Skip to main content

“Cartel de los Soles”, la favola del “narco-Stato” per giustificare la guerra di Trump contro il Venezuela

“Cartel de los Soles”, la favola del “narco-Stato” per giustificare la guerra di Trump contro il Venezuela

Credo che sia importante partire con una chicca. Quando il Comandante Hugo Chavez, notoriamente astemio, rivelò nel 2008 di masticare abitualmente pasta di foglie di coca, una sorta di chewing gum tradizionale ed artigianale tipica dell’America Latina che – chiunque voglia tenersi lontano da pregiudizi e stereotipi razzisti e colonialisti – sa essere una delle tante usanze quotidiane delle popolazioni nuestramericane.  Durante un discorso lungo quattro ore dinnanzi all’Assemblea Nazionale, Chavez affermò: «Mastico coca ogni giorno, al mattino (…) e guardate come sto. (…) Ve la consiglio» – mostrando i bicipiti agli interlocutori e dichiarando chiaramente che come Fidel Castro gli inviava «il gelato Coppelia e molte altre cose» che gli arrivavano «regolarmente dall’Havana», così anche il presidente Boliviano Evo Morales lo omaggiava di «pasta di coca». Gli indigeni boliviani e peruviani masticano foglie di coca regolarmente, come stimolante, regolatore della pressione, per non sentire la fame e durante i rituali ancestrali del culto di Pachamama, essendo tutto questo consentito dalla legge. Spiegava a tal riguardo il Miami Herald – quotidiano statunitense pubblicato a Miami dal 1903 di proprietà della The McClatchy Company – che la “pasta di coca” è un prodotto semiraffinato, che determina assuefazione e che viene fumata come il basuco, ovvero il residuo dell’estrazione della cocaina base, di pessima qualità e altamente nocivo[3].

Eppure, a partire da folkloristiche dichiarazioni di analisti colombiani e venezuelani, per l’Occidente colonialista, razzista e ignorante questo era simbolo dell’avallo di Chavez alla cocaina, nonché la prova che il Venezuela Bolivariano fosse un “narco-Stato” e persino “un atto illegale da parte di un capo di stato”. Ne seguirono dichiarazioni schizofreniche da parte di personalità legate a Miami e alla destra venezuelana: «È un altro segnale che Chavez ha perso completamente il senso del limite» – ha commentato Anibal Romero, docente di scienze politiche all’università di Caracas, aggiungendo – «Dimostra che Chavez è fuori controllo»«Nel momento in cui afferma di consumare pasta di coca, ammette di consumare una sostanza che è illegale, tanto in Bolivia che in Venezuela» – affermò Hernan Maldonado, osservatore politico boliviano residente a Miami, aggiungendo – «Di più, si tratta di una vera e propria accusa a Morales di essere un narcotrafficante» per avergli invitato la pasta di coca.

La realtà era molto diversa. I governi di Hugo Chavez si sono contraddistinti per la lotta al narcotraffico, sull’onda di quella che è stata la ferrea e intransigente lotta intrapresa ormai da decenni dal socialismo cubano contro la droga che periodicamente viene ribadita[4]. Basta recarsi in Venezuela per vedere con i propri occhi il lavoro anti-droga da parte della Polizia Bolivariana negli aeroporti.

Più volte in passato agenti DEA e FBI hanno espresso ammirazione verso le rigorose politiche antidroga dei comunisti cubani. Il Venezuela chavista ha sempre seguito il modello anti-droga cubano inaugurato da Fidel Castro in persona attraverso cooperazione internazionale, controllo del territorio, repressione delle attività criminali.

Spesso come argomentazione per sostenere che la Rivoluzione Bolivariana è una “dittatura criminale”, si afferma che il Venezuela sia un “narco-Stato” che inonda gli Stati Uniti di cocaina. Si tratta di una notizia veicolata dalla propaganda neocoloniale occidentale (USA ed europea) e spesso cavalcata dalle destre venezuelane in funzione anti-chavista, come successo nelle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024.

Come ha scritto giustamente la giornalista Geraldina Colotti, un giornalista serio dovrebbe chiedersi chi l’ha fatta circolare e perché, e chi l’ha alimentata con dichiarazioni fornite agli Stati Uniti in cambio di benefici giudiziari: come l’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Ugo Carvajal, poi passato nel campo di Guaidó e degli autoproclamati, secondo cui il Cartel de los Soles avrebbe dovuto invadere gli Usa con la cocaina proveniente dal Venezuela.

Il termine “Cartel de los Soles” (Cartello dei Soli) è apparso per la prima volta nel 1993. È stato coniato da due giornalisti venezuelani, Juan Carlos Issa e Rafael J. Poleo, durante un’inchiesta su due generali della Guardia Nazionale, Ramón Guillén Dávila e Orlando Hernández Villegas. Il nome deriva dalle insegne a forma di sole che i generali venezuelani di alto rango portano sulle loro uniformi, che sono diventate il simbolo di questa presunta rete di narcotraffico all’interno delle forze armate. Tutto questo avveniva il 1993, durante la Quarta Repubblica, quindi ben lontano dall’inizio della Rivoluzione Bolivariana. L’anno prima, il 4 febbraio, c’era stata la ribellione civico-militare dei militari progressisti guidati dall’allora tenente colonnello Hugo Chávez Frías, anche contro la corruzione delle Forze Armate, la cui dottrina e pratica erano dettate da quelle nordamericane, e la cui corruzione era palese e farraginosa come lo era quella della società di allora.

Rafael J. Poleo, fondatore e direttore della rivista settimanale venezuelana Zeta, una delle più influenti voci di opposizione nel panorama mediatico del paese, ha poi trasferito a piè pari quella sua scoperta per fare il proprio gioco politico contro il chavismo e al servizio degli Stati uniti.

Nel 2015, 82 giornali latinoamericani, più l’ABC spagnolo e El Diario de las Américas di Miami, pubblicarono in prima pagina articoli che sostenevano che Diosdado Cabello – vicepresidente del PSUV e ora Ministro dell’Interno, della Giustizia e della Pace, all’epoca presidente dell’Assemblea Nazionale – fosse il capo del Cartel de los Soles – il presunto “super-cartello internazionale della droga” che permetterebbe al governo chavista venezuelano di arricchirsi – e che fosse stato incriminato per questo motivo in un tribunale di New York. I giornalisti Earle Herrera e Tania Diaz guidarono un’indagine e stilarono un rapporto che dimostrava che, in realtà, non c’erano notizie, nessuna denuncia in tribunale e nessuna fonte che potesse confermare ciò che 82 giornali avevano riportato come uno scoop lo stesso giorno. Diosdado decise di sporgere denuncia e da allora, ci sono stati ricorsi e ancora ricorsi, fino a quando –  dopo 8 anni – la Corte Suprema di Giustizia non si è pronunciata a suo favore nel 2022, condannando il proprietario di El Nacional, Miguel Henrique Otero, a risarcire il danneggiato. Essendo nel frattempo Otero fuggito in Spagna, sono stati espropriati i locali del quotidiano, che Diosdado non ha tenuto per sé, ma ha devoluto al popolo, perché fossero la sede dell’Università Internazionale della Comunicazione (LAUICOM).

Nessun giornale di quelli che hanno calunniato Diosdado Cabello ha consentito un diritto di replica, secondo i criteri mitici del “pluralismo dell’informazione”, né tantomeno ha dato notizia della devoluzione di Cabello. Anzi, la menzogna è stata rimessa in circolo dopo qualche tempo come se niente fosse.

Il caso è stato riportato nel libro La comunicación liberadora (pubblicato con l’Università Internazionale della Comunicazione, LAUICOM) scritto dalla stessa Tania Diaz, ma intanto, diversi grandi quotidiani internazionali avevano avallato la falsa notizia, incuranti delle smentite.

Il meccanismo delle fake-news istituzionali è un circolo perverso che si alimenta da sé e occulta l’inesistenza di una fonte attendibile. Come affermava Diaz, è stata inscenata una “triangolazione mediatica contro il Venezuela” perché El Nacional citava El Diario de las Américas, che a sua volta faceva riferimento ad ABC, che a sua volta citava El Nacional. Si alimentavano a vicenda. Per tutti, Diosdado era “l’uomo forte del regime”, il capo del narcotraffico.

Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Trump rincara la dose e definisce il Presidente costituzionale del Venezuela, Nicolas Maduro, “il narcotrafficante più potente al mondo”, oltre ad accusarlo di armonizzare quello che sarebbe il Cartel de los Soles. Secondo questa narrazione, il governo venezuelano avrebbe messo in atto un complotto per inondare gli Stati Uniti con “qualcosa come 200-250 tonnellate di cocaina”.

Sebbene tale cifra appaia alta, è importante sapere che gli Stati Uniti sono il maggiore consumatore mondiale di cocaina; la Colombia è il maggiore produttore; e che il Venezuela non coltiva coca, non produce cocaina e, secondo le cifre del governo nordamericano, meno del 7% del totale della droga dal Sud America transita in Venezuela e che meno del 10% del traffico globale di cocaina attraversa il Paese[5], come mostrano le mappe sotto (la regione dei Caraibi orientali comprende la penisola di Guajira in Colombia).

Queste mappe, prodotte rispettivamente da Drug Enforcement Agency e Comando Meridionale degli Stati Uniti, sollevano immediatamente dubbi sul perché il Venezuela sia il Paese preso di mira.

Il mito secondo cui il Venezuela è un “narco-Stato” fu sfatato nel 2017 dall’Ufficio di Washington in America Latina (WOLA) – un think tank di Washington che generalmente sostiene le operazioni di regime-change degli Stati Uniti nella regione – nonché dalla FAIR, 15 y Ultimo, Misión Verdad, Venezuelanalysis e altri enti e siti di giornalismo investigativo.

Pino Arlacchi, già sottosegretario generale dell’ONU e direttore dell’UNDCCP (ufficio ONU per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine), ha affermato nel 2019:
«La notizia dell’incriminazione del Presidente Maduro e di membri del suo governo per traffico di droga mi ha lasciato senza parole. Osservando la persecuzione contro il Venezuela ne ho viste tante, ma sinceramente non pensavo che l’associazione per delinquere al potere negli Stati Uniti si spingesse fino a questo punto. Dopo aver fatto una rapina da 5 miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 paesi. Dopo aver messo in atto un blocco dell’intera economia del paese tramite sanzioni atroci, rivolte a colpire la popolazione civile per spingerla a ribellarsi (senza successo) contro il suo governo. E dopo un paio di falliti tentativi di colpo di stato, ecco la mossa finale, la calunnia più infamante. Il colpo è talmente fuori misura che non penso abbia conseguenze di rilievo. Né le Nazioni Unite, né l’Unione europea, né la maggioranza degli Stati del pianeta che lo scorso settembre hanno votato a favore dell’attuale esecutivo del Venezuela e del suo Presidente durante l’Assemblea generale dell’ONU, daranno il minimo peso a questo episodio di guerra asimmetrica. Non succederà nulla perché non esiste la minima prova a sostegno della calunnia secondo cui il Venezuela ha inondato gli Stati Uniti di cocaina negli ultimi anni. Sono rimasto interdetto anche perché mi occupo di anti-droga da una quarantina di anni, e non ho mai incontrato il Venezuela lungo la mia strada. Prima, durante e dopo il mio incarico di Direttore esecutivo dell’UNODC (1997-2002), il programma antidroga dell’ONU, non ho mai avuto occasione di visitare quella nazione perché il Venezuela è sempre stato al di fuori dei maggiori circuiti del traffico di cocaina tra la Colombia – il principale paese produttore – e gli USA, il principale consumatore. Non esiste se non nella fantasia malata di Trump e soci alcuna corrente di commercio illegale di narcotici tra Venezuela e Stati Uniti».

Era lo stesso Arlacchi che invitava a consultare le due fonti più importanti sul tema: il World Drug Report 2019, ovvero l’ultimo rapporto UNODC sulle droghe[6]; e il National Drug Threat Assessment del dicembre 2019, documento della DEA, la polizia antidroga americana[7].

Secondo quest’ultimo, il 90% della cocaina introdotta negli USA proviene dalla Colombia, il 6% dal Peru e il resto da origini sconosciute“Se in quel 4% rimanente ci fosse stato anche il profumo del Venezuela, esso non sarebbe passato inosservato. Ma è il rapporto ONU che fornisce il quadro più dettagliato, menzionando il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come le sedi di transito della droga verso gli Stati Uniti. E l’assessment della DEA cita i celebri narcos messicani come i maggiori fornitori del mercato USA” – sottolineava Arlacchi.

Nel 2020 il Dipartimento di Stato USA, durante l’Amministrazione Trump, stabilisce vergognosamente una taglia da 15 milioni di dollari sulla testa del Presidente costituzionale del Venezuela, Nicolas Maduro Moros, offrendola a chi avrebbe collaborato al suo arresto. Maduro viene accusato – dagli USA – di essere il capo di un «narco-Stato» che, in collaborazione con una fazione dissidente delle Farc colombiane, era responsabile di «inondare gli Stati Uniti di cocaina». Durante l’amministrazione “democratica” di Joe Biden, la taglia passa dai 15 ai 25 milioni.

Nel 2020, lo stesso Arlacchiintervistato da Ruggero Tantulli per Il Periodista, affermava che le accuse di narcotraffico e di narcoterrorismo al Presidente Nicolas Maduro e al Venezuela Bolivariano erano “spazzatura politica”«Sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po’ di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’Onu perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’Onu. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr). L’ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche». Affermava Arlacchi: «La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro».

Secondo Arlacchi si trattava dell’ennesimo tentativo di ingerenza e di colpo di stato«E’ una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la Cia e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l’idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti».

L’11 agosto 2024 l’ANSA pubblicava una notizia insolita: “Gli Stati Uniti stanno tenendo una serie di colloqui segreti per convincere il presidente venezuelano Nicolas Maduro a lasciare il potere in cambio della grazia. Lo riferiscono fonti informate al Wall Street Journal secondo le quali l’amministrazione Biden ha messo “tutto sul tavolo” per convincere il leader venezuelano ad andarsene prima della fine del suo mandato a gennaio. Maduro deve affrontare una serie di incriminazioni da parte del dipartimento di Giustizia americano e nel 2020 gli Usa hanno messo una ricompensa di 15 milioni di dollari per informazioni che potessero portare al suo arresto.[1]

Oltre a propagandare la bufala del “narco-Stato”, l’ANSA e i media mainstream atlantisti ed occidentali hanno diffuso l’idea che ci fosse in atto una trattativa tra USA e il governo bolivariano affinchè Maduro lasciasse la presidenza in cambio della cancellazione della taglia sulla sua testa. La notizia della presunta trattativa oltre ad essere falsa, era stata smentita anche dalla stessa Casa Bianca che ha definito “falsa” la notizia rilanciata, precedentemente, dal Wall Street Journal [2].

Lunedì 19 agosto 2024, è lo stesso Dipartimento di Stato USA, che attraverso il vice portavoce principale Vedant Patel, smentisce categoricamente la falsa notizia di una amnistia per Maduro e per altri alti funzionari venezuelani. Ancora una volta emergono le falsità e la guerra mediatica contro il Venezuela. Anche la Casa Bianca smentisce ma non rinuncia alla sua azione destabilizzatrice contro il Presidente Maduro e la Costituzione Bolivariana del Venezuela.

A luglio 2025, Trump ha firmato una direttiva in cui dava istruzioni al Pentagono di usare la forza militare contro alcuni “cartelli della droga” che il suo governo ha classificato come “organizzazioni terroristiche”. Quasi in contemporanea, gli Usa hanno dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Una canagliata subito ripresa ed enfatizzata dall’estrema destra venezuelana e dalla stampa mainstream occidentale filo-atlantista, che avalla l’accusa di “narco-Stato”.

Ad agosto 2025, gli Stati Uniti raddoppiano assurdamente – in contrasto con il diritto internazionale – la ricompensa offerta a chiunque fornisca informazioni utili all’arresto del presidente del Venezuela Nicolás Maduro e sul suo Ministro dell’Interno affinché possano essere processati per “traffico di droga e corruzione”. La taglia passa da 25 a 50 milioni di dollari. La decisione di raddoppiarla è stata annunciata dal procuratore generale Pam Bondi, alla quale il Ministro degli Esteri di Caracas Yvan Gil ha risposto definendo la scelta “patetica” e “propaganda politica”, usata dagli Stati Uniti per distrarre l’opinione pubblica dal caso Jeffrey Epstein. Il fine inoltre è incolpare il Venezuela Bolivariano dell’immissione negli Usa di cocaina tagliata con fentanyl. Dichiarazioni nuovamente assurde che non rispecchiano i dati ufficiali mondiali sul traffico di droga.

Come afferma Pino Arlacchi in un recente articolo su Il Fatto Quotidiano (ripubblicato da Pressenza Italia): “Il Rapporto Onu 2025, recentemente pubblicato, è di una chiarezza cristallina: solo una frazione marginale della produzione di droga colombiana passa attraverso il Venezuela nel suo cammino verso Usa ed Europa. Il Venezuela, secondo l’Onu, ha consolidato la sua posizione storica di territorio libero dalla coltivazione di foglia di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali. Il documento non fa altro che confermare i 30 rapporti annuali precedenti, che non parlano del narcotraffico venezuelano perché questo non esiste.”

(
(Foto di Infografica da Limes narcotraffico Sud America)

I dati sono chiari: solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Afferma Arlacchi: “Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala. Sì, avete letto bene: il Guatemala è un corridoio di droga sette volte più importante di quello che dovrebbe essere il temibile “narco-Stato” bolivariano. Ma nessuno ne parla perché il Guatemala è a secco dell’unica droga non naturale che interessa Trump: il petrolio. Il paese ne produce lo 0,01% del totale globale.”

Anche il Rapporto Europeo sulle Droghe 2025 dell’Unione Europea, basato su dati reali e non su wishful thinking geopolitici, non cita neppure una volta il Venezuela come corridoio del traffico internazionale di droga, e ignora del tutto il Cartel de los Soles.
Secondo il Rapporto Europeo, la cocaina è la seconda droga più usata nei 27 paesi Ue, ma le sue fonti principali sono chiaramente identificate: Colombia per la produzione, America centrale per lo smistamento, e varie rotte attraverso l’Africa occidentale per la distribuzione finale. In questo scenario, Venezuela e Cuba non ci sono.

L’Europa ha bisogno di dati affidabili per proteggere i suoi cittadini dalla droga, quindi produce studi accurati.
Gli Usa hanno bisogno di giustificazioni per il loro bullismo petrolifero, quindi producono propaganda mascherata da intelligence. Eppure, anche le menzogne USA hanno un limite: quando sono smentite dalle sue stesse istituzioni anti-droga.

I Rapporti della DEA 2024 e 2025, infatti, affermano chiaramente che il Venezuela non è toccato dal narcotraffico mondiale.

L’Amministrazione per il Controllo delle Droghe degli Stati Uniti (DEA) ha riconosciuto nei suoi rapporti annuali (rapporti “National Drug Threat Assessment” del 2024 e del 2025) che gli Stati Uniti hanno un rapporto strutturale con il traffico di droga. Ha ammesso problemi estremamente gravi, come il fatto che la popolazione è immersa nel consumo di vari tipi di droghe e che il Paese è l’epicentro delle reti di traffico di droga, essendo produttore, mercato di destinazione di stupefacenti e una grande macchina finanziaria del denaro della droga.

Nel rapporto del 2024 si afferma che “i cartelli messicani ottengono carichi di diverse tonnellate di cocaina in polvere e base di cocaina dai trafficanti sudamericani, per poi contrabbandarla attraverso rotte terrestri o fluviali costiere in America Centrale, o via mare verso isole caraibiche come Porto Rico e Repubblica Dominicana, prima di introdurla negli Stati Uniti”.

In questo riferimento alle rotte caraibiche, non viene fatto alcun cenno al Venezuela. Nel rapporto del 2025, la DEA afferma che la maggior parte dei sequestri di cocaina sono stati effettuati in California, al confine con il Messico, dimostrando che gran parte del traffico di tale stupefacente avviene attraverso rotte terrestri e marittime nell’Oceano Pacifico.

In entrambi i rapporti, la DEA cita specificamente Colombia, Perù e Bolivia come paesi produttori di cocaina e fa riferimento a Messico, El Salvador, Honduras, Guatemala, Porto Rico e Repubblica Dominicana come punti chiave della rotta della cocaina verso gli Stati Uniti.

La DEA ammette nei suoi rapporti del 2024 e del 2025 che gli Stati Uniti sono il fulcro del riciclaggio di capitali provenienti dal traffico internazionale di droga. Sottolinea che sul suolo statunitense operano riciclatori di denaro che prestano i loro servizi a diverse organizzazioni criminali.

La DEA indica metodi quali case di cambio di criptovalute, portafogli digitali, trasferimenti di tipo mirror, compravendita di beni mobili e immobili tramite agenzie immobiliari statunitensi e altri meccanismi esistenti nel sistema bancario nordamericano.

Secondo la DEA, e come affermato dall’ONU (ONU contro la droga e il crimine, UNODC), il Venezuela non è un Paese produttore di droga. C’è solo un piccolo accenno al cosiddetto “Tren de Aragua” nel rapporto DEA del 2025, dopo che è stato classificato come “organizzazione terroristica”. Si tratta di un riferimento fondato su prove segrete, che non lo sarebbero se avessero un minimo di consistenza e fossero supportate da altre fonti. “Come può un’organizzazione criminale così potente da meritare una taglia di 50 milioni di dollari, essere completamente ignorata da chiunque si occupi di antidroga al di fuori degli Usa?” – si è domandato Arlacchi.

Infatti né nel rapporto del 2025, né in quello del 2024, né in nessun altro rapporto precedente della DEA, compare da nessuna parte il cosiddetto Cartel de los Solespoiché il Venezuela non figura come Paese produttore di cocaina nemmeno secondo lo stesso governo statunitense, il quale invece mediaticamente lancia accuse false.

Il Cartel de los Soles è una finzione comunicativa ed esiste solo sui tavoli di progettazione propagandistica del governo statunitense, dell’opposizione venezuelana e della destra internazionale.

Il Cartel de los Soles è una creatura dell’immaginario trumpiano. Il “cartello della droga” che sarebbe “guidato dal presidente del Venezuela Maduro” non viene citato né nel rapporto del principale organismo mondiale antidroga né nei documenti di alcuna agenzia anticrimine europea o di altra parte del pianeta.

Quello che viene venduto su Netflix come un “super-cartello della droga” in Venezuela, è in realtà un miscuglio di piccole reti locali, di qualche episodio di corruzione, un tipo di criminalità spicciola che si trova in qualsiasi Paese del mondo, inclusi gli Usa, dove – come ha ricordato Arlacchi – “muoiono ogni anno quasi 100 mila persone per overdose da oppiacei che nulla hanno a che fare col Venezuela, e molto con Big Pharma americana.”

Insomma non c’è traccia del Venezuela in alcuna pagina dei due documenti e in nessun altro materiale delle agenzie anticrimine USA degli ultimi 15 anni si fa menzione di fatti che possano anche indirettamente ricondurre alle accuse lanciate contro il legittimo Presidente del Venezuela e contro il suo governo. Il fatto stesso che in Venezuela transiti una minima parte del narcotraffico e che si veda la lotta ferrea del suo governo ad opporvisi con tutti gli strumenti, non fa del Venezuela un “narco-Stato” ma piuttosto di un governo che reprime questo fenomeno.

Si tratta quindi di spazzatura politica, che però non è stata trattata come tale nemmeno fuori dal sistema politico-mediatico degli Stati Uniti.

Vergognosa è stata l’intervista[8] pubblicata il 21 agosto 2024 su Il Corriere della Sera fatta da Roberto Saviano al giornalista venezuelano Alfred Meza, colui che ha inventato la macchina del fango contro Alex Saab[9], diplomatico venezuelano che è stato prosciolto da tutte le accuse dal giudice della Florida, Robert Scola con una sentenza dell’8 aprile 2024, a seguito dell’indulto firmato dal presidente USA Joseph Biden il 15 dicembre 2023. Il 20 dicembre 2023, Saab è stato liberato a seguito di uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti e, una volta tornato in Venezuela, ha raccontato le torture subite per fargli confessare delitti mai commessi, che avallassero l’idea del Venezuela come “narco-Stato”, e quella di Saab come “prestanome” di Nicolas Maduro[10].

