamento della rete pedonale e ciclabile, migliorando l’illuminazione, la visibilità e la sicurezza (anche quella percepita). 
  • Progettazione e implementazione del trasporto pubblico con attenzione a frequenza, orari serali, segnaletica accessibile, sicurezza alle fermate e veicoli facilmente accessibili. 
  • Predisposizione di parcheggi di scambio e navette elettriche di collegamento (park & ride). Diminuzione del costo del biglietto del bus o estensione della durata della validità. Spazi pubblici 
  • Adeguamento strutturale degli spazi pubblici per l’accesso di soggetti con disabilità permanente e temporanea. 
  • Riprogettazione degli spazi pubblici con una maggiore infrastrutturazione materiale e immateriale adeguata alla fruizione differenziata dei luoghi: più panchine, più bagni pubblici, più illuminazione, marciapiedi più larghi e ben manutenuti, rimozione barriere architettoniche. 
  • Creazione di spazi verdi diffusi e migliore cura del verde esistente. 

Sicurezza 

  • Applicazione del principio di “prevenzione ambientale del crimine” (CPTED) con criteri di progettazione orientati alla sicurezza: visibilità, presenza umana, illuminazione, assenza di barriere visive. 
  • Contrasto dell’abbandono e della marginalità degli spazi pubblici tramite l’attivazione sociale e culturale sostenuta dall’amministrazione pubblica e da una rete multiattoriale. 
  • Collaborazione con centri antiviolenza, associazioni e comitati per mappare aree a rischio e progettare interventi mirati. 
  • Sostegno agli esercizi commerciali di prossimità come presidi di presenza di vitalità della zona e presidio di sicurezza.

Servizi per i cittadini 

  • Progettazione della città in funzione dei tempi di vita e di lavoro delle persone, promuovendo la “città dei 15 minuti” che consenta di accedere a servizi essenziali (scuole, centri di medicina territoriale, commercio, verde pubblico) in prossimità dell’abitazione. 
  • Potenziamento dei servizi di prossimità (nidi, centri anziani, consultori, sportelli sociali, …) accessibili a tutte le fasce della popolazione. 
  • Creazione di spazi pubblici flessibili, multifunzionali e intergenerazionali che incentivino la socialità e un nuovo modello di cura e di responsabilità sociale condivisa. 
  • Investimento sugli esercizi commerciali di prossimità da considerare non solo come valore economico ma anche per il loro ruolo di veri presidi civici. 

Spazi associativi 

  • Censimento e riqualificazione di edifici e spazi, in modo diffuso nella città, per garantire luoghi pubblici di incontro (anche al chiuso). 
  • Biblioteche, cinema, palestre diffuse per creare occasioni di consumi culturali e di socialità. 
  • Predisposizione di piani sociali (co-progettati) per aumentare il senso di sicurezza percepito dagli abitanti e consentite di fruire di queste possibilità anche la sera. 
  • Case di quartiere (vedi https://www.retecasedelquartiere.org/cos-e-la-rete-delle-case/). Partecipazione 
  • Attivazione di processi partecipativi che includano donne, giovani, anziani, persone con disabilità, caregiver e altri gruppi sottorappresentati nei processi decisionali, con un’attenzione anche alle diverse etnie presenti nella città. 
  • Utilizzo di metodologie di ricerca-azione come i “gender walk” (camminate esplorative di genere),le mappe partecipate e i laboratori di quartiere per raccogliere dati qualitativi sull’ esperienza urbana, da combinare con quelli statistico-demografici. 
  • Favorire la presenza paritaria di donne e uomini nei tavoli decisionali per la progettazione urbana e in quelli connessi alle politiche sociali territoriali. 
  • Favorire le associazioni e i comitati attraverso il finanziamento di una progettazione mirata alla rigenerazione (materiale e immateriale) dello spazio urbano. 

Lo strumento degli attraversamenti urbani, elemento innovativo rispetto alle attuali pratiche e ai  metodi di conoscenza dei luoghi su base partecipativa, si è confermato in grado di garantire, anche in  combinazioni con altre tecniche di indagine, una conoscenza approfondita e generativa dei territori in  vista della possibilità di percorsi collaborativi con le amministrazioni del territorio per una  riprogettazione e un miglioramento condivisi dello spazio urbano e delle forme dell’abitare.

Ferrara, le donne e la città
Ringrazia tutte le associazioni che hanno reso possibile questo lavoro partecipativo

 

Cover: Foto di Ezequiel Octaviano da Pixabay

Le voci da dentro / L’estate del nostro scontento

Le voci da dentro. Caro papà… le cose che non ti ho mai detto

di Giovanni DB

La lettera di Giovanni al padre, scritta e pubblicata qualche anno fa su Astrolabio, è un testo intenso che lascia capire che qualcosa che nella sua vita non ha funzionato come avrebbe voluto. Ci sono dei vuoti ma c’è anche la dimostrazione lampante del bene che questo ragazzo ha voluto e vuole al padre. C’è una dimensione familiare rassicurante ma, allo stesso tempo, c’è l’attrazione verso un’ombra scura. È un testo da leggere, provando a mettersi nei panni dell’altro. Comunque la pensiate, buona lettura.

(Mauro Presini)

Caro papà,

quante cose che avevo da dirti; quante cose da chiederti… forse tante, e forse non a tutte avevi una risposta.

Ugualmente avrei voluto dirtele e guardarti mentre la tua espressione da pensatore prendeva forma e quella ruga si faceva più profonda.

Era bello ascoltarti, se pur sempre non perdevi l’occasione di insegnarci; è per questo che di te sono stato sempre fiero, caro papà.

Avevi ragione anche quando mi prendevi a schiaffi (credimi, facevano veramente male), mai ho ricevuto uno schiaffo senza motivo, senza che me lo meritassi.

Hai dedicato una vita intera a noi figli, a questo figlio… io così ostinato, non credevo che alla fine sarei finito dentro una stanza fredda e buia.

Certo la prima cosa che hai detto è stata: Lo sapevo che finiva così!” o forse lo immaginavi, comunque sia è andata cosi, come tu avevi preannunciato in cuor tuo. Anche se hai sperato e creduto con tutte le tue forze che non andasse così: così è andata.

Ricordi, ancora prima del 2000, un grande dolore ha lacerato i nostri cuori, la perdita di un fratello, la perdita di tuo figlio maggiore, e fu proprio lì che

ho imparato per la prima volta cosa significa il vero dolore, quel dolore che porterai e porterò per tutta la vita, il dolore che non passa mai.

Sono del parere, ne sono convinto, che un genitore non dovrebbe mai seppellire un suo figlio; è veramente inaccettabile e contro natura una cosa del genere, mostruosamente sbagliata ed ingiusta.

Ecco che ti vedo, dietro quei tuoi grandi occhiali, che adesso non ti danno l’aria da pensatore, ma di chi si è mascherato per non far trasparire la sua tristezza, il suo dolore.

Eri un uomo duro, forte e fermo, che non ha mai fatto mancare niente a tutti noi, si è dedicato solamente alla famiglia e, quando era festa, era festa per tutti: l’abbondanza padroneggiava a casa nostra…

Papà, quando arrivava Natale, credo che anche un figlio di uno sceicco si sarebbe ingolosito per tutto quello che c’era sulle nostre tavole, per i regali, per l’amore e l’armonia che regnava dentro la nostra grande ed accogliente casa.

La scelta mia? Beh in fondo non l’ho capita neanche io, neppure scappare dalla mia città… scappare da qualcosa che non sapevo neanche cos’era: paura, vigliaccheria, orgoglio, forse menefreghismo… oggi dico solo ingenuità…

Cosi me ne andai via, lontano, non con la speranza di far fortuna, ma almeno, un giorno, di farti fiero di me; non sapendo che tu lo eri già, se solo ti ero vicino.

Poi nel 2002, il mio arresto, ecco che ritorna quella tristezza, quel dolore che ancora fresco nel mio cuore continua a pretendere ancora di più, ma tanto di più.

Hai provato a tamponare, a reagire a quel contraccolpo, mentre speravi che non fosse così grave come sentivi: un figlio morto e uno in galera…

Anch’io morto in galera, perché tutto quello che sei riuscito a percepire e stata solo la parola “ergastolo”, questo è bastato a far tremare il mio cuore, e a sprofondare nel tuo oblio.

Così mi hai lasciato… senza neanche un preavviso, e di colpo… il contraccolpo l’ho preso io, sapendo che tu te ne sei andato senza di me, mentre io ti avrei accompagnato ovunque, ovunque tu avresti voluto andare: sotto, sopra non avrebbe fatto nessuna differenza per me.

Per te mi sarei buttato anche sotto un treno e non m’importa se questo non è un discorso da persona sana di mente, ma sfiderei chiunque se non avesse fatto la stessa cosa al posto mio, per un suo genitore, be’… io si!!!

Adesso… adesso non mi rimane altro che parlarti, scrivere di te, con la speranza che mi ascolti.

Dedico tutto me stesso a mettere in pratica tutti i tuoi insegnamenti, i consigli che mi ripetevi tutti i santi giorni, ma credo che la cosa più grande che tu mi dicevi e proprio quella di non sprecare e di non buttare via la mia vita…

Caro papà, non è mai troppo tardi per riprendere per mano la propria vita; forse oggi non posso viverla proprio come vorrei, ma almeno ho la possibilità di ricominciare a viverla con i tuoi insegnamenti ed i tuoi consigli, che non mi hanno mai portato fuori strada.

Caro papà, scusa se non posso raggiungerti, ma sono sicuro che tu sarai felice sapendomi vicino alle tue figlie, alla nuora e ai nipotini…

Mio caro papà, un giorno ti racconterò tutto, e capirai come è stato difficile senza di te, ma grazie a quello che tu mi hai trasmesso, ho potuto dare un senso a questa mia vita, grazie alla bella famiglia che hai lasciato.

Ti voglio bene, caro papà.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/samuelfjohanns-1207793/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=4163403″>Samuel F. Johanns</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=4163403″>Pixabay</a>

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Parole e figure / Lento, lentissimo

Jon Fosse guarda dentro una piccola marachella quotidiana, in un concentrato di temi intimi come il senso di colpa e l’onestà. Uscito in libreria il 22 ottobre, con Iperborea, “Lento lentissimo” è una storia ad alta intensità emotiva. 

