Caos dazi e guerra commerciale? Un’occasione storica per l’Europa
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Caos dazi e guerra commerciale? Un’occasione storica per l’Europa
Gran parte degli analisti, le banche d’affari e gli oppositori considerano i dazi di Trump una follia che porterà solo danni a tutto il mondo. Ma prima di tutto agli Stati Uniti. Se così fosse alle elezioni di mid term (novembre 2026), Trump subirebbe una sconfitta e farebbe la fine dell’ex prima ministra inglese Liz Truss che dopo aver tagliato le tasse ai ricchi ha prodotto un danno economico senza pari al suo paese per cui è stata defenestrata dagli stessi tory dopo 3 mesi.
Tuttavia sono tra chi non crede che il neo protezionismo di Trump (avviato nel 2017 e proseguito da Biden) sia una follia senza metodo. Perché creare un caos con le borse che crollano e una rivolta dell’establishment globalista e del business prima di tutto americano? Negli ultimi anni ci si è divisi tra una maggioranza che pensano che l’America sia sempre il n.1 del mondo e una minoranza (Emmanuel Todd, Massimo Cacciari,…) che pensa che sia un gigante dai piedi di argilla, avamposto di un declino dell’Occidente e dei suoi valori. Credo che Trump la pensi allo stesso modo e che se la globalizzazione ha arricchito una ristretta élite, ha impoverito milioni di americani e indebolito i fondamentali dell’economia americana insieme alla sua manifattura. Cose che ha sempre detto anche Sanders, l’ala sinistra dei Dem.
Un protezionismo sui generis lo ha seguito anche la Cina non rispettando le regole del WTO e piegandole ai suoi interessi strategici, erigendo una grande muraglia cinese agli occidentali che volevano acquistare le loro imprese strategiche.
I consiglieri di Trump pensano che un dollaro sopravalutato abbia favorito tutti i paesi e penalizzato la manifattura made in Usa (imprese e lavoratori). Se i dazi porteranno maggiori entrate fiscali e maggiore competitività delle merci prodotte in Usa, allora faranno tornare “grande” la crescita economica.
Trump punta quindi a svalutare il dollaro e a una politica monetaria espansiva (ha chiesto a Powell –Fed- di abbassare i tassi di interesse).
E l’inflazione? La speranza è che le aspettative positive la facciano tenere bassa, anche se un Iphone Apple coi dazi costerebbe 2.300 dollari e non più 1.600 (fonte: Reuters).
C’è poi un enigma: chi lavorerà nella manifattura americana se si blocca il flusso degli immigrati? Saranno solo legali ben pagati?
Nonostante il crollo delle borse, gli ammonimenti che vengono dalla Federal Reserve Usa e da esperti di tutto il mondo del business, Trump tira diritto, mostrando che ha una strategia di lungo termine per cui è ragionevole pensare che i dazi non verranno ritirati, pur scontando nel breve termine un aumento dell’inflazione e un rallentamento del Pil.
Re-industrializzare l’America
Il principale obiettivo è re-industrializzare l’America per evitare un indebolimento del dollaro come moneta internazionale, la cui percentuale negli scambi continua a essere altissima (88% rispetto al 5% del renmimbi cinese). Per fare ciò bisogna che non ci siano scricchiolii negli acquisti dei Treasuries da parte del Resto del mondo, ma soprattutto di Europa e Cina (la Cina ne possiede 800 miliardi), visto lo stratosferico debito pubblico Usa che comporta un costo di 952 miliardi di interessi all’anno.
Un indizio dell’indebolimento del dollaro è che dal 1989 il debito pubblico USA è cresciuto a un ritmo tre volte superiore a quello del PIL. L’Italia paga interessi annui per il suo debito 100 miliardi, gli Usa 952 (9,5 volte di più, nonostante gli americani siano 5,7 volte gli italiani). Una spesa monstre, maggiore di quella militare (925 miliardi).