Roberto Saviano ha dimostrato la sua arroganza nel dire: “Studio il narcotraffico in Venezuela da molti anni e questo mi ha permesso di conoscere diversi giornalisti che in questi anni stanno rischiando la vita per raccontare il regime di Maduro e il potere della criminalità organizzata.” Saviano non solo non ha studiato il caso del Venezuela, ma in quell’intervista non ha proposto nemmeno un dato sul narcotraffico tra Colombia e USA e nemmeno un dato sul presunto coinvolgimento del Venezuela.
Con un’operazione retorica ha intervistato Alfred Meza, dando adito alla propaganda golpista della destra eversiva che ha messo a ferro e fuoco il Venezuela post-elezioni, paragonando Maduro ad Erdogan e definendo il chavismo come “un movimento fascista”La verità è che Saviano non ha studiato la storia del Venezuela, del socialismo bolivariano e, con la sua autoreferenzialità, continua a parlare di qualcosa che non conosce perché, se conoscesse, avrebbe i brividi solo ad interfacciarsi con quelli che calunniano la Rivoluzione Bolivariana e i suoi governi.

Il vero obiettivo della finzione comunicativa e propagandistica del Cartel de los Soles non è la droga, ma il controllo strategico delle vaste risorse naturali e minerarie del Venezuela, comprese le più grandi riserve di petrolio del pianeta, interamente gestite da un governo socialista e antimperialista i cui proventi reinvesti per il 75% in piani sociali. Siamo dentro alla trama di un film di Hollywood già visto, in cui gli Usa provano a costruire l’immagine del nemico cattivo per giustificare l’ennesima guerra, l’ennesima invasione militare per una “causa umanitaria”.

Note:

[1] https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2024/08/11/usa-offrono-a-maduro-la-grazia-se-lascia-il-potere_e3896f11-15c4-4cea-ae38-891b4d0bddf0.html

[2] https://www.cdt.ch/news/mondo/non-abbiamo-offerto-la-grazia-a-maduro-360272

[3] https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/chavez-choc_mastico_coca_ogni/

[4] https://italiano.prensa-latina.cu/2024/08/16/cuba-ribadisce-la-sua-intransigenza-di-fronte-al-traffico-di-droga/?fbclid=IwY2xjawEvvehleHRuA2FlbQIxMQABHd8EkRt8uBmPE4WxwK70HVNoq6cfOVFQpOCGQPdHo-cZQZVYSelvVuX5yA_aem_lfxxG74btAgrS5HR6izSaA

[5] https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/

[6] World Drug Report 2019, https://wdr.unodc.org/wdr2019/prelaunch/WDR19_Booklet_4_STIMULANTS.pdf

[7] National Drug Threat Assessment 2019, https://www.dea.gov/sites/default/files/2020-02/DIR-007-20%202019%20National%20Drug%20Threat%20Assessment%20-%20low%20res210.pdf

[8] Roberto Saviano, Alfredo Meza: «Quanti errori a sinistra su Chávez e Maduro. Ora il Venezuela è nel caos»

https://www.corriere.it/esteri/24_agosto_21/saviano-intervista-alfredo-meza-chavez-maduro-venezuela-e08fa362-840f-47f3-bfd7-7fc208a70xlk.shtml?refresh_ce

[9] Geraldina Colotti, Alex Saab. Lettere di un sequestrato, Multimage, 15 novembre 2022

[10] https://www.pressenza.com/it/2024/04/alex-saab-prosciolto-da-tutte-le-accuse/

Fonti:

“National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2024). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2024-05/5.23.2024%20NDTA-updated.pdf

“National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2025). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2025-07/2025NationalDrugThreatAssessment.pdf

Presidente colombiano Gustavo Petro difende Maduro dall’accusa di “narcoterrorismo”. Gustavo Petro, presidente di un paese – la Colombia – dove il narcotraffico ha ancora un grosso peso sulla politica, ha dichiarato: “Il Cartel de los Soles non esiste, è un racconto usato dall’imperialismo per criminalizzare il Venezuela e attuare un intervento militare per controllarne le risorse; è la scusa fittizia dell’estrema destra per rovesciare i governi che non le obbediscono”.  https://www.youtube.com/watch?v=Xf7ghNJ366U

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__la_grande_bufala_contro_il_venezuela_la_geopolitica_del_petrolio_travestita_da_lotta_alla_droga/5871_62413/

https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/

https://italiacuba.it/2025/08/29/il-rapporto-chiave-della-dea-per-il-2024-non-menziona-ne-il-venezuela-ne-il-cartello-dei-soli/

Questo articolo è già uscito con altro titolo su pressenza del 8 ottobre 2025

In copertina: (Foto di La Tercera)

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo /
Cosimo Lamanna: alcune poesie da «A volte invece il cielo non esiste»

Parole a capo <br> Cosimo Lamanna: Alcune poesie da «A volte invece il cielo non esiste»

Chiunque creda che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva
(Paracelso)

*

Così come si conta il mare
di tutte le paure, le onde
sul filo della superficie a stento
si tocca a volte il fondo
e a volte invece il cielo
non esiste.

*

Vorrei che le parole fossero
sculture incompiute
mani capaci
di generare da pietra.

*

Mi piace questa luce
che non illumina e non sveglia
mi piace questa luce
che non amplifica e non sfiora
tra il mio tratto ancora incerto
e la linea da cui affiori.

*

Di quanto amore occorra
dell’acqua necessaria
lo capirai dal peso
magari sollevandomi
con dita leggerissime
per un attimo tra i gigli
osserva in controluce
il tempo che fa ora
e quello che farà.

*

 

Motori in lontananza
dissodano il vento
forse solo per poco
ma risale leggero
al sicuro
dentro l’ombra degli alberi.

*

 

Guardalo passare
questo maggio impaginato
come un velo sulle rocce
dei tuoi pensieri in ombra.
E non ti sia di peso questa sera
non c’è più nulla che tu debba dimostrare
al tempo o al tuo stupore
ogni volta che un dolore capita
(Poesie tratte da: A volte invece il cielo non esiste, RP LIBRI, 2025. Prefazione di Antonio Bux, postfazione di Mara Venuto.)

*

Poesia - L'anello di Möbius - RPlibri

Cosimo Lamanna è nato a Napoli nel 1970 e  attualmente vive a Roma. Ha pubblicato La stanza accanto (Controluna, 2018), Inchiostro per il  prossimo inverno (ivi, 2019), Canzoni controfuoco  – lettere dalla primavera (Tabula fati, 2021), Il diamante e la grafite (ivi, 2022) e Zolle (ivi, 2023). Nel 2023 esordisce nel mondo della canzone d’autore,  in veste di paroliere e co-produttore, fondando con  i musicisti pugliesi Toni Dedda e Marcello Colaninno il collettivo “Coanda”, con il quale pubblica l’album, che al suo interno accoglie contributi poetici  di Mara Venuto e Marisa Martinez Pérsico, Le vite  altrove (AngappMusic, 2024; cinquina finalista alla  50ª edizione delle Targhe Tenco, sezione “opera  prima”). In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie dell’autore l’8 febbraio 2024.
Ringrazio di cuore Cosimo Lamanna per avermi autorizzato la pubblicazione di alcune poesie tratte dalla sua ultima fatica letteraria.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 310° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Cover: immagine da pixabay

Affitti brevi & piano casa:
affari per pochi, problemi per molti

Affitti brevi & piano casa: affari per pochi, problemi per molti

Gli “host” (soggetti ospitanti) di immobili offerti su AirBnB in Italia sono ormai 350mila e gestiscono in media 2,1 appartamenti per ciascuno. Ma su tutte le piattaforme digitali le unità immobiliari erano 750mila nel 2024 e sono in forte crescita.

Già prima della pandemia le notti prenotate erano 39 milioni e sono arrivate nel 2024 a 52,9 milioni. Hanno superato nettamente i 2,2 milioni di posti letto messi sul mercato dagli alberghi e nel 2024 sono arrivati a offrire 3,2 milioni di posti. Per i centri italiani di attrazione l’impatto è fortissimo e binario: meno spazi, meno servizi, più congestione, tempi e costi di spostamento più alti e prezzi potenzialmente più cari su molti acquisti per la parte di popolazione che non vive di turismo; più posti di lavoro, maggiori fatturati e potenzialmente più investimenti per l’altra che invece di turismo vive.

L’esplosione dei ricavi delle piattaforme di ospitalità (da 2,7 a 8,8 miliardi dal 2017 al 2024, da 2,2 milioni di posti letto a 3,2 con ricavi da prezzo medio per stanza a notte saliti complessivamente da 111mila a 167 mila in 7 anni, con ricavi medi per “ospitante” da 11mila a 24mila annui), come ogni nuova tecnologia ha creato vincenti e perdenti. Crea un conflitto distributivo nella società: chi guadagna 24mila euro all’anno da questa attività paga (21%) 1.350 euro di imposte in più – troppo poco – di un lavoratore che percepisce la stessa cifra (per effetto della no tax area). Inoltre ha un “effetto marginale” sugli altri affitti, di lavoratori, giovani coppie, studenti universitari, etc. perché alza gli affitti di tutti e questo spiega perché da 5 anni l’incremento degli affitti è maggiore della stessa inflazione (nel 2025 +4% anziché +2%). In sostanza il messaggio al paese e che si manda ai giovani è “vivete di rendita, non studiate, nè lavorate ma guadagnate mettendo a rendita la casa ereditata”.

Nel ‘900 c’era il capitalismo classico con proletari e capitalisti. I primi vendevano solo il loro lavoro e il più ricco dei proletari guadagnava meno del più povero dei capitalisti. Nel capitalismo attuale crescono le disuguaglianze, ma c’è sempre più chi guadagna sia dal lavoro che dal capitale o dalla rendita, ha una seconda casa (sono 9 milioni in Italia) che affitta. Sono soprattutto ricchi e ceti medi ma anche lavoratori con bassi salari che affittano per sopravvivere (sono 900mila le case con affitti brevi, in crescita).

Così cresce l’homoploutia (così l’ha chiamata Branko Milanovic in Capitalismo contro capitalismo), cioè lavoratori che guadagnano sia dal lavoro che dal capitale. Ecco perché il Governo Meloni, che difende i ceti più ricchi, ha difficoltà a tassare questi affitti brevi che impediscono alle giovani coppie o ai lavoratori di trovare casa. Ci sono sempre più persone che guadagnano sia dal lavoro sia dal capitale (speculano in borsa, coi bitcoin,…) o con rendite (affitti della casa). E’ un fenomeno che riguarda soprattutto i ricchi, ma coinvolge ceti medi e una crescente piccola parte di “proletari”. Ciò spiega la difficoltà ad alzare la tassa (giusta) sugli affitti brevi che ora è 21% sulla prima abitazione e 26% dalla seconda in poi.

L’inchiesta giudiziaria di Milano sulla casa ha messo in luce, al di là della corruzione, quanto sia inadeguata la risposta dei Comuni al fabbisogno di casa a prezzi accessibili per le famiglie povere ed operaie. Una ricerca di Nomisma del 2022 aveva mostrato come in Italia il 43% delle famiglie fosse in debolezza sociale (con problemi di salute, disabili, lavoro precario, dipendenze, solitudine), il 28% in debolezza economica (redditi insufficienti per arrivare a fine mese) e il 12% in debolezza abitativa (redditi bassi in case inadeguate, a rischio sfratto, etc.). Negli ultimi 30 anni è cresciuto in modo enorme chi è in seria difficoltà per la casa (giovani, coppie, single separati, anziani soli, famiglie sfrattate, lavoratori di città,…), mentre è calato sia l’intervento di edilizia popolare (Erp) che quello sociale convenzionato (Ers) [1].

La crisi finanziaria del 2008 (made in Usa) ha portato poi al fallimento di molte imprese private, con il blocco dei mutui, per cui abbiamo in molte città interi palazzi non finiti e inutilizzabili.

Negli anni ’70 la condizione di una famiglia operaia cambiava radicalmente se abitavi o meno in una grande città. Chi stava in affitto in città era in condizioni di povertà relativa per gli alti affitti o il prezzo della casa, per cui con lotte sindacali si riuscì ad accrescere il patrimonio pubblico delle case popolari ed inserire nelle paghe un contributo specifico (Gescal) che finanziava le case popolari.

Oggi per il 18% di famiglie in affitto (4,7 milioni, che salgono al 23% nelle città del Nord), il problema si è acuito sia perché sono cresciuti i prezzi degli affitti (450/500 euro al Nord nel 2024, fonte Istat) e ancor più quelli delle case e i relativi mutui (3,8 milioni pagano un mutuo, 581 euro la rata nazionale e 618 al Nord), sia i poveri (da 4,8 milioni del 2012 a 5,7 nel 2024), sia milioni di famiglie con salari più bassi del 1990 (caso unico in Europa), tra cui 4 milioni di occupati (che non fanno parte dei poveri) che guadagnano non più di mille euro al mese.

Gli affitti e i prezzi delle case crescono sia per lo sviluppo per “poli” tipico del capitalismo, sia per l’overtourism nelle città (specie d’arte e universitarie). Così infermieri, impiegati, insegnanti, operai, conducenti di bus, etc. faticano sempre più a lavorare nelle città perché impossibilitati a pagare un affitto decente.

Nelle città della UE gli affitti sono cresciuti negli ultimi 15 anni del 18% e il prezzo delle case del 48%. I sindaci delle principali città UE hanno stimato che ci vorrebbe un piano da 300 miliardi solo per le loro città.

Nel 1990, finita la lotta contro l’URSS, si avviò un capitalismo (finanziario e globalista) che non aveva più bisogno di dimostrare che le nostre società tutelavano gli operai meglio del comunismo, per cui si abolirono gradualmente una serie di tutele tra cui il contributo Gescal (GEStione CAse Lavoratori). Si sono così azzerati i piani per le case popolari, con la solita idea che ci pensasse il libero mercato a risolvere tutto.

Il patrimonio pubblico delle case non cresce più e comincia ad essere in parte venduto per ristrutturare gli alloggi; una parte rimane persino sfitta perché inabitabile (a Ferrara, per es., sono 900 gli alloggi sfitti su 3.330 Erp), proprio mentre cresce il fabbisogno.

Per fortuna ci sono state iniziative di cooperative (per es. quella de Il Castello di Ferrara) che hanno offerto alle giovani famiglie e anziani alloggi popolari da acquistare versando una somma iniziale e poi una sorta di mutuo-affitto mensile in modo da riscattare la casa dopo 20-30 anni riducendo l’affitto mensile da una media di 560-690 euro nel mercato libero a 420 euro. Esempi poco seguiti da altri Comuni (se si escludono Bologna, Modena, Torino, Milano).

Poichè un quarto degli affitti nelle case popolari non viene pagato (anche per via dell’impoverimento in atto da 30 anni nelle fasce più deboli e degli immigrati che occupano il 25% delle case Erp, a Ferrara il 14%), la strategia del “pubblico” è quella di affidare la “grana” ai privati con accordi pubblico-privati in cui i privati si impegnano (in cambio di oneri zero e aree a costo zero) a costruire una percentuale di alloggi popolari o a prezzo calmierato. Poiché la negoziazione è fatta tra Sindaci/assessori/funzionari e grandi imprese è facile capire quanto sia bassa (più del dovuto) la quota che finisce all’edilizia “popolare” e quanto alti siano i prezzi al mercato libero (a Milano in periferia il costo di acquisto al mq. è 4mila euro e la stanza in studentato, quando è calmierato, a 850 euro mensili).

Questi effetti sono il frutto della crescente indifferenza dei partiti, Sindaci e cittadini al bene pubblico, alla politica. La scomparsa di movimenti sindacali e civili e la crescente centralizzazione (scomparsa dei quartieri, delle comunità critiche), per cui tutto viene deciso in alto tra pochi, che è anche il modello tecnocratico attuale della UE e che piace a molti Sindaci (c’è forse qualcosa che è stato oggetto di consultazione popolare negli ultimi 25 anni?).

Si è così imposto il “modello Milano “dove il Comune mette a disposizione di imprenditori privati aree a costo zero, in cambio di una percentuale di case sia con affitti calmierati (es.: 600 euro al mese per 80 mq.) dove la percentuale della quota sociale è però irrisoria, lasciando senza entrate gli stessi Comuni.

In Emilia-Romagna, dove pure c’è l’esperienza più diffusa di alloggi popolari, quasi il 15% degli alloggi sfitti è abbandonato e inutilizzabile, data la ‘vecchiaia’ degli edifici: il 42% è stato costruito più di 50 anni fa. C’è poi la morosità incolpevole. Famiglie povere che non riescono a pagare e che vengono sfrattate o che finiscono il periodo di locazione. Il sistema Erp, pressato tra case da ristrutturare, mancanza di fondi e scarse entrate non è più in grado di svolgere la sua funzione sociale.

A Vienna, che è il caso più virtuoso in Europa, il patrimonio pubblico riguarda il 40% delle case, a Milano il 6-7%, come altrove al Nord (al Sud l’Erp non esiste). Servirebbe un grande piano nazionale (o ancor meglio europeo) coinvolgendo non le solite grandi imprese ma anche quelle piccole e medie e non profit, cooperative e negoziando prezzi e percentuali per avere città sostenibili.

Servono anche banche pubbliche e capitali pazienti che finanzino a tassi onesti (2-3%). MPS, unica banca ad avere lo Stato come azionista, e che ora controlla Mediobanca e Assicurazioni Generali, lo farà? Già ci sono investimenti in tal senso da parte di Cassa Depositi e Prestiti (CDP, holding pubblica finanziaria del Ministero del Tesoro) e della BEI (Banca europea degli investimenti) e il Governo ha proposto un piano da 650 milioni. Ma sono briciole rispetto a quanto si potrebbe fare.

Servono 12 miliardi per 50mila alloggi. L’esperienza di Vienna e quella di cooperative come Il Castello di Ferrara sono di esempio. Comuni, Pubbliche Amministrazioni, la Confindustria stessa sono preoccupate che senza case accessibili non si trovino più lavoratori nelle città per far funzionare fabbriche e servizi. E paradossalmente l’aumento di iscritti all’Università aggrava la disponibilità di affitto per i lavoratori, se si pensa che solo a Ferrara ci sono ben 10mila fuori sede ogni anno a caccia di una stanza che rimangono esclusi dai 1.400 posti in studentati (nel 2026 ce ne saranno 109 in più: briciole…).

Il Comune di Ferrara è obbligato dalla legge regionale a riservare nel nuovo PUG almeno il minimo (20%) agli alloggi Ers. Altre città come Bologna ne prevedono il 30%, ma il 20% non sarebbe male, se il Comune non avesse previsto che si possono anche non fare, pagando al Comune una piccola penale.

In una situazione drammatica per centinaia di famiglie forse si aspetta il 2040, quando le immatricolazioni all’università caleranno del 40%.

Non sarebbe ora di avviare un piano casa a buon mercato per chi vuole mettere su famiglia o solo lavorare in città? L’Italia è diventata, dopo la Germania, in rapporto agli abitanti, il maggior esportatore mondiale, ma gli incentivi potrebbero andare anche a chi è senza casa o è un problema secondario? Senza sviluppare la Domanda Interna crescono solo le disuguaglianze. E pensare che si possono fare un sacco di profitti e occupati anche sviluppando la domanda interna. Ma la UE, come i Governi, devono fare scelte: o armi o piani sociali. La terza via non esiste.

[1] Nomisma stimava per l’Emilia-R. 32mila famiglie con un affitto superiore al 30% del reddito famigliare ed altrettante con affitti oltre il 50%. Nel comune di Ferrara Istat stima nel 2019 11.867 alloggi in affitto, di cui 943 in Ers (7,9%).

In copertina: immagine Public domain pictures

Per leggere gli altri articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Il progetto di ricerca del gruppo “Ferrara, le donne e la città”: Dal vivere gli spazi al progettare i luoghi

Pubblichiamo questo importante documento frutto del progetto di ricerca promosso da gruppo “Ferrara, le donne e la città” per sollecitare una nuova consapevolezza dei bisogni, delle difficoltà e dei diritti delle donne nel vivere urbano.
(Redazione di Periscopio )

WOMEN’S WISE WORKSHOPS
“DAL VIVERE GLI SPAZI AL PROGETTARE I LUOGHI”

PROGETTO PARTECIPATIVO WWW. ATTRAVERSARE CONOSCERE COPROGETTARE 

Responsabile scientifico: Letizia Carrera, docente di Sociologia del territorio presso l’Università di Bari, coordinatrice del Laboratorio di Studi Urbani URBALAB 

Il progetto di ricerca è stato promosso dal gruppo “Ferrara, le donne e la città” al fine di sollecitare  una nuova consapevolezza dei bisogni e dei diritti delle donne nell’esperienza urbana, mettere in luce  le difficoltà e i problemi che le donne affrontano nella vita quotidiana riguardo alla mobilità, alla  sicurezza, ai servizi, agli spazi di relazione, ripensare in concreto gli spazi della città, le periferie, la  mobilità, la cura dell’ambiente urbano attraverso il confronto con le esigenze e le esperienze di vita  vissuta per giungere a possibili proposte di interventi sulla città.  

Attraverso esperienze di laboratori urbani e di riflessione collettiva, le partecipanti al processo di  ricerca-azione hanno esplorato lo spazio urbano, condividendo percezioni, bisogni e proposte per  rendere la città più inclusiva e attenta alle esigenze delle donne. 

I risultati vengono resi pubblici e presentati agli Amministratori con l’auspicio di contribuire a creare,  in prospettiva, le condizioni per una migliore qualità della vita delle donne e degli altri attori urbani  nella città. 

“La città accogliente e friendly per le donne è una città che sa tendere all’obiettivo di essere inclusiva,  sostenibile e people friendly“. 

Il laboratorio WWW trova la sua matrice teorica nel principio del “diritto alla città” tematizzato dal filosofo francese Henri Lefebvre e che si declina sia come diritto a vivere pienamente la città, sia come diritto a partecipare alla sua progettazione.  

Questa teorizzazione è il fondamento dei principi di democrazia territoriale – il diritto a una città di qualità a prescindere dallo specifico luogo di residenza andando oltre il limite della città “spezzata” tra centro e periferie -, e di quello di giustizia sociale – diritto a poter fruire delle opportunità e dei servizi messi a disposizione dalla città a prescindere dalla specifica dotazione individuale di risorse economiche, culturali e sociali. Il richiamo evidente è alla teoria della capabilities di Amartya Sen e Martha Nussbaum che ritiene imprescindibile centrare l’attenzione sulle reali opportunità fruibili dai soggetti (opportunities) più che sulla loro mera presenza nello spazio urbano 

PREMESSA 

Le città sono storicamente progettate secondo un immaginario maschile, che spesso ignora i bisogni e le esperienze quotidiane delle donne. L’adozione del “gender mainstreaming” nella pianificazione urbana può permettere di superare alcuni limiti di questo approccio, favorendo un accesso equo ai servizi e una maggiore partecipazione ai processi decisionali. 

“Le donne vivono ancora la città con una serie di barriere fisiche, sociali, economiche e simboliche che condizionano la loro vita quotidiana” ( Leslie Kern 2019), ma è proprio a partire da questi ostacoli

che proprio loro possono generare una nuova visione urbana: più sensibile, più umana, più sostenibile. 

Le città infatti non sono neutre. Sono state progettate da urbanisti maschi per soddisfare modelli maschili di vita centrati sul lavoro produttivo, su spostamenti lineari, su tempi rigidi, su strutture pensate per un uomo adulto, sano, motorizzato. Ma la vita reale, quotidiana, è ben più complessa e a pagarne il prezzo sono soprattutto le donne, con le loro giornate frammentate tra lavoro, cura, spostamenti multipli, carichi familiari. 