Per un impulso improvviso e incontenibile, un bambino non resiste alla tentazione di rubare una banana dalla borsa di una vecchietta ricurva che cammina, con il suo bastone, lenta lentissima, per strada, vicino alla rossa fiammante caserma dei pompieri.

Da quella che appare come una piccola monelleria quotidiana nasce una grande storia di suspense e intense emozioni, che parla di senso di colpa, onestà e rispetto, di saper dire grazie e scusa, di uno sbaglio che diventa un’occasione per crescere.

Le marachelle possono essere innocue, ma possono anche non esserlo e portare lezioni inaspettate. Non tutto è perduto.

Un mondo fantastico, che racconta i silenzi e le paure che servono a crescere. Una bugia dopo l’altra, senza il naso di Pinocchio che cresce, e una catena inarrestabile che però porterà a capire cosa fare. Curioso e avvincente, da non perdere, per sé o da regalare.

Jon Fosse è considerato uno dei più importanti scrittori del nostro tempo, premio Nobel per la letteratura nel 2023. La sua opera comprende anche quattro albi illustrati speciali che Iperborea presenta per la prima volta in Italia.

Lucio Schiavon è un illustratore e Graphic Designer nato a Venezia, che ha collaborato con Fabrica, La Biennale di Venezia, Triennale di Milano e l’Agenzia Armando Testa. Illustra libri per Nuages, Topipittori, Terre di Mezzo, Einaudi Ragazzi. Il suo lavoro è come un concerto Jazz, dove mescola ritornelli ad assoli gestuali e imprevisti. Sempre fedele all’aspetto della ricerca visiva e a tecniche artistiche in continua evoluzione.

Jon Fosse, Lucio Schiavon (illustratore), Lento lentissimo, Iperborea, collezione “I Miniborei”, Milano, 2025, 48 p.

Giuseppe Trautteur: la mente cibernetica e il cuore poetico della scienza

Giuseppe Trautteur: la mente cibernetica e il cuore poetico della scienza

In memoria di Giuseppe Trautteur (1939–2025)

Nel silenzio discreto che accompagna le grandi menti, si è spento Giuseppe Trautteur, fisico, informatico, filosofo della mente e figura chiave della cultura scientifica italiana. Ma per chi ha attraversato le pagine della Biblioteca Scientifica Adelphi, il suo nome non è solo quello di un curatore: è un ponte tra scienza e poesia, tra sistemi complessi e intuizioni liriche.

È grazie a lui se molti di noi hanno incontrato Fritjof Capra e il suo Tao della Fisica, dove la meccanica quantistica danza con il pensiero orientale. È grazie a lui se Gregory Bateson è diventato un compagno di viaggio, con la sua ecologia della mente e il suo sguardo sistemico sul mondo o se abbiamo scoperto, con Julian Jaynes, che la coscienza è soltanto una forma recente che si distacca dal fondo arcaico della “mente bicamerale”.

E, probabilmente, è ancora grazie a lui se Wallace Stevens, poeta dell’immaginazione e della realtà, ha trovato casa in Adelphi, in un catalogo che non ha mai temuto di accostare il rigore alla meraviglia, l’algoritmo al verso.

Giuseppe Trautteur non ha solo selezionato libri: ha modellato un pensiero, ha dato forma a una collana che ha educato generazioni di lettori a pensare in modo non lineare, a cercare connessioni invisibili, a interrogare la coscienza come fenomeno emergente.
Il suo Il prigioniero libero (Adelphi, 2020) è una riflessione radicale sulla libertà e sull’identità, scritta con la tensione di chi sa che il linguaggio è sempre un tentativo, mai una conquista.
Nel tempo della tecnoscienza e dell’intelligenza artificiale, Trautteur ha saputo restare umano, interrogando la macchina senza mai dimenticare il mistero. La sua eredità è quella di un pensiero che non separa, ma connette: fisica e filosofia, mente e codice, poesia e algoritmo.

Ricordo un seminario tenuto da Trautteur negli anni ’80 all’Università Federico II di Napoli, durante i miei studi di Fisica Teorica con il Professor Eduardo Caianiello amico e collega di Trautteur.

In quel seminario, Trautteur, ricordando l’epoca pionieristica dell’intelligenza artificiale italiana, parlò con passione e lucidità della mente come sistema aperto, capace di apprendere e trasformarsi, e della libertà come emergenza di un ordine non deterministico. La sua voce, pacata ma intensa, sembrava voler restituire alla scienza il suo respiro più profondo: quello della meraviglia.
Fu uno di quei momenti in cui la scienza smette di essere solo calcolo o chiacchiericcio divulgativo e diventa vera e propria visione.

Come scrive Wallace Stevens, L’immaginazione è il potere dell’uomo sulla natura. Una frase che sembra racchiudere il cuore del progetto culturale di Giuseppe Trautteur: restituire alla scienza la sua dimensione immaginativa, poetica, capace di intensificare il reale senza tradirlo.

Anche Roberto Calasso, nel suo libro postumo Opera senza nome, sembra echeggiare il magistero di Trautteur. Calasso parla di una “corrente che sostiene l’insieme” dei suoi undici libri, come isole nella corrente di un mare illimitato, connesse da fragili ponti o traghetti. È una metafora che ricorda la visione sistemica e reticolare di Bateson, e il pensiero cibernetico che Trautteur ha contribuito a diffondere. In fondo, anche Calasso ha cercato di “inventare qualcosa che prima non esisteva”, affidando proprio a Trautteur  la  collana scientifica della sua casa editrice.

Oggi, mentre lo ricordiamo, possiamo dire che Giuseppe Trautteur è stato una mente cibernetica con il cuore poetico della scienza. E che il suo lascito vive in ogni lettore che, aprendo un libro della sua collana , ha sentito vibrare il pensiero come forma di bellezza.

Nota biografica
Giuseppe Trautteur (1939–2025) è stato un fisico teorico, informatico e pensatore interdisciplinare, la cui carriera ha spaziato dalla ricerca scientifica alla riflessione filosofica. Professore presso l’Università Federico II di Napoli, ha collaborato con il fisico Eduardo Caianiello e ha contribuito allo sviluppo della modellistica computazionale dei sistemi biologici. Come consulente editoriale di lunga data per Adelphi, ha ideato e curato la celebre collana della Biblioteca Scientifica, introducendo al pubblico italiano opere fondamentali di pensiero sistemico, cibernetico e filosofico, tra cui i testi di Fritjof Capra, Gregory Bateson, Douglas Hofstadter e Julian Jaynes. Nel suo libro Il prigioniero libero, Trautteur ha esplorato i fondamenti fisici della coscienza, il libero arbitrio e il rapporto tra mente e macchina, con uno stile che unisce rigore scientifico e tensione poetica.

Cover: Divina Commedia, III cantica, scienza e poesia. di Giovanni di Paolo, 1440 c.a

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Per certi Versi / Grigio

Grigio

Il manto del gatto
il cappotto del cielo
il velo di nebbia
nel fosso del cuore
il vetro a novembre
un’eco d’acciaio
le vite di fumo
la pace lontana
uno sparo lontano
infilzato nel cuore

In copertina: Foto di Herbert da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Un individuo appartenente allo 0,1% più ricco del pianeta emette in un solo giorno più CO2 di quanto il 50% più povero della popolazione mondiale ne produce in un anno. Dal 1990, la quota di emissioni dei super ricchi è cresciuta del 32%, mentre quella della metà più povera si è ridotta del 3%. Se tutti vivessimo come lo 0,1% più ricco, il “bilancio di carbonio” globale si esaurirebbe in meno di tre settimane, portando il pianeta verso il disastro climatico.

E’ quanto si legge nell’ultimo report di OXFAM pubblicato in vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici del 2025 (Cop30) che si terrà dal 10 al 21 novembre a Belem, in Brasile.
I super ricchi emettono una quantità enorme di CO2 a causa del loro stile di vita, ad esempio con l’uso di jet e yacht privati; ma non è solo il loro stile di vita a pesare. Essi, infatti, investono anche in attività economiche tra le più inquinanti e ne traggono profitto.
Il 60% degli investimenti dei miliardari globali è concentrato in settori devastanti per il clima, come petrolio e miniere. Le emissioni prodotte dagli investimenti di soli 308 miliardari superano quelle di 118 Paesi messi insieme. Il report rileva infatti come in media attraverso i propri investimenti un miliardario sia responsabile dell’emissione di 1,9 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Una quota di emissioni paragonabile a quella prodotta da un jet privato che facesse 10 mila volte il giro del pianeta. Stiamo parlando di un’élite che esercita una forte influenza sui negoziati internazionali sul clima, spesso ostacolando le politiche di transizione ecologica.

Alla Cop29 di Baku, ad esempio, risultavano accreditati ben 1.773 lobbisti delle industrie del carbone, del petrolio e del gas, più di quanti fossero i delegati dei 10 Paesi più colpiti al mondo dalla crisi climatica. “Bastano alcuni dati, sottolinea OXFAMper rendere evidente la deriva che stiamo percorrendo: da qui alla fine del secolo le sole emissioni causate dall’1% più ricco del pianeta potrebbero causare 1,3 milioni di vittime per l’aumento delle temperature e anche un danno economico per oltre 44 trilioni di dollari nei Paesi a basso e medio reddito entro il 2050”.

L’impatto della crisi climatica, inoltre, è sempre più forte sulle donne sia nei Paesi ricchi che, soprattutto, in quelli del Sud globale: oggi nel mondo 4 migranti climatici su 5 sono donne, che hanno in media una probabilità 14 volte più alta di restare vittime di disastri naturali rispetto agli uomini; anche nelle città europee ondate di calore sempre più forti e frequenti producono un maggior numero di decessi tra le donne.

