IO, SIMONE DI CIRENE
IO, SIMONE DI CIRENE
Il mio nome è Simone, Simone di Cirene. Già, perché fra noi conta il luogo da cui provieni, non chi sei. E Lui? Lui chi è? E soprattutto da dove viene? Io so che non è di questo mondo, è veramente il figlio di Dio, e noi l’abbiamo condannato a morte. Noi? Loro! I sacerdoti del tempio, i farisei, e quella stessa gente che qualche ora prima lo osannava e ora gli sta sputando addosso. Benedico il momento in cui le guardie mi hanno preso tra la folla e costretto a portare la croce: non ho detto nulla, non ho protestato. Lui, Gesù di Nazareth, mi ha guardato mentre portavo quell’orribile strumento di morte su per la salita al Golgota. Si è girato solo una volta, ma io ho visto i suoi occhi chiedere perdono per il peso che stavo portando al posto suo, li ho visti e mai li dimenticherò. “Non importa – gli ho detto – ho spalle forti sai, lavoro nei campi tutto il giorno”. Allora i suoi occhi hanno sorriso, pur nel dolore e nelle percosse, sembrava contento che alla morte lo accompagnasse un contadino, uno qualsiasi. Alessandro piangeva forte e mi chiamava, perché tra la folla qualcuno percuoteva anche me. Ma ve l’ho detto: ho le spalle forti io, e le braccia ancora di più. Rufo taceva, era stranamente calmo e guardava Gesù. Forse ricordava come me d’averlo già incontrato, suo fratello non poteva ricordarlo, non era presente.
Una volta, non molti anni fa, ho alzato una macina per le olive. Alcuni soldati romani, fermatisi a bere al pozzo, accanto al frantoio, mi avevano sfidato a farlo. Uno di loro, un centurione chiamato Livio dagli altri quattro, scese da cavallo e, tolta la macina dal perno, volle alzarla, ma questa ricadde fra le olive schiacciate, facendo schizzare ovunque una poltiglia d’olio e minuscoli pezzi d’oliva. Buona parte però finì sulla tunica che portava e sul suo viso, facendolo imbestialire, anche per le risate dei commilitoni. Allora sguainò il gladio dal fodero e lo puntò alla mia gola, perché anch’io avevo riso di lui. E mentre sentivo il sangue caldo colare giù per il collo, poiché aveva spinto leggermente la punta della spada dentro la mia pelle, disse:
– Prova tu allora, giudeo che osi farti beffa d’un centurione romano, ma guai a te se fallirai, ti ucciderò come un cane –
Non ebbi paura. Sporcai le mie mani con la sabbia per impedire che la macina, intrisa d’olio, scivolasse, l’afferrai saldamente e l’alzai dal frantoio di circa mezzo braccio. Uno dei cavalli nitrì forte. Livio, al culmine della rabbia, alzò la spada per colpirmi. D’improvviso si udì una voce levarsi alle nostre spalle, come uno schiocco forte di ramo secco che si spezza:
– Fermati! Abbassa la tua spada Marco Livio Druso!
Ci voltammo tutti e vedemmo a pochi passi da noi un uomo, avvolto in una tunica di lino color avorio, il braccio destro e la mano alzati come a voler fermare quell’istante di violenza improvvisa. Era Lui, il Cristo. Altri lo accompagnavano, forse cinque o sei persone di età quasi simile fra loro.
– Come sai il mio nome? Disse Livio –
– Il tuo nome lo porta il vento, lo sussurra alle orecchie dei giusti, affinché si tengano lontano dalla tua persona. Le voci di chi hai ucciso ripetono il tuo nome, e solo tu puoi placare questo turbine di parole, perché, come granelli d’una tempesta di sabbia, tutto ha origine in te, nel deserto arido che porti nell’anima –
Vidi allora la spada cadere dalla mano del centurione, che, come albero schiantato da un fulmine improvviso, piegò a terra le ginocchia ed iniziò a piangere senza ritegno, coprendosi gli occhi con le mani. I suoi compagni, stupiti e atterriti, senza dire una parola, lo fecero salire a cavallo, salirono anch’essi ed il gruppo si allontanò con subitanea premura, pur non spingendo al galoppo i loro animali.
Mio figlio Rufo, che aveva allora dodici anni, si gettò ai piedi dello straniero, abbracciandogli le caviglie e nascondendo la testa fra i suoi polpacci. L’uomo che mi aveva appena salvato la vita, lo aiutò ad alzarsi e gli carezzò il viso con gesto lieve. Presi allora un vaso d’olio buono, spremuto il giorno prima e lo porsi al mio salvatore. Alzando la mano sinistra fino a mostrarmi il palmo, Gesù scosse la testa e disse:
– Non è questo che farai per me, Simone – e voltandosi, si allontanò lungo il sentiero che conduce alla collina vecchia.
Rimasi immobile per lunghi minuti. Oggi so cosa intendeva dire. Questa croce è lieve, non pesa affatto, e mentre la porto capisco come ognuno di noi, d’ora in avanti non sarà più solo a portarla, qualunque sia la sua forma, qualunque dolore o sofferenza contenga. Lui oggi non morirà come muoiono tutti. Succederà qualcosa, lo so, come è vero che mi chiamo Simone, Simone di Cirene.
In copertina: Jacopo Tintoretto, Salita al Calvario, 1564-66 – immagine Wikimedia Commons.

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Stefano Agnelli
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PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
un racconto parabola che colpisce e fa riflettere
Ancora una volta Stefano riesce a srupire e a commuovere. Congratulazioni. Bellissimo.