Da queste analisi discende la seconda declinazione del diritto alla città a cui si è fatto riferimento, che richiama in modo stringente la necessità che gli amministratori e i progettisti dialoghino in modo continuo e sostanziale con i cittadini e, naturalmente con le cittadine, riconosciuti quali portatori di specifiche competenze e di un sapere connesso alla pratiche quotidiane 

Molte città hanno già iniziato a integrare la parità di genere nelle politiche urbanistiche, sociali e culturali: a Vienna, a Barcellona, ad Amsterdam, a Bilbao si sono realizzati interventi che, soddisfacendo i bisogni e i diritti delle donne, hanno contribuito ad attivare processi di uguaglianza dei diritti e percorsi di transizione ecologica. 

Per il cambiamento è necessaria un approccio sistemico abbandonando una visione unicamente economica del mondo per assumere una visione ecologica, in grado di collegare le complesse dinamiche della vita quotidiana con la tutela dei beni comuni ( aria, acqua, suolo) e la garanzia dei servizi ai cittadini ( educazione, sanità, trasporti ). Le donne, per la loro esperienza di vita, sono portatrici di una visione sistemica, complessa, capace di tenere insieme tempi, relazioni, spazi e necessità. Oggi più che mai è di questa complessità che abbiamo bisogno. 

“Le donne possono dare un contributo determinante a immaginare un nuovo modello di convivenza urbana, con la forza delle loro idee, con i loro bisogni e desideri, mettendo a nudo quello che non funziona e che potrebbe cambiare, rivelando le asimmetrie nella ripartizione del potere e delle responsabilità”( Elena Granata 2023 ). 

Da queste premesse deriva l’urgenza di iniziare ad elaborare, con la partecipazione diretta delle donne e sulla base dell’analisi dei loro bisogni, proposte concrete di modifica della città da sottoporre agli Amministratori. Proposte che parlino di trasporti più accessibili, di spazi pubblici sicuri e accoglienti, di orari urbani compatibili con la vita reale, di servizi di prossimità. 

OBIETTIVI  

  • Rilevare le percezioni femminili dello spazio e delle sue pratiche d’uso: comprendere come le donne vivono e percepiscono gli spazi urbani, identificando aree che favoriscono o ostacolano la loro mobilità e sicurezza. “Spazi e luoghi gender friendly per progettare città people friendly”. 
  • Promuovere l’empowerment sociale e politico: incoraggiare le donne a diventare agenti attive nel processo di progettazione urbana, fornendo loro strumenti per rilevare esigenze e bisogni ed esprimere proposte.
  • Influenzare le politiche urbane: utilizzare i dati raccolti durante i laboratori urbani per avviare un dialogo con le amministrazioni territoriali e proporre soluzioni concrete di infrastrutturazione urbana per garantire una maggiore inclusività e attenzione alle esigenze di genere. 

METODOLOGIA 

Poiché l’intento prioritario era dare voce alle donne della città, si è adottato il consolidato metodo della ricerca sociologica qualitativa che consente di esplorare fenomeni sociali complessi e di acquisire comprensione delle dinamiche sociali, tramite il punto di vista dei soggetti e il significato che essi attribuiscono alle loro esperienze. 

QUI un testo esplicativo di Letizia Carrera, docente che ha curato la ricerca. 

DAL «progettare per» AL «progettare con» 

Il progetto Women’s Wise Walkshops è centrato sulla premessa di riconoscere la competenza delle cittadine e dei cittadini che abitano i luoghi. È fondato su un processo partecipativo complesso che persegue un duplice obiettivo: ascoltare, dare struttura e amplificare le voci di chi abita la città e promuovere il coinvolgimento civico e la connessione tra attori sociali diversi al fine di una progettazione urbana partecipata. 

FASI e STRUTTURA del progetto e impianto delle attività di ricerca-azione 

  1. Identificazione, in collaborazione con associazioni locali e gruppi organizzati del territorio, di donne che presentino tratti sociali differenziati in una logica intersezionale. 
  2. Conduzione di interviste semi-strutturate con le donne residenti nei quartieri selezionati come riferimento territoriale per i laboratori urbani. 
  3. Organizzazione di focus group basati sui risultati iniziali emersi dai protocolli di intervista e misurazione degli iniziali investimenti individuali sulle pratiche partecipative. 
  4. Implementazione di walkshop urbani, progettati sulla base del modello delle dérive situazioniste, ma con una maggiore declinazione sociale, che coinvolgano donne di diverse età e background sociali. 
  5. Creazione di mappe tematiche basate su metodologie partecipative e rivalutazione del livello di engagement delle cittadine coinvolte nei diversi percorsi. 
  6. Sviluppo di un documento condiviso che sintetizzi le osservazioni e i rilievi raccolti dalle tre fasi precedenti, delineando infine una serie di raccomandazioni di politiche urbane e interventi concreti per gli spazi urbani. 
  7. Realizzazione di tavoli di confronto con la cittadinanza e con gli amministratori locali, sulla base dei dati emersi per un dialogo e una riflessione condivisa sui risultati per l’elaborazione di specifiche politiche urbane.

Fasi di realizzazione della ricerca  

  • Individuazione di due quartieri, uno centrale e uno periferico, diversi per caratteristiche e problematicità in cui svolgere la ricerca: quartiere Arianuova-Giardino e quartiere Krasnodar. 
  • Realizzazione di 65 interviste semistrutturate e realizzate in presenza rivolte a un campione di donne dei due quartieri diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Fasce di età 18/35, 36/65, over 65. Interviste semistrutturate finalizzate alla raccolta di dati relativi a comportamenti, valutazioni, rappresentazioni dello spazio urbano e delle pratiche quotidiane, e di proposte per il miglioramento della qualità della vita del territorio. 
  • Realizzazione di 2 focus groups: uno per quartiere, coinvolte complessivamente 25 residenti, diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Discussione di gruppo, a partire dai macrotemi emersi dall’elaborazione e dell’analisi delle interviste condotte nella fase precedente, finalizzata a raccogliere esperienze, idee, riflessioni, proposte delle partecipanti sui diversi temi urbani. 
  • Realizzazione di 2 walkshops: uno per quartiere, coinvolte complessivamente 26 residenti, diverse per estrazione socio-culturale, lavorativa ed età. Laboratori urbani organizzati in due diverse fasi: a) realizzazione di camminate osservazionali (dérive) attraverso i luoghi urbani individuati come oggetto della riflessione condivisa con lavoro individuale: ogni partecipante osserva, riflette e prende appunti. b) Confronto sul tema individuato e sulle osservazioni ottenute, all’interno di uno spazio chiuso. 
  • Realizzazione di 2 incontri, uno per quartiere, con tutte le partecipanti al focus group e al laboratorio urbano, per la discussione di gruppo sui materiali emersi dal lavoro complessivo trattati con il metodo delle Word Clouds per l’analisi del contenuto e con quello dell’analisi tematica. 
  • Elaborazione di un documento condiviso che avanzi ipotesi di (ri)progettazione dello spazio urbano inteso quale elemento materiale e immateriale; 
  • Realizzazione di un evento pubblico nel quale sono stati presentati e discussi i risultati emersi dall’analisi dei materiali esito del percorso di ricerca. 

I risultati emersi dal laboratorio WWW Ferrara mostrano con nettezza le potenzialità di questo metodo di indagine sociale in grado sia di cogliere dimensioni e rappresentazioni sottostanti i comportamenti e sia di mettere a valore un sapere pratico e quotidiano di esperibilità dei luoghi. 

Premessa necessaria dalla quale non si può prescindere è il riconoscimento di elevati livelli di fiducia nutrito dai cittadini nei confronti dell’amministrazione e la convinzione di essere parte di un percorso condiviso e sinergico per implementare nuovi progetti per migliorare l’infrastrutturazione materiale e immateriale dello spazio e quindi garantirne una maggiore vivibilità per tutti i diversi tipi di cittadini. 

I dati emersi, al pari di quelli generati dalle altre esperienze metodologiche, non vanno quindi interpretati come sterili critiche rivolte all’amministrazione, quanto, invece, come un percorso partecipato di ripensamento e di miglioramento degli elementi materiali e immateriali della città per aumentarne il livello di vivibilità.

RISULTATI 

Per risultati si intendono le proposte operative emerse dal lavoro di ricerca al fine di riprogettare la città secondo una prospettiva di genere, per una città a misura di tutti i suoi abitanti: “una mappatura sociale per policy urbane di città gender/people friendly”. 

Proposte sintetizzate esposte per aree tematiche 

Mobilità 

  • Pianificazione di una mobilità dolce, sicura e intermodale che si confronti con i tragitti complessi e frammentati spesso compiuti dalle donne ( lavoro, accompagnamento figli, acquisti, cura di persone anziane). 
  • Rafforzamento della rete pedonale e ciclabile, migliorando l’illuminazione, la visibilità e la sicurezza (anche quella percepita). 
  • Progettazione e implementazione del trasporto pubblico con attenzione a frequenza, orari serali, segnaletica accessibile, sicurezza alle fermate e veicoli facilmente accessibili. 
  • Predisposizione di parcheggi di scambio e navette elettriche di collegamento (park & ride). Diminuzione del costo del biglietto del bus o estensione della durata della validità. Spazi pubblici 
  • Adeguamento strutturale degli spazi pubblici per l’accesso di soggetti con disabilità permanente e temporanea. 
  • Riprogettazione degli spazi pubblici con una maggiore infrastrutturazione materiale e immateriale adeguata alla fruizione differenziata dei luoghi: più panchine, più bagni pubblici, più illuminazione, marciapiedi più larghi e ben manutenuti, rimozione barriere architettoniche. 
  • Creazione di spazi verdi diffusi e migliore cura del verde esistente. 

Sicurezza 

  • Applicazione del principio di “prevenzione ambientale del crimine” (CPTED) con criteri di progettazione orientati alla sicurezza: visibilità, presenza umana, illuminazione, assenza di barriere visive. 
  • Contrasto dell’abbandono e della marginalità degli spazi pubblici tramite l’attivazione sociale e culturale sostenuta dall’amministrazione pubblica e da una rete multiattoriale. 
  • Collaborazione con centri antiviolenza, associazioni e comitati per mappare aree a rischio e progettare interventi mirati. 
  • Sostegno agli esercizi commerciali di prossimità come presidi di presenza di vitalità della zona e presidio di sicurezza.

Servizi per i cittadini 

  • Progettazione della città in funzione dei tempi di vita e di lavoro delle persone, promuovendo la “città dei 15 minuti” che consenta di accedere a servizi essenziali (scuole, centri di medicina territoriale, commercio, verde pubblico) in prossimità dell’abitazione. 
  • Potenziamento dei servizi di prossimità (nidi, centri anziani, consultori, sportelli sociali, …) accessibili a tutte le fasce della popolazione. 
  • Creazione di spazi pubblici flessibili, multifunzionali e intergenerazionali che incentivino la socialità e un nuovo modello di cura e di responsabilità sociale condivisa. 
  • Investimento sugli esercizi commerciali di prossimità da considerare non solo come valore economico ma anche per il loro ruolo di veri presidi civici. 

Spazi associativi 

  • Censimento e riqualificazione di edifici e spazi, in modo diffuso nella città, per garantire luoghi pubblici di incontro (anche al chiuso). 
  • Biblioteche, cinema, palestre diffuse per creare occasioni di consumi culturali e di socialità. 
  • Predisposizione di piani sociali (co-progettati) per aumentare il senso di sicurezza percepito dagli abitanti e consentite di fruire di queste possibilità anche la sera. 
  • Case di quartiere (vedi https://www.retecasedelquartiere.org/cos-e-la-rete-delle-case/). Partecipazione 
  • Attivazione di processi partecipativi che includano donne, giovani, anziani, persone con disabilità, caregiver e altri gruppi sottorappresentati nei processi decisionali, con un’attenzione anche alle diverse etnie presenti nella città. 
  • Utilizzo di metodologie di ricerca-azione come i “gender walk” (camminate esplorative di genere),le mappe partecipate e i laboratori di quartiere per raccogliere dati qualitativi sull’ esperienza urbana, da combinare con quelli statistico-demografici. 
  • Favorire la presenza paritaria di donne e uomini nei tavoli decisionali per la progettazione urbana e in quelli connessi alle politiche sociali territoriali. 
  • Favorire le associazioni e i comitati attraverso il finanziamento di una progettazione mirata alla rigenerazione (materiale e immateriale) dello spazio urbano. 

Lo strumento degli attraversamenti urbani, elemento innovativo rispetto alle attuali pratiche e ai  metodi di conoscenza dei luoghi su base partecipativa, si è confermato in grado di garantire, anche in  combinazioni con altre tecniche di indagine, una conoscenza approfondita e generativa dei territori in  vista della possibilità di percorsi collaborativi con le amministrazioni del territorio per una  riprogettazione e un miglioramento condivisi dello spazio urbano e delle forme dell’abitare.

Ferrara, le donne e la città
Ringrazia tutte le associazioni che hanno reso possibile questo lavoro partecipativo

 

Cover: Foto di Ezequiel Octaviano da Pixabay

Le voci da dentro / L’estate del nostro scontento

Le voci da dentro. Caro papà… le cose che non ti ho mai detto

di Giovanni DB

La lettera di Giovanni al padre, scritta e pubblicata qualche anno fa su Astrolabio, è un testo intenso che lascia capire che qualcosa che nella sua vita non ha funzionato come avrebbe voluto. Ci sono dei vuoti ma c’è anche la dimostrazione lampante del bene che questo ragazzo ha voluto e vuole al padre. C’è una dimensione familiare rassicurante ma, allo stesso tempo, c’è l’attrazione verso un’ombra scura. È un testo da leggere, provando a mettersi nei panni dell’altro. Comunque la pensiate, buona lettura.

(Mauro Presini)

Caro papà,

quante cose che avevo da dirti; quante cose da chiederti… forse tante, e forse non a tutte avevi una risposta.

Ugualmente avrei voluto dirtele e guardarti mentre la tua espressione da pensatore prendeva forma e quella ruga si faceva più profonda.

Era bello ascoltarti, se pur sempre non perdevi l’occasione di insegnarci; è per questo che di te sono stato sempre fiero, caro papà.

Avevi ragione anche quando mi prendevi a schiaffi (credimi, facevano veramente male), mai ho ricevuto uno schiaffo senza motivo, senza che me lo meritassi.

Hai dedicato una vita intera a noi figli, a questo figlio… io così ostinato, non credevo che alla fine sarei finito dentro una stanza fredda e buia.

Certo la prima cosa che hai detto è stata: Lo sapevo che finiva così!” o forse lo immaginavi, comunque sia è andata cosi, come tu avevi preannunciato in cuor tuo. Anche se hai sperato e creduto con tutte le tue forze che non andasse così: così è andata.

Ricordi, ancora prima del 2000, un grande dolore ha lacerato i nostri cuori, la perdita di un fratello, la perdita di tuo figlio maggiore, e fu proprio lì che

ho imparato per la prima volta cosa significa il vero dolore, quel dolore che porterai e porterò per tutta la vita, il dolore che non passa mai.

Sono del parere, ne sono convinto, che un genitore non dovrebbe mai seppellire un suo figlio; è veramente inaccettabile e contro natura una cosa del genere, mostruosamente sbagliata ed ingiusta.

Ecco che ti vedo, dietro quei tuoi grandi occhiali, che adesso non ti danno l’aria da pensatore, ma di chi si è mascherato per non far trasparire la sua tristezza, il suo dolore.

Eri un uomo duro, forte e fermo, che non ha mai fatto mancare niente a tutti noi, si è dedicato solamente alla famiglia e, quando era festa, era festa per tutti: l’abbondanza padroneggiava a casa nostra…

Papà, quando arrivava Natale, credo che anche un figlio di uno sceicco si sarebbe ingolosito per tutto quello che c’era sulle nostre tavole, per i regali, per l’amore e l’armonia che regnava dentro la nostra grande ed accogliente casa.

La scelta mia? Beh in fondo non l’ho capita neanche io, neppure scappare dalla mia città… scappare da qualcosa che non sapevo neanche cos’era: paura, vigliaccheria, orgoglio, forse menefreghismo… oggi dico solo ingenuità…

Cosi me ne andai via, lontano, non con la speranza di far fortuna, ma almeno, un giorno, di farti fiero di me; non sapendo che tu lo eri già, se solo ti ero vicino.

Poi nel 2002, il mio arresto, ecco che ritorna quella tristezza, quel dolore che ancora fresco nel mio cuore continua a pretendere ancora di più, ma tanto di più.

Hai provato a tamponare, a reagire a quel contraccolpo, mentre speravi che non fosse così grave come sentivi: un figlio morto e uno in galera…

Anch’io morto in galera, perché tutto quello che sei riuscito a percepire e stata solo la parola “ergastolo”, questo è bastato a far tremare il mio cuore, e a sprofondare nel tuo oblio.

Così mi hai lasciato… senza neanche un preavviso, e di colpo… il contraccolpo l’ho preso io, sapendo che tu te ne sei andato senza di me, mentre io ti avrei accompagnato ovunque, ovunque tu avresti voluto andare: sotto, sopra non avrebbe fatto nessuna differenza per me.

Per te mi sarei buttato anche sotto un treno e non m’importa se questo non è un discorso da persona sana di mente, ma sfiderei chiunque se non avesse fatto la stessa cosa al posto mio, per un suo genitore, be’… io si!!!

Adesso… adesso non mi rimane altro che parlarti, scrivere di te, con la speranza che mi ascolti.

Dedico tutto me stesso a mettere in pratica tutti i tuoi insegnamenti, i consigli che mi ripetevi tutti i santi giorni, ma credo che la cosa più grande che tu mi dicevi e proprio quella di non sprecare e di non buttare via la mia vita…

Caro papà, non è mai troppo tardi per riprendere per mano la propria vita; forse oggi non posso viverla proprio come vorrei, ma almeno ho la possibilità di ricominciare a viverla con i tuoi insegnamenti ed i tuoi consigli, che non mi hanno mai portato fuori strada.

Caro papà, scusa se non posso raggiungerti, ma sono sicuro che tu sarai felice sapendomi vicino alle tue figlie, alla nuora e ai nipotini…

Mio caro papà, un giorno ti racconterò tutto, e capirai come è stato difficile senza di te, ma grazie a quello che tu mi hai trasmesso, ho potuto dare un senso a questa mia vita, grazie alla bella famiglia che hai lasciato.

Ti voglio bene, caro papà.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/samuelfjohanns-1207793/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=4163403″>Samuel F. Johanns</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=4163403″>Pixabay</a>

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / Lento, lentissimo

Jon Fosse guarda dentro una piccola marachella quotidiana, in un concentrato di temi intimi come il senso di colpa e l’onestà. Uscito in libreria il 22 ottobre, con Iperborea, “Lento lentissimo” è una storia ad alta intensità emotiva. 

Per un impulso improvviso e incontenibile, un bambino non resiste alla tentazione di rubare una banana dalla borsa di una vecchietta ricurva che cammina, con il suo bastone, lenta lentissima, per strada, vicino alla rossa fiammante caserma dei pompieri.

Da quella che appare come una piccola monelleria quotidiana nasce una grande storia di suspense e intense emozioni, che parla di senso di colpa, onestà e rispetto, di saper dire grazie e scusa, di uno sbaglio che diventa un’occasione per crescere.

Le marachelle possono essere innocue, ma possono anche non esserlo e portare lezioni inaspettate. Non tutto è perduto.

Un mondo fantastico, che racconta i silenzi e le paure che servono a crescere. Una bugia dopo l’altra, senza il naso di Pinocchio che cresce, e una catena inarrestabile che però porterà a capire cosa fare. Curioso e avvincente, da non perdere, per sé o da regalare.

Jon Fosse è considerato uno dei più importanti scrittori del nostro tempo, premio Nobel per la letteratura nel 2023. La sua opera comprende anche quattro albi illustrati speciali che Iperborea presenta per la prima volta in Italia.

Lucio Schiavon è un illustratore e Graphic Designer nato a Venezia, che ha collaborato con Fabrica, La Biennale di Venezia, Triennale di Milano e l’Agenzia Armando Testa. Illustra libri per Nuages, Topipittori, Terre di Mezzo, Einaudi Ragazzi. Il suo lavoro è come un concerto Jazz, dove mescola ritornelli ad assoli gestuali e imprevisti. Sempre fedele all’aspetto della ricerca visiva e a tecniche artistiche in continua evoluzione.

Jon Fosse, Lucio Schiavon (illustratore), Lento lentissimo, Iperborea, collezione “I Miniborei”, Milano, 2025, 48 p.

Giuseppe Trautteur: la mente cibernetica e il cuore poetico della scienza

Giuseppe Trautteur: la mente cibernetica e il cuore poetico della scienza

In memoria di Giuseppe Trautteur (1939–2025)

Nel silenzio discreto che accompagna le grandi menti, si è spento Giuseppe Trautteur, fisico, informatico, filosofo della mente e figura chiave della cultura scientifica italiana. Ma per chi ha attraversato le pagine della Biblioteca Scientifica Adelphi, il suo nome non è solo quello di un curatore: è un ponte tra scienza e poesia, tra sistemi complessi e intuizioni liriche.

È grazie a lui se molti di noi hanno incontrato Fritjof Capra e il suo Tao della Fisica, dove la meccanica quantistica danza con il pensiero orientale. È grazie a lui se Gregory Bateson è diventato un compagno di viaggio, con la sua ecologia della mente e il suo sguardo sistemico sul mondo o se abbiamo scoperto, con Julian Jaynes, che la coscienza è soltanto una forma recente che si distacca dal fondo arcaico della “mente bicamerale”.

E, probabilmente, è ancora grazie a lui se Wallace Stevens, poeta dell’immaginazione e della realtà, ha trovato casa in Adelphi, in un catalogo che non ha mai temuto di accostare il rigore alla meraviglia, l’algoritmo al verso.

Giuseppe Trautteur non ha solo selezionato libri: ha modellato un pensiero, ha dato forma a una collana che ha educato generazioni di lettori a pensare in modo non lineare, a cercare connessioni invisibili, a interrogare la coscienza come fenomeno emergente.
Il suo Il prigioniero libero (Adelphi, 2020) è una riflessione radicale sulla libertà e sull’identità, scritta con la tensione di chi sa che il linguaggio è sempre un tentativo, mai una conquista.
Nel tempo della tecnoscienza e dell’intelligenza artificiale, Trautteur ha saputo restare umano, interrogando la macchina senza mai dimenticare il mistero. La sua eredità è quella di un pensiero che non separa, ma connette: fisica e filosofia, mente e codice, poesia e algoritmo.

Ricordo un seminario tenuto da Trautteur negli anni ’80 all’Università Federico II di Napoli, durante i miei studi di Fisica Teorica con il Professor Eduardo Caianiello amico e collega di Trautteur.

In quel seminario, Trautteur, ricordando l’epoca pionieristica dell’intelligenza artificiale italiana, parlò con passione e lucidità della mente come sistema aperto, capace di apprendere e trasformarsi, e della libertà come emergenza di un ordine non deterministico. La sua voce, pacata ma intensa, sembrava voler restituire alla scienza il suo respiro più profondo: quello della meraviglia.
Fu uno di quei momenti in cui la scienza smette di essere solo calcolo o chiacchiericcio divulgativo e diventa vera e propria visione.

Come scrive Wallace Stevens, L’immaginazione è il potere dell’uomo sulla natura. Una frase che sembra racchiudere il cuore del progetto culturale di Giuseppe Trautteur: restituire alla scienza la sua dimensione immaginativa, poetica, capace di intensificare il reale senza tradirlo.

Anche Roberto Calasso, nel suo libro postumo Opera senza nome, sembra echeggiare il magistero di Trautteur. Calasso parla di una “corrente che sostiene l’insieme” dei suoi undici libri, come isole nella corrente di un mare illimitato, connesse da fragili ponti o traghetti. È una metafora che ricorda la visione sistemica e reticolare di Bateson, e il pensiero cibernetico che Trautteur ha contribuito a diffondere. In fondo, anche Calasso ha cercato di “inventare qualcosa che prima non esisteva”, affidando proprio a Trautteur  la  collana scientifica della sua casa editrice.