Per questo, in occasione della Cop30OXFAM ha lanciato la campagna di sensibilizzazione e attivismo Climate Justice Is Gender Justice” con l’obiettivo di portare l’attenzione su un tema cruciale come la rilevanza degli aspetti di genere nel contrasto ai cambiamenti climatici. Un tema poco considerato nelle politiche di lotta al cambiamento climatico, definite prevalentemente da uomini: in Europa, ad esempio, meno del 27% dei ministri con delega all’ambiente sono donne. La campagna coinvolgerà centinaia di giovani con tante iniziative e attività di sensibilizzazione fino al Climate Pride del 15 novembre 2025 a Roma, in occasione della giornata di mobilitazione globale per il clima che si svolge in simultanea in molti Paesi europei.
La Cop30 arriva esattamente a 10 anni dall’approvazione dell’Accordo di Parigi del 2015. In questo lasso di tempo, l’1% più ricco del mondo ha consumato più del doppio del bilancio di carbonio della metà più povera dell’umanità.

OXFAM lancia un appello urgente ai governi per un’azione che porti a:

  • ridurre drasticamente le emissioni dei super ricchi e dei maggiori inquinatori, attraverso una tassazione più marcata dei grandi patrimoni e dei profitti in eccesso delle società di combustibili fossili, sostenendo in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Cooperazione Fiscale Internazionale
  • ridurre l’influenza economica e politica dei super ricchi, vietando alle società che operano nel settore dei combustibili fossili di partecipare ai negoziati sul clima come la Cop
  • rafforzare la partecipazione dei Paesi del Sud globale e delle comunità più colpite ai negoziati per il clima, con l’obiettivo di ridurre l’impatto sempre più disuguale della crisi climatica
  • adottare un approccio equo nella gestione del budget climatico residuo – riflettendo nei piani nazionali le responsabilità storiche e le diverse capacità di azione dei singoli Stati – e assicurando che i Paesi ricchi contribuiscano alla lotta al cambiamento climatico con finanziamenti consistenti, che vengano effettivamente erogati.

Qui il Report OXFAM: https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2025/10/Climate-Plunder-EN-Final-Paper.pdf

Questo articolo è uscito su pressenza il 27.10.25

In copertina: foto di OXFAM

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Le vite degli altri

Le vite degli altri

Bisogna saperle raccontare, le vite degli altri, entrarci, capirle, onorarle, proteggerle.
Dentro a tutte le mie notti, tornando, mi fermo sotto a una finestra accesa e vorrei sapere se va tutto bene
Proteggo le vite degli altri scrivendo quello che ascolto ogni sera, vite che vogliono attenzione e amore, (e tutti vogliamo attenzione e amore, tutti).
Le esperienze di chi racconta appoggiato al banco con un bicchiere in mano e vuole solo essere ascoltato, diventano le mie.
… e voi, dentro alle finestre siete illuminati in queste lunghe notti e vorrei scalare il muro, spiare in quella luce, la tv accesa con le notizie che non vorreste ascoltare, un divano con un plaid stropicciato, una scatola iniziata di biscotti con tutte le briciole sotto la schiena, mezza mela, bicchieri di vino, le calamite sul frigo, il gatto arrotolato sulla sedia, la sveglia che non serve a qualcuno che ha perso il suo lavoro, i vestiti già pronti per il giorno che è bello togliere il pigiama, profumarsi come divi del cinema dentro a un vecchio film americano dove sempre c’è un the end tipo “La vita è meravigliosa”, e un’ansia addosso che non vi fa dormire
oppure, un libro aperto sulle palpebre chiuse e la luce dimenticata accesa.
Le vite degli altri illuminate di notte a  aspettare…
Sono racconti.
Sempre.Che poi, queste vite, mica sono solo quelle che sbircio dentro le finestre illuminate quando torno di notte. E tutto ciò che dimenticate ogni sera? Borse, portafogli, cappelli, sciarpe, cellulari, accendini, ombrelli, occhiali, centinaia di occhiali, una volta pure un cappotto che nessuno ha mai più cercato. Pezzi di vite che finiscono nel cassetto delle cose perdute per sempre e sembra il segreto di un serial killer che custodisce gelosamente gli oggetti delle sue vittime.

Una volta abbiamo trovato una scatoletta con dentro biglietti usati del treno e due caramelle alla menta.
Chissà che storia era quella.E questo è un film meraviglioso.

Appunto, Le vite degli altri.

Penso a ciò che ha detto Lenin sull’Appassionata di Beethoven: “Non devo ascoltarla o non terminerò la rivoluzione”. Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo?”

In copertina: foto di Stefania Bergamini

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“Maratona della lumaca” alla Festa del volontariato 2025
Camminare insieme al ritmo dei tamburi

“Maratona della lumaca” alla Festa del volontariato 2025. Camminare insieme al ritmo dei tamburi

La Festa del Volontariato di sabato 11 ottobre scorso è stata la cornice perfetta per un evento costruito grazie a diverse preziose collaborazioni che hanno permesso di cucire insieme elementi differenti, tesi tutti a raggiungere i medesimi importanti obiettivi. Si tratta della MARATONA DELLA LUMACA, la prima camminata rivolta a portatori di Parkinson, caregiver e simpatizzanti; partita alle 9,30 dalla cosiddetta Casa del Boia in via Rampari di Belfiore, ha percorso il tratto delle Mura fino all’imbocco del sentiero per quella che viene chiamata “la campagna in città” (comunemente detta Terraviva) ed è arrivata in Piazza Ariostea intorno alle 11,30.

Qui, presso lo stand di Gepa Parkinson, si è svolto poi un incontro pubblico dal tema L’importanza dell’attività motoria nel contrastare l’insorgenza del Parkinson. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio dell’Assessorato allo Sport del Comune di Ferrara e del Panathlon Club di Ferrara ed è stata concertata e organizzata da Dimensione Nordic Walking e Gepa Estense Parkinson con l’importante supporto di Musijam APS.

L’idea della camminata è nata da Giuliana Melli Macagnani, consigliera dell’Associazione Gepa Parkinson, che ha proposto con successo ai soci di dedicare un giorno alla settimana alla pratica del nordic walking, in aggiunta alle numerose attività ludico motorie già organizzate dall’Associazione, perché convinta dell’utilità di tale pratica che coinvolge in modo ampio tutto il corpo curando il movimento, la muscolatura, la postura, l’equilibrio, favorendo nello stesso tempo la socializzazione.

La camminata ha quindi visto una nutrita partecipazione di portatori di Parkinson, affiancati da loro cargiver e da volontari, molti dei quali soci e allievi di Musijam, che è Associazione musicale e culturale e scuola di musica; nello specifico, i “musici” hanno scandito il ritmo della camminata, che è risultata così facilitata.

L’intervento dei musici all’interno della Maratona della lumaca è stato pensato, dagli operatori di Musijam, in considerazione degli ottimi risultati ottenuti con il percorso di musicoterapia che i malati di Parkinson stanno svolgendo presso l’Associazione, fortemente convinti che la musica sostiene e potenzia il raggiungimento degli obiettivi, abbattendo lo stress e rinforzando la motivazione. Altri volontari, prevalentemente anche questi associati a Musijam, hanno assistito i camminatori e altri ancora hanno predisposto momenti di riposo e ristoro.

Tutti hanno poi assistito, in cerchio, sul prato della magnifica piazza Ariostea, all’incontro con gli esperti. Ha introdotto Francesco Lazzarini, kinesiologo, referente di Dimensione Nordic Walking, il quale ha dichiarato che camminare è importante per tutti, anche per i portatori di Parkinson, perché fornisce un valido aiuto sul piano della resistenza fisica, dell’allineamento, dell’equilibrio e della coordinazione muscolare.

Ha riconosciuto che l’apporto dei musici è stato fondamentale, perché ha consentito ai camminatori di procedere seguendo il ritmo; il suono dei tamburi ha fatto da utilissimo ‘tappeto sonoro’ a cui le diverse andature si sono appoggiate, raggiungendo una condizione di amalgama e sincronicità.

Lazzarini, in veste di moderatore, ha poi dato la parola al neurologo prof. Enrico Granieri, il quale, alla luce della sua pluriennale esperienza, ha prima di tutto elogiato l’encomiabile azione dell’Associazione Gepa nel promuovere svariate forme di attività fisica, principalmente quelle attinenti al movimento e alla camminata, davvero importanti nella cura delle malattie neurologiche che creano disabilità, come è appunto il Parkinson.

Se si deteriorano alcune strutture legate al movimento, il movimento stesso aiuta a rinforzare la plasticità delle cellule nervose, ovviamente in aggiunta alla terapia farmacologica dedicata. Nel Parkinson il passo si accorcia, le ginocchia tendono a flettersi in avanti, i piedi si sollevano meno, gambe e cosce diventano rigide, come pure i muscoli; il peso del corpo tende in avanti, non è ben ripartito; si può perdere la capacità di controllare postura e velocità del camminare.

Anche braccia e mani si flettono in modo rigido, può mancare l’armonia dei movimenti delle braccia, sì che si producono degli automatismi difficili da controllare. Si osservano mutazioni anche nella mimica facciale, oltre a riduzione del tono della voce e della capacità di articolazione. A livello di movimento e camminata, si riduce la iniziativa motoria, si ha meno voglia di muoversi, meno voglia di socializzare.

A tutto questo si possono fornire ottime possibilità di cambiamento e di miglioramento, conclude il prof. Granieri, attraverso visite neurologiche di controllo, sedute di fisioterapia, ma anche, e soprattutto, passeggiate quotidiane, camminate nel verde, possibilmente in gruppo e una costante attenzione alla respirazione.

Ha preso quindi la parola Lisa Sacchetti, fisioterapista che collabora con Gepa dal 2006, prima per attingere documentazione e raccogliere testimonianze per la tesi di laurea, poi per esercitare l’attività pratica a seguito degli studi teorici. Lisa, sostenendo che non c’è un Parkinson uguale all’altro, ci regala una efficace metafora: chi pratica la fisioterapia è come un sarto che cuce il vestito addosso al singolo paziente.