Se la re-industrializzazione funzionerà tutto si mette a posto: calano deficit commerciale e debito pubblico. A quel punto il dollaro ritorna ad avere quel ruolo di “privilegio-vantaggio” che consente di disporre di merci ottenute dal lavoro degli altri popoli del mondo in cambio di pezzi di carta verde con scritto “Novo ordo seclorum”, come disse l’ex presidente della Repubblica francese Giscard d’Estaing, europeista convinto, ma critico della strategia di Prodi che considerava l’Europa in costruzione una “tela di Penelope”.
Una questione monetaria
Si parla di dazi ma la questione è “monetaria”: il dollaro è minacciato non solo dalla fragilità dei suoi fondamentali economici, ma dalla disgregazione sociale americana e dalla Cina che punta sullo yuan digitale cinese, quale moneta alternativa, o meglio (via Brics), ad una sorta di new Bancor, progetto che Keynes propose alla fine della 2^ guerra mondiale, cioè di sostituire il dollaro con un paniere di monete forti e di materie prime e che gli americani respinsero. Sono già 10 i paesi asiatici e 6 quelli del Medio Oriente che vi partecipano e che hanno abbandonato il sistema dei pagamenti Swift a regia americana.
Il dollaro rimarrà la moneta internazionale fintantoché il debito Usa sarà sostenibile. Per ora non dovrebbe essere messo in discussione per cui la domanda di dollari (e di titoli in dollari) rimarrà alta per cui è difficile pensare ad una svalutazione del dollaro, che è una via per Stephen Miran per riequilibrare lo squilibrio della bilancia commerciale che oggi è finanziata dagli ingenti flussi di capitali verso gli Usa e che consente agli americani di usare il risparmio mondiale per acquistare merci che determinano il loro attuale forte squilibrio commerciale. Il problema è che un dollaro svalutato mina il suo ruolo come valuta di riserva globale e i picchi raggiunti da oro e bitcoin chiariscono che del dollaro ci si fida meno.
Tutto ciò sarà modificato in profondità dai dazi? Nessuno davvero lo sa. I dazi accrescono le entrate del fisco Usa ma il successo di Trump dipenderà da molte incognite tra cui: a) quanto aumenteranno i prezzi interni (inflazione); b) quanto forte sarà la re-industrializzazione.
Se l’inflazione crescerà molto si deprimerà la domanda interna e le entrate dagli stessi dazi. A quel punto la politica monetaria Usa potrebbe apprezzare il dollaro e quindi sterilizzare l’impatto dei dazi sui prezzi, ma in tal caso l’effetto “barriera” all’import cadrebbe e nessun vantaggio ci sarebbe sulla bilancia commerciale.
Potrebbe poi essere che Trump voglia usare i dazi anche per ottenere “favori”, per esempio chiedere/imporre a europei e cinesi di continuare ad acquistare un debito che si fa sempre meno solvibile (finché non ritorna a calare).
Trump e i suoi consiglieri non sono troppo preoccupati delle perdite a breve di Wall Street, anche perché il 40% degli americani non ha azioni e dei 48mila miliardi di titoli posseduti, il 93% è nelle mani del 10% più ricco. E’ vero che la pensione è tutelata dai fondi azionari, ma gran parte degli operai che ha votato Trump lo abbandonerà se le borse calano nel lungo periodo.
Gli interessi della finanza e di Wall Street non coincidono con quelli dell’industria e degli operai e lo si può ben dire oggi dopo 30 anni di finanziarizzazione e globalizzazione. Una storia simile gli Stati Uniti l’avevano conosciuta negli anni ’80 col Giappone (dollaro forte, alti profitti finanziari, crisi della manifattura, segretario Fed Volcker).