Oggi, mentre lo ricordiamo, possiamo dire che Giuseppe Trautteur è stato una mente cibernetica con il cuore poetico della scienza. E che il suo lascito vive in ogni lettore che, aprendo un libro della sua collana , ha sentito vibrare il pensiero come forma di bellezza.

Nota biografica
Giuseppe Trautteur (1939–2025) è stato un fisico teorico, informatico e pensatore interdisciplinare, la cui carriera ha spaziato dalla ricerca scientifica alla riflessione filosofica. Professore presso l’Università Federico II di Napoli, ha collaborato con il fisico Eduardo Caianiello e ha contribuito allo sviluppo della modellistica computazionale dei sistemi biologici. Come consulente editoriale di lunga data per Adelphi, ha ideato e curato la celebre collana della Biblioteca Scientifica, introducendo al pubblico italiano opere fondamentali di pensiero sistemico, cibernetico e filosofico, tra cui i testi di Fritjof Capra, Gregory Bateson, Douglas Hofstadter e Julian Jaynes. Nel suo libro Il prigioniero libero, Trautteur ha esplorato i fondamenti fisici della coscienza, il libero arbitrio e il rapporto tra mente e macchina, con uno stile che unisce rigore scientifico e tensione poetica.

Cover: Divina Commedia, III cantica, scienza e poesia. di Giovanni di Paolo, 1440 c.a

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Per certi Versi / Grigio

Grigio

Il manto del gatto
il cappotto del cielo
il velo di nebbia
nel fosso del cuore
il vetro a novembre
un’eco d’acciaio
le vite di fumo
la pace lontana
uno sparo lontano
infilzato nel cuore

In copertina: Foto di Herbert da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Crisi climatica: le emissioni dei super ricchi minacciano il pianeta

Un individuo appartenente allo 0,1% più ricco del pianeta emette in un solo giorno più CO2 di quanto il 50% più povero della popolazione mondiale ne produce in un anno. Dal 1990, la quota di emissioni dei super ricchi è cresciuta del 32%, mentre quella della metà più povera si è ridotta del 3%. Se tutti vivessimo come lo 0,1% più ricco, il “bilancio di carbonio” globale si esaurirebbe in meno di tre settimane, portando il pianeta verso il disastro climatico.

E’ quanto si legge nell’ultimo report di OXFAM pubblicato in vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici del 2025 (Cop30) che si terrà dal 10 al 21 novembre a Belem, in Brasile.
I super ricchi emettono una quantità enorme di CO2 a causa del loro stile di vita, ad esempio con l’uso di jet e yacht privati; ma non è solo il loro stile di vita a pesare. Essi, infatti, investono anche in attività economiche tra le più inquinanti e ne traggono profitto.
Il 60% degli investimenti dei miliardari globali è concentrato in settori devastanti per il clima, come petrolio e miniere. Le emissioni prodotte dagli investimenti di soli 308 miliardari superano quelle di 118 Paesi messi insieme. Il report rileva infatti come in media attraverso i propri investimenti un miliardario sia responsabile dell’emissione di 1,9 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Una quota di emissioni paragonabile a quella prodotta da un jet privato che facesse 10 mila volte il giro del pianeta. Stiamo parlando di un’élite che esercita una forte influenza sui negoziati internazionali sul clima, spesso ostacolando le politiche di transizione ecologica.

Alla Cop29 di Baku, ad esempio, risultavano accreditati ben 1.773 lobbisti delle industrie del carbone, del petrolio e del gas, più di quanti fossero i delegati dei 10 Paesi più colpiti al mondo dalla crisi climatica. “Bastano alcuni dati, sottolinea OXFAMper rendere evidente la deriva che stiamo percorrendo: da qui alla fine del secolo le sole emissioni causate dall’1% più ricco del pianeta potrebbero causare 1,3 milioni di vittime per l’aumento delle temperature e anche un danno economico per oltre 44 trilioni di dollari nei Paesi a basso e medio reddito entro il 2050”.

L’impatto della crisi climatica, inoltre, è sempre più forte sulle donne sia nei Paesi ricchi che, soprattutto, in quelli del Sud globale: oggi nel mondo 4 migranti climatici su 5 sono donne, che hanno in media una probabilità 14 volte più alta di restare vittime di disastri naturali rispetto agli uomini; anche nelle città europee ondate di calore sempre più forti e frequenti producono un maggior numero di decessi tra le donne.

Per questo, in occasione della Cop30OXFAM ha lanciato la campagna di sensibilizzazione e attivismo Climate Justice Is Gender Justice” con l’obiettivo di portare l’attenzione su un tema cruciale come la rilevanza degli aspetti di genere nel contrasto ai cambiamenti climatici. Un tema poco considerato nelle politiche di lotta al cambiamento climatico, definite prevalentemente da uomini: in Europa, ad esempio, meno del 27% dei ministri con delega all’ambiente sono donne. La campagna coinvolgerà centinaia di giovani con tante iniziative e attività di sensibilizzazione fino al Climate Pride del 15 novembre 2025 a Roma, in occasione della giornata di mobilitazione globale per il clima che si svolge in simultanea in molti Paesi europei.
La Cop30 arriva esattamente a 10 anni dall’approvazione dell’Accordo di Parigi del 2015. In questo lasso di tempo, l’1% più ricco del mondo ha consumato più del doppio del bilancio di carbonio della metà più povera dell’umanità.

OXFAM lancia un appello urgente ai governi per un’azione che porti a:

  • ridurre drasticamente le emissioni dei super ricchi e dei maggiori inquinatori, attraverso una tassazione più marcata dei grandi patrimoni e dei profitti in eccesso delle società di combustibili fossili, sostenendo in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Cooperazione Fiscale Internazionale
  • ridurre l’influenza economica e politica dei super ricchi, vietando alle società che operano nel settore dei combustibili fossili di partecipare ai negoziati sul clima come la Cop
  • rafforzare la partecipazione dei Paesi del Sud globale e delle comunità più colpite ai negoziati per il clima, con l’obiettivo di ridurre l’impatto sempre più disuguale della crisi climatica
  • adottare un approccio equo nella gestione del budget climatico residuo – riflettendo nei piani nazionali le responsabilità storiche e le diverse capacità di azione dei singoli Stati – e assicurando che i Paesi ricchi contribuiscano alla lotta al cambiamento climatico con finanziamenti consistenti, che vengano effettivamente erogati.

Qui il Report OXFAM: https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2025/10/Climate-Plunder-EN-Final-Paper.pdf

Questo articolo è uscito su pressenza il 27.10.25

In copertina: foto di OXFAM

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Le vite degli altri

Le vite degli altri

Bisogna saperle raccontare, le vite degli altri, entrarci, capirle, onorarle, proteggerle.
Dentro a tutte le mie notti, tornando, mi fermo sotto a una finestra accesa e vorrei sapere se va tutto bene
Proteggo le vite degli altri scrivendo quello che ascolto ogni sera, vite che vogliono attenzione e amore, (e tutti vogliamo attenzione e amore, tutti).
Le esperienze di chi racconta appoggiato al banco con un bicchiere in mano e vuole solo essere ascoltato, diventano le mie.
… e voi, dentro alle finestre siete illuminati in queste lunghe notti e vorrei scalare il muro, spiare in quella luce, la tv accesa con le notizie che non vorreste ascoltare, un divano con un plaid stropicciato, una scatola iniziata di biscotti con tutte le briciole sotto la schiena, mezza mela, bicchieri di vino, le calamite sul frigo, il gatto arrotolato sulla sedia, la sveglia che non serve a qualcuno che ha perso il suo lavoro, i vestiti già pronti per il giorno che è bello togliere il pigiama, profumarsi come divi del cinema dentro a un vecchio film americano dove sempre c’è un the end tipo “La vita è meravigliosa”, e un’ansia addosso che non vi fa dormire
oppure, un libro aperto sulle palpebre chiuse e la luce dimenticata accesa.
Le vite degli altri illuminate di notte a  aspettare…
Sono racconti.
Sempre.Che poi, queste vite, mica sono solo quelle che sbircio dentro le finestre illuminate quando torno di notte. E tutto ciò che dimenticate ogni sera? Borse, portafogli, cappelli, sciarpe, cellulari, accendini, ombrelli, occhiali, centinaia di occhiali, una volta pure un cappotto che nessuno ha mai più cercato. Pezzi di vite che finiscono nel cassetto delle cose perdute per sempre e sembra il segreto di un serial killer che custodisce gelosamente gli oggetti delle sue vittime.

Una volta abbiamo trovato una scatoletta con dentro biglietti usati del treno e due caramelle alla menta.
Chissà che storia era quella.E questo è un film meraviglioso.

Appunto, Le vite degli altri.

Penso a ciò che ha detto Lenin sull’Appassionata di Beethoven: “Non devo ascoltarla o non terminerò la rivoluzione”. Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo?”

In copertina: foto di Stefania Bergamini

Per leggere tutte le storie di Stefania Bergamini su Periscopio, clicca sul nome dell’autrice

“Maratona della lumaca” alla Festa del volontariato 2025
Camminare insieme al ritmo dei tamburi

“Maratona della lumaca” alla Festa del volontariato 2025. Camminare insieme al ritmo dei tamburi

La Festa del Volontariato di sabato 11 ottobre scorso è stata la cornice perfetta per un evento costruito grazie a diverse preziose collaborazioni che hanno permesso di cucire insieme elementi differenti, tesi tutti a raggiungere i medesimi importanti obiettivi. Si tratta della MARATONA DELLA LUMACA, la prima camminata rivolta a portatori di Parkinson, caregiver e simpatizzanti; partita alle 9,30 dalla cosiddetta Casa del Boia in via Rampari di Belfiore, ha percorso il tratto delle Mura fino all’imbocco del sentiero per quella che viene chiamata “la campagna in città” (comunemente detta Terraviva) ed è arrivata in Piazza Ariostea intorno alle 11,30.

Qui, presso lo stand di Gepa Parkinson, si è svolto poi un incontro pubblico dal tema L’importanza dell’attività motoria nel contrastare l’insorgenza del Parkinson. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio dell’Assessorato allo Sport del Comune di Ferrara e del Panathlon Club di Ferrara ed è stata concertata e organizzata da Dimensione Nordic Walking e Gepa Estense Parkinson con l’importante supporto di Musijam APS.

L’idea della camminata è nata da Giuliana Melli Macagnani, consigliera dell’Associazione Gepa Parkinson, che ha proposto con successo ai soci di dedicare un giorno alla settimana alla pratica del nordic walking, in aggiunta alle numerose attività ludico motorie già organizzate dall’Associazione, perché convinta dell’utilità di tale pratica che coinvolge in modo ampio tutto il corpo curando il movimento, la muscolatura, la postura, l’equilibrio, favorendo nello stesso tempo la socializzazione.

La camminata ha quindi visto una nutrita partecipazione di portatori di Parkinson, affiancati da loro cargiver e da volontari, molti dei quali soci e allievi di Musijam, che è Associazione musicale e culturale e scuola di musica; nello specifico, i “musici” hanno scandito il ritmo della camminata, che è risultata così facilitata.

L’intervento dei musici all’interno della Maratona della lumaca è stato pensato, dagli operatori di Musijam, in considerazione degli ottimi risultati ottenuti con il percorso di musicoterapia che i malati di Parkinson stanno svolgendo presso l’Associazione, fortemente convinti che la musica sostiene e potenzia il raggiungimento degli obiettivi, abbattendo lo stress e rinforzando la motivazione. Altri volontari, prevalentemente anche questi associati a Musijam, hanno assistito i camminatori e altri ancora hanno predisposto momenti di riposo e ristoro.

Tutti hanno poi assistito, in cerchio, sul prato della magnifica piazza Ariostea, all’incontro con gli esperti. Ha introdotto Francesco Lazzarini, kinesiologo, referente di Dimensione Nordic Walking, il quale ha dichiarato che camminare è importante per tutti, anche per i portatori di Parkinson, perché fornisce un valido aiuto sul piano della resistenza fisica, dell’allineamento, dell’equilibrio e della coordinazione muscolare.

Ha riconosciuto che l’apporto dei musici è stato fondamentale, perché ha consentito ai camminatori di procedere seguendo il ritmo; il suono dei tamburi ha fatto da utilissimo ‘tappeto sonoro’ a cui le diverse andature si sono appoggiate, raggiungendo una condizione di amalgama e sincronicità.

Lazzarini, in veste di moderatore, ha poi dato la parola al neurologo prof. Enrico Granieri, il quale, alla luce della sua pluriennale esperienza, ha prima di tutto elogiato l’encomiabile azione dell’Associazione Gepa nel promuovere svariate forme di attività fisica, principalmente quelle attinenti al movimento e alla camminata, davvero importanti nella cura delle malattie neurologiche che creano disabilità, come è appunto il Parkinson.

Se si deteriorano alcune strutture legate al movimento, il movimento stesso aiuta a rinforzare la plasticità delle cellule nervose, ovviamente in aggiunta alla terapia farmacologica dedicata. Nel Parkinson il passo si accorcia, le ginocchia tendono a flettersi in avanti, i piedi si sollevano meno, gambe e cosce diventano rigide, come pure i muscoli; il peso del corpo tende in avanti, non è ben ripartito; si può perdere la capacità di controllare postura e velocità del camminare.

Anche braccia e mani si flettono in modo rigido, può mancare l’armonia dei movimenti delle braccia, sì che si producono degli automatismi difficili da controllare. Si osservano mutazioni anche nella mimica facciale, oltre a riduzione del tono della voce e della capacità di articolazione. A livello di movimento e camminata, si riduce la iniziativa motoria, si ha meno voglia di muoversi, meno voglia di socializzare.

A tutto questo si possono fornire ottime possibilità di cambiamento e di miglioramento, conclude il prof. Granieri, attraverso visite neurologiche di controllo, sedute di fisioterapia, ma anche, e soprattutto, passeggiate quotidiane, camminate nel verde, possibilmente in gruppo e una costante attenzione alla respirazione.

Ha preso quindi la parola Lisa Sacchetti, fisioterapista che collabora con Gepa dal 2006, prima per attingere documentazione e raccogliere testimonianze per la tesi di laurea, poi per esercitare l’attività pratica a seguito degli studi teorici. Lisa, sostenendo che non c’è un Parkinson uguale all’altro, ci regala una efficace metafora: chi pratica la fisioterapia è come un sarto che cuce il vestito addosso al singolo paziente.

Elogia poi le svariate possibilità offerte in questo ambito dall’Associazione Gepa: lavoro a casa dei pazienti, per fornire indicazioni e suggerimenti utili per la vita quotidiana; consigli e appoggio ai caregiver; indicazioni sull’arredo domestico; lavoro di gruppo, 2 volte alla settimana, in Associazione, da 5 anni; incontri e pratiche utili a favorire la socializzazione.

In conclusione dello stimolante ed arricchente incontro, Ilaria Bolzoni, musicista e musicoterapeuta, collegandosi con quanto illustrato dagli esperti che l’hanno preceduta, ha ribadito che la malattia del Parkinson costituisce una sfida complessa, perché oltre al movimento colpisce anche la voce, i gesti, i ritmi del corpo; ma non si ferma lì: spesso isola, toglie energia, mina la fiducia in sé stessi. Tra le attività che possono affiancare la terapia farmacologica, aiutando a migliorare la qualità della vita, un ruolo centrale, come già ripetutamente detto, riveste il movimento; ed è proprio a questo punto che può entrare in gioco un’altra risorsa: la musica.

Il ritmo musicale facilita l’esecuzione del passo e stimola movimenti più fluidi e automatici. Oltre a ciò, attività legate al canto, al respiro e alla produzione vocale, possono aiutare nella gestione della ipofonia. La musica riattiva la comunicazione, migliora la respirazione, l’articolazione delle parole e anche la sicurezza nel parlare. Ma c’è di più: fare attività musicoterapica insieme agli altri, con il supporto degli strumenti, favorisce le relazioni sociali, migliora l’umore, contrasta l’isolamento.

Quando si fa musica insieme si crea connessione. Si canta, si suona, ci si muove, si vive un’esperienza condivisa che restituisce sorriso e presenza. La musicoterapia sicuramente non sostituisce i farmaci, né le cure neurologiche, ma le accompagna e ci ricorda che la persona non è solo il suo sintomo, ma è molto di più: è corpo, mente, emozione, relazione.

Oggi, sottolinea Ilaria, con la camminata che abbiamo appena svolto, abbiamo messo in pratica una piccola ma significativa parte di tutto questo. Abbiamo camminato, ci siamo mossi, e lo abbiamo fatto insieme, accompagnati dalla musica. Non stiamo parlando solo di una terapia, ma di un diritto ad una migliore qualità della vita. È un gesto semplice, ma ricco di significato che sottolinea il senso di questa manifestazione, il valore simbolico ed emotivo di quello che abbiamo condiviso oggi, e quanto ogni passo, anche il più piccolo ed incerto, possa diventare parte di un percorso di cura.

Cover e immagini nel testo fornite dall’autrice

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

 

Parole a capo
Paola Di Toro: «Maternità» e altre poesie

Parole a capo <br> Paola Di Toro: «Maternità» e altre poesie

 

Cattiva l’abitudine
di non raccogliere i cocci,
lasciare lesioni in balia
d’altri venti.
Si resta scuciti
fessure di un destino
che non coagula
che taglia altri corpi.

 

*

Maternità

Ci ha volute sasso ed utero
scagliato per farci concentriche
…………….la nudità estesa bianchissima
del latte sceso da tutti i cuori.

 

*

 

Carnale

ma così lontana dal tocco
quando il cielo s’immerge piombo
per uscirne petalo
e il momentaneo assoluto della mano
schiude l’inguine al ramo.

 

*

 

   Il biancospino

 

È così possibile
che le dita scampanellino la gioia
quando innesta dal profondo
e sbandierino prima che passi.
Che appendano una resa sopra al groviglio
-bianca-sullo scuro delle parole
che il male c’è
……………….– ed attrae.

 

Ci sarei entrata in quel pensiero
stretto sul gambo all’iperico.
Avrei preso tra le mani le parole
fatte polvere e costellazione in terra.
Avrei voluto intero il giallo bosco
degli spilli i polpastrelli dell’estate
per sentire di toccarti.

 

*

 

L’ambra della casa

 

È piovuta goccia d’ambra e resina
dal secolo un distillato del sole.
Quasi a possedere tutto il sapere
avvolto nella carezza.
Per questo granello sarei tornata
-per la casa- dove l’insetto ha
il diadema della luce.

 

Foto di Joachimklug da Pixabay

 

Paola Di Toro è nata nel 1975 a Campobasso dove vive e lavora. Specializzata in criminologia, ha espresso la sua passione per la scrittura anche in questo campo, collaborando con siti specializzati, centri antiviolenza e giornali in cui si è occupata di cronaca giudiziaria. Ha pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Stato liquido per Delta 3 edizioni nel 2022. Ha riportato menzioni in vari premi ed è stata tra i finalisti premiati nel concorso Genius Loci e nel concorso internazionale Metamorfosi. Nel 2022 e nel 2023 è stata nella giuria del premio, Sulle orme del De Sanctis, legato alla casa editrice Delta 3 e nel 2025 nel concorso di poesia Arturo Giovannitti.
In corso di pubblicazione un’antologia di fiabe, per Macabor editore, in cui sarà presente anche un suo contributo. In Parole a capo sono state pubblicate sue poesie il 3 agosto 2023.

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 309° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

 

 

Dal datore di lavoro al donatore di lavoro

Dal datore di lavoro al donatore di lavoro

Immaginate una persona, sposata e con figli a carico, che non ha un reddito fisso e quindi non sa come mettere un pasto in tavola o come pagare le bollette. Di cos’ha bisogno? Risposta facile: di un lavoro. Risposta facile, ma sbagliata.

Proviamo ad immaginare la stessa persona, che pur non lavorando percepisce affitti, ottenendo un reddito di 10.000 euro mensili. Direste che ha bisogno di un lavoro? Sicuramente no. E allora, la verità è che nessuno ha bisogno di un lavoro in quanto tale: ciò che serve alle persone sono i soldi necessari a vivere e mantenere la famiglia.

In realtà, ad aver bisogno di lavoro sono le aziende. Se io sono titolare di un’impresa edile, ho bisogno di qualcuno che impasti il cemento, che collochi i mattoni, che dia l’intonaco. E’ evidente che i muratori svolgono quelle attività non perché sentano il bisogno di farlo, ma perché per loro è il modo per guadagnarsi da vivere.

La situazione ottimale per un uomo o una donna sarebbe avere i soldi senza lavorare, o lavorando il meno possibile.

La situazione ottimale per un’azienda sarebbe avere il lavoro senza pagarlo, o pagandolo il meno possibile.

Sono due ipotesi estreme. La prima è quella a cui si dovrebbe tendere, in un futuro in cui gran parte dei lavori verrà gestito dall’IA. Ma la seconda è quella che il mondo del lavoro cerca concretamente di realizzare, in qualche caso riuscendoci pure.

Circa un anno fa fece scalpore la richiesta di Elon Musk: cercava collaboratori con alto QI, disposti ad orari di lavoro pesantissimi (80 ore settimanali) e senza alcuna retribuzione. Il compenso: l’onore di lavorare per lui.

A parte i fortissimi dubbi sul fatto che chi avesse risposto ad una simile inserzione potesse realmente avere un QI superiore alla media, questo esempio incarna alla perfezione l’atteggiamento che spesso si materializza nelle aziende italiane. 

 “Non si trova più nessuno che abbia voglia di lavorare”

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase da parte di imprenditori disperati perché, a loro dire, il nostro è un paese di fannulloni che preferiscono starsene sul divano piuttosto che accettare la generosa offerta di lavorare 10 ore al giorno per 800 euro mensili?

Come dar torto a questi imprenditori illuminati? Lavorare dev’essere considerato un privilegio, un’occasione per fare esperienza, per arricchire il curriculum. I soldi sono un aspetto secondario: anzi, guai a presentarsi ad un colloquio di lavoro chiedendo l’ammontare dello stipendio. Se questa è la logica, è bene cambiare anche la terminologia utilizzata fino ad ora: più che di datore di lavoro, dovremmo parlare di “donatore di lavoro”, come lo ha definito l’attrice comica Rosalia Porcaro in un suo riuscitissimo monologo.

Il Donatore di lavoro ha troppe cose a cui pensare per preoccuparsi della sicurezza dei suoi dipendenti: in fondo, quando lui ha cominciato a lavorare, le condizioni erano ben peggiori. Basta stare attenti, e se qualcuno si fa male se l’è cercata.

Il donatore di lavoro sembra avido, ma in realtà non è così: lavorare per lui è un privilegio, e se ci si accontenta dello stipendio che generosamente decide di offrire, senza stare a fare i pignoli sui contributi previdenziali e senza guardare l’orologio, sapendo che l’orario di lavoro non coincide con quello contrattuale, può essere un’esperienza impagabile. Per questo vorrebbe evitare di pagarla.

“Dobbiamo ringraziare l’azienda che ci paga lo stipendio”

Una frase che spesso sento pronunciare, anche nel settore bancario, che i dirigenti e i manager di aziende più grandi rivolgono ai dipendenti. Frase basata sulla colossale bugia per cui l’azienda non avrebbe bisogno di lavoro, ma generosamente si offre di pagare chi viene onorato di far parte della sua grande famiglia. Quindi lo stipendio non va visto come contropartita di una prestazione. No, lo stipendio è un regalo che generosamente viene accordato, una sorta di elemosina elargita da chi non sarebbe neanche tenuto a farla, ma lo fa in virtù della sua enorme generosità.

Una frase del genere è quanto di più offensivo si possa dire ad una persona che lavora. Che non lo fa perché il suo scopo nella vita è servire il suo Donatore di Lavoro: lo fa perché ha bisogno dei soldi per vivere.

 

Photo cover: Sciopero lavoratori Lanotype,  Sesto San Giovanni (MI), Associazione Archivio del Lavoro, fondo Fondo Silvestre Loconsolo, LCN_ST_DV_1838.