Elogia poi le svariate possibilità offerte in questo ambito dall’Associazione Gepa: lavoro a casa dei pazienti, per fornire indicazioni e suggerimenti utili per la vita quotidiana; consigli e appoggio ai caregiver; indicazioni sull’arredo domestico; lavoro di gruppo, 2 volte alla settimana, in Associazione, da 5 anni; incontri e pratiche utili a favorire la socializzazione.

In conclusione dello stimolante ed arricchente incontro, Ilaria Bolzoni, musicista e musicoterapeuta, collegandosi con quanto illustrato dagli esperti che l’hanno preceduta, ha ribadito che la malattia del Parkinson costituisce una sfida complessa, perché oltre al movimento colpisce anche la voce, i gesti, i ritmi del corpo; ma non si ferma lì: spesso isola, toglie energia, mina la fiducia in sé stessi. Tra le attività che possono affiancare la terapia farmacologica, aiutando a migliorare la qualità della vita, un ruolo centrale, come già ripetutamente detto, riveste il movimento; ed è proprio a questo punto che può entrare in gioco un’altra risorsa: la musica.

Il ritmo musicale facilita l’esecuzione del passo e stimola movimenti più fluidi e automatici. Oltre a ciò, attività legate al canto, al respiro e alla produzione vocale, possono aiutare nella gestione della ipofonia. La musica riattiva la comunicazione, migliora la respirazione, l’articolazione delle parole e anche la sicurezza nel parlare. Ma c’è di più: fare attività musicoterapica insieme agli altri, con il supporto degli strumenti, favorisce le relazioni sociali, migliora l’umore, contrasta l’isolamento.

Quando si fa musica insieme si crea connessione. Si canta, si suona, ci si muove, si vive un’esperienza condivisa che restituisce sorriso e presenza. La musicoterapia sicuramente non sostituisce i farmaci, né le cure neurologiche, ma le accompagna e ci ricorda che la persona non è solo il suo sintomo, ma è molto di più: è corpo, mente, emozione, relazione.

Oggi, sottolinea Ilaria, con la camminata che abbiamo appena svolto, abbiamo messo in pratica una piccola ma significativa parte di tutto questo. Abbiamo camminato, ci siamo mossi, e lo abbiamo fatto insieme, accompagnati dalla musica. Non stiamo parlando solo di una terapia, ma di un diritto ad una migliore qualità della vita. È un gesto semplice, ma ricco di significato che sottolinea il senso di questa manifestazione, il valore simbolico ed emotivo di quello che abbiamo condiviso oggi, e quanto ogni passo, anche il più piccolo ed incerto, possa diventare parte di un percorso di cura.

Cover e immagini nel testo fornite dall’autrice

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Parole a capo
Paola Di Toro: «Maternità» e altre poesie

Parole a capo <br> Paola Di Toro: «Maternità» e altre poesie

 

Cattiva l’abitudine
di non raccogliere i cocci,
lasciare lesioni in balia
d’altri venti.
Si resta scuciti
fessure di un destino
che non coagula
che taglia altri corpi.

 

*

Maternità

Ci ha volute sasso ed utero
scagliato per farci concentriche
…………….la nudità estesa bianchissima
del latte sceso da tutti i cuori.

 

*

 

Carnale

ma così lontana dal tocco
quando il cielo s’immerge piombo
per uscirne petalo
e il momentaneo assoluto della mano
schiude l’inguine al ramo.

 

*

 

   Il biancospino

 

È così possibile
che le dita scampanellino la gioia
quando innesta dal profondo
e sbandierino prima che passi.
Che appendano una resa sopra al groviglio
-bianca-sullo scuro delle parole
che il male c’è
……………….– ed attrae.

 

Ci sarei entrata in quel pensiero
stretto sul gambo all’iperico.
Avrei preso tra le mani le parole
fatte polvere e costellazione in terra.
Avrei voluto intero il giallo bosco
degli spilli i polpastrelli dell’estate
per sentire di toccarti.

 

*

 

L’ambra della casa

 

È piovuta goccia d’ambra e resina
dal secolo un distillato del sole.
Quasi a possedere tutto il sapere
avvolto nella carezza.
Per questo granello sarei tornata
-per la casa- dove l’insetto ha
il diadema della luce.

 

Foto di Joachimklug da Pixabay

 

Paola Di Toro è nata nel 1975 a Campobasso dove vive e lavora. Specializzata in criminologia, ha espresso la sua passione per la scrittura anche in questo campo, collaborando con siti specializzati, centri antiviolenza e giornali in cui si è occupata di cronaca giudiziaria. Ha pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Stato liquido per Delta 3 edizioni nel 2022. Ha riportato menzioni in vari premi ed è stata tra i finalisti premiati nel concorso Genius Loci e nel concorso internazionale Metamorfosi. Nel 2022 e nel 2023 è stata nella giuria del premio, Sulle orme del De Sanctis, legato alla casa editrice Delta 3 e nel 2025 nel concorso di poesia Arturo Giovannitti.
In corso di pubblicazione un’antologia di fiabe, per Macabor editore, in cui sarà presente anche un suo contributo. In Parole a capo sono state pubblicate sue poesie il 3 agosto 2023.

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 309° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

 

 

Dal datore di lavoro al donatore di lavoro

Dal datore di lavoro al donatore di lavoro

Immaginate una persona, sposata e con figli a carico, che non ha un reddito fisso e quindi non sa come mettere un pasto in tavola o come pagare le bollette. Di cos’ha bisogno? Risposta facile: di un lavoro. Risposta facile, ma sbagliata.

Proviamo ad immaginare la stessa persona, che pur non lavorando percepisce affitti, ottenendo un reddito di 10.000 euro mensili. Direste che ha bisogno di un lavoro? Sicuramente no. E allora, la verità è che nessuno ha bisogno di un lavoro in quanto tale: ciò che serve alle persone sono i soldi necessari a vivere e mantenere la famiglia.

In realtà, ad aver bisogno di lavoro sono le aziende. Se io sono titolare di un’impresa edile, ho bisogno di qualcuno che impasti il cemento, che collochi i mattoni, che dia l’intonaco. E’ evidente che i muratori svolgono quelle attività non perché sentano il bisogno di farlo, ma perché per loro è il modo per guadagnarsi da vivere.

La situazione ottimale per un uomo o una donna sarebbe avere i soldi senza lavorare, o lavorando il meno possibile.

La situazione ottimale per un’azienda sarebbe avere il lavoro senza pagarlo, o pagandolo il meno possibile.

Sono due ipotesi estreme. La prima è quella a cui si dovrebbe tendere, in un futuro in cui gran parte dei lavori verrà gestito dall’IA. Ma la seconda è quella che il mondo del lavoro cerca concretamente di realizzare, in qualche caso riuscendoci pure.

Circa un anno fa fece scalpore la richiesta di Elon Musk: cercava collaboratori con alto QI, disposti ad orari di lavoro pesantissimi (80 ore settimanali) e senza alcuna retribuzione. Il compenso: l’onore di lavorare per lui.

A parte i fortissimi dubbi sul fatto che chi avesse risposto ad una simile inserzione potesse realmente avere un QI superiore alla media, questo esempio incarna alla perfezione l’atteggiamento che spesso si materializza nelle aziende italiane. 

 “Non si trova più nessuno che abbia voglia di lavorare”

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase da parte di imprenditori disperati perché, a loro dire, il nostro è un paese di fannulloni che preferiscono starsene sul divano piuttosto che accettare la generosa offerta di lavorare 10 ore al giorno per 800 euro mensili?

Come dar torto a questi imprenditori illuminati? Lavorare dev’essere considerato un privilegio, un’occasione per fare esperienza, per arricchire il curriculum. I soldi sono un aspetto secondario: anzi, guai a presentarsi ad un colloquio di lavoro chiedendo l’ammontare dello stipendio. Se questa è la logica, è bene cambiare anche la terminologia utilizzata fino ad ora: più che di datore di lavoro, dovremmo parlare di “donatore di lavoro”, come lo ha definito l’attrice comica Rosalia Porcaro in un suo riuscitissimo monologo.

Il Donatore di lavoro ha troppe cose a cui pensare per preoccuparsi della sicurezza dei suoi dipendenti: in fondo, quando lui ha cominciato a lavorare, le condizioni erano ben peggiori. Basta stare attenti, e se qualcuno si fa male se l’è cercata.

Il donatore di lavoro sembra avido, ma in realtà non è così: lavorare per lui è un privilegio, e se ci si accontenta dello stipendio che generosamente decide di offrire, senza stare a fare i pignoli sui contributi previdenziali e senza guardare l’orologio, sapendo che l’orario di lavoro non coincide con quello contrattuale, può essere un’esperienza impagabile. Per questo vorrebbe evitare di pagarla.

“Dobbiamo ringraziare l’azienda che ci paga lo stipendio”

Una frase che spesso sento pronunciare, anche nel settore bancario, che i dirigenti e i manager di aziende più grandi rivolgono ai dipendenti. Frase basata sulla colossale bugia per cui l’azienda non avrebbe bisogno di lavoro, ma generosamente si offre di pagare chi viene onorato di far parte della sua grande famiglia. Quindi lo stipendio non va visto come contropartita di una prestazione. No, lo stipendio è un regalo che generosamente viene accordato, una sorta di elemosina elargita da chi non sarebbe neanche tenuto a farla, ma lo fa in virtù della sua enorme generosità.

Una frase del genere è quanto di più offensivo si possa dire ad una persona che lavora. Che non lo fa perché il suo scopo nella vita è servire il suo Donatore di Lavoro: lo fa perché ha bisogno dei soldi per vivere.

 

Photo cover: Sciopero lavoratori Lanotype,  Sesto San Giovanni (MI), Associazione Archivio del Lavoro, fondo Fondo Silvestre Loconsolo, LCN_ST_DV_1838.

 

 

Ventimila cavi sotto i mari

Ventimila cavi sotto i mari

di Giuseppe Ferrara e Sergio Foschi

Recentemente due cavi sottomarini per le telecomunicazioni che attraversano il mar Baltico sono stati danneggiati con una sospetta azione di sabotaggio: il primo cavo che ha smesso di funzionare era lungo circa 218 chilometri e collegava la Lituania all’isola svedese di Gotland; il secondo cavo, lungo 1.200 chilometri e che collegava la capitale della Finlandia, Helsinki, al porto tedesco di Rostock, ha smesso di funzionare praticamente dopo un giorno dal primo.