Trump ha scelto di privilegiare le fabbriche perché da lì vengono i voti e buona parte della forza dell’economia americana (soprattutto nel caso di un conflitto militare convenzionale…do you remember il Pentagono ad agosto 2023…non ci sono più munizioni per l’Ucraina). Poiché però dollaro moneta di riserva mondiale non va d’accordo con dollaro svalutato si potrebbe dar vita ad un dollaro digitale che coesiste con un dollaro tradizionale svalutato (un’idea che circola anche nella BCE con l’euro digitale).
Il terzo obiettivo dei dazi è continuare ad attrarre, negli Stati Uniti, risparmi e investimenti (specie europei). Ogni anno, infatti, finiscono all’estero, soprattutto in America, 300 miliardi di investimenti finanziari europei. Gros-Pietro (Intesa Sanpaolo), rammenta che l’Europa è l’area che risparmia di più: 30mila miliardi di euro di risparmi. Non è un caso che l’obiettivo indicato dal Libro Bianco sul ReArm sia la mobilitazione di 10mila miliardi di risparmi, né che i fondi finanziari Usa (BlackRock,…) puntino sull’Europa e il suo enorme risparmio. Prima di dire, come scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera, che Trump è “un morto che cammina” vedrei cosa succede tra un anno. Non è la prima volta che la nostra élite prende cantonate.
Come può reagire l’Europa
Fin qui sono i problemi degli americani. E l’Europa come deve reagire?
L’Europa ha un’occasione storica: fare di necessità virtù, recuperare gli enormi ritardi, cambiare a partire dall’abolizione del Patto di stabilità che impone una austerità della domanda interna, avviando la costruzione di un 3° polo nel mondo tra Usa e Cina, che è la sua missione spirituale e diventare punto di riferimento per il Resto del mondo di un nuovo modello di sviluppo.
La Cina ha scelto di rispondere “occhio per occhio” cioè dazi contro dazi. Ma se i dazi Usa danneggiano gli Usa, non si vede perché i dazi della Cina non danneggino anche la Cina. Idem dicasi per l’Europa: coi dazi gli europei pagheranno le merci estere a più caro prezzo (crescita dell’inflazione), ci sarà meno export e meno occupati, in cambio di maggiori entrate fiscali. Se poi l’Euro si rivaluta sul dollaro (come sta avvenendo) allora l’effetto caro prezzi (inflazione) si attenua, ma si indebolisce anche l’export.
In ogni caso avremmo due effetti negativi:
1. Dazi USA che danneggiano il nostro export,
2. Dazi Europa che danneggiano i nostri consumatori, importando inflazione da tutto il mondo, che sono poi gli effetti delle svalutazioni competitive. Della serie “perdenti+perdenti” anziché “win+win”, cioè danneggiare l’Europa per danneggiare gli Usa. La risposta “muscolare” assomiglia a quella dell’invio di armi all’Ucraina, serve per motivi politici (avere consensi), più che per vincere la guerra.
Un’altra via sarebbe svalutare l’euro sul dollaro per attenuare l’impatto dei dazi Usa sui consumatori e le imprese americane, ma pagheremmo di più tutto l’import e le materie prime energetiche di cui siamo debitori.
Che fare?
Nel caos è assennato mantenere una politica monetaria prudente e non giocare al gioco protezionistico di Trump. Semmai togliere i nostri “dazi” interni alla UE e mantenere buone relazioni commerciali col Resto del mondo. La cautela è d’obbligo perché, essendo il dollaro la moneta di riserva mondiale (ancora), una caduta di fiducia dei mercati finanziari sul dollaro nel breve periodo innesca una recessione mondiale.