 

 

Ventimila cavi sotto i mari

Ventimila cavi sotto i mari

di Giuseppe Ferrara e Sergio Foschi

Recentemente due cavi sottomarini per le telecomunicazioni che attraversano il mar Baltico sono stati danneggiati con una sospetta azione di sabotaggio: il primo cavo che ha smesso di funzionare era lungo circa 218 chilometri e collegava la Lituania all’isola svedese di Gotland; il secondo cavo, lungo 1.200 chilometri e che collegava la capitale della Finlandia, Helsinki, al porto tedesco di Rostock, ha smesso di funzionare praticamente dopo un giorno dal primo.

I due cavi distavano tra loro circa 100 chilometri. Come detto si tratta di cavi usati per trasmettere telecomunicazioni in fibra ottica, quindi soprattutto comunicazioni via Internet ad alta velocità . Questo tipo di cavi ha una fondamentale importanza nell’economia globale, e un loro malfunzionamento o un loro sabotaggio causano danni enormi e su vasta scala.

Attualmente la rete di cavi sottomarini regge il 99 per cento del traffico Internet. E il suo ruolo diventa sempre più critico man mano che si infuoca il panorama geopolitico. Eppure i rischi che i Paesi, Italia inclusa, stanno correndo, associati a questi incidenti/sabotaggi, sono ben poco considerati. Ancora meno sono nell’agenda dei governi e delle scelte di politica industriale che quei governi saranno chiamati a fare.

Il traffico Internet mondiale scorre sotto gli oceani

Ci sono guerre che non si vedono, anch’esse decisive per gli equilibri geopolitici del mondo. Guerre  invisibili, sotterranee anzi più propriamente, sottomarine. Come ha scritto l’Economist“… i dati sono immagazzinati nella nuvola ma scorrono in mare.

Le nostre e-mail, TikTok e tutti i video, foto, playlists, clouds, ma anche le comunicazioni interne alle multinazionali, le transazioni bancarie (per 10mila miliardi di dollari al giorno!) e, naturalmente, i dispacci diplomatici e militari. Tutto scorre come direbbe qualcuno, nei “ventimila cavi sotto i mari”.

Attualmente, nei fondali degli oceani sono presenti circa 500 cavi sottomarini che coprono una distanza complessiva di 1,3 milioni di km, ovvero più di tre volte la distanza che separa la Terra dalla Luna.

In realtà queste cifre potrebbero essere prudenziali: la rete di cavi sottomarini è una componente critica dell’infrastruttura globale di Internet e le informazioni specifiche su alcuni cavi potrebbero non essere disponibili al pubblico per motivi di sicurezza.

Ma come sono fatti questi cavi?

Al di là della componente funzionale (quella opto-elettronica) il materiale preponderante è quello che costituisce l’involucro esterno tubolare nel quale viene immersa la fibra ottica portante il segnale. Questo materiale è la plastica, per la precisione un particolare tipo di poliolefina, cioè un determinato grado di polietilene e/o polipropilene.

Sì proprio quella famiglia di materiali che è stata prodotta per la prima volta nella città di Ferrara e che ancora oggi viene prodotta dalle aziende insediate in quel petrolchimico italiano.

Quando parliamo del problema della plastica o disquisiamo se sia il caso o meno di dismettere la filiera della petrolchimica, bisognerebbe tenere conto di queste cose che, tradotte in termini pratici, significano:

non possiamo fare a meno della plastica.

Ed infatti la produzione di plastica nel mondo continua ad aumentare assestandosi oggi a circa 500  milioni di tonnellate (fonte Global Plastic Market Size 2023-2033: https://www.statista.com/statistics/1060583/global-market-value-of-plastic/), ma continuando a crescere nel prossimo decennio.

Pur essendo una “banale” plastica, tale materiale deve essere messo nelle condizioni (grazie a una buona ricerca applicata) di poter essere utilizzato per il tipo di applicazione come quella dei cavi sottomarini. Questo tailor-made plastic material (materiale plastico fatto su misura come un vestito in una sartoria artigianale) deve avere determinate caratteristiche che non sarebbero affatto soddisfatte da altri tipi di materiali analoghi, come quelli provenienti ad esempio dal riciclo meccanico, né dalle cosiddette plastiche biodegradabili.

Ci auguriamo che bastino queste poche e, si spera, chiare informazioni per capire perché sarà complicato sostituire la plastica in molte delle attuali applicazioni e perché il recycling meccanico – che più opportunamente dovrebbe essere definito downcycling – non potrà rappresentare per moltissime filiere produttive ( p.es. automotive, edilizia, elettronica, manifattura in generale e bio-medicale)  una soluzione al problema innescato da un “altro tipo di problema”: quello della dispersione della plastica nell’ambiente.

L’alternativa di sostituire l’ingente massa  di plastica con materiali cosiddetti biodegradabili o, addirittura tornando ai vecchi materiali tradizionali (carta, vetro, etc…), avrebbe comunque importanti impatti sull’ambiente, per lo meno gli stessi impatti che hanno infine resa vincente la materia plastica nei confronti dei precedenti materiali e che la rendono ancora insostituibile in tante applicazioni come appunto quella dei cavi sottomarini per telecomunicazioni.

Negli ultimi anni, le comunicazioni satellitari hanno guadagnato attenzione grazie a progetti come Starlink di SpaceX, che promettono connettività globale attraverso una costellazione di satelliti in orbita bassa. Tuttavia, i cavi sottomarini rimangono la spina dorsale dell’infrastruttura Internet mondiale, trasportando oltre il 99% del traffico globale.

I vantaggi dei satelliti includono la copertura in aree remote e la rapidità di implementazione, ma presentano limiti in termini di latenza, capacità e vulnerabilità alle condizioni atmosferiche. I cavi sottomarini, al contrario, offrono maggiore stabilità, larghezza di banda e sicurezza, sebbene siano più costosi da installare e soggetti a danni fisici.

In sintesi, le due tecnologie non sono necessariamente concorrenti, ma complementari: i satelliti possono servire come supporto in zone non raggiunte dai cavi, mentre le dorsali sottomarine garantiscono la robustezza e la velocità necessarie per i flussi di dati su larga scala.

Concludiamo ripetendo quello che risulta ormai chiaro a tutti o a quasi tutti: il problema dell’inquinamento ambientale da rifiuti plastici lo si risolverà nel momento in cui si incentiveranno i metodi di riciclo chimico, l’unico sistema che permetterà di valorizzare il rifiuto plastico come vera e propria fonte energetica rinnovabile e che quindi ne favorirà la sua vantaggiosa – ambientalmente, socialmente ed economicamente –  raccolta e il suo “sfruttamento” per la produzione di virgin nafta di origine non più legata alla raffinazione del petrolio.

D’altra parte se la ricerca è riuscita a “solidificare” del gas, perché la ricerca non dovrebbe fornire soluzioni per “liquefare” la plastica?  Basta volerlo. Responsabilmente.

Bibliografia

  • Ambrosetti (2025). Rapporto Strategico sull’Industria della Plastica in Italia.
  • TeleGeography. Submarine Cable Map. https://www.submarinecablemap.com/
  • Cisco. Global IP Traffic Forecast. https://www.cisco.com/c/en/us/solutions/executive-perspectives/annual-internet-report/index.html
  • McKinsey & Company. Circular Economy and Plastic Waste Reports. https://www.mckinsey.com/business-functions/sustainability/our-insights
  • Statista. Global Plastic Market Size 2023–2033. https://www.statista.com/statistics/1060583/global-market-value-of-plastic/

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Trump costruisce un Nuovo Ordine Mondiale?

Trump costruisce un Nuovo Ordine Mondiale?

Probabilmente Trump riceverà l’anno prossimo il Nobel per la pace. L’hanno avuto anche Obama (in anticipo, senza poi fare nulla) e 7 premier israeliani e palestinesi pur non riuscendo a pacificare l’area. Più che il Nobel per la pace, speriamo però che arrivi la pace vera in Medio Oriente, per il martoriato popolo palestinese (ma anche per gli israeliani) e che non prevalgano gli estremisti in entrambe le parti. La pace “sporca” che speriamo arrivi cambia, come avevo predetto, la politica estera degli Stati Uniti, che ora con Trump cercano la pace più che guerre che, regolarmente, perdono.

Come mai questo cambio dopo 80 anni?

Perché è arrivata la Cina, la quale insieme ai BRICS vuole indebolire il dominio americano nel XXI secolo. Trump ne è consapevole se il suo segretario di Stato Marco Rubio dichiarò a suo tempo: “l’ordine mondiale uscito dalla 2^ guerra mondiale è ormai obsoleto e dopo 80 anni di dopoguerra la convivenza internazionale merita una nuova architettura politica”.

Già Keynes ci aveva provato nel 1945 con un paniere delle principali monete e materie prime, al posto del dollaro, ma gli Stati Uniti volevano dominare. Come dice il presidente brasiliano Lulanon esiste un ONU che non dia un seggio permanente al Brasile (o all’India e ad altri paesi giganti emergenti) e così va abolito il diritto di veto all’ONU”. Nella UE si vuole abolire il diritto di veto in base a un principio democratico che non si vuole però applicare all’ONU e ciò mostra la pochezza della UE.

La Ricchezza delle Nazioni si è sempre basata su Produzione e Forza Militare. L’Italia perse il suo primato nel 1492 perché mancava di uno Stato unitario e la sua enorme flotta era però divisa tra Venezia, Genova e gli altri staterelli. Diede il proprio know how (Colombo) e il denaro delle proprie banche a Isabella del Portogallo che, con la sola idea imprenditoriale, fece il business e colonizzò il Brasile. Poi fu la volta del dominino della Spagna e infine dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.

Clinton e i neo conservatori repubblicani pensavano con la Finanza (abolendo nel 1999 la legge introdotta da Roosevelt del 1933 sulla divisione tra banche d’affari e commerciali) di aver trovato la 3^ gamba per far stare in piedi lo sgabello del dominio (insieme a Produzione –PIL- e Potere Militare) che sono le gambe della forza di un Paese e della sua moneta.

Gli americani furono così sprovveduti da non accorgersi che i cinesi (aiutati con la de-localizzazione delle loro manifatture in Cina e l’ingresso nel WTO nel 2001) stavano diventando la “fabbrica del mondo”? Forse, ma certo pensavano che i lauti profitti (mai così alti negli ultimi 200 anni) riversati nella finanza, avrebbero consentito non solo di arricchire come non mai le loro élite, ma di continuare a dominare il mondo. Di certo non avevano considerato che, impoverendo le periferie e la classe operaia, avrebbero prodotto Trump.

Il cielo e le terre (rare)

Le terre rare nella tavola di Mendeleev

Innamorati del “cielo” (finanza, digitale, cloud, Intelligenza Artificiale, spazio) avevano trascurato la misera “terra”, che è sempre stata importante nella cultura confuciana sin da quando lo sterco fertilizzava quella terra che ora ritrova nuovo valore nelle materie prime e terre rare. Quei 17 metalli, dell’ultima riga della “tavola periodica di Mendeleev” (1869) che sono fondamentali per le nuove tecnologie (tullio, lutezio,…) per le nuove armi (droni e aerei), Intelligenza Artificiale, smartphone, motori elettrici, turbine eoliche, raffinare il petrolio, uso dei laser, semiconduttori e molto altro.

Terre rare possedute per il 44% dalla Cina, 12% dal Vietnam, 11% dalla Russia, 11% dal Brasile, 7% dall’India, 4,2% dall’Australia, 3% dagli USA e 1,5% dalla Groenlandia, cioè per 85% dai BRICS. Nei prossimi anni si scopriranno altri giacimenti (il Giappone li cerca in fondo all’oceano), ma il grande problema è anche la raffinazione, un processo estremamente inquinante e complicato nei paesi a forte densità di popolazione come l’Europa che ha severe regole di protezione ambientale.

E ciò spiega perché la Teoria del Matto (di Trump) che può fruttare per i dazi (in Europa e altrove) e per il cessate il fuoco in Medio Oriente, non funzionerà con Cina e Russia, che sanno bene quanto sia importante la Produzione (e si sono costruiti nel frattempo altre due gambe per un solido sgabello). La Russia produce in un anno più armi e munizioni dell’intera Nato e la Cina sa bene che i dazi di Trump aiuteranno a ricostruire la manifattura americana in modo molto limitato e a spese dei sui alleati.

Cina e Russia

La Cina ha acquisito con l’alleanza con la Russia (gettata nelle braccia della Cina dalla fine dell’Ost politik dell’Europa, su ordine degli Stati Uniti, con l’idea demenziale di allargarsi anche all’Ucraina) il Potere Militare. E ora con la Terra (terre rare) hanno quella seconda e terza gamba dello sgabello (Economia, Militare, Terra) che fronteggia senza timori lo sgabello a 3 gambe degli Stati Uniti (Economia, Militare, Finanza).

Zelensky avrebbe detto a Trump: “Se hai fermato la guerra a Gaza, puoi fermare anche Mosca”. Trump ha fermato Israele per almeno tre ragioni:
a) sa che le guerre sono costose per gli Stati Uniti (e si è impegnato coi propri elettori a non farne più);
b) dopo una prima fase di supporto a Israele ha capito che il suo estremismo avrebbe compromesso i giganteschi affari coi paesi arabi;
c) proseguire la mattanza a Gaza isolava nel mondo non solo Israele ma anche gli Usa.

E’ interessante osservare come i media mainstream non parlino di questa terza motivazione, che mostra la capacità degli esseri umani di mobilitarsi, far valere il proprio pensare, la propria coscienza e la volontà. Fattori che il neo liberismo vorrebbe seppellire con la logica “oggettiva” (sic) dei “mercati” e dell’Intelligenza Artificiale, trasformando le democrazie in oligarchie liberali ed eclissando sempre più le persone (il popolo) dalla vita politica e dalla vita tout court.

In Ucraina le cose stanno però molto diversamente da Gaza:
a) la Russia sta vincendo e ogni giorno avanza;
b) è difesa da Cina, BRICS e da più di metà mondo;
c) fare il “matto”, dando missili a lunga gittata Tomahawk e sempre più armi, attuando il piano della Nato, della von der Layen, della Polonia, dei paesi Baltici e di altri bravi volenterosi per sconfiggere la Russia, porta alla fine dell’Ucraina, dell’Europa e soprattutto accelera la fine dell’egemonia americana nel mondo, che può proseguire solo con un accordo con Cina e BRICS.
Così si spiegano le parole del vice Presidente Vance alla conferenza di Monaco: “l’Ucraina tra anni potrebbe essere russale minacce all’Europa non vengono dalla Russia o dalla Cina ma dal suo interno”.

Col cessate il fuoco in Medio Oriente cosa potrebbe succedere per l’Ucraina?

Jeffrey Sachs, economista alla Columbia University, uno dei principali consiglieri economici del Papa, lo dice senza giri di parole:
Trump ha rotto con la tradizione neoconservatrice USA incentrata dagli anni ’90 sull’espansione ad est della Nato che è la principale preoccupazione della Russia e ciò consente un ripristino di normali relazioni tra USA e Russia…ed arrivare alla pace in Ucraina…L’Europa si è tagliata fuori da sola, rifiutando la diplomazia e schierandosi sulla linea neocon ha gettato al vento la storia delle relazioni diplomatiche tra Russia ed Europa…la quale dovrebbe riallacciare rapporti con Mosca”.

Poiché, come dice Xi Jinping l’Asia sta crescendo e l’Occidente sta calando”, Trump, da uomo d’affari ne prende atto, decidendo di “governare il mondo” nel XXI secolo non più da solo (troppo costoso, troppi potenziali conflitti), ma trovando accordi con chi conta sulla base di quelli che sono (da sempre) i principali pilastri del potere: 1. Sovranità, 2. Forza economica, 3. Forza militare, 4: Finanza, 5. Materie prime.

Una pace sporca

Ciò spiega perché Trump cercherà un accordo (una pace sporca anche in Ucraina), visto che la pace “giusta” non c’è mai stata nella storia, dopo quella in Medio Oriente, anche perché la pace favorisce il business. Trump vuole estrarre il massimo vantaggio per gli Stati Uniti dalla nuova situazione reale, giocando su più tavoli e in cambio della cessione anche di “sfere di influenza politica” ai competitor (Paesi Arabi, Russia). La Cina rimane il nemico (da trattare con cura vista la sua potenza). Per i vassalli (Europa, Canada,…) ci sono solo oneri.

Siamo lontani da un mondo ideale in cui c’è fratellanza senza potere, ma è anche vero che è sempre stato così nella storia.
Lucio Caracciolo scrisse nel febbraio 2022: “Per motivi che non riesco a spiegarmi, l’Ucraina si è affidata alle promesse europee e americane pensando di poter entrare nella NATO e conservare territori ingaggiando una guerra di lunga durata. Un’operazione di dissanguamento in vista di obiettivi che non si potevano raggiungere. Questo spiega la crisi dell’autorità politica di Zelensky, così come il rifiuto dei giovani ucraini di andare al fronte e la massiccia fuga verso l’estero di milioni di ucraini. Questo è il vero problema: non tanto il 20% di territori perduti, ma l’80% che è in condizioni disperate”. Che alternativa aveva Zelensky? “Firmare l’accordo dell’aprile 2022 sponsorizzato dalla Turchia che avrebbe dato condizioni nettamente migliori di quelle di oggi e risparmiato centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. Ma in quel frangente sono stati soprattutto gli inglesi e alcuni europei, più che gli USA, a spingere gli ucraini a combattere assicurando loro che si sarebbe potuto vincere”.

Da allora sono passati 3 anni e mezzo e la UE insiste ancora nel cercare una vittoria sulla Russia.
Vedremo nei prossimi mesi (speriamo non siano anni) a quali disastri per i suoi cittadini e lavoratori porterà questa scelta di riarmo e di continuare una guerra impossibile da vincere, mentre gli Stati Uniti indeboliscono l’Europa con i dazi, l’obbligo di acquistare il suo gas, le sue armi, distruggendo gradualmente la manifattura europea, l’unica gamba di uno sgabello che l’Europa aveva. E pensare che che per stare in piedi uno sgabello ha bisogno di tre gambe.

L’Europa ha infatti la sola gamba della Produzione (manifatturiera), avendo omesso di costruire le altre: il Potere Militare, la Finanza e le Materie prime (oggi Terre rare). Che Dio ci protegga dalla nostra élite, del resto cosa dice il proverbio? Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.

In copertina: la competizione USA-Cina, Foto di Tumisu da Pixabay

Per leggere gli altri articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita

Trump sembra un vincente ma la supremazia USA è già finita

Nel mio articolo precedente (vedi Qui) ho ragionato sull’impostazione di fondo del nuovo imperialismo trumpiano, supportato da un nuovo complesso militare-industriale-informatico ( e finanziario). Preannunciavo che questo ridisegno del mondo è sì molto pericoloso, soprattutto rispetto all’affermazione della tendenza alla guerra e di un regime dittatoriale interno, ma, nello stesso tempo, ha molti punti di debolezza e può essere messo seriamente in discussione.
Di questo mi occupo nelle valutazioni che seguono.

Intanto, un primo forte punto di difficoltà del progetto trumpiano è l’idea del ripristino di un’unica grande superpotenza mondiale, gli USA ovviamente, che si incarna bene nell’espressione MAGA (Make America Great Again). In realtà, essa non corrisponde alla realtà del mondo odierno, che, lo si voglia o meno, è contrassegnato da un assetto multipolare.

Deglobalizzazione e multipolarismo

Non solo non c’è un’unica superpotenza, ma neanche un sistema bipolare (USA versus Cina): la realtà è che, dentro il gorgo della globalizzazione, sono cresciute grandi e anche medie potenze, il cui ruolo non può essere ignorato nel governo degli equilibri mondiali. E i fatti reali hanno la testa dura, ben più delle ideologie che esprimono una falsa coscienza e dipingono un mondo capovolto.
Non ci sono solo USA e Cina, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Unione Europea (se così si può chiamare), l’Arabia Saudita, l’Iran, Israele, la Turchia e l’elenco potrebbe continuare.

Il tema non è semplicemente l’irruzione nello scenario mondiale dei BRICS, i Paesi guidati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che peraltro rappresentano il 41,4% del PIL mondiale a parità di potere di acquisto, mentre quello dei Paesi del G7 vale meno del 30% (nel 1990 tale valore era del 52%), anche perché non sono in grado di offrire una politica univoca e tantomeno alternativa nella costruzione di un nuovo ordine globale.

Il punto è che, nella deglobalizzazione, anche singoli Stati assumono ruoli rilevanti: basta pensare alla Turchia, che è contemporaneamente Paese strategico nella Nato e fiero oppositore di Israele e, non casualmente, omaggiato da Trump per la realizzazione, insieme ai Paesi arabi sunniti, della “fragile tregua” a Gaza (come oggi viene definita, con un’incredibile correzione in pochi giorni, dai media mainstream al posto della “pace eterna”). Oppure all’India, che la scellerata politica trumpiana dei dazi è riuscita nel miracolo di farla riavvicinare alla Cina, e che torna adesso ad essere oggetto di attenzione particolare dagli USA.

Insomma, il dato di un mondo multipolare è così forte ed evidente che la stessa presunta presunta supremazia americana, pragmaticamente, deve venirne a patti. Generando, però, un cortocircuito tra comportamenti concreti e loro rappresentazione (tra realtà ed ideologia) che è più foriera di instabilità e disordine mondiale piuttosto che di un nuovo equilibrio.

L’economia Usa in bilico

Il secondo elemento che mi fa dire che non funziona il progetto di Trump è che esso ha basi molto vulnerabili rispetto alla situazione economica degli Stati Uniti e dello stesso sistema capitalistico, perlomeno quello occidentale, se non addirittura mondiale.
Intanto va tenuto presente che l’economia statunitense si trova alle prese con problemi strutturali, quelli derivanti dai cosiddetti “deficit gemelli”, quelli relativi al deficit pubblico e ai conti con l’estero, che danno ragione della parabola discendente del ruolo dominante della sua egemonia e di quella del dollaro nel sistema economico-finanziario del mondo.
G
li Stati Uniti soffrono di un deficit pubblico e di un indebitamento con l’estero (il primo superiore a 1,900 miliardi di $, pari al 6,3% del PIL, il secondo arrivato a più di 26.000 miliardi di $) strutturali e crescenti, che vengono ulteriormente aggravati dalle ultime scelte di bilancio pubblico. (Vedi anche questo articolo di Alessio Marchionna su Internazionale)
Secondo autorevole analisi elaborate dal Comitato per un bilancio federale responsabile ( CRFB), gli stessi introiti previsti dalla scellerata politica dei dazi imposti da Trump non riusciranno a pareggiare il taglio delle tasse e delle spese introdotte con l’ultima legge di bilancio.

Ancor più dovrebbero far riflettere una serie di processi in corso, che sembrano sempre più assomigliare ai presupposti che diedero origine alla grande crisi sistemica del 2007-2008. Si moltiplicano le forme di “finanza ombra” (shadow banking), quella che agisce al di fuori degli elementi regolatori del sistema bancario classico, così come sta crescendo la bolla finanziaria di Wall Street, gonfiata dalle grandi aziende hitech, impegnate in primo luogo nella corsa all’intelligenza artificiale.
La nuova costruzione arrivata nella finanza ombra è quella delle stablecoin, incentivata dallo stesso Trump. Questo nuova “moneta”, il cui mercato è stimato, secondo Citigroup, possa crescere dagli attuali 260 miliardi di $ ai 3700 miliardi di $ nel 2030, ancorché progettata per mantenere un valore stabile con una valuta reale, solitamente il dollaro, in realtà può essere fonte di forti instabilità e speculazione nel sistema economico-finanziario.

Verso una nuova Grande Crisi?