I due cavi distavano tra loro circa 100 chilometri. Come detto si tratta di cavi usati per trasmettere telecomunicazioni in fibra ottica, quindi soprattutto comunicazioni via Internet ad alta velocità . Questo tipo di cavi ha una fondamentale importanza nell’economia globale, e un loro malfunzionamento o un loro sabotaggio causano danni enormi e su vasta scala.

Attualmente la rete di cavi sottomarini regge il 99 per cento del traffico Internet. E il suo ruolo diventa sempre più critico man mano che si infuoca il panorama geopolitico. Eppure i rischi che i Paesi, Italia inclusa, stanno correndo, associati a questi incidenti/sabotaggi, sono ben poco considerati. Ancora meno sono nell’agenda dei governi e delle scelte di politica industriale che quei governi saranno chiamati a fare.

Il traffico Internet mondiale scorre sotto gli oceani

Ci sono guerre che non si vedono, anch’esse decisive per gli equilibri geopolitici del mondo. Guerre  invisibili, sotterranee anzi più propriamente, sottomarine. Come ha scritto l’Economist“… i dati sono immagazzinati nella nuvola ma scorrono in mare.

Le nostre e-mail, TikTok e tutti i video, foto, playlists, clouds, ma anche le comunicazioni interne alle multinazionali, le transazioni bancarie (per 10mila miliardi di dollari al giorno!) e, naturalmente, i dispacci diplomatici e militari. Tutto scorre come direbbe qualcuno, nei “ventimila cavi sotto i mari”.

Attualmente, nei fondali degli oceani sono presenti circa 500 cavi sottomarini che coprono una distanza complessiva di 1,3 milioni di km, ovvero più di tre volte la distanza che separa la Terra dalla Luna.

In realtà queste cifre potrebbero essere prudenziali: la rete di cavi sottomarini è una componente critica dell’infrastruttura globale di Internet e le informazioni specifiche su alcuni cavi potrebbero non essere disponibili al pubblico per motivi di sicurezza.

Ma come sono fatti questi cavi?

Al di là della componente funzionale (quella opto-elettronica) il materiale preponderante è quello che costituisce l’involucro esterno tubolare nel quale viene immersa la fibra ottica portante il segnale. Questo materiale è la plastica, per la precisione un particolare tipo di poliolefina, cioè un determinato grado di polietilene e/o polipropilene.

Sì proprio quella famiglia di materiali che è stata prodotta per la prima volta nella città di Ferrara e che ancora oggi viene prodotta dalle aziende insediate in quel petrolchimico italiano.

Quando parliamo del problema della plastica o disquisiamo se sia il caso o meno di dismettere la filiera della petrolchimica, bisognerebbe tenere conto di queste cose che, tradotte in termini pratici, significano:

non possiamo fare a meno della plastica.

Ed infatti la produzione di plastica nel mondo continua ad aumentare assestandosi oggi a circa 500  milioni di tonnellate (fonte Global Plastic Market Size 2023-2033: https://www.statista.com/statistics/1060583/global-market-value-of-plastic/), ma continuando a crescere nel prossimo decennio.

Pur essendo una “banale” plastica, tale materiale deve essere messo nelle condizioni (grazie a una buona ricerca applicata) di poter essere utilizzato per il tipo di applicazione come quella dei cavi sottomarini. Questo tailor-made plastic material (materiale plastico fatto su misura come un vestito in una sartoria artigianale) deve avere determinate caratteristiche che non sarebbero affatto soddisfatte da altri tipi di materiali analoghi, come quelli provenienti ad esempio dal riciclo meccanico, né dalle cosiddette plastiche biodegradabili.

Ci auguriamo che bastino queste poche e, si spera, chiare informazioni per capire perché sarà complicato sostituire la plastica in molte delle attuali applicazioni e perché il recycling meccanico – che più opportunamente dovrebbe essere definito downcycling – non potrà rappresentare per moltissime filiere produttive ( p.es. automotive, edilizia, elettronica, manifattura in generale e bio-medicale)  una soluzione al problema innescato da un “altro tipo di problema”: quello della dispersione della plastica nell’ambiente.

L’alternativa di sostituire l’ingente massa  di plastica con materiali cosiddetti biodegradabili o, addirittura tornando ai vecchi materiali tradizionali (carta, vetro, etc…), avrebbe comunque importanti impatti sull’ambiente, per lo meno gli stessi impatti che hanno infine resa vincente la materia plastica nei confronti dei precedenti materiali e che la rendono ancora insostituibile in tante applicazioni come appunto quella dei cavi sottomarini per telecomunicazioni.

Negli ultimi anni, le comunicazioni satellitari hanno guadagnato attenzione grazie a progetti come Starlink di SpaceX, che promettono connettività globale attraverso una costellazione di satelliti in orbita bassa. Tuttavia, i cavi sottomarini rimangono la spina dorsale dell’infrastruttura Internet mondiale, trasportando oltre il 99% del traffico globale.

I vantaggi dei satelliti includono la copertura in aree remote e la rapidità di implementazione, ma presentano limiti in termini di latenza, capacità e vulnerabilità alle condizioni atmosferiche. I cavi sottomarini, al contrario, offrono maggiore stabilità, larghezza di banda e sicurezza, sebbene siano più costosi da installare e soggetti a danni fisici.

In sintesi, le due tecnologie non sono necessariamente concorrenti, ma complementari: i satelliti possono servire come supporto in zone non raggiunte dai cavi, mentre le dorsali sottomarine garantiscono la robustezza e la velocità necessarie per i flussi di dati su larga scala.

Concludiamo ripetendo quello che risulta ormai chiaro a tutti o a quasi tutti: il problema dell’inquinamento ambientale da rifiuti plastici lo si risolverà nel momento in cui si incentiveranno i metodi di riciclo chimico, l’unico sistema che permetterà di valorizzare il rifiuto plastico come vera e propria fonte energetica rinnovabile e che quindi ne favorirà la sua vantaggiosa – ambientalmente, socialmente ed economicamente –  raccolta e il suo “sfruttamento” per la produzione di virgin nafta di origine non più legata alla raffinazione del petrolio.

D’altra parte se la ricerca è riuscita a “solidificare” del gas, perché la ricerca non dovrebbe fornire soluzioni per “liquefare” la plastica?  Basta volerlo. Responsabilmente.

Bibliografia

  • Ambrosetti (2025). Rapporto Strategico sull’Industria della Plastica in Italia.
  • TeleGeography. Submarine Cable Map. https://www.submarinecablemap.com/
  • Cisco. Global IP Traffic Forecast. https://www.cisco.com/c/en/us/solutions/executive-perspectives/annual-internet-report/index.html
  • McKinsey & Company. Circular Economy and Plastic Waste Reports. https://www.mckinsey.com/business-functions/sustainability/our-insights
  • Statista. Global Plastic Market Size 2023–2033. https://www.statista.com/statistics/1060583/global-market-value-of-plastic/

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Trump costruisce un Nuovo Ordine Mondiale?

Trump costruisce un Nuovo Ordine Mondiale?

Probabilmente Trump riceverà l’anno prossimo il Nobel per la pace. L’hanno avuto anche Obama (in anticipo, senza poi fare nulla) e 7 premier israeliani e palestinesi pur non riuscendo a pacificare l’area. Più che il Nobel per la pace, speriamo però che arrivi la pace vera in Medio Oriente, per il martoriato popolo palestinese (ma anche per gli israeliani) e che non prevalgano gli estremisti in entrambe le parti. La pace “sporca” che speriamo arrivi cambia, come avevo predetto, la politica estera degli Stati Uniti, che ora con Trump cercano la pace più che guerre che, regolarmente, perdono.

Come mai questo cambio dopo 80 anni?

Perché è arrivata la Cina, la quale insieme ai BRICS vuole indebolire il dominio americano nel XXI secolo. Trump ne è consapevole se il suo segretario di Stato Marco Rubio dichiarò a suo tempo: “l’ordine mondiale uscito dalla 2^ guerra mondiale è ormai obsoleto e dopo 80 anni di dopoguerra la convivenza internazionale merita una nuova architettura politica”.

Già Keynes ci aveva provato nel 1945 con un paniere delle principali monete e materie prime, al posto del dollaro, ma gli Stati Uniti volevano dominare. Come dice il presidente brasiliano Lulanon esiste un ONU che non dia un seggio permanente al Brasile (o all’India e ad altri paesi giganti emergenti) e così va abolito il diritto di veto all’ONU”. Nella UE si vuole abolire il diritto di veto in base a un principio democratico che non si vuole però applicare all’ONU e ciò mostra la pochezza della UE.

La Ricchezza delle Nazioni si è sempre basata su Produzione e Forza Militare. L’Italia perse il suo primato nel 1492 perché mancava di uno Stato unitario e la sua enorme flotta era però divisa tra Venezia, Genova e gli altri staterelli. Diede il proprio know how (Colombo) e il denaro delle proprie banche a Isabella del Portogallo che, con la sola idea imprenditoriale, fece il business e colonizzò il Brasile. Poi fu la volta del dominino della Spagna e infine dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.

Clinton e i neo conservatori repubblicani pensavano con la Finanza (abolendo nel 1999 la legge introdotta da Roosevelt del 1933 sulla divisione tra banche d’affari e commerciali) di aver trovato la 3^ gamba per far stare in piedi lo sgabello del dominio (insieme a Produzione –PIL- e Potere Militare) che sono le gambe della forza di un Paese e della sua moneta.

Gli americani furono così sprovveduti da non accorgersi che i cinesi (aiutati con la de-localizzazione delle loro manifatture in Cina e l’ingresso nel WTO nel 2001) stavano diventando la “fabbrica del mondo”? Forse, ma certo pensavano che i lauti profitti (mai così alti negli ultimi 200 anni) riversati nella finanza, avrebbero consentito non solo di arricchire come non mai le loro élite, ma di continuare a dominare il mondo. Di certo non avevano considerato che, impoverendo le periferie e la classe operaia, avrebbero prodotto Trump.