La seconda via l’ha indicata Mario Draghi nel suo intervento al Senato il 18 marzo 2025. Riporto il passaggio chiave: “l’Europa trae il proprio prodotto dal 50% dell’export rispetto al 26% degli USA e 32% della Cina. Pertanto una guerra commerciale con dazi e contro dazi rende l’Europa più vulnerabile degli altri paesi. Gli USA sono il principale partner commerciale dell’Europa (oltre il 20% dell’export). In presenza di dazi la prima via è quella di sviluppare il commercio con altri paesi, la seconda è quella di interrogarsi se sia opportuno mantenere questo gigantesco surplus commerciale col resto del mondo oppure concentrarsi maggiormente nello sviluppare la domanda interna, spendere per l’innovazione, il clima,…. Non è stato sempre così lo squilibrio commerciale (in Europa) si accentua dopo la crisi del 2008. Noi abbiamo contratto il credito bancario più degli Stati Uniti, compresso la spesa pubblica e i nostri salari anche perchè noi eravamo in quegli anni in competizione con gli altri paesi europei. Austerità e salari bassi hanno compresso la domanda interna e non abbiamo fatto nulla per aprire il mercato interno e consentire alle nostre imprese di vendere in particolare i servizi (che sono il 70% del PIL). Il FMI stima le barriere interne all’Unione del 40-45% ma per i servizi del 110%. Ciò impedisce, specie alle piccole imprese più innovative a causa della eterogeneità di normative, di crescere e solo i Big Tech come Google, Amazon e così via lo possono fare. Nonostante questo gigantesco surplus siamo diventati sempre più poveri mentre gli Stati Uniti hanno seguito una via di sviluppo puntando sul loro mercato interno. Allora forse l’export non era la strada più giusta per noi. Oggi è venuto il momento di pensare alla crescita interna. Questa è la storia e la narrativa macroeconomica del mio Rapporto”.
Per completare questo quadro rammento che nel 2023 l’export della Germania è stato pari al 43% del suo PIL (Francia 33,7%, Italia 34,2%), negli Stati Uniti è 11%, in Cina 19%, in calo da 20 anni, mentre in Europa cresce costantemente, come fossimo in un paese in via di sviluppo che punta la sua crescita non sulla domanda interna e i suoi salari ma sull’export. La Germania ha contribuito con la sua ansia del pareggio di bilancio, ma le politiche di austerità sono una scelta della UE (BCE inclusa).
Ora l’Europa dovrebbe avere il coraggio di fare un “passo indietro per farne due avanti”: ammettere i propri errori, rivedere i Trattati, creare le condizioni di una Statualità federale tra i primi fondatori, in cui c’è difesa e politica estera comune, rilancio del welfare e della domanda interna, indipendenza dai giganti digitali americani, dai suoi prodotti agricoli inquinanti, dal suo stile di vita consumistico, diffusione guidata dalle Istituzioni, come ha fatto l’India, di software alternativi, euro digitale. In sostanza la via umanistica di “Venere” in contrasto alla via di “Marte” di americani e cinesi.
Se gli Usa mettono dazi alle merci, l’Europa tassi i servizi dematerializzati digitali dei Big tech su cui la bilancia commerciale USA è in attivo. Si tratta del Pillar 1 OCSE tutt’ora fermo per le pressioni americane, a differenza del “cugino” Pillar 2 (partito di fatto solo nella UE) per imporre la global minimum tax del 15% a tutte le multinazionali tradizionali. Si tratta di tassare l’estrazione di valore (i dati dei clienti del web) che è valutabile in base agli incassi pubblicitari e che i Big Tech negano sia imponibile (c’è una causa in corso a Milano tra Agenzia Entrate e Meta per 887 milioni di Iva non versata dal 2015 al 2021).
Se l’Europa si pone in un’ottica di giustizia, troverà l’appoggio del Resto del mondo (anche di quel Sud globale che fino ad oggi ci ha visto con diffidenza perché prima colonialisti e poi vassalli degli Usa).
Trump dà all’Europa un’opportunità storica: diventare indipendente e avviare una vera Europa, che sviluppa il suo mercato interno ed è alleata con tutti. E’ dal caos che nasce un nuovo mondo.
Cover: immagine da Odysseo su licenza Wikimedia Commons
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Andrea Gandini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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