La stessa esplosione degli investimenti nell’intelligenza artificiale, che nel 2024 sono assommati a 225 miliardi di $ e che molto probabilmente avranno una tendenza analoga nei prossimi anni, sta facendo sorgere molti dubbi sul fatto che avranno ritorni economici corrispondenti (a parte, ahimè, quelli previsti per il riarmo). Altre stime parlano del fatto che finora le “magnifiche sette” ( Nvidia, Microsoft, Alphabet-Google, Apple, Meta, Tesla e Amazon) hanno speso complessivamente 560 miliardi di $ a fronte di utili di soli 35 miliardi. Con il rischio che lo scoppio di un’eventuale bolla delle aziende hitech possa trascinare in una crisi significativa tutta Wall Street, visto che esse rappresentano ormai il 35% del valore della Borsa USA.

Senza contare che, da diverso tempo in qua, si sta registrando un forte disaccoppiamento tra crescita degli indici borsistici e l’andamento occupazionale: nell’ultimo anno Wall Street ha guadagnato il 50%, mentre le richieste di lavoro sono diminuite di circa il 31%. Insomma, ce n’è quanto basta per dire che siamo in presenza di sintomi consistenti per dire che i prossimi anni ci potranno portare ad una nuova Grande Crisi del sistema economico capitalistico che si regge sugli Stati Uniti.

Del resto lì si stanno levando voci sempre più forti nel predire quest’esito: da ultimo, Simon Johnson, premio Nobel per l’economia nel 2024, mette in guardia dal ruolo delle stablecoin, dicendo che esse, un po’ come i subprime nel 2007, sono candidate ad innescare tale crisi, mentre il ceo di JP Morgan avverte che che è probabile che si arrivi ad una “grave correzione del mercato, difficile da prevedere in anticipo, ma che potrebbe verificarsi nei prossimi 6 mesi, come nei prossimi 2 anni”. Un eufemismo per parlare della crisi economico-finanziaria prossima ventura.

Quando le piazze si riempiono

Infine, ma certamente non ultimo in ordine di importanza, un serio ostacolo per l’affermazione delle politiche trumpiane e, più in generale, della destra estrema nel mondo sta nel fatto che, per fortuna, stiamo assistendo ad una nuova fase di mobilitazione sociale importante.
Non c’è solo il movimento di grande rilievo che si è mosso in tutto il mondo per sostenere la causa palestinese e contro il genocidio lì perpetrato da Israele: basta guardare ai 7 milioni di persone che hanno manifestato nei giorni scorsi negli USA contro le politiche neofasciste del King Trump oppure al fatto che, in molti Paesi, dal Marocco al Madagascar, dall’Indonesia al Nepal, sia pur con motivazioni differenti, la generazione Z (pessima definizione, ma che può rendere l’idea per parlare dei cosiddetti nativi digitali)  sta prendendo parola. Sono movimenti con caratteristiche diverse, ma che segnalano, da una parte, che è finito un periodo lungo di passività sociale e, dall’altra, che i nuovi strumenti tecnologici che dominano il mondo non soffocano necessariamente le istanze di partecipazione fisica e diretta e che quest’ultima si diffonde su scala globale.

Certo, sono anche movimenti fragili, esposti alla difficoltà di poter durare, sedimentare cultura, produrre politica, con modalità non “classiche” e che non sono facilmente comprensibili utilizzando schemi consolidati. E però, aggrediscono uno dei nodi fondamentali su cui, da sempre, si appoggiano i regimi di destra e autoritari, e cioè la passivizzazione e spoliticizzazione nella società.

Per restringere il campo al nostro Paese, non c’è dubbio che la storia dei movimenti sociali dall’inizio del secolo in qua, è stata contrassegnata dal tentativo di reprimerli o ignorarli, con lo scopo chiaro di renderli marginali, di restringere il loro spazio di allargamento del consenso. In quest’operazione – in specifico nel fatto di ignorarli- purtroppo non si è sottratta nemmeno la “sinistra” politica, che oggi, non a caso, vive una crisi di rappresentanza e deve misurarsi con la giusta autorappresentazione delle persone e della società, come è evidente nelle grandi piazze animate dal nostro movimento a sostegno del popolo palestinese.

Certo, tutto ciò è ancora un embrione, che a me fa dire che siamo solo all’inizio di un percorso che non sarà né breve né facile: il movimento imponente che abbiamo visto in questo periodo ha necessità di ricollocarsi e di costruire sapere collettivo, affrontando il tema della lotta alla guerra e al riarmo, svelando i meccanismi strutturali che stanno anche alla della fragile tregua, e non della pace, che è in atto in Palestina. Così come, a sinistra, occorrerà porsi il tema di una ricostruzione delle forme della politica, capace di porsi nuovamente l’idea, oggi smarrita, di rappresentare le parti deboli e oppresse della società.

Non c’è dubbio però che oggi, con le mobilitazioni dei giorni passati, abbiamo una leva da cui ripartire.
Scriveva, più o meno un secolo fa, un grande pensatore e politico, Antonio Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Il mondo oggi è assolutamente diverso da quello in cui scriveva Gramsci, e le parole d’ordine dell’istruzione, dell’agitazione e dell’organizzazione vanno pensate in modo inedito, ma continuano ad essere il fulcro di chi intende proporre un’alternativa di società e di sistema.

In copertina: Donald Trump – immagine di Aliseo su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli articoli di Corrado Oddi su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel 

Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel 

Il mattino seguente mi alzai più tranquillo. La notta mi aveva aiutato a decidere che le volpi verdi non esistono. Conclusi che il giorno prima mi ero lasciato suggestionare dalla particolarità di quel luogo e dalla stanchezza che provavo. Come aveva detto Camilla “le volpi di quel colore non esistono fino a prova contraria” e io non avevo alcuna prova contraria.

La sera prima, davanti alla pizzeria, mi era sembrato di vedere qualcosa di verde muoversi, come se un piccolo animale mi stesse seguendo, ma sicuramente era autosuggestione. Mi ero fatto impressionare da quei racconti al punto da vedere ciò che non esiste. Una volpe verde che mi seguiva per il paese non era credibile, men che meno da uno come me.

Ero cresciuto in una famiglia di contadini dove si lavorava quotidianamente nei campi e dove tutti erano convinti che la verità è materiale e tangibile come la terra che si coltiva. La puoi toccare, vedere, è sempre uguale a sé stessa, con la terra ti puoi sporcare, divertire, ci puoi fare mattoni e opere d’arte, la puoi sfruttare e guadagnarci soldi. Sta sempre lì, quasi impossibile da spostare, praticamente impossibile da eliminare. La terra è rigorosamente materia dotata di una persistenza e di una inconfutabilità sorprendente, lei c’è.

Ancorato ad una definizione di realtà di quel tipo mi agitava non poco prendere in considerazione l’idea che potessero esistere animali con caratteristiche che nessuno conosceva, ad esempio con il manto verde. Mi dissi che se anche una volpe di quel colore fosse stata davvero avvistata, la spiegazione era terrena e al fenomeno non si dovevano riconoscere attributi di eccessiva stranezza, se non di surrealtà. L’animale si doveva essere strusciato in un’erba gli aveva colorato il manto. Magari, nel frattempo, aveva fatto un bel bagno sotto la pioggia o in un canale e il suo manto era tornato rossiccio. Quello che mi era parso di vedere la sera prima non c’era, era solo autosuggestione.

***

Rincuorato scesi nella hall del Pontalba Hotel. Vidi Erika con le sue labbra rosso fuoco e le chiesi un cappuccio. Presi un piatto e vi misi due fette biscottate, della marmellata all’albicocca, una brioche e una banana. Così avrei preso due piccioni con una fava: la cena precedente che non avevo potuto consumare, il rimborso spese del giornale che comprendeva vitto e alloggio.

Mentre aspettavo il cappuccio chiesi a Erika se conosceva erbe che macchiavano di verde in maniera persistente e lei mi rispose che una di queste era la lavanda selvatica. Ecco svelato l’arcano. Una volpe si era strusciata nella lavanda e il suo manto era rimasto macchiato di verde. L’agitazione, il dolore, la suggestione e l’imprevedibilità della morte della Contessa aveva fatto il resto.

Forse potevo cominciare a scrivere l’articolo per Tresciaone, demolendo la teoria sulla possibile esistenza delle volpi verdi e concentrandomi sulle caratteristiche delle erbe che macchiano in maniera persistente. ‘Giusto, faccio proprio così’ pensai. Un po’ per la fame accumulata che mi fece sembrare tutto appetibile e un po’ per la frenesia scatenata dall’illuminazione creativa che mi avrebbe permesso di scrivere l’articolo per il giornale, finii la colazione velocemente.

Risalii nella mia stanza, aprii la valigia dove il mio pc dormiva nella sua custodia ormai da due giorni. Cosa strana per un giornalista e ancora più per me. Il pc era un prolungamento delle mie mani. Mi permetteva di scrivere velocemente, di cambiare le frasi e correggerle più volte, di impaginare gli articoli, di aggiungere immagini. Un supporto tecnologico importante per chiunque scriva, per me imprescindibile.

La mia esperienza di reporter girovago aveva fatto sì che riducessi all’essenziale ciò che mi dovevo portare appresso nelle trasferte, operando una minuziosa cernita di ogni oggetto utile. Così nella mia valigia c’era sempre il portafoglio, il pc e il telefono, diverse paia di mutande e calze, un maglione e un paio di jeans di riserva, il necessario per la doccia e per farmi la barba, tre pacchetti di fazzoletti di carta una bottiglietta d’acqua, una barretta di cioccolato.

A volte anche una mela. Due spille, una grande e una piccola, un ago, filo e due bottoni, cerotti e un analgesico generico che andava bene un po’ per tutto. Con quell’equipaggiamento me ne andavo in giro ovunque, con l’impressione di avere con me tutto il necessario per sopravvivere. Questo aumentava la sicurezza negli spostamenti e la facilità del riadattamento continuo a nuovi ambienti.

Presi il pc lo estrassi dalla sua custodia blu, lo accesi e aprii una pagina bianca di world. La morte della contessa Maria Augusta. Aggiornamento da Pontalba” scrissi. Titolo standard, niente stranezze. L’articolo non doveva essere un trafiletto ma riempire mezza pagina del giornale. Quindi potevo prendermela comoda prima di arrivare all’essenziale.

Guardai fuori dalla finestra, c’era ancora la nebbia. Come il giorno prima, una coltre di umidità bianca avvolgeva tutto il paesaggio, rendendo le poche forme visibili sfuocate. Una visione particolare, adatta ai sostenitori dell’esistenza dei fantasmi. Alcuni alberi con i loro magri tronchi e le foglie che si intravedevano qua e là in mezzo al bianco, sembravano proprio dei fantasmi capitati in quel paese alla ricerca del senso della loro presenza.

Come se fossero esistenze in cerca di una solidità, degli esseri fluttuanti con poca personalità e con una veridicità senza rigore. Ecco, gli alberi di Pontalba, immersi nella nebbia, mi facevano esattamente quell’impressione. Dei fantasmi in cerca di un senso del loro esistere, capitati per caso in quel mattino opaco. 

***

Riguardai lo schermo del PC, il titolo dell’articolo era lì in attesa. Mi misi al lavoro. “Come già scritto su questo giornale, due mesi fa è morta la contessa Maria Augusta di Pontalba. Molto conosciuta in paese per le sue opere caritatevoli, è stata trovata morta nel suo letto dalla cameriera. Eventi inspiegabili sono associati alla sua dipartita. Si racconta che il mattino in cui è stato rinvenuto il cadavere, il cielo sopra villa Cenaroli, la residenza abituale della contessa, sia diventato verde e che una volpe dello stesso colore sia uscita dalla sua tomba il giorno dell’inumazione.”

Qui mi fermai, cosa aggiungere per ora? Mi tornò in mente Costanza del Re e la strana insistenza con cui alcune persone di Pontalba mi avevano suggerito di parlare con lei della morte della contessa. La giovane donna era infatti amica di Malù, la figlia della defunta. L’avevo incontrata il giorno prima nel negozio di Camilla, l’avrei rivista nel pomeriggio. Una ragazza intorno ai venticinque anni, alta, con dei lunghi capelli neri e gli occhi verdi, delle mani con le dita affusolate. Bella sicuramente, ma non credo fosse quello il motivo per cui mi era stato suggerito di parlare con lei.

Che fare ora? Prima di continuare a scrivere era meglio incontrarla. Spensi in PC e lascia vagare lo sguardo verso i campi. Il verde stava prendendo il sopravvento sul bianco della nebbia. Campi di frumento alto circa dieci centimetri si estendevano a perdita d’occhio da dietro l’albergo fin dove si vedeva il campanile di Santa Capellina. Tutto verde anche lì.

Mi sorpresi a pensare che il verde era il colore dominante di quel paese. In qualche modo lo definiva. Verdi i campi, gli alberi, l’acqua del Lungone, l’abbigliamento delle ragazze, il cielo. Verdi le rane, i ricci delle castagne, le piante di patate coltivate negli orti, le barbe delle rape, il trifoglio. Ecco cosa mi piaceva davvero di quel posto, il suo colore. Un paese verde.

Di solito nella psicologia dei colori, il verde rappresenta l’equilibrio e l’armonia tra la mente, il corpo e l’io emotivo. Si trova al centro dello spettro cromatico e l’occhio non fa alcuna fatica ad individuarlo, rendendolo un colore riposante. Questa sua caratteristica dipende anche dalla sua tonalità e intensità. Curioso. Un colore riposante. Ecco perché le camere operatorie sono verdi così come gli abbigliamenti dei chirurghi. È un colore che non stanca gli occhi, lasciandoli liberi di concentrarsi sulle difficili operazioni che si svolgono su un tavolo operatorio.

Io però non ero un chirurgo ma un povero giornalista di cronaca nera, che di solito veniva mandato a vedere morti, cimiteri, obitori, ospedali, camere mortuarie. Oppure a parlare con avvocati, legali, familiari, testimoni più o meno disponibili e più o meno affidabili. Qualche volta mi sono anche capitate delle morti con strani fenomeni associati, come in quel caso. 

***

Ricordo che mi alzai dalla sedia su cui ero seduto, misi in bocca una caramella alla liquirizia e aprii la porta finestra che dava sul balcone della mia camera d’albergo. Uscii e chiamai il mio capo che, per nulla contento del fatto che l’articolo non fosse ancora arrivato in redazione, mi diede dello scansafatiche, dimenticandosi che io ero uno dei suoi migliori reporter e che non poteva permettersi di perdermi, perché avrebbe fatto fatica a trovare un sostituto altrettanto esperto e adattabile, pagandolo quanto pagava me, poco più di un qualunque impiegato.

Il trattamento economico era ingiusto, ma a me serviva quel lavoro e non avevo voglia di cambiarlo. Lui, il grand’uomo di larghe vedute che si professava equo e integerrimo, lo sapeva e ne approfittava. Una storia vecchia come il mondo che posso condividere con molti colleghi. Uno scandalo senza tempo che contraddice qualunque intento di equità professionale.

Aldilà di questo, il mio lavoro mi piaceva. Allora ero giovane e avevo ancora la presunzione di esser utile al progresso dell’umanità. Pensavo di avere un forte fiuto per la cronaca nera che mi avrebbe permesso di diventare il reporter più letto d’Italia. Certo il successo di un giornalista dipende anche dalla qualità del giornale che pubblica i suoi articoli, dalla pagina in cui compaiono, dal giorno in cui vengono pubblicati. È evidente che gli articoli pubblicati di domenica sono molto più letti di quelli pubblicati di lunedì o martedì. Ma tant’è, ero contento lo stesso.

Guardai nel cortile dell’albergo e vidi Erika che stava indicando il parcheggio a dei clienti appena arrivati. Una Ford nera di almeno dieci anni parcheggiò sotto la mia finestra. Ne uscì una coppia di uomini d’affari bene vestita e valigiata, avrei detto dei rappresentanti di detersivi o cosmetici.

Mentre guardavo la scena dall’alto, ebbi l’impressione che dalla tasca destra del cappotto di uno dei due uomini penzolasse qualcosa di verde. Qualcosa di morbido e di peloso. Una coda di volpe! Una piccola volpe verde stava dormendo nella tasca di quel signore appena arrivato chissà da dove.

Per un attimo mi girò la testa. Ora svengo, pensai. Mentre cercavo di mettere a fuoco meglio, il signore mise una mano in tasca, come quando si strizza un fazzoletto per farlo stare in poco spazio, e la volpe verde o quel pelo verde che tale sembrava, sparì all’interno della tasca. Rientrai e mi sedetti sulla sedia davanti al PC.

‘Non posso scrivere proprio niente per ora’ pensai e mi distesi sul letto mettendomi il cuscino sulla testa. 

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando sul nome dell’autrice

Illuminismo dove sei?

Illuminismo dove sei?

Illuminismo, come è stato possibile estinguere la tua luce? Il progresso, la libertà, la giustizia sociale gettati nel cesso. Le moltitudini che una volta erano classe sociale ed orgoglio, ora abdicano al pensiero facile, all’omologazione, brancolano nell’ignoranza da internet e accusano i pochi di arrogante tracotanza. I potenti senza classe né stile, buzzurri analfabeti che si ergono a dominatori del mondo grazie ai loro conti cifrati.

La violenza della guerra senza regole accettata, lo sdegno per una vetrina frantumata.

Come è possibile, Illuminismo, che tu sia evaporato?

Al tuo posto macerie fumanti, sangue d’innocenti, adoratori di chiese senza Dio, la tragedia che si tramuta in farsa, il teatro degli orrori dove sanguisughe con cravatte ora rosse ora blu sentenziano sul cadavere dell’umanità intera.

Regole d’ingaggio nel dibattito civile sbriciolate come vasellame travolto da elefanti senza volto; la storia non vi assolverà, ma sarà troppo tardi.

E il popolo che fa?

Si arrabatta, qualcuno manifesta, taluni eroi rischiano la vita per gridare in faccia agli aguzzini Giustizia e Libertà. Ma il resto, gli imbelli, la maggioranza silenziosa, vota i criminali che si sono impadroniti del mondo civile, non si ribella nemmeno durante un Genocidio – sotto sotto se la sono cercata, dicono taluni.

Ma dove sei, secolo dei lumi?

Quando la ghigliottina della restaurazione si è reimpossessata della tua luce? Dove sono le folle del quarto stato che con falci e forconi ribaltano l’ordine costituito?

Non riesco a scrollarmi di dosso la crosta dell’apatia con cui gli stregoni, servi dei padroni, mi hanno ricoperto. Deleghiamo la rivolta, siamo troppo “grossi” Comandante, non riusciamo a passare attraverso quella maledetta gola dove i sicari ci stanno aspettando. Come può l’uomo uccidere un suo fratello (cit.).

Nemmeno di fronte alla morte siamo tutti uguali, guerre diverse, diverso peso, un morto amico vale settanta nemici, peggio delle fosse d’ardesia, mostri neri come la pece inghiottono vite come fossero arachidi lanciate nelle gabbie delle scimmie, in uno zoo del 1984.

La verità è menzogna (cit.), i giornalisti uccisi come obiettivi sensibili sono il modus operandi del nulla che invade le praterie di tutte le terre.

Non riesco a sostenere le mie idee, i miei pensieri, contro tutti quelli che si fanno scudo di un telefono a luce viola e che non leggono una pagina di carta dalle elementari, ma si “informano”, “sanno”, hanno mille certezze che ti sbattono in faccia ad ogni sussurro.

Con che armi combattiamo la magniloquenza, con che forza resistiamo a tutto questo guano che ci sommerge, come possiamo emergere dal fango dell’odio? Non conosco le risposte, ho solo domande, non ho certezze ma solo dubbi.

Come è possibile giocare a scacchi con un piccione? Ti guarda strano, poi sale in piedi sulla scacchiera, ribalta i pezzi, scagazza e se ne va tutto impettito.

Illuminismo, quando hai smesso di illuminare il sol dell’avvenir?

Come possiamo permettere di essere governati da esseri aberranti, che quando va bene si crogiolano nell’italico “chiagni e fotti”, mentre alla peggio amplificano per mille il motto del Marchese del Grillo “io so’ io e voi nun siete ‘n cazzo”, dove abbiamo sotterrato le armi dei nostri partigiani?

Troppe domande, nessuna soluzione ed allora mi aggrappo ancora a te, dolce Enrico, per cercare un lume nel buio.

Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia”.

 

In copertina: Journéè des tuiles, Alexandre Debelle, wikimedia commons

In futuro, quando penseremo a Gaza

In futuro, quando penseremo a Gaza:
Alessandro Baricco e Doris Lessing,
due visioni a confronto.

C’è un tempo in cui le parole si caricano di un peso che va oltre il loro significato. “Gaza” è una di quelle parole. Da oggi “Gaza” non è soltanto il nome di una striscia di terra, ma un simbolo, un nodo, un confine. Nell’articolo pubblicato su Substack Alessandro Baricco (Qui anche su periscopio:“Gaza e l’agonia del Novecento”) ha scritto che Gaza è diventata “la definizione di un limite”: il punto oltre il quale la nostra umanità si spezza, il luogo in cui la guerra smette di essere una notizia e diventa una domanda etica. “Gaza”, per Baricco, è il nome di un trauma collettivo che ci costringe a ridefinire cosa significhi essere umani.

Ma cosa penseranno di noi, le generazioni future, quando penseranno a Gaza?


È la stessa domanda che si poneva Doris Lessing nella prima delle sue cinque lezioni sulla libertà (Le Prigioni in cui scegliamo di vivere, Minimum fax, 1998) intitolata significativamente In futuro, quando penseranno a noi. Lessing non parlava di Gaza, ma della nostra epoca nel suo insieme: un’epoca che, pur avendo accesso a una conoscenza senza precedenti, continua a ripetere gli stessi errori, a cadere nelle stesse trappole, a cedere alle stesse pulsioni tribali. Per lei, la guerra non è un incidente della storia, ma una componente inestirpabile della natura umana.

Questo articolo nasce proprio dall’incontro – o forse dallo scontro – tra queste due visioni.
Da un lato, Baricco, che legge la guerra come un residuo del Novecento, destinato a diventare obsoleto come una macchina da scrivere. Dall’altro, Lessing, che ci mette in guardia contro l’illusione del progresso morale, ricordandoci che la violenza è inscritta nel nostro codice sociale e psicologico.
Due antropologie divergenti, due modi di pensare il futuro, due risposte alla stessa domanda: che cosa resterà di noi, quando penseranno a Gaza?

Nel 1985, in un ciclo di conferenze tenute per la BBC, Doris Lessing pronunciava parole che oggi suonano profetiche. La prima lezione, intitolata “In futuro, quando penseranno a noi”, si apriva proprio con una domanda storica e antropologica al tempo stesso: come verrà giudicata la nostra epoca da chi verrà dopo di noi?

La risposta che Lessing suggeriva era tutt’altro che consolatoria: le future generazioni non ci ricorderanno per i nostri progressi tecnologici o per le nostre dichiarazioni di pace, ma per la nostra incapacità di imparare dalla storia, per la nostra ostinazione a ripetere gli stessi errori, per la nostra cieca obbedienza ai meccanismi del potere e del gruppo.

Per Lessing, la guerra non è un accidente della storia, né un errore politico rimediabile. È una costante antropologica, una pulsione che affonda le radici nella struttura stessa della psiche umana. La sua analisi si muove tra psicologia sociale, storia e letteratura, e approda a una visione disillusa ma lucida: “Siamo creature sociali, e questo ci rende vulnerabili alla pressione del gruppo.” È proprio questa vulnerabilità che ci rende inclini alla violenza, alla polarizzazione, alla costruzione del nemico.

La guerra, in questa prospettiva, non è solo un evento esterno, ma un fenomeno interiore, una forma di regressione collettiva. Lessing osserva come, anche in società democratiche e istruite, si possa facilmente scivolare in dinamiche tribali, in cui il pensiero critico viene sospeso e l’individuo si dissolve nel gruppo. La propaganda, la retorica dell’identità, la paura dell’altro: sono tutti strumenti che attivano meccanismi profondi, ancestrali, che ci riportano a uno stato pre-razionale.