Il cielo e le terre (rare)

Le terre rare nella tavola di Mendeleev

Innamorati del “cielo” (finanza, digitale, cloud, Intelligenza Artificiale, spazio) avevano trascurato la misera “terra”, che è sempre stata importante nella cultura confuciana sin da quando lo sterco fertilizzava quella terra che ora ritrova nuovo valore nelle materie prime e terre rare. Quei 17 metalli, dell’ultima riga della “tavola periodica di Mendeleev” (1869) che sono fondamentali per le nuove tecnologie (tullio, lutezio,…) per le nuove armi (droni e aerei), Intelligenza Artificiale, smartphone, motori elettrici, turbine eoliche, raffinare il petrolio, uso dei laser, semiconduttori e molto altro.

Terre rare possedute per il 44% dalla Cina, 12% dal Vietnam, 11% dalla Russia, 11% dal Brasile, 7% dall’India, 4,2% dall’Australia, 3% dagli USA e 1,5% dalla Groenlandia, cioè per 85% dai BRICS. Nei prossimi anni si scopriranno altri giacimenti (il Giappone li cerca in fondo all’oceano), ma il grande problema è anche la raffinazione, un processo estremamente inquinante e complicato nei paesi a forte densità di popolazione come l’Europa che ha severe regole di protezione ambientale.

E ciò spiega perché la Teoria del Matto (di Trump) che può fruttare per i dazi (in Europa e altrove) e per il cessate il fuoco in Medio Oriente, non funzionerà con Cina e Russia, che sanno bene quanto sia importante la Produzione (e si sono costruiti nel frattempo altre due gambe per un solido sgabello). La Russia produce in un anno più armi e munizioni dell’intera Nato e la Cina sa bene che i dazi di Trump aiuteranno a ricostruire la manifattura americana in modo molto limitato e a spese dei sui alleati.

Cina e Russia

La Cina ha acquisito con l’alleanza con la Russia (gettata nelle braccia della Cina dalla fine dell’Ost politik dell’Europa, su ordine degli Stati Uniti, con l’idea demenziale di allargarsi anche all’Ucraina) il Potere Militare. E ora con la Terra (terre rare) hanno quella seconda e terza gamba dello sgabello (Economia, Militare, Terra) che fronteggia senza timori lo sgabello a 3 gambe degli Stati Uniti (Economia, Militare, Finanza).

Zelensky avrebbe detto a Trump: “Se hai fermato la guerra a Gaza, puoi fermare anche Mosca”. Trump ha fermato Israele per almeno tre ragioni:
a) sa che le guerre sono costose per gli Stati Uniti (e si è impegnato coi propri elettori a non farne più);
b) dopo una prima fase di supporto a Israele ha capito che il suo estremismo avrebbe compromesso i giganteschi affari coi paesi arabi;
c) proseguire la mattanza a Gaza isolava nel mondo non solo Israele ma anche gli Usa.

E’ interessante osservare come i media mainstream non parlino di questa terza motivazione, che mostra la capacità degli esseri umani di mobilitarsi, far valere il proprio pensare, la propria coscienza e la volontà. Fattori che il neo liberismo vorrebbe seppellire con la logica “oggettiva” (sic) dei “mercati” e dell’Intelligenza Artificiale, trasformando le democrazie in oligarchie liberali ed eclissando sempre più le persone (il popolo) dalla vita politica e dalla vita tout court.

In Ucraina le cose stanno però molto diversamente da Gaza:
a) la Russia sta vincendo e ogni giorno avanza;
b) è difesa da Cina, BRICS e da più di metà mondo;
c) fare il “matto”, dando missili a lunga gittata Tomahawk e sempre più armi, attuando il piano della Nato, della von der Layen, della Polonia, dei paesi Baltici e di altri bravi volenterosi per sconfiggere la Russia, porta alla fine dell’Ucraina, dell’Europa e soprattutto accelera la fine dell’egemonia americana nel mondo, che può proseguire solo con un accordo con Cina e BRICS.
Così si spiegano le parole del vice Presidente Vance alla conferenza di Monaco: “l’Ucraina tra anni potrebbe essere russale minacce all’Europa non vengono dalla Russia o dalla Cina ma dal suo interno”.

Col cessate il fuoco in Medio Oriente cosa potrebbe succedere per l’Ucraina?

Jeffrey Sachs, economista alla Columbia University, uno dei principali consiglieri economici del Papa, lo dice senza giri di parole:
Trump ha rotto con la tradizione neoconservatrice USA incentrata dagli anni ’90 sull’espansione ad est della Nato che è la principale preoccupazione della Russia e ciò consente un ripristino di normali relazioni tra USA e Russia…ed arrivare alla pace in Ucraina…L’Europa si è tagliata fuori da sola, rifiutando la diplomazia e schierandosi sulla linea neocon ha gettato al vento la storia delle relazioni diplomatiche tra Russia ed Europa…la quale dovrebbe riallacciare rapporti con Mosca”.

Poiché, come dice Xi Jinping l’Asia sta crescendo e l’Occidente sta calando”, Trump, da uomo d’affari ne prende atto, decidendo di “governare il mondo” nel XXI secolo non più da solo (troppo costoso, troppi potenziali conflitti), ma trovando accordi con chi conta sulla base di quelli che sono (da sempre) i principali pilastri del potere: 1. Sovranità, 2. Forza economica, 3. Forza militare, 4: Finanza, 5. Materie prime.

Una pace sporca

Ciò spiega perché Trump cercherà un accordo (una pace sporca anche in Ucraina), visto che la pace “giusta” non c’è mai stata nella storia, dopo quella in Medio Oriente, anche perché la pace favorisce il business. Trump vuole estrarre il massimo vantaggio per gli Stati Uniti dalla nuova situazione reale, giocando su più tavoli e in cambio della cessione anche di “sfere di influenza politica” ai competitor (Paesi Arabi, Russia). La Cina rimane il nemico (da trattare con cura vista la sua potenza). Per i vassalli (Europa, Canada,…) ci sono solo oneri.

Siamo lontani da un mondo ideale in cui c’è fratellanza senza potere, ma è anche vero che è sempre stato così nella storia.
Lucio Caracciolo scrisse nel febbraio 2022: “Per motivi che non riesco a spiegarmi, l’Ucraina si è affidata alle promesse europee e americane pensando di poter entrare nella NATO e conservare territori ingaggiando una guerra di lunga durata. Un’operazione di dissanguamento in vista di obiettivi che non si potevano raggiungere. Questo spiega la crisi dell’autorità politica di Zelensky, così come il rifiuto dei giovani ucraini di andare al fronte e la massiccia fuga verso l’estero di milioni di ucraini. Questo è il vero problema: non tanto il 20% di territori perduti, ma l’80% che è in condizioni disperate”. Che alternativa aveva Zelensky? “Firmare l’accordo dell’aprile 2022 sponsorizzato dalla Turchia che avrebbe dato condizioni nettamente migliori di quelle di oggi e risparmiato centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. Ma in quel frangente sono stati soprattutto gli inglesi e alcuni europei, più che gli USA, a spingere gli ucraini a combattere assicurando loro che si sarebbe potuto vincere”.

Da allora sono passati 3 anni e mezzo e la UE insiste ancora nel cercare una vittoria sulla Russia.
Vedremo nei prossimi mesi (speriamo non siano anni) a quali disastri per i suoi cittadini e lavoratori porterà questa scelta di riarmo e di continuare una guerra impossibile da vincere, mentre gli Stati Uniti indeboliscono l’Europa con i dazi, l’obbligo di acquistare il suo gas, le sue armi, distruggendo gradualmente la manifattura europea, l’unica gamba di uno sgabello che l’Europa aveva. E pensare che che per stare in piedi uno sgabello ha bisogno di tre gambe.

L’Europa ha infatti la sola gamba della Produzione (manifatturiera), avendo omesso di costruire le altre: il Potere Militare, la Finanza e le Materie prime (oggi Terre rare). Che Dio ci protegga dalla nostra élite, del resto cosa dice il proverbio? Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.

In copertina: la competizione USA-Cina, Foto di Tumisu da Pixabay

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Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita

Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita

Nel mio articolo precedente (vedi Qui) ho ragionato sull’impostazione di fondo del nuovo imperialismo trumpiano, supportato da un nuovo complesso militare-industriale-informatico ( e finanziario). Preannunciavo che questo ridisegno del mondo è sì molto pericoloso, soprattutto rispetto all’affermazione della tendenza alla guerra e di un regime dittatoriale interno, ma, nello stesso tempo, ha molti punti di debolezza e può essere messo seriamente in discussione.
Di questo mi occupo nelle valutazioni che seguono.

Intanto, un primo forte punto di difficoltà del progetto trumpiano è l’idea del ripristino di un’unica grande superpotenza mondiale, gli USA ovviamente, che si incarna bene nell’espressione MAGA (Make America Great Again). In realtà, essa non corrisponde alla realtà del mondo odierno, che, lo si voglia o meno, è contrassegnato da un assetto multipolare.

Deglobalizzazione e multipolarismo

Non solo non c’è un’unica superpotenza, ma neanche un sistema bipolare (USA versus Cina): la realtà è che, dentro il gorgo della globalizzazione, sono cresciute grandi e anche medie potenze, il cui ruolo non può essere ignorato nel governo degli equilibri mondiali. E i fatti reali hanno la testa dura, ben più delle ideologie che esprimono una falsa coscienza e dipingono un mondo capovolto.
Non ci sono solo USA e Cina, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Unione Europea (se così si può chiamare), l’Arabia Saudita, l’Iran, Israele, la Turchia e l’elenco potrebbe continuare.

Il tema non è semplicemente l’irruzione nello scenario mondiale dei BRICS, i Paesi guidati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che peraltro rappresentano il 41,4% del PIL mondiale a parità di potere di acquisto, mentre quello dei Paesi del G7 vale meno del 30% (nel 1990 tale valore era del 52%), anche perché non sono in grado di offrire una politica univoca e tantomeno alternativa nella costruzione di un nuovo ordine globale.

