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La messa è finita. (un racconto di Natale)

La messa è finita
(un racconto di Natale)

Il clamore delle campane lo svegliò. Come ogni Natale indugiò nel letto più del solito, immerso nella beatitudine di chi non ha particolari impegni nel corso della giornata. Frugò tra le pieghe nascoste della coscienza: non trovò nulla che potesse rovinargli quel momento. Percepì quella sensazione di libertà che, ne era sicuro, provavano gli uccelli al passaggio da un ramo a un altro; ringraziò Dio di questo e cominciò a prepararsi per la funzione.

La rasatura dei giorni precedenti a questo aveva il compito di prepararlo agli impegni della giornata: molti si preparano alla rivoluzione facendosi crescere la barba Sono pochi quelli che, radendosela, se ne rendono degni; di barba e rivoluzione. La rasatura di questo giorno di festa invece assume un sapore particolarmente speculativo. La mano e il viso lo sanno bene, lo avvertono dalla tranquillità con la quale le lame scorrono sulla pelle siano quelle affilate di un rasoio euclideo – il pelo, il filo, la superficie – o quelle rotanti e basculanti di un rasoio Riemann.

Ricordò che aveva letto: «Se uno utilizza macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti; chi compie macchinalmente tutti i suoi atti ha, alla fine, un cuore di macchina; ma se uno ha un cuore di macchina nel petto, perde la pura semplicità; uno che abbia perso la pura semplicità, diviene incerto nei moti dello spirito», ma tutto questo sembrava smentito da quel preciso istante. Fece scorrere il dorso della mano sulla guancia e si ritenne soddisfatto e rassicurato.

Scelse con cura l’abito da indossare, qualcosa di pratico e elegante; ciò che subdolamente, nei congressi viene definito smart e che, in pratica, vuol dire “non mettete la cravatta”. Quante vecchie volpi si aggirano nei congressi; le più giovani invecchiano rapidamente perdendo peli e cravatte.

Diede un’occhiata all’orologio: c’era tempo sufficiente per portare la macchina all’autolavaggio (aperto anche oggi!). S’infilò nel tunnel e ripassò tutti i suoi peccati. A metà dell’ispido colonnato aveva esaurito i peccati legati alle parole, alla fine quelli legati alle omissioni e all’asciugatura liquidò le omissioni. Uscì dalla macchina per gli ultimi ritocchi. Riposizionò gli specchietti retrovisori esterni, si sistemò e ripartì. Diede un colpo di tergicristallo per cancellare le gocce indecise sul parabrezza e prese la direzione per il centro.

Trovò da parcheggiare con qualche difficoltà. Ci sarebbe stata la solita ressa. Quando si accorse che l’entrata principale era stata spalancata e che la gente cominciava a entrare, uscì dall’auto, si diresse verso la solita edicola sulla destra del portone, prese il foglietto, infilò una moneta nell’apposita feritoia e si avvicinò all’entrata.

Anche questa volta, come quelle precedenti, rimase estasiato per l’imponenza della costruzione e gli addobbi colorati. La facciata, compresa tra due campanili medievali, era sormontata da una balaustra, sopra la quale si intrecciavano arcate tubolari. Sostò a contemplarla, a studiare i particolari delle immagini e delle icone non sempre riconoscibili e leggibili. Entrò e, per uno strano gioco di luce che filtrava dalle vetrate superiori, fu completamente sommerso da un mare di riverberi d’oro. Si ricordò di aver provato un’analoga sensazione nel duomo di Monreale, sopra Palermo. Anche lì era stato più volte e ricordava perfettamente quelle sincronie tra luce e materia che suggerivano la visione di un miracolo: lo spazio riempito di risonanze lucenti.

Quale meticolosità! Quale attenzione e cura! Quale fede fu posta e imposta per realizzare quelle figure e quelle geometrie! Seguendo la navata centrale seguì il solito percorso che lo predisponeva, come sempre, alle migliori intenzioni. Le arcate ogivali, il soffitto dai disegni policromi, le decorazioni laterali: tutto contribuiva a spiegare, quale biblia divitium, la ragione vera e ultima per la quale anche oggi si trovava lì.

Che desolazione sarebbe una vita senza fede! Senza luoghi come questo sorti per rinnovellare quel sacro legame tra gli uomini e il loro dio, luoghi dove la vita dell’umanità si arrotonda e l’interno diviene superiore all’esterno.

Ascoltò le solite litanie di ingresso. Distrattamente. Si sorprese a canticchiare macchinalmente uno di quei motivetti ripetitivi: certo, in un luogo siffatto, sarebbe stata più adatta una musica che ispirasse serenità e riflessione ma «questo è il conto da pagare se si vogliono attirare le nuove generazioni», pensò, «quando la memoria comincia a svanire non si può che confidare nella ripetizione dei messaggi, avvitandoli in profondità come viti dalla filettatura infinita».

Continuò a percorrere la navata centrale, accennando di tanto in tanto l’ingresso tra i banchi di destra e quelli di sinistra. Con attenzione e devozione partecipò a tutte le parti della funzione: esibì le sue debolezze, ostentò il suo atto di fede, scambiò cenni di saluto e, infine si mise in fila con tutti gli altri per arrivare all’altare.

All’uscita, colmo di ogni ben di dio, si trovò circondato dai soliti questuanti in attesa.

Elargì del denaro. Non più di qualche moneta. Per carità.

Senza alcuna incertezza nei moti dello spirito, caricò la spesa in macchina e tornò a casa.

Cover:  Supermarket full of goods – immagine Wikimedia Commons

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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