Non c’è, in Lessing, alcuna fiducia ingenua nel progresso. La conoscenza storica, per quanto accessibile, non basta. La cultura non immunizza. “La libertà, se non è accompagnata da una pratica quotidiana di consapevolezza, resta un’illusione”. Ecco perché la sua lezione è anche un appello: imparare a riconoscere le dinamiche del gruppo, a pensare con la propria testa, a coltivare una forma di resistenza interiore.

A differenza di tale visione …psico-sociale quella di Baricco, come anticipato, è più “evolutiva” interpretando la guerra come un’anomalia storica, un residuo di un secolo — il Novecento — che ne ha fatto uno strumento ordinario di governo e di narrazione.
La sua ipotesi è che la guerra, come la conosciamo, non appartenga più al nostro tempo. È un linguaggio che non ci rappresenta più, un codice che non sappiamo più leggere, un gesto che non ci somiglia. In questo senso, Gaza non è solo una tragedia, ma anche una rivelazione: ci mostra che non siamo più disposti ad accettare l’inaccettabile.

Nella visione di Baricco, la guerra non è connaturata all’essere umano, ma culturalmente superabile. È un dispositivo che ha avuto senso in un certo contesto storico, ma che oggi appare sempre più dissonante rispetto alla sensibilità contemporanea. Baricco non parla di un’utopia pacifista, ma di una trasformazione antropologica in atto, silenziosa ma profonda. La guerra, dice in filigrana, non è più “nostra”: non ci rappresenta, non ci riguarda, non ci serve.

Questa fiducia nel cambiamento non nasce da un’ingenuità, ma da un’osservazione attenta dei segni del tempo. Baricco coglie un mutamento nel modo in cui le persone reagiscono alle immagini, alle parole, ai racconti di guerra. C’è un senso di disadattamento etico, una crescente incapacità di accettare la violenza come normalità.
Gaza, in questo senso, è uno specchio: ci mostra chi siamo diventati, o chi stiamo cercando di diventare.

Se Lessing ci ammoniva sul rischio di ripetere la storia, Baricco ci invita a interromperla. Se per Lessing la guerra è un destino da cui difendersi con consapevolezza, per Baricco è un errore che possiamo smettere di commettere. Due visioni opposte, ma entrambe animate da una domanda radicale: che cosa significa, oggi, restare umani?

Come abbiamo visto le risposte che i due autori offrono non potrebbero essere più distanti, eppure entrambe nascono da un’urgenza etica, da un bisogno di interrogare il presente alla luce di un futuro possibile.

Quella della Lessing, è una visione tragica e disillusa, che non concede scorciatoie: la libertà è una conquista fragile, sempre minacciata dalla nostra tendenza a obbedire, a conformarci, a cercare sicurezza nel branco.

La visione di Baricco invece è evolutiva e fiduciosa, che vede nella sensibilità contemporanea i segni di un cambiamento profondo, forse irreversibile. La guerra non è più “nostra”: è un gesto che non ci somiglia, un errore che possiamo smettere di commettere.

Evidentemente attraverso queste analisi ci confrontiamo con due visioni opposte dell’umano: quella di Doris Lessing, che ci ammonisce sulla persistenza della guerra come tratto costitutivo della nostra specie, e quella di Alessandro Baricco, che intravede nella nostra crescente intolleranza verso la violenza il segno di una trasformazione in atto.

E Gaza come anche Kiev oggi sono domande che ci riguardano da vicino: che cosa resterà di noi, quando le generazioni future penseranno a Gaza a Kiev e a quegli altri luoghi dove oggi si stanno combattendo guerre più silenziose e invisibili?

Resterà la nostra capacità di dire “no”, come auspica Baricco, o la nostra incapacità di imparare, come teme Lessing? Resterà la memoria di un’epoca che ha saputo riconoscere il proprio limite, o l’ennesima testimonianza della nostra cecità collettiva?

In fondo, entrambe le visioni ci chiedono la stessa cosa: non smettere di pensare. Pensare contro il gruppo, come Lessing. Pensare oltre il trauma, come Baricco. Pensare Gaza non come una tragedia lontana, ma come una ferita che ci riguarda, che ci interroga, che ci definisce.

In questo senso raccontare, non solo ciò che sta accadendo ma anche a chi sta accadendo ( a noi tutti!) rappresenta una possibilità.
La possibilità che, un giorno, quando le generazioni future penseranno a Gaza, a Kiev e a noi tutti non ci giudicheranno completamente irresponsabili, indifferenti. Disumani.

Cover: From Gaza, by Jaber Badwen  – Wikimedia Commons 

Fonte ( www.cdscultura.com)
Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Per certi Versi / Pirati del bene

Pirati del bene

Intuito sottile

ragione scadente

sonnambuli di giorno

di notte fantasmi

 

oltrepassano i muri

con gentilezza

lasciano passare

prima i brutti

 

le storie scadute

le appuntano al petto

le medaglie nascoste

sotto al letto

 

pirati del bene

conquistano la pelle

di un amico

di un fratello

 

In copertina: Foto di Pexels da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Ferrara Film Corto Festival, serata finale e premi dell’ ottava edizione

Ferrara Film Corto Festival, serata finale e premi dell’ ottava edizione

Si è svolta sabato 25 ottobre al Teatro Sala Estense la Serata Conclusiva e la Cerimonia Di
Premiazione dell’VIII edizione del Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica”.
La serata si è aperta con il concerto dell’ensemble classico-contemporaneo EFFE String Quartet.
Dal repertorio classico a quello contemporaneo, dal cinema al pop, dal palco della Biennale di Venezia a quello della cerimonia inaugurale dei Mondiali di Sci 2021, attraverso le collaborazioni con Neri Marcorè, Shade, Arturo Brachetti. Un quartetto d’archi con l’anima di una band, per uno spettacolo magnetico e imperdibile.

Premio Giuria Giovani

La targa al miglior corto da parte della GIURIA GIOVANI, formata dagli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore Giosuè Carducci e dagli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore Luigi Einaudi e del Liceo Artistico Dosso Dossi di Ferrara, è stata consegnata a:
“LA FEMMINA”, di Nuanda Sheridan
MOTIVAZIONE: Il corto premiato si distingue per l’originalità della sua rappresentazione e per la capacità di comunicare in modo profondo ed emozionante senza ricorrere alle parole, affidandosi unicamente alla forza delle immagini e del suono. Un’opera che affronta un tema attuale, ma al tempo stesso antico, universale, riuscendo a colpire con la sua intensità, la sua sensibilità e la sua capacità di esprimere emozioni autentiche attraverso un linguaggio visivo puro e immediato.
Questi i cortometraggi in concorso, premiati, con le relative motivazioni.

• Menzione Speciale della Giuria
Cosa resta, di Francesca Scanu
MOTIVAZIONE: Questo film merita una menzione speciale, per la sincerità con cui affronta il tema del disagio interiore. Tutti abbiamo bisogno di fermarci e ripartire. La scomparsa del cane diventa il pretesto per un percorso di risveglio emotivo, dove il dolore si trasforma lentamente in consapevolezza e voglia di rinascita.

• Menzione Speciale della Giuria al Miglior Corto di Animazione
WINNER: Sacrebleu – Chapter 1, di Clement Oberto
MOTIVAZIONE: Il regista, con l’opera presentata conduce lo spettatore attraverso un viaggio trasformativo che fonde realtà e fantasia, esplorando il fragile rapporto con la natura e la necessità di preservare l’ambiente. Per farlo oltre alla ripresa tradizionale sviluppa e ci propone una coinvolgente animazione.

• Targa “Miglior Documentario”
WINNER: Crossing the divide, di Eva Zanettin e Raghav Pasricha
MOTIVAZIONE: Crossing the Divide offre una visione commovente e sensibile della filosofia della comunità Baul in India, una tradizione umanistica che da oltre 1.200 anni cerca di superare le divisioni attraverso l’amore, la pace e la conoscenza di sé. Con la sua splendida fotografia, l’approccio sottile e il profondo senso di connessione, il film è particolarmente incisivo nel mondo odierno, caratterizzato da conflitti e profonde divisioni, distinguendosi sia come potente documentario che come silenzioso manifesto per la convivenza.

• Targa “Miglior Fotografia”
WINNER: C’è da comprare il latte, di Pierfrancesco Bigazzi (premio a Francesco Lorusso) 

MOTIVAZIONE: Per una fotografia capace di trasformare il bianco e nero in materia viva, dove la luce non si limita a illuminare ma diventa memoria, carezza e scomparsa. Attraverso un uso sensibile e rigoroso dei contrasti, il direttore della fotografia riesce a rendere tangibile il tempo che passa e ciò che resta: i corpi, la sabbia, gli oggetti che affiorano come ricordi. Un lavoro che racconta con pudore e profondità la fragilità della memoria e la potenza della luce come ultimo legame tra due anime.

• Targa “Migliore Attore”
WINNER: C’è da comprare il latte, di Pierfrancesco Bigazzi (premio a Alessandro Benvenuti e
Roberto Abbiati)
MOTIVAZIONE: Targa “Miglior Attore” ad Alessandro Benvenuti e Roberto Abbiati per l’originalità dell’interpretazione silenziosa del rapporto fra due fratelli ed essere riusciti a rappresentare e dare un’immagine toccante all’idea misteriosa, di per sé invisibile, della sensibilità umana.

• Targa “Migliore Attrice”
WINNER: Suzanne & Marcelo, di Francesco Alessandro Cogliati (premio a Manuela Mandracchia)
MOTIVAZIONE: Questo film va premiato per l’intensità con cui gli attori riescono a trasmettere un intreccio emotivo profondo e originale. In particolare, a Manuela Mandracchia, giusta e calzante nel gioco fra due anime che trovano consapevolezza nell’ascoltarsi. La sua recitazione all’interno del contenuto, è audace e toccante, capace di sorprendere e far riflettere sull’identità e sull’amore in tutte le sue forme.

Manuela Mandracchia, foto Mattia Malorgio

• Premio Speciale Targa “#CLIMATECHANGE”
WINNER: Il custode del lago, di Simone Bressello
MOTIVAZIONE: Premio Speciale #Climatechange per aver raccontato attraverso un protagonista emozionante gli effetti drammatici del cambiamento climatico, unendoli al senso profondo della bellezza, intesa come esigenza irrinunciabile degli esseri umani.

• Premio Speciale Targa “Musica Indie” 

WINNER: Touching territory – to play the land, di Fernando Parre
MOTIVAZIONE: Touching Territory ci incoraggia a riflettere sul rapporto tra l’uomo e la natura. Il film affronta i suoni del mondo naturale in modo giocoso, esplorando i “corpi sonori” delle piante, degli oggetti industriali come i rifiuti ingombranti e degli elementi naturali come l’acqua come strumenti musicali. Questi suoni vengono campionati e intrecciati in modo creativo con armonie, producendo brani musicali che vanno oltre i tradizionali paesaggi sonori percussivi e strumentali, distillandoli in
affascinanti esperienze sonore. La giuria riconosce la creatività e l’originalità di questo lavoro musicale e premia il film per la sua eccezionale innovazione sonora.

Premio Speciale Targa “Musica Indie” a Touching territory – to play the land Fernando Parre, foto Mattia Malorgio

• Premio Speciale Targa “Miglior Sceneggiatura”
WINNER: Marcello, di Maurizio Lombardi
MOTIVAZIONE: La miglior sceneggiatura va al film “Marcello”, perché racconta in maniera semplice, veritiera e con forza come il cinema possa diventare rifugio, possibilità e rinascita.
Attraverso Marcello, ci ricorda che anche nel caos più profondo, la fantasia può salvare e dare un senso, perché nel cinema tutti trovano un posto. Per chi lo guarda e per chi lo vive.

• Premio principale “Ambiente è Musica” – 300 Euro e targa
WINNER: Ceux qui répondent à l’écho, di Alexis Cousineau e Charlotte Gagnon
MOTIVAZIONE: Per la sua capacità di fondere musica, poesia e immagine in un’unica esperienza sensoriale, dove il canto, il corpo umano e la natura si rispondono come voci dello stesso respiro.
Un’opera digitale sperimentale che trasforma la performance in un rituale sonoro e visivo. Un saggio lirico sulla simbiosi tra uomo e ambiente, un’eco che si rifrange tra parola, suono e paesaggio, restituendo alla materia il suo canto primordiale.

• Premio principale “Buona la Prima” – 300 Euro e targa
WINNER: La buona condotta, di Francesco Gheghi
MOTIVAZIONE: Premio principale “Buona la prima” a La buona condotta per la compattezza del racconto che riesce con tratti veloci e precisi a delineare un contesto familiare svelando in modo credibile uno scenario inatteso e un’incrinatura perturbante.

• Premio principale “Indieverso” – 300 Euro e targa
WINNER: Suzanne & Marcelo, di Francesco Alessandro Cogliati
MOTIVAZIONE: Per la delicatezza con cui esplora l’amore al di là dei confini di genere e dell’identità, restituendo con grazia e verità il mistero di un legame che si rinnova nel gioco e nella metamorfosi. Un film che celebra il diritto di essere molteplici, di riconoscersi e perdersi nell’altro, di trasformarsi per continuare ad amarsi. Con uno sguardo intimo e consapevole, il corto racconta la libertà come atto d’amore e la finzione come spazio di verità.

Le cinque targhe nelle categorie Miglior Documentario, Migliore Attrice, Migliore Attore, Miglior
Fotografia e Migliore Sceneggiatura e i due premi speciali nelle categorie #CLIMATECHANGE e
MUSICA INDIE sono state consegnate dai membri della GIURIA PROFESSIONALE FFCF 2025
composta da:
• Francesca Pirani — Regista e autrice, Presidentessa della Giuria Professionale
• Andreas Graf — Musicista e regista
• Carlo Magri — Regista documentarista
• Alessandro Marchiori Rocca — Regista e direttore della fotografia
• Stefano Maurelli — Attore e regista
I premi dei corti vincenti nelle tre categorie principali: INDIEVERSO (300 Euro e targa), BUONA LA PRIMA (300 Euro e targa) e AMBIENTE È MUSICA (300 Euro e targa) sono stati consegnati da Alberto Lazzarini, Vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna e dagli atleti e dalle atlete della Nazionale Italiana di Tiro con l’Arco, eccezionalmente presenti durante la serata di premiazione per una collaborazione straordinaria con FITARCO (Federazione Italiana di Tiro con
l’Arco), ovvero:
• Cinzia Noziglia – Atleta della Nazionale Italiana di Tiro con l’Arco – Gruppo Sportivo
Fiamme Oro – Arco Nudo – Pluri-campionessa Mondiale, Europea e Italiana ; Oro ai World
Games 2017 e 2022 e Argento ai World Games 2025
• Simone Barbieri – Atleta della Nazionale Italiana di Tiro con l’Arco – FITARCO – Arco Nudo
– Pluri Campione Europeo e Italiano ; Oro ai World Games 2025.
• Alessandra Bigogno – Atleta della Nazionale Italiana di Tiro con l’Arco – FITARCO – Arco
Nudo – Campionessa Europea e Italiana.
I premi nelle tre categorie principali sono opere d’arte uniche e originali, ideate e realizzate a mano
dall’artista contemporaneo Matteo Farolfi — pittore, scultore, alchimista della materia — ed esposte
nel percorso immersivo site-specific AWARENESS, visitabile presso Notorious Cinemas Ferrara dal
21 ottobre al 3 novembre 2025.

PARTNER DELL’OTTAVA EDIZIONE DI FERRARA FILM CORTO FESTIVAL 2025
Organizzato da Ferrara Film Commission APS,
Con il patrocinio di Regione Emilia-Romagna e Provincia di Ferrara,
Con il patrocinio e il sostegno di Comune di Ferrara e Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna,
Partner didattici: IIS Giosuè Carducci, IIS Luigi Einaudi, Liceo Artistico Dosso Dossi, Liceo
Scientifico A. Roiti, Blow-Up Academy

Partner scientifico: Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara,
Partner organizzativi: Ferrara Musica, Notorious Cinemas – The Experience, Anime Factory, Factory
Grisù, Ferrara la città del cinema, Combo,
Ospitalità ristorazione: Hotel Radisson Ferrara, Hotel Carlton, Locanda della biscia, Pasticceria
Pivati.
Powered by: EFFE Matteo Farolfi, Periscopionline.it, Mami Voice, ESMA Creative Studio.
Festival gemellati: Luoghi dell’Anima – Italian Film Festival, Planetaria – storie che parlano al futuro,
Roma Film Corto, The 48 Hour Film Project, Moscerine Film Festival, Dance On Screen Film
Festival, Premio Folco Quilici – FEDIC

https://www.ferrarafilmcorto.it/

Foto Mattia Malorgio

La lotta dei Masai per riavere la loro terra

La lotta dei Masai per riavere la loro terra

La lotta dei Masai per riavere la loro terra

I Masai di Loliondo, brutalmente sfrattati dalle loro terre per fare spazio a una riserva di caccia, vedono la loro battaglia legale naufragare dopo il verdetto della Corte Suprema tanzaniana. La sentenza apre la strada a nuovi sgomberi, mentre in Kenya altre comunità indigene affrontano lotte simili contro riserve di conservazione imposte senza consenso.

«Ci stanno portando via tutto: la nostra terra, la nostra storia, il nostro futuro», denuncia Ole Nadoy, leader della comunità masai di Loliondo. Parole che riecheggiano come un grido di disperazione e resistenza. ù per fare spazio alla riserva di caccia Pololeti. Lo scorso ottobre, la Corte suprema di Dodoma ha respinto la richiesta di rientro nelle loro terre, un verdetto che, secondo l’Oakland Institute, rappresenta un pericoloso precedente per i diritti dei popoli indigeni in Tanzania e oltre.
Survival International denuncia che i Masai non sono stati consultati né risarciti, benché le loro terre fossero legalmente riconosciute. «Le comunità colpite vivevano in villaggi regolarmente registrati secondo il regime fondiario tanzaniano, eppure la Corte ha ritenuto che il loro diritto alla terra fosse secondario rispetto alle esigenze economiche del Paese», riferisce l’organizzazione che difende i popoli indigeni. E ancora: «La decisione rischia di creare un pericoloso precedente, legittimando sfratti forzati di comunità native a favore di progetti governativi legati al turismo e alla conservazione ambientale».

«I motivi su cui si fonda la sentenza», sostengono gli attivisti, «fanno fortemente dubitare dell’indipendenza del potere giudiziario in questo momento storico della Tanzania, Paese ormai ben avviato a diventare un regime autocratico dove la legge non è più uguale per tutti e gli oppositori vengono perseguitati». Vittime della repressione sarebbero anche «i leader masai e quelli delle organizzazioni della società civile che hanno difeso i loro diritti, imprigionati per mesi con accuse pretestuose».

La sentenza e le sue conseguenze

Il tribunale ha motivato la decisione sostenendo che la riserva è necessaria per la conservazione della fauna selvatica (“le riserve di caccia tutelano l’ambiente e l’equilibrio dell’ecosistema – hanno spiegato i giudici – permettendo l’abbattimento degli animali vecchi o in eccesso”), principale fonte di valuta estera del Paese. Tuttavia, la sentenza contraddice un precedente verdetto della stessa Corte suprema del 2023, che aveva dichiarato illegale la creazione della riserva Pololeti proprio perché i Masai non erano stati coinvolti.

Gli attivisti parlano di un grave segnale di deriva autoritaria: «Non solo la giustizia sembra piegata agli interessi economici del governo, ma chi difende i diritti delle comunità indigene viene perseguitato. Leader masai e attivisti della società civile sono stati imprigionati con accuse pretestuose, mentre le forze di sicurezza hanno represso con la violenza le proteste locali». «Il dietrofront evidenzia il peso politico della vicenda e la volontà del governo di piegare le decisioni giudiziarie ai propri interessi economici», chiosano i rappresentanti delle comunità pastorali di Loliondo.

Masai, (Foto di https://www.africarivista.it/)

La battaglia legale – di cui si annunciano nuovi capitoli – è solo l’ultimo risvolto di un’annosa contesa che da molti anni contrappone le autorità di Dodoma ai Masai. Questi ultimi, uno dei gruppi indigeni più noti dell’Africa orientale, vivono nel nord della Tanzania, e nei territori confinanti del Kenya, e sono tradizionalmente pastori nomadi. Il loro stile di vita dipende fortemente dalla possibilità di accedere a vaste aree di pascolo per il bestiame, una risorsa sempre più minacciata dalla pressione dello sviluppo economico e turistico. Nel corso del tempo, il governo tanzaniano ha progressivamente limitato l’accesso dei Masai alle loro terre, sostenendo che le aree in questione sono necessarie per la conservazione della fauna selvatica o lo sviluppo turistico. Uno degli epicentri del conflitto è proprio la regione di Loliondo, al confine con il Parco Nazionale del Serengeti. Il governo tanzaniano ha a lungo cercato di trasformare questa zona in una riserva naturale. E ciò ha comportato lo sfratto forzato di numerose famiglie masai.

Turismo e neocolonialismo

La situazione ha raggiunto un punto critico quando il governo, nel 2022, ha inviato le forze di sicurezza per delimitare 1.500 chilometri quadrati come area protetta, scatenando proteste e scontri con le comunità locali. Decine di attivisti sono stati arrestati, alcuni sono stati costretti all’esilio e molte comunità hanno subito violenze durante gli sgomberi forzati. Le immagini degli scontri hanno suscitato reazioni internazionali, con organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch a denunciare presunte violazioni dei diritti umani, chiedendo alla Tanzania di rispettare gli accordi internazionali sulla tutela dei popoli indigeni.

Il governo giustifica gli sfratti con la necessità di tutelare l’ecosistema, ma i Masai e le organizzazioni per i diritti umani accusano le autorità di usare la conservazione come pretesto per favorire il turismo di lusso e la caccia sportiva. Secondo fonti di stampa, alcune delle terre sottratte sarebbero già state concesse a compagnie straniere legate agli Emirati Arabi, che organizzano safari esclusivi e battute di caccia per clienti facoltosi. La vicenda ha suscitato indignazione internazionale: l’Unione Europea ha condannato duramente l’accaduto, arrivando a sospendere finanziamenti destinati alla conservazione ambientale in Tanzania, mentre la Banca mondiale ha interrotto l’erogazione di fondi per lo sviluppo turistico a causa delle violazioni dei diritti umani.

Lotta senza confini

Le conseguenze del caso di Loliondo si fanno sentire anche oltre confine. Il Kenya ha accolto un numero crescente di Masai in fuga, privati dei loro mezzi di sussistenza. Nel gennaio scorso, la giustizia kenyota ha emesso una sentenza storica, dichiarando illegali le riserve di conservazione create dal governo in collaborazione con il Northern Rangelands Trust (Nrt), un’organizzazione che gestisce milioni di ettari vendendo crediti di carbonio a multinazionali come Meta, Netflix e British Airways. Il tribunale ha appurato che quelle aree sono state istituite senza consultare le comunità locali, in maggioranza di etnia borana, samburu e rendille, alimentando il sospetto che dietro la conservazione si nascondano interessi economici globali a discapito dei popoli indigeni. La missione di Nrt sarebbe, in teoria, quella di istituire riserve comunitarie resilienti, trasformare vite e garantire la pace e la conservazione delle risorse naturali.

A finire sotto accusa è un progetto del valore potenziale di svariati milioni di dollari (l’importo esatto non è noto poiché l’organizzazione non pubblica bilanci finanziari), da tempo criticato dagli attivisti indigeni perché sarebbe stato istituito a danno delle popolazioni locali. La sentenza, in particolare, riguarda un caso intentato da 165 membri delle comunità presenti in quei territori e sancisce che le riserve sono state istituite incostituzionalmente, senza base giuridica. La Corte ha inoltre ordinato che i guardaparco dell’Nrt, armati pesantemente e accusati dai popoli indigeni della zona, lascino quelle riserve.

Interessi stranieri

«La sentenza è anche l’ultima di una serie di stoccate alla credibilità di Verra, il principale organismo utilizzato per verificare e validare i progetti di crediti di carbonio», fa sapere Survival International. «Purtroppo questo fenomeno è lungi dall’essere un problema isolato», fa presente Caroline Pearce, direttrice generale dell’organizzazione. «Troppi programmi di compensazione delle emissioni di carbonio si basano sullo stesso modello obsoleto della “conservazione fortezza e sostengono di “proteggere” la terra mentre calpestano i diritti dei suoi proprietari indigeni e realizzano ingenti profitti strada facendo».