Il punto è che, nella deglobalizzazione, anche singoli Stati assumono ruoli rilevanti: basta pensare alla Turchia, che è contemporaneamente Paese strategico nella Nato e fiero oppositore di Israele e, non casualmente, omaggiato da Trump per la realizzazione, insieme ai Paesi arabi sunniti, della “fragile tregua” a Gaza (come oggi viene definita, con un’incredibile correzione in pochi giorni, dai media mainstream al posto della “pace eterna”). Oppure all’India, che la scellerata politica trumpiana dei dazi è riuscita nel miracolo di farla riavvicinare alla Cina, e che torna adesso ad essere oggetto di attenzione particolare dagli USA.

Insomma, il dato di un mondo multipolare è così forte ed evidente che la stessa presunta presunta supremazia americana, pragmaticamente, deve venirne a patti. Generando, però, un cortocircuito tra comportamenti concreti e loro rappresentazione (tra realtà ed ideologia) che è più foriera di instabilità e disordine mondiale piuttosto che di un nuovo equilibrio.

L’economia Usa in bilico

Il secondo elemento che mi fa dire che non funziona il progetto di Trump è che esso ha basi molto vulnerabili rispetto alla situazione economica degli Stati Uniti e dello stesso sistema capitalistico, perlomeno quello occidentale, se non addirittura mondiale.
Intanto va tenuto presente che l’economia statunitense si trova alle prese con problemi strutturali, quelli derivanti dai cosiddetti “deficit gemelli”, quelli relativi al deficit pubblico e ai conti con l’estero, che danno ragione della parabola discendente del ruolo dominante della sua egemonia e di quella del dollaro nel sistema economico-finanziario del mondo.
G
li Stati Uniti soffrono di un deficit pubblico e di un indebitamento con l’estero (il primo superiore a 1,900 miliardi di $, pari al 6,3% del PIL, il secondo arrivato a più di 26.000 miliardi di $) strutturali e crescenti, che vengono ulteriormente aggravati dalle ultime scelte di bilancio pubblico. (Vedi anche questo articolo di Alessio Marchionna su Internazionale)
Secondo autorevole analisi elaborate dal Comitato per un bilancio federale responsabile ( CRFB), gli stessi introiti previsti dalla scellerata politica dei dazi imposti da Trump non riusciranno a pareggiare il taglio delle tasse e delle spese introdotte con l’ultima legge di bilancio.

Ancor più dovrebbero far riflettere una serie di processi in corso, che sembrano sempre più assomigliare ai presupposti che diedero origine alla grande crisi sistemica del 2007-2008. Si moltiplicano le forme di “finanza ombra” (shadow banking), quella che agisce al di fuori degli elementi regolatori del sistema bancario classico, così come sta crescendo la bolla finanziaria di Wall Street, gonfiata dalle grandi aziende hitech, impegnate in primo luogo nella corsa all’intelligenza artificiale.
La nuova costruzione arrivata nella finanza ombra è quella delle stablecoin, incentivata dallo stesso Trump. Questo nuova “moneta”, il cui mercato è stimato, secondo Citigroup, possa crescere dagli attuali 260 miliardi di $ ai 3700 miliardi di $ nel 2030, ancorché progettata per mantenere un valore stabile con una valuta reale, solitamente il dollaro, in realtà può essere fonte di forti instabilità e speculazione nel sistema economico-finanziario.

Verso una nuova Grande Crisi?

La stessa esplosione degli investimenti nell’intelligenza artificiale, che nel 2024 sono assommati a 225 miliardi di $ e che molto probabilmente avranno una tendenza analoga nei prossimi anni, sta facendo sorgere molti dubbi sul fatto che avranno ritorni economici corrispondenti (a parte, ahimè, quelli previsti per il riarmo). Altre stime parlano del fatto che finora le “magnifiche sette” ( Nvidia, Microsoft, Alphabet-Google, Apple, Meta, Tesla e Amazon) hanno speso complessivamente 560 miliardi di $ a fronte di utili di soli 35 miliardi. Con il rischio che lo scoppio di un’eventuale bolla delle aziende hitech possa trascinare in una crisi significativa tutta Wall Street, visto che esse rappresentano ormai il 35% del valore della Borsa USA.

Senza contare che, da diverso tempo in qua, si sta registrando un forte disaccoppiamento tra crescita degli indici borsistici e l’andamento occupazionale: nell’ultimo anno Wall Street ha guadagnato il 50%, mentre le richieste di lavoro sono diminuite di circa il 31%. Insomma, ce n’è quanto basta per dire che siamo in presenza di sintomi consistenti per dire che i prossimi anni ci potranno portare ad una nuova Grande Crisi del sistema economico capitalistico che si regge sugli Stati Uniti.

Del resto lì si stanno levando voci sempre più forti nel predire quest’esito: da ultimo, Simon Johnson, premio Nobel per l’economia nel 2024, mette in guardia dal ruolo delle stablecoin, dicendo che esse, un po’ come i subprime nel 2007, sono candidate ad innescare tale crisi, mentre il ceo di JP Morgan avverte che che è probabile che si arrivi ad una “grave correzione del mercato, difficile da prevedere in anticipo, ma che potrebbe verificarsi nei prossimi 6 mesi, come nei prossimi 2 anni”. Un eufemismo per parlare della crisi economico-finanziaria prossima ventura.

Quando le piazze si riempiono

Infine, ma certamente non ultimo in ordine di importanza, un serio ostacolo per l’affermazione delle politiche trumpiane e, più in generale, della destra estrema nel mondo sta nel fatto che, per fortuna, stiamo assistendo ad una nuova fase di mobilitazione sociale importante.
Non c’è solo il movimento di grande rilievo che si è mosso in tutto il mondo per sostenere la causa palestinese e contro il genocidio lì perpetrato da Israele: basta guardare ai 7 milioni di persone che hanno manifestato nei giorni scorsi negli USA contro le politiche neofasciste del King Trump oppure al fatto che, in molti Paesi, dal Marocco al Madagascar, dall’Indonesia al Nepal, sia pur con motivazioni differenti, la generazione Z (pessima definizione, ma che può rendere l’idea per parlare dei cosiddetti nativi digitali)  sta prendendo parola. Sono movimenti con caratteristiche diverse, ma che segnalano, da una parte, che è finito un periodo lungo di passività sociale e, dall’altra, che i nuovi strumenti tecnologici che dominano il mondo non soffocano necessariamente le istanze di partecipazione fisica e diretta e che quest’ultima si diffonde su scala globale.

Certo, sono anche movimenti fragili, esposti alla difficoltà di poter durare, sedimentare cultura, produrre politica, con modalità non “classiche” e che non sono facilmente comprensibili utilizzando schemi consolidati. E però, aggrediscono uno dei nodi fondamentali su cui, da sempre, si appoggiano i regimi di destra e autoritari, e cioè la passivizzazione e spoliticizzazione nella società.

Per restringere il campo al nostro Paese, non c’è dubbio che la storia dei movimenti sociali dall’inizio del secolo in qua, è stata contrassegnata dal tentativo di reprimerli o ignorarli, con lo scopo chiaro di renderli marginali, di restringere il loro spazio di allargamento del consenso. In quest’operazione – in specifico nel fatto di ignorarli- purtroppo non si è sottratta nemmeno la “sinistra” politica, che oggi, non a caso, vive una crisi di rappresentanza e deve misurarsi con la giusta autorappresentazione delle persone e della società, come è evidente nelle grandi piazze animate dal nostro movimento a sostegno del popolo palestinese.

Certo, tutto ciò è ancora un embrione, che a me fa dire che siamo solo all’inizio di un percorso che non sarà né breve né facile: il movimento imponente che abbiamo visto in questo periodo ha necessità di ricollocarsi e di costruire sapere collettivo, affrontando il tema della lotta alla guerra e al riarmo, svelando i meccanismi strutturali che stanno anche alla della fragile tregua, e non della pace, che è in atto in Palestina. Così come, a sinistra, occorrerà porsi il tema di una ricostruzione delle forme della politica, capace di porsi nuovamente l’idea, oggi smarrita, di rappresentare le parti deboli e oppresse della società.

Non c’è dubbio però che oggi, con le mobilitazioni dei giorni passati, abbiamo una leva da cui ripartire.
Scriveva, più o meno un secolo fa, un grande pensatore e politico, Antonio Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Il mondo oggi è assolutamente diverso da quello in cui scriveva Gramsci, e le parole d’ordine dell’istruzione, dell’agitazione e dell’organizzazione vanno pensate in modo inedito, ma continuano ad essere il fulcro di chi intende proporre un’alternativa di società e di sistema.

In copertina: Donald Trump – immagine di Aliseo su licenza Wikimedia Commons

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Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel 

Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel 

Il mattino seguente mi alzai più tranquillo. La notta mi aveva aiutato a decidere che le volpi verdi non esistono. Conclusi che il giorno prima mi ero lasciato suggestionare dalla particolarità di quel luogo e dalla stanchezza che provavo. Come aveva detto Camilla “le volpi di quel colore non esistono fino a prova contraria” e io non avevo alcuna prova contraria.

La sera prima, davanti alla pizzeria, mi era sembrato di vedere qualcosa di verde muoversi, come se un piccolo animale mi stesse seguendo, ma sicuramente era autosuggestione. Mi ero fatto impressionare da quei racconti al punto da vedere ciò che non esiste. Una volpe verde che mi seguiva per il paese non era credibile, men che meno da uno come me.

Ero cresciuto in una famiglia di contadini dove si lavorava quotidianamente nei campi e dove tutti erano convinti che la verità è materiale e tangibile come la terra che si coltiva. La puoi toccare, vedere, è sempre uguale a sé stessa, con la terra ti puoi sporcare, divertire, ci puoi fare mattoni e opere d’arte, la puoi sfruttare e guadagnarci soldi. Sta sempre lì, quasi impossibile da spostare, praticamente impossibile da eliminare. La terra è rigorosamente materia dotata di una persistenza e di una inconfutabilità sorprendente, lei c’è.

Ancorato ad una definizione di realtà di quel tipo mi agitava non poco prendere in considerazione l’idea che potessero esistere animali con caratteristiche che nessuno conosceva, ad esempio con il manto verde. Mi dissi che se anche una volpe di quel colore fosse stata davvero avvistata, la spiegazione era terrena e al fenomeno non si dovevano riconoscere attributi di eccessiva stranezza, se non di surrealtà. L’animale si doveva essere strusciato in un’erba gli aveva colorato il manto. Magari, nel frattempo, aveva fatto un bel bagno sotto la pioggia o in un canale e il suo manto era tornato rossiccio. Quello che mi era parso di vedere la sera prima non c’era, era solo autosuggestione.

***

Rincuorato scesi nella hall del Pontalba Hotel. Vidi Erika con le sue labbra rosso fuoco e le chiesi un cappuccio. Presi un piatto e vi misi due fette biscottate, della marmellata all’albicocca, una brioche e una banana. Così avrei preso due piccioni con una fava: la cena precedente che non avevo potuto consumare, il rimborso spese del giornale che comprendeva vitto e alloggio.

Mentre aspettavo il cappuccio chiesi a Erika se conosceva erbe che macchiavano di verde in maniera persistente e lei mi rispose che una di queste era la lavanda selvatica. Ecco svelato l’arcano. Una volpe si era strusciata nella lavanda e il suo manto era rimasto macchiato di verde. L’agitazione, il dolore, la suggestione e l’imprevedibilità della morte della Contessa aveva fatto il resto.

Forse potevo cominciare a scrivere l’articolo per Tresciaone, demolendo la teoria sulla possibile esistenza delle volpi verdi e concentrandomi sulle caratteristiche delle erbe che macchiano in maniera persistente. ‘Giusto, faccio proprio così’ pensai. Un po’ per la fame accumulata che mi fece sembrare tutto appetibile e un po’ per la frenesia scatenata dall’illuminazione creativa che mi avrebbe permesso di scrivere l’articolo per il giornale, finii la colazione velocemente.

Risalii nella mia stanza, aprii la valigia dove il mio pc dormiva nella sua custodia ormai da due giorni. Cosa strana per un giornalista e ancora più per me. Il pc era un prolungamento delle mie mani. Mi permetteva di scrivere velocemente, di cambiare le frasi e correggerle più volte, di impaginare gli articoli, di aggiungere immagini. Un supporto tecnologico importante per chiunque scriva, per me imprescindibile.

La mia esperienza di reporter girovago aveva fatto sì che riducessi all’essenziale ciò che mi dovevo portare appresso nelle trasferte, operando una minuziosa cernita di ogni oggetto utile. Così nella mia valigia c’era sempre il portafoglio, il pc e il telefono, diverse paia di mutande e calze, un maglione e un paio di jeans di riserva, il necessario per la doccia e per farmi la barba, tre pacchetti di fazzoletti di carta una bottiglietta d’acqua, una barretta di cioccolato.

A volte anche una mela. Due spille, una grande e una piccola, un ago, filo e due bottoni, cerotti e un analgesico generico che andava bene un po’ per tutto. Con quell’equipaggiamento me ne andavo in giro ovunque, con l’impressione di avere con me tutto il necessario per sopravvivere. Questo aumentava la sicurezza negli spostamenti e la facilità del riadattamento continuo a nuovi ambienti.

Presi il pc lo estrassi dalla sua custodia blu, lo accesi e aprii una pagina bianca di world. La morte della contessa Maria Augusta. Aggiornamento da Pontalba” scrissi. Titolo standard, niente stranezze. L’articolo non doveva essere un trafiletto ma riempire mezza pagina del giornale. Quindi potevo prendermela comoda prima di arrivare all’essenziale.

Guardai fuori dalla finestra, c’era ancora la nebbia. Come il giorno prima, una coltre di umidità bianca avvolgeva tutto il paesaggio, rendendo le poche forme visibili sfuocate. Una visione particolare, adatta ai sostenitori dell’esistenza dei fantasmi. Alcuni alberi con i loro magri tronchi e le foglie che si intravedevano qua e là in mezzo al bianco, sembravano proprio dei fantasmi capitati in quel paese alla ricerca del senso della loro presenza.

Come se fossero esistenze in cerca di una solidità, degli esseri fluttuanti con poca personalità e con una veridicità senza rigore. Ecco, gli alberi di Pontalba, immersi nella nebbia, mi facevano esattamente quell’impressione. Dei fantasmi in cerca di un senso del loro esistere, capitati per caso in quel mattino opaco. 

***

Riguardai lo schermo del PC, il titolo dell’articolo era lì in attesa. Mi misi al lavoro. “Come già scritto su questo giornale, due mesi fa è morta la contessa Maria Augusta di Pontalba. Molto conosciuta in paese per le sue opere caritatevoli, è stata trovata morta nel suo letto dalla cameriera. Eventi inspiegabili sono associati alla sua dipartita. Si racconta che il mattino in cui è stato rinvenuto il cadavere, il cielo sopra villa Cenaroli, la residenza abituale della contessa, sia diventato verde e che una volpe dello stesso colore sia uscita dalla sua tomba il giorno dell’inumazione.”

Qui mi fermai, cosa aggiungere per ora? Mi tornò in mente Costanza del Re e la strana insistenza con cui alcune persone di Pontalba mi avevano suggerito di parlare con lei della morte della contessa. La giovane donna era infatti amica di Malù, la figlia della defunta. L’avevo incontrata il giorno prima nel negozio di Camilla, l’avrei rivista nel pomeriggio. Una ragazza intorno ai venticinque anni, alta, con dei lunghi capelli neri e gli occhi verdi, delle mani con le dita affusolate. Bella sicuramente, ma non credo fosse quello il motivo per cui mi era stato suggerito di parlare con lei.

Che fare ora? Prima di continuare a scrivere era meglio incontrarla. Spensi in PC e lascia vagare lo sguardo verso i campi. Il verde stava prendendo il sopravvento sul bianco della nebbia. Campi di frumento alto circa dieci centimetri si estendevano a perdita d’occhio da dietro l’albergo fin dove si vedeva il campanile di Santa Capellina. Tutto verde anche lì.

Mi sorpresi a pensare che il verde era il colore dominante di quel paese. In qualche modo lo definiva. Verdi i campi, gli alberi, l’acqua del Lungone, l’abbigliamento delle ragazze, il cielo. Verdi le rane, i ricci delle castagne, le piante di patate coltivate negli orti, le barbe delle rape, il trifoglio. Ecco cosa mi piaceva davvero di quel posto, il suo colore. Un paese verde.

Di solito nella psicologia dei colori, il verde rappresenta l’equilibrio e l’armonia tra la mente, il corpo e l’io emotivo. Si trova al centro dello spettro cromatico e l’occhio non fa alcuna fatica ad individuarlo, rendendolo un colore riposante. Questa sua caratteristica dipende anche dalla sua tonalità e intensità. Curioso. Un colore riposante. Ecco perché le camere operatorie sono verdi così come gli abbigliamenti dei chirurghi. È un colore che non stanca gli occhi, lasciandoli liberi di concentrarsi sulle difficili operazioni che si svolgono su un tavolo operatorio.

Io però non ero un chirurgo ma un povero giornalista di cronaca nera, che di solito veniva mandato a vedere morti, cimiteri, obitori, ospedali, camere mortuarie. Oppure a parlare con avvocati, legali, familiari, testimoni più o meno disponibili e più o meno affidabili. Qualche volta mi sono anche capitate delle morti con strani fenomeni associati, come in quel caso. 

***

Ricordo che mi alzai dalla sedia su cui ero seduto, misi in bocca una caramella alla liquirizia e aprii la porta finestra che dava sul balcone della mia camera d’albergo. Uscii e chiamai il mio capo che, per nulla contento del fatto che l’articolo non fosse ancora arrivato in redazione, mi diede dello scansafatiche, dimenticandosi che io ero uno dei suoi migliori reporter e che non poteva permettersi di perdermi, perché avrebbe fatto fatica a trovare un sostituto altrettanto esperto e adattabile, pagandolo quanto pagava me, poco più di un qualunque impiegato.

Il trattamento economico era ingiusto, ma a me serviva quel lavoro e non avevo voglia di cambiarlo. Lui, il grand’uomo di larghe vedute che si professava equo e integerrimo, lo sapeva e ne approfittava. Una storia vecchia come il mondo che posso condividere con molti colleghi. Uno scandalo senza tempo che contraddice qualunque intento di equità professionale.

Aldilà di questo, il mio lavoro mi piaceva. Allora ero giovane e avevo ancora la presunzione di esser utile al progresso dell’umanità. Pensavo di avere un forte fiuto per la cronaca nera che mi avrebbe permesso di diventare il reporter più letto d’Italia. Certo il successo di un giornalista dipende anche dalla qualità del giornale che pubblica i suoi articoli, dalla pagina in cui compaiono, dal giorno in cui vengono pubblicati. È evidente che gli articoli pubblicati di domenica sono molto più letti di quelli pubblicati di lunedì o martedì. Ma tant’è, ero contento lo stesso.

Guardai nel cortile dell’albergo e vidi Erika che stava indicando il parcheggio a dei clienti appena arrivati. Una Ford nera di almeno dieci anni parcheggiò sotto la mia finestra. Ne uscì una coppia di uomini d’affari bene vestita e valigiata, avrei detto dei rappresentanti di detersivi o cosmetici.

Mentre guardavo la scena dall’alto, ebbi l’impressione che dalla tasca destra del cappotto di uno dei due uomini penzolasse qualcosa di verde. Qualcosa di morbido e di peloso. Una coda di volpe! Una piccola volpe verde stava dormendo nella tasca di quel signore appena arrivato chissà da dove.

Per un attimo mi girò la testa. Ora svengo, pensai. Mentre cercavo di mettere a fuoco meglio, il signore mise una mano in tasca, come quando si strizza un fazzoletto per farlo stare in poco spazio, e la volpe verde o quel pelo verde che tale sembrava, sparì all’interno della tasca. Rientrai e mi sedetti sulla sedia davanti al PC.

‘Non posso scrivere proprio niente per ora’ pensai e mi distesi sul letto mettendomi il cuscino sulla testa. 

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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