Gli interessi stranieri nella gestione di quei territori appaiono evidenti. Secondo l’Oakland Institute, dietro la politica tanzaniana sulla conservazione e il turismo si nasconderebbero ingerenze di rilievo, in particolare statunitensi. Un rapporto pubblicato ad aprile da ricercatori californiani (intitolato Pulling Back the Curtain: How the US Drives Tanzania’s War on the Indigenous) ha messo in luce come Washington abbia esercitato un ruolo determinante nell’influenzare le strategie di gestione del territorio in Tanzania, sostenendo progetti finanziati da Usaid a scapito delle comunità locali. E malgrado l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale sia stata praticamente chiusa nei mesi scorsi da Donald Trump, in pochi si illudono che la nuova amministrazione americana imprimerà o favorirà un cambio di rotta nelle politiche ambientali… Mentre il governo di Dodoma prosegue con le politiche di esproprio, i Masai si trovano a combattere una battaglia sempre più difficile per la salvaguardia dei propri diritti e per il controllo delle loro terre ancestrali.

In copertina: Masai, (Foto di https://www.africarivista.it/)

Questo articolo è uscito sul numero 3/2025 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

Ferrara Film Corto Festival:
essere sempre più giovane per diventare adulto

Ferrara Film Corto Festival: essere sempre più giovane per diventare adulto

Questa sera (sabato 25 ottobre) dalle 20.30 la Sala Estense ospiterà la serata conclusiva dell’ottava edizione del Ferrara Film Corto Festival, chiamato “Ambiente è Musica”. Per il programma andate al sito ufficiale. Per qualche impressione personale invece, restate qui.

Ieri, al termine delle proiezioni alla Sala del Refettorio, ho incontrato in rappresentanza di Periscopio le sceneggiatrici, registi, registe e produttori di alcuni dei cortometraggi in rassegna – preferisco chiamarla così perché, nonostante la presenza delle giurie e dei premi, non riesco ad associare all’espressione artistica il concetto di “gara” o “competizione”.

Ho avuto il piacere di parlare a persone di trenta o trentacinque anni davanti ad una platea di persone di venti o venticinque anni. Già solo questa circostanza mi ha scaldato il cuore, o se preferite rinfrescato lo spirito. Ho percepito diverse suggestioni da queste ragazze, ragazzi, cineasti, sceneggiatrici, artisti. Ad esempio, che la percezione della china del riscaldamento globale è molto più presente nei giovani che nei vecchi im-potenti: tra i giovani annovero anche il signor Antonio, Cicerone commosso del lago Fimon ne “Il custode del Lago” di Simone Bressello.  Antonio potrebbe avere ottant’anni, ma la sua disperata freschezza lo inscrive a buon titolo nella categoria dei giovani.  La stessa acuta e allarmata consapevolezza ho colto in Giorgia Baracco, giovane sceneggiatrice di “Sommersi”, breve drama che fissa una dissennatezza che vede protagonisti due adolescenti, immergendola letteralmente nella furia di un alluvione che si fa tragedia collettiva, senza poter cancellare la tragedia individuale, ma contribuendo a nasconderla alla punizione civile – non a quella della propria coscienza. E poi le gelide e spigolose “Misure” di Marta Capossela, che prima di dirigere corti è stata selezionatrice di modelle per la moda, conosce bene il confine spesso labile tra canone e patologia, e lo rende con effetti disturbanti e profondamente inquietanti. “Cosa resta” di Francesca Scanu non può non commuovere chi ama i cani, creature che ospitiamo nelle nostre case a scopo didattico: ci mostrano come vivere senza insegnarcelo. Mia, che oltre ad essere l’attrice e dea ex machina della storia è il cane di Francesca, muove il mondo dentro e fuori senza fare nulla, semplicemente vivendo secondo il proprio istinto.

Infine non c’era il regista de “La Buona Condotta” , ma il suo produttore, Simone Rossi. Su questo cortometraggio preferisco non dire nulla, tranne una cosa: i genitori che lo vedranno impareranno a dubitare di ogni certezza che pensano di possedere sui loro figli.

Questa è solo una piccola selezione di ciò che è passato in rassegna, e magari nessuno di questi “vincerà” nessun premio, ma è il mio festival. Buona serata finale, e lunga vita.

 

Photo cover: frame da “La Buona Condotta” di Francesco Gheghi.

 

 

Presto di mattina /
Il coraggio di immaginare

Presto di mattina. Il coraggio di immaginare

Il coraggio di immaginare

 Karev Yom, lievito di speranza
Si avvicina il giorno,
E non è giorno e non è notte
[Altissimo che sei] più in alto possibile, più su, più su
fa conoscere che tuo è il giorno, così come la notte
Istituisci dei guardiani per la tua città
tutto il giorno e tutta la notte
Rischiara, illumina, illumina, rischiara
Illumina con la luce del giorno l’oscurità della notte

Karev Yom è canto alla speranza che accompagna il Seder pasquale, la cena rituale ebraica. Una danza, pure, per suscitare e far lievitare ancora la speranza in una pasqua senza tramonto, a venire, pasqua di redenzione e di salvezza, in cui non ci saranno più né giorno né notte, come in quella notte, ombra della luce, che fece uscire dalla schiavitù un popolo, aprendo una via nel mare. Né giorno, né notte è la speranza, lievito di luce.

Lucido fermento

Oscillano le fronde, il cielo invoca
la luna. Un desiderio vivo spira
dall’ombra costellata, l’aria giuoca
sul prato. Quale presenza s’aggira?
Un respiro sensibile fra gli alberi
è passato, una vaga essenza esplosa
volge intorno ai capelli carezzevole,
nel portico una musica riposa.
Ah questa oscura gioia t’è dovuta,
il segreto ti fa più viva, il vento
desto nel rovo sei, sei tu venuta
sull’erba in questo lucido fermento.
Hai varcato la siepe d’avvenire,
sei penetrata qui dove la lucciola
vola rapida a accendersi e a sparire,
sfiora i bersò e lascia intatta la tenebra.

Parla della speranza come di un fermento che riluce anche questa lirica di Mario Luzi in Liriche gotiche (Tutte le poesie, 139). La speranza è soglia che lascia immutata l’oscurità, e tuttavia fa vibrare le fronde, e la luna sente il richiamo della sua silenziosa voce e ritorna a crescere. La speranza è presenza che ti circonda, che varca con te la siepe d’avvenire, come vento che penetra il rovo e passa oltre, come lucciola che lo attraversa accendendosi e spegnendosi, portatrice di un respiro di segreta gioia.

Ci ha ricordato anche David Maria Turoldo che, seminata nei sei giorni della creazione, è la speranza che fermenta e germoglia in essi, prepara lo stelo, su cui fiorirà il settimo giorno, quello del riposo, “giorno per la speranza è la notte”.

Notte: confine e porta
su altra vita.
Di notte è stata creata ogni cosa,
nella oscurità del solco
fermenta e germina lo stelo,
pur se la spiga maturerà – o morirà –
nel sole: e quando
poi compare la luna …
«fu sera e fu mattino, sesto giorno»,
giorno per Iddio è la Notte.
(O sensi miei…Poesie 1948-1988, Rizzoli 1997, 581)

Terre nuove

Dalle terre rare della poesia alle terre nuove dell’immaginazione: si dilata così lo spazio, anche oltre l’orizzonte, al bracconiere di parole, poiché da esse fiorisce un immaginario di universi, immagini che cercano parole nuove, linguaggi rinnovati per quell’esercizio spirituale che è la ricerca di senso del nostro vivere e oltre se stesso.

A condurmi in queste terre nuove è stata la lettura di un documento di sintesi del cammino sinodale delle Chiese presenti in Italia, che nel titolo unisce immagini e parole: Lievito di pace e di speranza. Un testo, come una mietitura in un campo largo, quello ecclesiale, frutto di una seminagione abbondante, volto a raccoglie i frutti del cammino sinodale durato quattro anni che ha visto parrocchie, gruppi comunità, movimenti, interagire in ascolto dentro e fuori le realtà ecclesiali con la città e il paese.

Una raccolta di esperienze, aperture e indicazioni per rinnovare la Chiesa italiana, conformandola al vangelo per renderla sempre più una “chiesa in uscita” ad incontrare la gente, dilatata verso le periferie esistenziali. Il documento raccoglie oltre cento proposte che verranno votate nell’Assemblea sinodale sabato 25 ottobre a Roma da oltre mille delegati da tutta la Penisola. Proposte che, dopo l’approvazione, saranno consegnate ai vescovi italiani affinché abbiano inizio un processo di recezione a base locale.

In un’intervista, Erio Castellucci, vescovo di Modena, che presiede il comitato Cei per il Sinodo, ricorda che «le oltre cento proposte non sono semplicemente accatastate l’una accanto all’altra, ma il tentativo di indicare delle piste di lavoro, in parte nuove e in parte già battute da alcuni».

Alla domanda: «Quale attenzione alle povertà, come raccomanda il Papa nella sua prima Esortazione apostolica Dilexi te?» risponde: «Questa è una delle carenze del documento. La lettura della Dilexi te mi ha persuaso che in questi anni di cammino sinodale sia stata troppo scarsa l’attenzione alle povertà. Alla fine della fase narrativa era emersa da parecchie parti la constatazione che i poveri non si erano coinvolti o non erano stati coinvolti nel percorso sinodale. Quando Leone XIV, sulle orme di papa Francesco, dice che i poveri sono protagonisti e non semplici destinatari, ci aiuta a fare un esame di coscienza serio. Non è populismo, è Vangelo».

Il coraggio di immaginare insieme

Nel documento viene sottolineata l’importanza di nuovi linguaggi, anche digitali e del coraggio dell’immaginare insieme per stabilire relazioni rinnovate dentro e fuori la comunità cristiana. Sono queste le terre nuove che ci stanno di fronte per la nostra itineranza: «non per un semplice lavoro strumentale di adattamento e condiscendenza, ma per un esercizio spirituale di riconoscimento del vissuto umano come luogo teologico, in virtù del principio dell’Incarnazione.

La comunicazione, del resto, è strutturale nella comunità cristiana: l’annuncio avviene sempre in una relazionalità comunicativa, ridefinendo lo spazio e il tempo dell’atto comunicativo. Con sobrietà e competenza, dunque, i cristiani sono chiamati ad abitare tutti gli ambienti di vita in cui si svolge l’esistenza delle persone», n. 33.

Il coraggio di immaginare titolo con cui inizia il n. 34 del documento credo rappresenti l’istanza iniziale e il denominatore comune da tenere sempre presente come stile ed esercizio permanente ogni volta che si vorranno mettere in atto, un poco alla volta le proposte e i necessari adeguamenti alle singole realtà locali.

Si legge: «Consapevole che la sete di interiorità non è meno ardente rispetto ai decenni passati, anche se spesso non si incanala in forme istituzionali, la Chiesa, nel suo servizio al sogno di Dio in atto nella storia, dialoga con il mondo delle arti – dalla pittura alla musica, dalla letteratura al cinema, dalla poesia alla street art al teatro – non per “addomesticarlo”, ma per coltivare una sana inquietudine, farsi provocare dalle sue intuizioni, tenere vivo il desiderio di terre e cieli nuovi, custodire la speranza.

Pertanto, l’Assemblea sinodale avanza le seguenti proposte:
a. che le Chiese locali creino spazi di incontro e di confronto, laboratori creativi, percorsi di formazione e di “educazione alla bellezza”, valorizzando le realtà esistenti e favorendone di nuove, anche mediante la concessione di ambienti e finanziamenti;
b. che le Chiese locali attingano ai multiformi linguaggi artistici per sperimentare forme innovative di catechesi e annuncio;
c. che le Chiese locali valorizzino il proprio patrimonio artistico, integrandolo nella pastorale, mediante iniziative stabili rivolte alle nuove generazioni alle famiglie, agli immigrati, ai turisti e formando operatori competenti».

È tempo di immaginare

Anche per la teologia, è venuto il tempo di immaginare, insieme ad una intelligenza comunitaria, perché il futuro è corale. L’immaginazione è fattore di cambiamento, superamento e trasformazione. Ci ha ricordato il card. Henry Newman: «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni». L’immaginazione «è un invito a scoprire il moto del cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di cambiare per potere essere fedele». Così la teologia è chiamata a dare ascolto anche a logiche non teologiche, aprendo spazi all’interdisciplinarità e transdisciplinarità.

L’immaginazione è lievito e fermentazione che si attiva intrecciando le diverse sensibilità e generi di conoscenza, non per mescolare le metodologie proprie a ciascuna disciplina, ma per creare territori, terre nuove, grammatiche nuove dell’umano di convivialità alla ricerca di una razionalità condivisa.

Sono questi alcuni pensieri raccolti dall’intervento del card. José Tolentino Mendonça al Congresso internazionale del dicembre 2024 a Roma: Eredità e immaginazione organizzato dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione, esplicitamente dedicato al “futuro della teologia”.

Nella sua prolusione diceva: «L’immaginazione del cristiano è sguardo critico che riconosce che il mondo non è come dovrebbe essere, che è segnato dal male, dal peccato, dalla sofferenza, ed è bisognoso di redenzione, ma al tempo stesso si dischiude come sguardo rigenerativo che riconosce i segni dell’avvento di questa redenzione, riconosce i sentieri da aprire perché essa si faccia strada nei cuori e nelle menti degli uomini, nelle vicende della storia. È sguardo non puramente contemplativo ma performativo – fa ciò che dice –  che profeticamente riconosce che cosa possiamo fare di questo mondo se lo affidiamo alla promessa di salvezza di Dio».

L’immaginazione è impronta originaria del pensiero che mette in gioco il cuore

L’immaginazione mette in gioco il cuore e i sensi. È sensazione visiva che dice e pone relazione all’altro. È percezione di qualcosa che appare. È come un’impronta da fuori che fermenta il dentro. È levatrice di creatività per il venire alla luce del pensiero e delle parole. Non è pura invenzione del soggetto o semplice rappresentazione, riproduzione esteriore del pensiero, ma sua determinazione originaria, benefica ibridazione, meticciato fecondo che innesta visivamente e avvia il processo della coscienza e del conoscere. «La sensazione alla lettera una comunione» (M. Merleau-Ponty).

Scrive Giovanni Cesare Pagazzi: «Se è vero che l’anima pensa sempre, è altrettanto vero che essa non pensa mai senza immagine, sia essa visiva, acustica, tattile, olfattiva e gustativa. L’immaginazione non è né un fatto, né una facoltà accostata alle altre, ma il modo originario in cui, attraverso la sensazione, anima e mondo nascono nello stesso momento: co-nascono. Essa testimonia che il conoscere è il co-nascere dell’anima e del mondo e mostra come la coscienza sia già da sempre un legame sensibile (cum-scientia) con il mondo, con-tatto, con-senso dato al mondo. La libertà acconsente alla pro-vocazione dei sensi circa la sensatezza del mondo», (L’esperienza sensibile di Gesù, in I sensi spirituali. Tra corpo e Spirito, Antonio Montanari (ed.), Glossa, Milano 2012, 308).

Universi diversi fermentano il cuore

Tutto sembra, a guardar la notte, fermo
immobile ogni costellazione e quelle
stelle appena nate negli ammassi
piccole ma già segnate dalle loro masse.
C’è più fermento nel mio cuore quasi
l’universo fosse altro da questo firmamento
fatto di vuoto e tempo, di luce e buio;
qui ogni stella appare una resurrezione
e un anno luce l’inizio di un inizio
l’orbita è tanto aperta da sembrare retta
e ogni battito il grido del silenzio.
(G. Ferrara, Appunti di viaggio di un funambolo muto, Edizioni Tracce, Pescara 2015, 24)

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/geralt-9301/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7804938″>Gerd Altmann</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=7804938″>Pixabay</a>

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Le scarpe rosse

Le scarpe rosse

*1*

Mi sono decisa, finalmente.
Ho comprato un paio di scarpe rosse. Rosse, col tacco alto, décolleté e, decisamente, molto, molto femminili.
Le guardo avvolte nella velina dentro la loro scatola e, soddisfatta, le ripongo sullo scaffale.
Aspetto l’occasione giusta.

*2*

Quando sono giù di corda, metto a posto gli armadi. Mi accorgo che sono depressa perché mi prende la smania di fare ordine tra i vestiti.
Repulisti: eliminare, fare spazio, selezionare.
E così svuoto i cassetti, tolgo tutti i vestiti dalle grucce e, meticolosamente, provo ogni indumento, lo abbino con altri e cerco, con occhio critico, di arrivare a un responso: lo tengo! no, lo elimino!
É un’operazione che mi sfinisce.
Gli armadi svuotati, poco a poco si riempiono di ogni cosa. Al solito non ho avuto il coraggio di eliminare un bel nulla.

*3*

Sto passando in rassegna i miei vestiti. Non so come passare questo lungo tempo vuoto che ho davanti.
Però! Quante cose nuove, mai messe, tenute d’acconto chissà perché.
E questa? Apro la scatola. Ah! Le mie scarpe rosse.
Le tiro fuori dalla scatola. Quanto le ho desiderate! Mi viene da piangere.

Ho un tumore al seno, sono giovane e lui se ne approfitta per invadere tutto il mio corpo. E sai cosa penso?
Che non ho paura di morire, è che mi dispiace”.
Mi dispiace di aver aspettato e perso tante occasioni per indossare le mie scarpe rosse. Mi dispiace soprattutto che non avrò più altre occasioni.

*4*

Non ho più la forza di alzarmi, le terapie mi devastano. La mia è una guerra persa. Adesso, che sono ricresciuti, ho degli strani capelli ricci ricci, sono così magra, due occhi enormi mi guardano allo specchio. Respiro a fatica, il mio naso è sottile e affilato come le mani, sono di carta velina.

Indosso perennemente il pigiama, non è molto glamour! Le ante degli armadi sono aperte e mettono in bella vista i vestiti colorati e di bella foggia che ho collezionato, troppo timida per indossarli.

La seta, i ricami, i volant, le morbide stoffe, il fresco cotone.

Voglio essere bella, bellissima il giorno della mia morte. Voglio sguardi ammirati e invidiosi.

Scelgo il vestito più bello, gli accessori più fashion. Non possono mancare loro, le mie eleganti e molto femminili scarpe rosse.

Non ho più il seno, le mie forme sono sparite, divorate dalla malattia, ma io sono una donna e giovane.

Ho trovato la mia occasione, mi presenterò alla mia cerimonia non con un corpo di cera tirato a lucido, un santino grigio che sa di incenso.

Ci andrò vestita a festa. Mi farò bella e i miei piedi non saranno nudi o dentro tristi pantofole, calzeranno scarpe nuove, rosse, col tacco alto, décolleté e, decisamente, molto, molto femminili.

A mia sorella Claudia oggi che posso ricordare senza piangere.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/espressolia-208511/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=2086260″>Espressolia</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=2086260″>Pixabay</a>

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

 

Le voci da Dentro/
Dove eravamo rimasti?

Le voci da Dentro. Dove eravamo rimasti?

Il testo che Giuseppe ha scritto recentemente è pieno di amore verso il suo nipotino, nato nel settembre scorso. La sua lunga detenzione lo ha costretto a rivedere i suoi sbagli di gioventù e a ripensare al modo in cui la propria vita affettiva sia stata condizionata gravemente da quei reati. Nel testo si può notare il suo ravvedimento ed il proposito di veder crescere il proprio nipote in maniera molto diversa dalla sua. Il mettersi nei panni del piccolo, nato da nemmeno un mese, è una bella forma espressiva che aiuta ad esprimere le emozioni.
(Mauro Presini)

Dove eravamo rimasti?

di Giuseppe

Tempo fa, in uno dei miei testi pubblicati su Astrolabio, raccontai un aneddoto su come svolgevo la mia routine, su quanto io sia maniaco nelle pulizie, sul mio essere mattiniero. Da qualche mese qualcosa è cambiato nella mia vita: infatti sono diventato nonno e questo è stato un fatto del tutto inaspettato. La mia routine si è modificata: mi alzo al mattino presto e la prima cosa che faccio è guardare le quattro grandi fotografie che ho attaccato al muro della cella; ritraggono il mio piccolo nipotino Andrea.

In due di esse dorme e nelle altre due ha lo sguardo rivolto verso me.

Io immagino che mi dica così:

Ciao nonno come stai? Tranquillo, adesso ci sono io, tuo nipote. Sai che non ti permetterò di lasciarmi da solo come hai fatto con mamma, perciò pondera bene le mie parole e fai una lunga riflessione. Dicono che una volta eri cattivo e che hai fatto piangere tante persone, però dicono anche che il tuo ravvedimento è sincero, che gli anni di carcere ti hanno portato a questo cambiamento.

Nonno, spero che per te questo sia vero, perché io con te vorrei fare tantissime cose. Non mi dicono anche che sei bravo in cucina; a proposito è da un mese che sono nato e sono stufo di nutrirmi solo con il latte di mamma, vorrei qualcosa di più sostanzioso. Infatti dicono che sei bravo a fare la pizza a fare gli arancini e tantissime altre cose. Bravo nonno, veramente bravo!

Ecco, vorrei che tu fossi presente quando farò i primi passi, vorrei che mi accompagnassi mano nella mano per le vie di Bologna e ai giardini pubblici, nei negozi a fare compere. Spero che, quando vedrò qualcosa che mi piacerà tu, solo guardandomi, capirai che quell’oggetto mi piace, l’acquisterai per me facendomi felice. Poi sorrideremo insieme. Vorrei che fossi un nonno come i tanti milioni di altri nonni: senza misteri. Vorrei che nessuno abbia di te una visione distorta, vorrei che il tuo passato fosse soltanto un brutto ricordo”.

Poi, per un istante, mi alzo e guardo di nuovo le foto appese al muro.

Lui poi prosegue: “Nonno, ma è vero che tu quando sei nato assomigliavi tanto a mamma e a me? Allora è proprio vero quel detto che recita: buon sangue non mente. Non vorrei che la mia vita fosse diversa dalla tua; vorrei che fosse come quella di tutti i bambini di questo mondo. Nonno, da grande non vorrei fermarmi alla scuola dell’obbligo, bensì proseguire con gli studi, laurearmi anche se ancora non so in quale materia. Non vorrei fare ciò che tu non hai voluto fare perché eri preso da una vita scellerata, perciò mi impegnerò io, con tutte le mie forze, per non deluderti. Vedrai, nonno, sarai fiero di me.

Ancora non parlo e non cammino, ma ti prometto che appena potrò, oltre a frequentare la scuola, parteciperò a delle attività sportive, non so se il calcio il tennis o altro, ma l’importante è che io non faccia vita sedentaria. Mi dicono che tu eri bravo a calcio e so perché hai mollato: negli anni 90 hai subito un brutto incidente e i tuoi sogni sono svaniti nel nulla.

Nonno, tu forse lo chiami destino quello che ha fatto in modo che la tua vita dovesse andare a rotoli, perché tu credevi di non avere scelta. Eh no, nonno, ti sbagli. Nella vita c’è sempre un’alternativa; sei tu che non l’hai voluta intraprendere e hai voluto contraccambiare con la stessa moneta che ti ha fatto del male.

Beh, nonno, lasciamo il passato e veniamo a noi: vorrei concludere questa chiacchierata con una bella frase che spero ti piacerà: io sono nato il 4 settembre, lo stesso giorno in cui è nata mamma. Guarda un po’ che combinazione. Se uno volesse programmarlo difficilmente riuscirebbe quindi, per te, questo sarà un giorno particolare indimenticabile! Siamo in due a festeggiare perciò non dimenticarti di noi, perché vorremmo davvero che tu fossi presente per festeggiare con noi il mio primo compleanno.

Nonno ti voglio tanto bene”.

Cover:  Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/beasternchen-32364022/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8906860″>beasternchen</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=8906860″>

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore