Skip to main content
Tra i cardi e la luna

Per certi Versi / Tra i cardi e la luna

Tra i cardi e la luna

Ritagli di terra
inamidati dal sole
nel risvolto del cielo
tra i cardi e la luna
il volo reciso
incide l’assenza
la pelle di latte
custodisco
l’ultimo bacio
dentro la lacrima
di una farfalla

In copertina: Geometra papilionaria (Linnaeus, 1758) – immagine su licenza https://animalia.bio/index.php/it/large-emerald

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Le voci da dentro /
Musica, chitarre e voci oltre le sbarre

Le voci da dentro. Musica, chitarre e voci oltre le sbarre

Fra le molte attività che si svolgono presso la Casa Circondariale di Ferrara, una coinvolge davvero tante volontarie e volontari: è il corso di chitarra facile e coro coordinato dall’amica Chiara Marchesini. Mi fa piacere far conoscere questa bella esperienza, piena di passione che unisce, tramite le parole scritte da Chiara e le fotografie che ho scattato il 19 maggio scorso ad un concerto che ha coinvolto moltissime persone tra il dentro e il fuori.

(Mauro Presini)

Musica, chitarre e voci oltre le sbarre

di Chiara Marchesini

Mi chiamo Chiara, sono stata maestra elementare, appassionata di musica e chitarra fin da bambina e questa storia parte dall’anno scorso quando ho accettato una scommessa.

È possibile imparare a suonare uno strumento in carcere e perché? Questa era la domanda che ha dato il via al primo Corso di Chitarra Facile svoltosi tra settembre 2023 e marzo 2024, all’interno della Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara.

L’iniziativa mi è stata proposta dal Centro di Ascolto dell’Unità Pastorale Borgovado che si occupa di alcuni laboratori in favore dei detenuti, ed io…. ho accettato. Era la prima volta che entravo come volontaria in un carcere. In questa esperienza ho coinvolto l’amico Patrizio Fergnani, in qualità di animatore e musicista.

Il Corso, a cadenza settimanale, era rivolto ad un gruppo di circa 15 detenuti divisi in 2 gruppi, e aveva come obiettivo l’apprendimento dello strumento chitarra per accompagnamento con l’utilizzo di giri e accordi basilari, attraverso un metodo semplice che avevo sperimentato in ambito scolastico e con gruppi di adolescenti.

Le chitarre e i materiali necessari al corso ci sono stati donati dall’Orchestra a Plettro Gino Neri e dall’Unità Pastorale Borgovado.  Attraverso semplici schemi e diteggiature, con accenni alla notazione musicale, ma soprattutto attraverso la pratica utilizzando anche solo un accordo (il MI minore) si è partiti per un viaggio tra canzoni e ritmi, sperimentando cosa significa fare musica d’insieme: ascoltarsi, aspettarsi, pazientare, divertirsi, procedere insieme per realizzare una polifonia nel rispetto delle regole musicali fondamentali.

I partecipanti avevano competenze molto diverse, qualcuno sapeva già suonare, qualcuno sapeva cantare, ma qualcuno non conosceva per nulla la musica e neppure aveva mai usato uno strumento. Si è cercato quindi di creare un rapporto di tutoraggio, in modo che gli allievi esperti potessero affiancare i principianti nei momenti di allenamento durante la settimana.

La nostra disponibilità come animatori e la partecipazione dei detenuti ha dato vita ad una esperienza musicale molto bella e coinvolgente sul piano personale: l’incontro settimanale nell’auletta delle chitarre è diventato un momento di amicizia e di benessere all’interno del carcere, dove interni ed esterni si incontravano, dialogavano, comunicavano attraverso la musica e soprattutto si divertivano.

Tutto questo è confluito in un concerto tenutosi all’interno del Costantino Satta il 12 marzo 2024, a favore dei carcerati e del personale educativo, nel quale gli allievi detenuti hanno suonato e cantato con il supporto della Vagabanda, un ensamble musicale formato da noi animatori, dai nostri figli e da due amici, in totale 10 persone.

Sono state eseguite canzoni create da Patrizio (tra le quali Piove sempre sul bagnato, ideata sui primi 3 accordi imparati dai detenuti), ma anche brani nelle lingue dei detenuti stranieri, e alla fine alcune improvvisazioni rap di alcuni detenuti accompagnate dai nostri figli musicisti, molto apprezzate dal pubblico più giovane.

Lo stare insieme ai detenuti, parlare e provare con loro in un pomeriggio di musica e improvvisazioni è stato sorprendente per tutti, in particolare per i ragazzi che dall’esterno sono entrati a collaborare a questo progetto, che non si aspettavano di trovare in carcere delle “persone” che possono dare oltre che ricevere.

Questa esperienza in cui il “fuori” ha incontrato il “dentro”, in cui persone esterne sono entrate in carcere per collaborare con i detenuti ad un progetto musicale, ha dato il via, a settembre 2024, a una nuova scommessa: formare un coro composto da detenuti e volontari esterni CORO OUT/IN.

Il progetto ha subito raccolto molte adesioni da parte di donne e uomini provenienti da esperienze corali cittadine (Sonarte, Coro Mondine di Porporana, Coropercaso S. G. Lav., Coro S. Spirito) disponibili a partecipare come volontari. Ovviamente per tutti loro era la prima volta dentro un carcere; tanta la voglia di cominciare, misto di curiosità e anche un poco di incertezza…

Per i detenuti non è stata immediata l’adesione a questa esperienza: cantare è un mettersi in gioco più diretto che il suonare uno strumento, nel canto è il nostro corpo che si esprime, nel suonare abbiamo lo strumento come oggetto mediatore, non serve il linguaggio e la voce.  Perciò ho proposto ai detenuti del corso chitarra 2 di trattenersi a fine lezione e partecipare di seguito al momento del coro, in modo da accompagnare i canti con le chitarre.

Così, pian piano, alcuni partecipanti hanno cominciato anche a cantare e a vivere in benessere le due ore di “musica” tra loro e con i coristi esterni. Tutti hanno colto la potenzialità della musica come collante tra le persone, come mezzo di comunicazione e veicolo per le emozioni di ciascuno, interagendo con gli altri nel rispetto delle regole di “orchestrazione”: ascoltarsi, aspettarsi, seguire un ritmo insieme, collaborare.

Sorprendente scoprire quanti talenti musicali si nascondono anche dietro le sbarre, ed è stato bellissimo vedere la stessa gioia sprigionare dai volti dei detenuti e dei coristi esterni durante le improvvisazioni che ogni volta scaturivano dalle prove, lasciandosi andare con la musica.  Bellissimo alla fine di ogni incontro stringersi la mano, salutarsi come amici, sorridere nel canto, dire “oggi mi sono emozionato”, dire “grazie per la musica insieme”, e soprattutto pensare “queste sono persone come me”. Musica che unisce, musica che cura, musica che si prende cura….

E così, un accordo dopo l’altro, un canto dopo l’altro, anche i chitarristi meno esperti hanno suonato durante un concerto formato da canti e musiche suggerite anche dai detenuti stessi. Questo evento si è tenuto lunedì 19 maggio alle ore 17.00 nel teatro del carcere, a favore degli altri detenuti, del personale e dei vari volontari. Saranno riusciti i nostri eroi musicali a rallegrare e divertire il loro pubblico? Sarà stata vinta la scommessa iniziale?

Questo ve lo racconterò nel prossimo articolo!

Buona musica sempre.

Le immagini della cover e nel testo dell’articolo sono state scattate dall’autore.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Gianni Girotto: la grande finanza ha rovinato l’economia mondiale 

Gianni Girotto: la grande finanza ha rovinato l’economia mondiale

Gianni Girotto: la grande finanza ha rovinato l’economia mondiale 

Gianni Girotto è stato senatore del Movimento 5 Stelle per due legislature ed è attualmente Coordinatore del Comitato transizione ecologica e digitale di tale movimento. Ma Gianni è anche uno storico socio di Banca Etica e divulgatore su temi economici e di speculazione finanziaria. Gli abbiamo chiesto di fare luce su questo doppio tema del riarmo in Europa e dei dazi statunitensi.

Gianni Girotto, Foto di screenshot da formiche.net

In questi giorni la borsa ha fatto le montagne russe. Ma, ciononostante, quello che gli analisti sottolineano è che la borsa è da anni in crescita. Cosa sta succedendo?

La borsa è uno strumento inventato e utilizzato dagli esseri umani, pertanto riflette ciò che succede nel pianeta. Più precisamente lo amplifica, nel bene e nel male, perché da una parte si basa sulla fiducia nel futuro e questo genera spesso “l’effetto valanga” o “effetto farfalla”, dall’altra grazie alle tecnologie informatiche che hanno velocizzato di miliardi di volte la quantità di operazioni possibili e le relative tempistiche, si presta in maniera “eccellente” a una miriade di speculazioni, che rendono i prezzi dei vari titoli soggetti a variazioni estremamente dinamiche.

Ne abbiamo avuto un drammatico esempio negli anni 2007 e seguenti, con il crollo delle borse mondiali a partire dal fallimento della banca Lehman Brothers; questo episodio, lungi dall’essere a sé stante, era la conseguenza di un mercato finanziario in cui le regole erano e sono decisamente troppo permissive, e che ha assunto ormai un potere tale da riuscire ad impedire alla politica e alla società civile in generale di regolamentare le borse e la finanza in generale, in modo torni ad essere funzionale all’economia. In pratica cioè da molti anni il prezzo delle materie prime e di tutto ciò che viene scambiato nelle borse non è determinato dalla “normale” legge della domanda e dell’offerta, ma viene determinato purtroppo dalle speculazioni poste in essere su ciascun titolo. Ne abbiamo avuto un altro deleterio esempio nel 2022, quando i prezzi dell’energia esplosero, nonostante non fosse cambiata significativamente né la quantità della domanda, né la quantità e la disponibilità dell’offerta. 

Fatta questa doverosa e comunque minimale introduzione, la risposta alla domanda è che effettivamente la borsa da alcuni anni sta crescendo, ma questo perché aveva avuto un crollo appunto nel 2007 e quindi gli ultimi anni di crescita sono serviti semplicemente per riportarci ai livelli del 2007; e le montagne russe delle ultime settimane sono semplicemente il riflesso di un mercato che non riesce a prevedere che cosa farà il presidente degli Stati Uniti, nazione che nel bene e nel male influenza ancora moltissimo l’economia mondiale.

Da molti lati, ed anche dal tuo, ci sono richieste di regolamentazione e controllo della speculazione finanziaria, ce ne potresti illustrare alcune e parlare delle tue proposte?

C’è moltissimo da fare, e paradossalmente è la cosa più difficile non è tanto individuare delle soluzioni tecniche e legislative, ma cambiare la mentalità degli ultimi decenni che ha visto il verificarsi della cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”, cioè il fatto che molte, troppe persone, sono convinte, o comunque pensano/sperano di poter guadagnare per tutta la vita semplicemente muovendo il mouse e pigiando tasti del computer. Ma la finanza non crea alcuna ricchezza reale, semplicemente gestisce e sposta quella esistente. La ricchezza “vera” si crea “sporcandosi le mani” e cioè coltivando i campi, raccogliendo quanto vi cresce, trasformandolo, immagazzinandolo, allevando bestiame (anche se io sono contrario), costruendo case strade ponti ferrovie acciaio dadi viti bulloni vestiti presse torni acquedotti fognature ecc. ecc., e naturalmente sviluppando i servizi sanitari, ristorazione, turismo, intrattenimento, tutte cose comunque “reali”. La finanza dovrebbe quindi tornare a essere uno strumento per “fare credito” e investire appunto sull’economia reale, cioè con investimenti di medio lungo periodo, che nulla hanno a che vedere con le speculazioni attuali in cui le operazioni di compravendita durano pochi istanti. Pertanto i rimedi gli aggiustamenti necessari sono noti e dibattuti da tempo, e si possono riassumere con strumenti per aumentare la trasparenza e la tracciabilità delle operazioni, la chiusura di ogni forma di “paradiso fiscale” e strumenti per acquisire gettito fiscale dalle operazioni speculative, come la famosa “tobin tax” di cui si parla da decenni, ma non si è mai attuata perché come ho già detto la finanza, da sempre, domina la politica, e non viceversa. 

Ma che invece un’altra finanza sia possibile lo dimostrano le decine di banche etiche che sono nate negli ultimi decenni nel pianeta, e che tutte le analisi economiche valutano essere più redditizie e più sicure rispetto alle banche tradizionali, ovviamente questo prendendo in esame un periodo di tempo medio lungo. Quindi in realtà io non ho “mie” proposte, ma sto solo cercando di spingere le proposte che da decenni fanno noti economisti e altre persone di altissimo livello. Tra queste vi è la necessità che a qualsiasi persona venga data un’educazione finanziaria sufficiente a compiere scelte ponderate, cosa attualmente irrealizzata, ed è per questo che io personalmente ho creato nel 2024 un ciclo di video didattici che ho pubblicato nel mio blog e nei vari “social”.

Rispetto al tema del riarmo si è sottolineato che sono stati creati, dalle grandi holding finanziarie, dei pacchetti specifici che puntano sul riarmo. Ce lo puoi spiegare e illustrare?

Ci provo, ma siccome un’immagine vale mille parole e un video vale mille immagini, invito i gentili lettori a dedicare qualche minuto alla visione di questo video, uscito diversi anni fa, ma assolutamente attuale. Ora sperando abbiate visto e divulgato il suddetto video, che in pratica contiene già la spiegazione, ribadiamo anche qua che le armi sono il secondo mercato mondiale come controvalore (il primo sono le fonti fossili, cioè petrolio e gas), e quindi banalmente io posso investire nelle fabbriche delle armi. Queste, in caso di guerra, vedranno aumentare le loro possibilità di vendere i propri prodotti, e magari pure a prezzi maggiorati stante la “necessità”, e quindi incrementare i loro guadagni e di conseguenza la resa di chi, in loro, ha investito; insomma io posso investire su fabbriche che producono vestiti, cibi, infrastrutture, macchinari ecc. ma posso anche investire sulle armi, che sono un prodotto come un altro, dal punto di vista del mercato. Pertanto è bene informare tutti i cittadini che esiste la possibilità di uscire da questo “mercato di morte” affidando i propri risparmi e i propri investimenti alla finanza etica, che esclude dai propri affari qualsiasi operazione con la filiera delle armi, e questo vale sia che siate un pensionato con pochissimo denaro da portare in banca sia che abbiate maggiori disponibilità economiche e di investimento. Usciamo dalle “banche armate”, che purtroppo sono la grande maggioranza.

C’è sempre un intervento più forte di meccanismi di intelligenza artificiale nelle operazioni finanziarie, soldi che si generano da soli, senza più alcun legame con il mondo produttivo. Quali sono le conseguenze e i rischi di questi fenomeni?

Come ho detto all’inizio dell’intervista, l’informatica ha moltiplicato di miliardi di volte la velocità delle operazioni finanziarie, e quindi anche la loro quantità. In termini numerici si stima che più del 90% delle operazioni finanziarie globali non abbiano nulla a che fare con la vita reale, ma siano speculazioni fine a se stesse, che durano pochi istanti o comunque un tempo molto breve. Altri numeri ci dicono che almeno il 70% di queste operazioni sono decise in totale autonomia dai computer, e questo da molti anni, molto prima cioè che si iniziasse a utilizzare l’intelligenza artificiale. Capito questo si comprende come il mercato sia soggetto a rallentamenti e accelerazioni troppo brusche, perché decise per la maggior parte non da uomini che possono anche agire con un certo livello di prudenza, ma da computer che non fanno altro che ricercare la migliore opzione tra le milioni possibili ed eseguirla in frazioni di secondo, senza minimamente porsi il problema delle conseguenze. Pensate che il registro di tali operazioni finanziarie, che attualmente è preciso al milionesimo di secondo, verrà implementato alla precisione del miliardesimo di secondo, una cosa che nella vita reale non ha nessunissimo senso. 

Insomma come ho detto nella seconda domanda, si è purtroppo compiuta, di fatto, una finanziarizzazione dell’economia, che però arricchisce solo un ristretto oligopolio di operatori, in particolare i grandi fondi di investimento globale, e pertanto i detentori di quote degli stessi. Essi ormai sono proprietari di quote molto significative delle maggiori imprese manifatturiere mondiali, di giornali, radio, TV, canali sul web, e hanno pertanto un’influenza economica e mediatica talmente rilevante, da influire a loro piacimento le politiche globali, nazionali, regionali. Questo ha portato alla nota riduzione quantitativa della cosiddetta “classe media”, e in generale a una ancora più iniqua distribuzione della ricchezza.

Termino di rispondere alle tue domande sabato 12 aprile 2025, e come ciliegina sulla torta è proprio di oggi la notizia che il presidente degli Stati Uniti è sotto accusa per operazioni di “insider trading”, cioè in buona sostanza di aver approfittato del fatto che essendo lui stesso la causa dei recenti cali e risalite in borsa, abbia potuto approfittarne pesantemente investendo sui titoli giusti sapendone in anticipo appunto l’andamento. Ora è evidente che io non ho la minima prova se questo corrisponda a verità o meno, ma in questo caso la cosa importante è che l’ipotesi sta assolutamente in piedi da un punto di vista teorico, cioè colui che sapesse in anticipo l’avverarsi di una crisi, potrebbe legittimamente “scommettere”, sul calo della borsa e guadagnare cifre molto elevate, ripeto il tutto in modo assolutamente legale.

Pertanto la priorità delle priorità a livello globale è quella di porre in essere una pesante riforma del sistema bancario e finanziario generale, perché così come è strutturato ora non farà altro che acuire le differenze tra ricchi che diventeranno sempre più ricchi e una fascia media e povera che invece faticherà sempre di più per arrivare a fine mese. 

Questo naturalmente postula il fatto che la cittadinanza deve avere coscienza di quanto sopra, e non è quindi un caso che un osservatore attento non possa constatare che dell’argomento se ne parla poco e in maniera superficiale, perché la priorità delle priorità per questo ristretto oligopolio finanziario, è quello di mantenerci nell’ignoranza, e per il momento, complice una troppo grossa fetta di politici corrotti, ci sta riuscendo benissimo! 

 

Dalla malattia al movimento: viaggiare in bicicletta per gestire l’artrite reumatoide

Dalla malattia al movimento: viaggiare in bicicletta per gestire l’artrite reumatoide

“Possedere una bicicletta e lasciarla languire in cantina è come avere una lampada di Aladino e non pensare mai a strofinarla. Invece il genio benefico che si impossessa di voi al primo giro di ruota ha più di un desiderio sotto il pedale”
(Didier Tronchet – Piccolo trattato di ciclosofia – Ed: Net).

Languivo nel vedere “La Bianchina”, appoggiata al muro, dentro casa, immobile da troppo tempo. (non posseggo una cantina).

L’OK del reumatologo per poter ripartire con l’attività fisica si è fatto attendere un anno

e ci sono voluti quasi altri 12 mesi per rimontare in sella e dare più di un giro di ruota.

 

Ad Assisi

Questo tempo mi è servito per sciogliere: articolazioni, tendini, paure e ricostruire: muscoli, postura, sicurezza nel mio “nuovo” corpo.

L’artrite reumatoide è una patologia cronica, la posso contenere ma non se ne guarisce.

Ho vissuto e alle volte vivo tutt’ora questo come un lutto, la Chiara di prima, con un fisico prestante, una memoria ferrea ed energia da vendere, non c’è più.

Sconosciuta a me stessa e irriconoscibile, procedo per questa nuova strada priva di indicazioni. Guadagno nel tempo funzionalità, forza, desideri che la malattia aveva arrestato, riprendo a frequentare luoghi, persone, spazi che l’immobilità aveva ridotto drasticamente. Conquisto tornanti di vita, costantemente in salita, gradualmente il panorama attorno a me si apre sempre più, scorgo nuovi orizzonti e quelli già conosciuti li vedo con altri occhi.

Imparo, mi scopro, ritorno a me seppur diversa.

Alleata fondamentale in questo percorso di ri-ciclizzazione, oltre alla terapia farmacologica, è l’atleta di Ironman, personal trainer: Pamela Mancini, classe da vendere, temperamento leonino, pazienza sconfinata e tanta esperienza personale, ahimè, con l’artrite psoriasica. Pamela ha messo a punto su sé stessa un protocollo di allenamento che concilia artrite e sport di alta intensità.

Grazie a questo protocollo e alla sua vicinanza che mi sono ripensata su lunghe distanze con la Bianchina in assetto da cicloturismo. Per gratitudine nei suoi confronti e per mettermi alla prova, ho desiderato di arrivare da lei in bicicletta. 261 chilometri…km più, km meno.

Da questo desiderio è nato poi il progetto “Fermati quando devi, riparti quando puoi”

un concentrato di sfaccettature del mio essere e del processo a tappe dall’iniziale stato di malata a sopravvissuta e attualmente a: “ho forse ancora qualcosa da dire e pedalare”.

Le patologie reumatiche colpiscono circa 5 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione), sono malattie molto invalidanti che rendono la vita difficile. Non tutti rimontano in sella.
Il mio viaggio è patrocinato dalle due associazioni nazionali APMARR e ANMAR, che pedalano da decenni per garantire diritti, vicinanza e cultura. Ho scoperto che le patologie reumatiche colpiscono anche i bambini, alcune di esse sono meno gravi, altre potenzialmente mortali. Ingiusto e feroce quanto il morir in una gara ciclistica, o forse più…

Così da giugno sarà attiva una raccolta fondi per coprire: le spese di viaggio; una pubblicazione a posteriori e promuovere proprio progetti a favore di bambini con patologie reumatiche e sport.

Viaggio in solitaria e ritengo che la malattia, il dolore, il lutto per parti di sé e della propria vita perse, siano esperienze personali e uniche, difficilmente condivisibili eventualmente raccontabili, ma non mi sento mai sola, forse in fondo in fondo abbiamo desideri condivisi più di quanto immaginiamo.

In copertina: primo piano della “Bianchina” al passo del Cornello. 

Se ti va seguimi su Facebook, o su Instagram, oppure sul mio sito 

 

Parole a capo
«Per Gaza»

«Per Gaza»

In questo numero di “Parole a Capo” abbiamo scelto alcune poesie che parlano del dramma spaventoso di Gaza, della pulizia etnica verso la popolazione palestinese in corso da parte del Governo israeliano e del suo capo Benjamin Netanyahu. Sono alcune gocce in un mare in cui c’è un’infinita disperazione per una strage che non conosce fine.

Preghiera per Gaza

Uso ogni notte
la parola insonne
viva nel Cristo.
Lampada ad olio
minuta ma forte,
in tenebra oscura.
Porto il dolore
inaudito
d’anime salve
straziate dal Male.

(Stefano Agnelli)

*

Vorrei cantarti bambina mia
Vorrei cantarti bambina mia
nenie che il vento ha portato via
insieme a calci, stivali e fucili
nell’odio uniti, soldati e civili
Tira su il secchio, tira la corda
ma l’acqua è poca e sempre più sporca
Portami il cesto, raccolgo le olive
quelle che un tempo riempivan le stive
Scarse, nemmeno coprono il fondo
Terra bruciata in un solo secondo
Tira la corda, tira su il secchio
L’odio ritorna dal giovane al vecchio
e non ti lascio né casa né terra
ma che non metta radici la guerra
qui, nel tuo cuore piccolo e puro
Tira la corda, va incontro al futuro
(Sara Ferraglia)
*
Gira la ruota
Nel teatro dell’orrore, la Striscia si contorce,
una ferita aperta nel cuore del mondo,
dove il dolore si fa voce e silenzio,
e le lacrime sono pioggia di speranza spezzata.
Aiuti di cartone, briciole di vita,
ombre di un inganno che si ripete,
camion di miseria, di sogni infranti,
mentre il mare di sofferenza,
di fame e di morte si ingrandisce, inesorabile.
Tra blocchi di ferro e mura di silenzio, gli abitanti dei Territori Occupati
sfidano la paura,
attraversano il nulla, sotto occhi di pietra,
per un boccone di pane, per un soffio di libertà.
Tutto è scena, tutto è farsa,
una pantomima di umanità negata,
le parole dei potenti sono eco vuote,
mentre il sangue si mescola alla polvere, senza pietà.
Il globo guarda, diviso tra silenzio e protesta,
tra mille voci che gridano e il vuoto di chi tace,
nel belpaese, tra ombre di un passato che non si dimentica,
si ripetono menzogne, si nasconde il dolore.
L’entità non cerca nessuno,
oltre il sogno di un’occupazione eterna,
dove gli abitanti dei Territori
sono ombre da cancellare,
e ogni resistenza diventa minaccia da spegnere.
Chi distingue, chi giustifica,
è complice di questa ferita senza fine,
perché il vero volto di questa guerra
non è scritto nel sangue innocente,
ma nel silenzio di chi guarda e tace,
mentre l’inferno si spalanca sulla terra.
E il pensiero di chi ancora sente questa ferita che non si rimargina,
finché l’ingiustizia regnerà,
finché la ruota a girare continuerà,
finché l’umanità dal non innocente sonno
si desterà.
(Rosa Colella)
*
Nuvole rosse
E’
un cielo
Ansimante.
Apocalittico.
Rombi Rimbombi Boati.
Deflagrazioni.
Corpi maciullati. Gridi disperati.
Anche le nuvole
cadono giù a brandelli.
Cariche di gemiti e di lamenti.
Scoppiano di dolore.
Scoppiano di pena.
Nuvole rosse più rosse del fuoco
a grappoli si lasciano andare
e nel mare
vanno a morire.
E qui
c’è gente
indifferente
che resta ancora a guardare.
(Bruna Starrantino)
*
Gaza ultimo giorno
Gaza ultimo giorno ultima
fermata dell’umanità
a Gaza si sperimentano
tutte le armi più potenti
ultimi derivati della tecnica
per uccidere fino all’ultimo bambino
a Gaza c’è uno schermo di vetro
dove possiamo vedere tutti
la depravazione più diabolica
il fanatismo più esaltato
e i cecchini più precisi
campioni del mondo di tiro al bambino
al giornalista al dottore agli infermieri
a Gaza i poeti scrivono versi
col loro sangue, prima di essere uccisi
a Gaza c’è l’assenza più tangibile di dio
a Gaza c’è il grido più forte
più disperato e più muto
per le orecchie più sorde
da Gaza il mondo è lontano
e si gira dall’altra parte
a Gaza non c’è più il pane
non ci sono più medicine
a Gaza non ci sono più strade
non ci sono più palazzi scuole ospedali
a Gaza non c’è più acqua
non c’è più gas né elettricità
a Gaza non ci sono più alberi
non ci sono più fiori né giardini
a Gaza sono tornati i carretti
trainati da stanchi e affamati muli
a Gaza c’è la fame e la sete
a Gaza c’è la carestia
la catastrofe si chiama Israele
a Gaza si bombarda ogni giorno
a Gaza si muore ogni giorno
più volte al giorno
a Gaza la morte è un contatore
che gira e gira e non smette mai
di girare, ma si è perso il conto
a Gaza non ci sono più lacrime
non ci sono più le parole
a Gaza….mi si strozza il verso
se Gaza muore, moriamo tutti
(Massimo Teti)
*
Vedevo il cielo nero avvampare
all’improvviso, senza tregua
non trovavo una destinazione ai tramonti
volevo uscire dalla terra
farmi la mia tana e la mia vela
i bambini, le loro madri
e i loro padri che morivano
come muoiono i poveri
lottando per un po’ di dignità e un po’ di cibo
i neonati giacevano a pancia in su
come scarafaggi indifesi
contro le mura sgretolate
la sera morbida e chiara
faceva venire voglia di non morire mai
e noi aspettavamo un miracolo
che copiasse i percorsi delle stelle
(Rita Bonetti)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 286° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Momenti di tensione e vari arresti per la marcia dei pacifisti israelo-palestinesi verso Gaza

Momenti di tensione e vari arresti per la marcia dei pacifisti israelo-palestinesi verso Gaza 

Succedeva ieri, domenica 18 maggio. Doveva essere il giorno inaugurale della pulizia etnica una volta per tutte, con le operazioni di terra che avrebbero definitivamente ammassato a sud della striscia di Gaza una popolazione già stremata da 19 mesi di guerra, gli ultimi dei quali segnati dal blocco degli aiuti, dalla pianificata carestia, dalla deportazione come unico possibile orizzonte per i sopravvissuti: l’apocalisse della quale siamo tutti  da mesi impotenti testimoni…

E invece (colpo di scena) ecco che nel primo pomeriggio, sulle stesse chat che avevano contribuito a promuovere il People Peace Summit di Gerusalemme dello scorso 8 e 9 maggio, arriva la seguente notizia/convocazione:

E’ oggi! Molla tutto e unisciti a noi. Appuntamento alle 17.000 alla Stazione di Sderot per la marcia verso il Muro di Gaza: basta con la guerra, tutti a casa! Attivisti anti-guerra e anti-carestia, famiglie degli ostaggi, madri dei soldati, riservisti: mobilitiamoci tutti, finiamola con questa follia! 

Siamo di fronte a un’emergenza. Nelle prossime ore, giorni, Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu progettano di invadere la striscia con decine di migliaia di soldati per affamare ancor più bambini, uccidere ancor più civili palestinesi, evacuare ancor più nuclei familiari, e senz’altro sacrificare gli ostaggi oltre a chissà quanti addetti alla cosiddetta sicurezza, con l’unico obiettivo di insediarsi nella striscia e impadronirsi di Gaza.

Oggi (18 maggio) sospendiamo qualsiasi altro impegno per essere il più numerosi possibile alle 17 alla stazione ferroviaria di Sderot. Da lì ci metteremo poi in marcia verso il muro di Gaza dove pianteremo le tende per le notte, creeremo azioni di disturbo, faremo massa critica.” 

Il messaggio si concludeva con le istruzione circa come arrivare: via treno, bus pubblici o privati, auto comunitarie… e qualche ora dopo, dalle pagine social di vari attivisti partecipi di quel variegato ‘Campo di Pace’ che da tempo seguiamo su questa testata, ecco le foto della Sderot Station riempirsi di gente, con il post (uno fra i tanti): “… sta arrivando gente da tutta Israele! E’ chiaro a tutti che questa è una situazione di emergenza… E’ ora di chiedere seriamente la fine della guerra, denunciare l’abbandono degli ostaggi e mettere fine a questo indiscriminato massacro dei civili!”

Dalla pagina FB di un’altra attivista alcuni scatti presi durante in viaggio in treno: per esempio per documentare il trasporto di un carro armato, in viaggio verso Gaza; e lo scompartimento pieno di soldati, “giovani ragazzi che vengono mandati a servire in una guerra brutale e delirante, mettendo in pericolo se stessi, uccidendo e magari venendo anche uccisi, per ragioni di vendetta che non esita a utilizzare l’arma della fame.” 

Solo mezz’ora dopo: la marcia è cominciata e dalle brevi riprese che circolano in rete si capisce che sono in parecchie centinaia. Eloquente striscione con i volti di Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu ad aprire il corteo, slogan scanditi con convinzione…

… ma poi, h 18, è già tutt’altro film, con gli stessi attivisti che aprivano la marcia reggendo lo striscione, buttati a terra e malmenati dagli sbirri. I quali però appaiono più che altro rabbiosi di sorpresa: niente caschi, né scudi, né tenuta antisommossa, e però quella massa di pacifisti vocianti di slogan al rullo dei tamburi devono essere fermati…

Il pomeriggio si conclude con l’arresto di Alon Lee Green, personaggio ben noto nell’ambito del pacifismo israelo-palestinese, nel ruolo di co-direttore di Standing Together, movimento arabo-ebraico popolarissimo tra i giovani, sedi operative in varie città d’Israele e Cisgiordania. Arrestati insieme a lui altri nove: violazione dell’ordine pubblico, blocco di traffico, deviazione dal percorso inizialmente concordato, i soliti capi d’imputazione.

La replica di Standing Together: “Questo arresto è un tentativo di mettere a tacere la protesta di un crescente numero di persone, israeliani e palestinesi, contro le uccisioni, la fame, le devastazioni.  Non ci fermeremo finché la guerra non finirà e finché non verrà raggiunto un accordo che riporti indietro tutti gli ostaggi e garantisca un futuro di sicurezza per tutti. Questa protesta non può essere fermata.”

Cover: Marcia israelo-palestinese verso Gaza (Foto di Standing Together)

IL CANE NON HA ABBAIATO. La mafia a casa nostra
Incontro con l’autore, Reggio Emilia, 23 maggio

IL CANE NON HA ABBAIATO. La mafia a casa nostra. 
Incontro con l’autore Werther Cigarini,
Reggio Emilia, 23 maggio

IL CANE NON HA ABBAIATO
La mafia a casa nostra

Incontro pubblico 

 

Il 23 maggio p. v. saranno trascorsi 33 anni dalla strage di Capaci, dove furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, la magistrata Francesca Morvillo, moglie di Falcone, e i tre uomini della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

 

Il movimento Agende Rosse Rita Atria Reggio Emilia ritiene che il modo migliore per

commemorare le vittime di mafia sia continuare a impegnarsi nella lotta alla criminalità organizzata e in questa ricorrenza promuove un evento pubblico: presso la Casa di Quartiere-Orti Spallanzani (V. Toscanini 20,  Reggio Emilia).

Alle ore 18, 15 si terrà la presentazione del libro “Il cane non ha abbaiato” di Werther Cigarini, già sindaco di Carpi. Dialogheranno con l’autore,  Francesco Maria Caruso, già presidente del collegio giudicante del processo Aemilia ed Enrico Bini, già sindaco di Castelnovo né Monti. La conduzione dei lavori sarà curata da Paolo Bonacini, giornalista e scrittore.

Con questo romanzo giallo Werther Cigarini affronta il tema della penetrazione delle mafie nel carpigiano, ma con uno sguardo che comprende l’Emilia nel suo complesso.

Werther Cigarini con il suo ultimo libro

La trama ruota intorno all’ipotesi della presenza della mafia in un territorio apparentemente “incontaminato”, quello di Carpi e comuni limitrofi, evidenziando come strana anomalia  che questi territori siano liberi dalla mafia quando questa è ben radicata tutt’intorno (nel modenese e nel reggiano), come documentato da inchieste, processi, arresti e sequestri a partire dal 2015.

Nel corso delle indagini che si sviluppano attorno al fatto criminale che dà il via al giallo -in un contesto in cui il confine tra legalità e criminalità appare sempre più sfumato- emergono interrogativi legittimi, cui si cerca di dare risposte realistiche, suffragate da dati e fatti reali, che sollecitano il lettore a riflettere ed a porsi domande a sua volta.

“Il cane non ha abbaiato” vuole attirare l’attenzione sul fenomeno mafioso, lanciare l’allarme e sollecitare istituzioni e società civile ad attivarsi coi propri mezzi per individuare i sintomi del radicamento mafioso nella propria realtà.

Questa iniziativa sarà dunque un’occasione anche per la nostra città per comprendere come far tesoro dell’esperienza, visto che qui il processo Aemilia e i successivi ad esso collegati hanno messo in luce la gravità del radicamento mafioso. Non abbassare  la guardia, ma vigilare e attrezzarsi  per un’azione di contrasto efficace del fenomeno, tutt’altro che sconfitto.

 Movimento Agende Rosse Gruppo Rita Atria di Reggio Emilia e Provincia.

Cover: Werther Cigarini

La stoffa delle donne /
Nellie Bly, una ragazza orfana e solitaria

La stoffa delle donne: Nellie Bly, una ragazza orfana e solitaria

Lei è Elizabeth Jane Cochran.

Nasce nella contea di Armstrong, l’odierna Pittsburgh in Pennsylvania, il 5 maggio 1864. Suo padre Michael Cochran,  un ricco possidente rimasto vedovo con dieci figli, sposa la madre di Elizabeth, Mary Jane Kennedy, con la quale ne avrà altri cinque. La prima infanzia di Elizabeth era trascorsa serena, fino a quando la prematura morte del padre fa precipitare la famiglia in un vero e proprio dissesto finanziario, a causa della spartizione dell’eredità.

La madre si vede costretta a lasciare la casa e ben presto si risposa con un uomo che si rivelerà violento ed etilista, tanto da indurla al divorzio. La giovane Elizabeth che all’epoca era impegnata negli studi per inseguire il suo sogno di diventare maestra, dovrà abbandonare tutto e svolgere lavoretti saltuari per poter contribuire al mantenimento dei fratelli. Come se non bastasse, sarà anche chiamata a testimoniare per la causa intentata dalla madre a seguito degli abusi subiti nel suo secondo matrimonio.

Tutte queste dure esperienze indubbiamente contribuirono a fortificare e forgiare il carattere della giovane che sentiva crescere dentro di sé un forte istinto di indipendenza e di sensibilità verso le ingiustizie ed i soprusi. A sua insaputa, la vita, che sino ad allora le aveva riservato ben poche gioie, sta per prendere una piega inaspettata.
Nel 1885 uno dei principali quotidiani della sua città, il Pittsburgh Dispatch, pubblica un articolo intitolato “What girl are good for” (a cosa servono le ragazze) dai contenuti fortemente misogini, nel quale l’editorialista argomenta che il compito delle ragazze è quello di dedicarsi solo alle faccende domestiche e di accudimento. Inoltre critica pesantemente coloro che avevano l’ambizione di lavorare e studiare, definendola “un’aberrazione”.

Al giornale “piovono” numerose lettere di protesta, e tra queste anche quella della ventunenne Elizabeth, che si firma con lo pseudonimo “Lonely Orphan girl” (ragazza orfana e solitaria). Il direttore del giornale, George Madden, incuriosito dalla lettera dal tono estremamente deciso, pubblica un annuncio nel quale chiede all’autrice di presentarsi alla redazione del giornale. Fu così che Elizabeth ebbe il suo primo lavoro come giornalista e George Madden trovò per lei uno pseudonimo “Nellie Bly” (in quanto la professione di giornalista era poco usuale per una donna) ispirandosi al titolo di una canzone di Stephen Foster, autore di un altro brano, “Oh Susanna”, molto in voga a quei tempi.

Nellie inizia a scrivere con grande passione articoli “forti”, documentando le condizioni lavorative delle donne (esperienza questa vissuta sulla propria pelle), lo sfruttamento del lavoro minorile, degli operai, dei contadini e degli immigrati.
Si occupa anche di questioni legate al matrimonio ed al divorzio Fu una delle poche giornaliste ad intervistare Belva Ann Lockwood, la prima donna candidata alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, attiva nella lotta per i diritti delle donne.

Ma gli articoli di Nellie non passano inosservati e numerosi inserzionisti del Pittsburgh Dispatch, infastiditi dalla risonanza che i suoi scritti suscitano nell’opinione pubblica, minacciano di bloccare i finanziamenti al giornale.
Il direttore allora, per non correre rischi, affida alla giovane giornalista rubriche di moda e costume, argomenti all’epoca ritenuti molto più consoni ad una donna. Ma Nellie non ci sta, convince Madden ad inviarla come corrispondente estera in Messico, da dove tra il 1886 ed il 1887 pubblicherà numerosi articoli di denuncia sulle precarie condizioni sociali di quel Paese, soffocato dal potere di Porfirio Diaz.
Dopo soli sei mesi il Governo messicano la espelle, le sue inchieste erano troppo scomode, racconta dello sfruttamento dei contadini e della corruzione imperante nel Paese e della detenzione di un giornalista che nei suoi articoli aveva denunciato proprio questo malcostume.

Ritornata in patria, contatta Joseph Pulitzer, ebreo di origini ungheresi e proprietario del giornale New York World, diventato in pochi anni, grazie a lui, uno dei quotidiani più influenti degli Stati Uniti. Pulitzer, puntando su uno stile sensazionalistico ed innovativo, racconta storie di immigrati e di appartenenti alle classi meno abbienti. Era noto descrivesse la cronaca nera “condita” spesso di elementi scabrosi, più o meno reali, per rendere più accattivanti le notizie.

Fu così che Nellie trovo terreno fertile per le sue inchieste ed avanzò a Pulitzer la proposta di poter condurre un reportage sui manicomi. Guidata dallo stile che aveva da sempre contraddistinto il suo lavoro, concorda assieme alla redazione del giornale di introdursi, sotto copertura, in un manicomio di New York, allo scopo di documentare la condizione delle donne ricoverate. Organizza tutto nei minimi particolari, deve fingersi pazza e soprattutto deve essere credibile, studia le espressioni del suo volto davanti ad uno specchio, si concentra il più possibile sul mantenere la fissità dello sguardo ed indossa i vestiti più vecchi e malconci che possiede. Si presenta così presso una casa di accoglienza per donne sole ed indigenti. Il percorso a piedi verso questa destinazione è una sorta di viaggio iniziatico e metamorfico, durante il quale avviene una vera e propria trasformazione, con Nellie Bly che diviene Nellie Brown, una ragazza povera e squilibrata. All’interno della casa di accoglienza Nellie mette in scena il suo copione studiato ad arte, si mostra smemorata ed incapace di badare a se stessa, spaventa volutamente con atteggiamenti inconsueti le altre ospiti. La sua “performance” è così perfetta che dopo pochi giorni la direttrice della struttura decide di condurre la ragazza presso un commissariato, nel tentativo di effettuare almeno un riconoscimento d’identità, dal momento che Nellie finge di non ricordare più nulla. Dopo qualche eccesso d’ira sempre accompagnati da una totale amnesia, un giudice, corroborato dalla diagnosi frettolosa di un medico, decide per la giovane il trasferimento all’ospedale psichiatrico “Bellevue”. Trascorso un breve periodo in osservazione, per Nellie si apre il portone del manicomio femminile per alienate sull’isola di Blackwell, un lembo di terra a pochi metri dalle rive di Manhattan. Luogo tristemente famoso, in quanto per le pazienti non era possibile dimostrare la propria sanità mentale e per loro il ricovero si trasformava in un vero e proprio ergastolo.

Giova ricordare che nel 1842 Charles Dickens visitò la struttura rimanendone sconvolto, tanto che ne fece una dettagliata descrizione nel suo “American notes” (Diario di viaggio). In quell’epoca entrare in una cosiddetta “istituzione totale” era assai facile ma pressoché impossibile uscirne. Nellie trascorse dieci lunghissimi e faticosissimi giorni tra quelle mura, riuscì a documentare, vivendole sulla propria pelle, le innumerevoli violenze ed ingiustizie che venivano perpetrate ai danni delle pazienti.

All’interno dell’istituto, la cui capienza massima era di mille pazienti,  erano ricoverate 1600 donne, molte di loro erano immigrate che non riuscivano a comunicare con la Polizia, altre non soffrivano di patologie psichiatriche ma erano semplicemente donne che vivevano per strada e non riuscivano a sbarcare il lunario. Pochissimi erano i medici e gli infermieri e le condizioni igienico-sanitarie erano disastrose, per non parlare poi delle innumerevoli violenze ed abusi che erano all’ordine del giorno. Il fatto incredibile al quale Nellie stessa non si rassegna è, come cita testualmente, “vi è una cosa, soprattutto, che mi lascia oltremodo perplessa: nel momento stesso in cui fui internata cessai di atteggiarmi a pazza e mi comportai in modo assolutamente ordinario. E tuttavia più parlavo ed agivo razionalmente, più ero ritenuta da tutti i sanitari afflitta da follia”.

Allo scadere del decimo giorno di reclusione sull’isola di Blackwell, come da accordi stipulati con la redazione del giornale, Nellie riacquista finalmente la libertà. Decide di mettere tutta la sua esperienza nero su bianco, iniziando a raccontare del “Pensionato per donne sole”, dell’ospedale psichiatrico ed infine del Manicomio. La sua inchiesta a puntate, dal titolo “Ten Days in a Mad House “ (Dieci giorni in manicomio) solleva un vero e proprio polverone, con un’impennata di vendite del giornale, tanto che il Gran Giurì inizia una serie di ispezioni ed interrogatori, chiamando Nellie a testimoniare.

Ormai la nostra giornalista non solo è divenuta una firma di punta, famosa e rispettata dai colleghi ma, fatto ancora più importante, con le sue inchieste riesce a scuotere l’opinione pubblica. Nel giro di poco tempo il Governo decide di stanziare un milione di dollari per migliorare le condizioni all’interno degli istituti psichiatrici.

L’attività giornalistica di Nellie non si esaurisce certo dopo questa esperienza e nel 1913, quando le Suffragiste marciano a Washington per rivendicare il diritto di voto per le donne, lei è una delle poche giornaliste a documentare dal vivo l’evento. Le sue inchieste sotto copertura la porteranno poi a farsi arrestare per rivelare le condizioni delle donne negli istituti di pena, a farsi assumere in una fabbrica del Lower East Side, per poi pubblicare un articolo denuncia sul New York Word dal titolo “Nellie Bly ci racconta cosa significa essere una schiava bianca”. La sua fama è ormai inarrestabile ed arriva a fingersi la moglie di un industriale farmaceutico per riuscire a far emergere i nomi di politici corrotti. Scrive ogni suo articolo con grande passione e professionalità senza tralasciare di proporre soluzioni nel tentativo di migliorare le realtà che la circonda, con particolare riguardo per le donne e le persone fragili. Il suo è il primo esempio di giornalismo investigativo sottocopertura. Le sue inchieste sono vere e proprie denunce mirate a sollevare il velo di omertà e corruzione, svelando ciò che la società ostinatamente tenta di occultare.

Ma non è tutto qui, Nellie è tanto altro ancora…e la sua storia continua…tra due settimane

Leggi le altre puntate de La stoffa delle donne di Caterina Orsoni:
07.03.25  La stoffa delle donne
05.04.25 Carmen Mondragon “Occhi color smeraldo”
26.04.25 Lucia Joyce, la Sirena dall’anima fragile

DUE POETI FERRARESI AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO

DUE POETI FERRARESI AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO

È successo veramente! L’editore Jean Luc Bertoni, di Perugia, ha invitato i poeti, dei quali ha pubblicato una silloge negli ultimi mesi, a presentare il proprio testo al Salone del libro di Torino.

Così domenica 18 maggio 2025, nella sala Oval del Lingotto è accaduto che il presidente e la vice presidente dell’Associazione culturale Ultimo Rosso, Pier Luigi Guerrini e Cecilia Bolzani, abbiamo partecipato all’evento coordinato dal curatore della collana Aurora di Poesia edizioni Bertoni editore, Bruno Mohorovich, per presentare le proprie sillogi poetiche “ L’amnistia del silenzio” di P.L. Guerrini e “ Il silenzio si fa musica “ di C. Bolzani.

Pier Luigi Guerrini e Cecilia Bolzani al Salone del libro di Torino 2025

Una trentina di poete e poeti provenienti da tutte le parti d’Italia, di età ed esperienze diverse, ma accomunati dall’aver visto spiccare il volo alla propria opera, si sono avvicendati al microfono di Mohorovich per raccontare da dove nascono i propri versi, quali siano le occasioni che generano l’ispirazione, quali i temi che prediligono e per leggere alcuni testi.

Sentimenti, sensazioni, momenti catartici, drammi quotidiani, empatica relazione con la natura, hanno fluttuato nell’aria avvolgendo il cuore dell’attento pubblico presente. Più volte è stato ribadito il potere terapeutico della poesia, che consente di ripensare e trasformare in parole preziose i propri vissuti interiori, consentendo così di ritrovare, e di donare, la serenità o almeno la quiete dell’anima.

Il linguaggio scelto dagli autori è spesso l’italiano, ma non sono mancati emozionanti testi in dialetto napoletano ed anche in francese. In ogni caso si tratta di parole che accendono l’immaginazione e la con-passione reciproca.

Nello spazio dedicato alla poesia l’atmosfera era molto diversa da quella vivace, ma cacofonica, di cui tutti abbiamo fatto esperienza passeggiando tra gli stand del Salone torinese. L’ascolto attento, il senso di appartenenza, un profondo rispetto reciproco, sorrisi sinceri, approvazioni ed applausi, hanno infatti sostenuto ogni poeta.Come i co-fondatori di Ultimo Rosso sostengono, la poesia parla al cuore e supera ogni distanza tra coloro che sanno mettersi in ascolto.

Ritornando a Ferrara dopo questa esaltante giornata, i due poeti riprenderanno pertanto la propria missione di condivisione e divulgazione della poesia, organizzando eventi ad essa dedicati in diversi luoghi della città, del comune e della provincia.

Di seguito pubblichiamo due delle poesie lette all’incontro

 

LE MADRI BENEDICONO
di Cecilia Bolzani

Questi volti seri
avvolti da teli termici
sono figli e figlie
Le loro madri
li hanno visti partire
soffrendo e sperando
col cuore spezzato
con una preghiera
con un talismano
una lunga via verso nord
poi il deserto
poi il mare
poi… le onde
alte, su questo guscio
aiuto, madre aiuto
giovani vecchie donne
a lavorare
a cucinare
con la mente a nord
il cuore lo dice
il cuore lo sa
se il pericolo è superato
aspettando
una chiamata
mamma sono a nord
figlia hai mangiato
dove dormi
ti rispettano
figlia….
Ringrazia chi ti accoglie
pregherò per loro
ringrazia per me
tua madre li benedice.

 

FUORI POSTO
di Pier Luigi Guerrini

prova parvo privo di voce
trova torva trave di croce
selva valse troppe illusioni
rupe ch’attende acque pure.
pasqua si prende il silenzio
tutto per sé.
traverso di fango
mi chino e piango.
rivolto nel sangue
pietà grondanti
e il cielo non è disposto
a rincorrere
il mio esser fuori posto.
nel mare di burrasche,
tante navi fuori porto.

Per leggere gli articoli di Cecilia Bolzani su Periscopio clicca sul nome dell’Autrice

 

Surrealismi a Ferrara, una mostra con vista e suggestioni d’arte locale e internazionale fino al 23 maggio 2025

Surrealismi a Ferrara, una mostra con vista e suggestioni d’arte locale e internazionale fino al 23 maggio 2025

“Artisti locali fortemente visionari, onirici, metafisici e spesso appartati, operanti al di fuori delle logiche di gruppo”. È questo il criterio di selezione delle opere della mostra dedicata a Surrealismi a Ferrara – Cimicchi e gli altri tra 1950 e 1980 curata dal critico Lucio Scardino e visitabile fino a domenica 25 maggio 2025.

L’allestimento, esposto nei nuovi spazi della sala della Banca Mediolanum, con vista panoramica sul centro storico di Ferrara (corso Porta Reno 17), consente di spaziare con gli occhi e la fantasia tra suggestioni d’arte locale, internazionale e panoramica mozzafiato sui monumenti simbolo di Ferrara.

Il critico Lucio Scardino

Protagonista principale delle opere esposte è Rolando Maria Cimicchi (1924-1979). Definito nel catalogo come “artista di complessa personalità”, Cimicchi  è pittore che “a lungo fra noi fu vero ‘poeta surreale’, a cominciare dalla sua esistenza inquieta, che lo portò a vivere a Parigi (dove studiò direttamente le opere di Breton), Africa, Mato Grosso, Tibet”.

Nove i suoi dipinti ad olio su tela in mostra, oltre a un disegno a china su carta, che mostrano come da metà degli anni Sessanta abbia assorbito nel suo lavoro gli influssi surrealisti. Improntate a una forma onirica di desolazione quasi extraterrestre sono in particolare le tele, dove – come ha sottolineato il curatore Scardino – “l’artista trasforma i luoghi ferraresi in paesaggi d’ispirazione lunare. E non a caso sono poi venuto a scoprire che aveva la collezione completa della serie di romanzi di fantascienza di Urania”.

Un tema che oggi evoca le opere di un’artista in vetta alla scena dell’arte contemporanea internazionale, quale Yayoi Kusama (giapponese, classe 1929), nota per l’uso dei pois nei suoi lavori, che spesso si trasformano in installazioni colorate dalle forme insolite che trasportano il visitatore in mondi surreali come Infinity Mirror Room e Phallic’s Field.

Cimicchi – Senza titolo,1970
Yayoi Kusama – Infinity da sito web ArtWizard.eu
Cimicchi – Senza titolo, 1973

La mostra nella sala Mediolanum è integrata con opere degli altri artisti scomparsi, che a Ferrara e territori limitrofi diedero il loro contributo alla realizzazione di scenari di stampo surrealista.

Si va dal mantovano Lanfranco (1920-2019), passando per Ervardo Fioravanti (1921-2012), Marco Borghi (1942-2018), Walther Jervolino (1944-2012), Antenore Magri (1907-1078), Adelchi Riccardo Mantovani (1942-2023, già celebrato da una mostra monografica al Castello Estense di Ferrara), Alberto Poli (1925-2023), Giorgio Sallustio Rossi (1891-1982), Franco Floriano Salani (1923-1993), Tito Salomoni (1928-1986), Franco Tartari (1934-1997), Antonio Torresi (1951-2012), il giocoso e colto Gabriele Turola (1945-2019), Vito Violati Tescari (1906-1979), Romano Vitali (1933-2018).

Il catalogo della mostra sui “Surrealismi a Ferrara” a cura di Scardino

“Surrealismi a Ferrara – Cimicchi e gli altri (1950 e 1980)”, sala Neo-Estense, Banca Mediolanum, corso Porta Reno 17, Ferrara – dal 30 aprile al 25 maggio 2025,  ingresso libero.
Per accedere occorre suonare o contattare gli uffici negli orari di apertura della banca, dal lunedì al venerdì al tel. 0532 243065, o Cristiano Delfini cell. 3389661447

Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti clicca sul nome dell’autrice

Parole e figure / Io sono più alto di te! Ridere contro i bulli

Esce in libreria, il 23 maggio, con Orecchio Acerbo editore, “Io sono più alto di te!”, della coreana Kyung Hye-won. Una risata contro i bulli

Un libro di grande statura, nel vero senso della parola.

L’albero è la casa di Picchio, ma è anche il metro di molti animali. Un bel giorno, parte la gara del più alto: tra Talpa e Scoiattolo vince Talpa, ma perde con Coniglio che, a sua volta, è sconfitto da Maiale. Poi è il turno di Tigre che viene superata da Coccodrillo, sconfitto da Orso. Lui già assapora la vittoria. Peccato che l’infido Serpente, uscito dalle fronde, strisci sul tronco e, con la sua codina, superi di poco il presunto vincitore. Ma le sconfitte bruciano assai sulla pelle degli arroganti…

Kyung Hye-won è altissima nella qualità delle sue storie, alla sua prima apparizione in Italia, ma già molto conosciuta anche negli Stati Uniti: la sua gara – una vera e propria contesa intorno al tronco di un albero tra un bel po’ di animali nel bosco – è esilarante e molto “vera”!

Perché ridere contro i bulli fa sempre bene!

Nata in Corea, a Suwon nel 1981, e diventata molto conosciuta e apprezzata in tutto il mondo per libri come “Bigger than you” – pubblicato addirittura prima negli Usa e solo dopo in Corea – oppure “Elevator”, tradotti in moltissime lingue, Kyung Hye-won ha iniziato la sua carriera universitaria studiando letteratura inglese. Poi cambia strada. La sua attività di illustratrice comincia nel 2004, mentre il suo primo libro di cui è anche autrice del testo, “Special Friends”, viene pubblicato nel 2014. I suoi titoli più rappresentativi, tutti estremamente divertenti e per un pubblico di piccoli, oltre “Elevator” e “Bigger than you” sono “Dinosaur X-Ray” con cui ha vinto il Taiwan Open Book Award (2018), “I’m a Lion” e “My Big, Secret Friend”. Durante una recente intervista, ha spiegato che il suo processo di creazione prende sempre l’avvio da ciò che le accade intorno e dalle sensazioni che capta nell’aria nella vita di tutti i giorni. La sua abilità sta nel renderle sempre molto comiche.

Piedi, cammini e simboli

Piedi, cammini e simboli

Fare a pezzi un corpo e concentrarsi su uno dei suoi organi è un vizio da necrofili, un dovere da chirurghi, un vezzo poetico. Eppur a tutti è capitato di farlo. I capelli sono troppo corti o troppo lunghi; le mani sono secche, rugose, piccole, grandi, grasse o magre; i piedi sono lunghi o corti, piccoli, piatti o arcuati. La pancia non è mai abbastanza piatta, altre parti del corpo … dipende.

Non solo queste considerazioni ci accompagnano di sovente nei nostri momenti di ozio, ma si acuiscono a seconda dell’umore, del livello di stanchezza che può toccare la stratosfera, del livello di abbattimento generale causato da tutti i guai che accompagnano la terra in questi giorni.

Uno degli organi che suscita in me più riflessioni è il piede, entrambi i piedi. Forse perché basta che abbassi lo sguardo e li vedo sempre lì attaccati alla parte finale delle mie gambe, a volte un po’ più gonfi del solito, soprattutto quando fa caldo e sono stati tutto il giorno nelle scarpe da ginnastica con le quali corro di qua e di là per lavoro, parenti, amici, spese, inconvenienti e curiosità.

Anche dopo la doccia li vedo sempre là in fondo alle gambe, bagnati e scivolosi pronti a lasciarmi col sedere sul pavimento se non li appoggio subito all’asciutto, uscendo dalla gabbia di plastica che racchiude il vapore appena abbandonato dell’acqua calda finita nel tubo di scarico.

A volte li guardo più da vicino, quando sono raggomitolata sul divano e leggo gli articoli di Periscopio.it visualizzandoli sul telefono, quando mi accovaccio nell’orto per innaffiare i pomodori, le melanzane e i cetrioli, quando faccio Yoga e improvvisamente me li trovo oltre la testa nella posizione dell’Aratro. Visti da vicino sono più grandi e imponenti, con tanti ossicini, tante articolazioni e tante venuzze verdi che traspaiono sotto la pelle.

La loro salute è essenziale, attraverso di loro si vede quanta vita è stata vissuta e come la si è affrontata. Sono segnalatori di malattie se diventano violacei o piagati e portatori di intimità quando li si aggroviglia ad altri piedi spazialmente prossimi. Questo tipo di aggrovigliamento non è tra i miei preferiti, mi piace che i piedi siano liberi di muoversi, fermarsi, correre, tirare un calcio, saltare un ostacolo, ballare.

C’è molta vita nei piedi che percorrono un cammino e, ancora di più, in quelli che ballano. I piedi che ci permettono di danzare garantiscono una vera maestria, uno spettacolo sorprendente. Non c’è dubbio che i piedi siano un tramite tra musica e corpo, basta osservare i bambini quando improvvisamente sentono una canzone. Cominciano a dimenarsi a ritmo della musica compiendo movimenti tanto naturali quanto armonici.

Non c’è ancora una disciplina, un rigore nei movimenti che caratterizza le forme di danza più evolute, ma c’è una tendenza alla rappresentazione corporea che usa i piedi come tramite per la sua realizzazione. Frasi come “get on your feet”, “move your feet”, “dance your shoes off” compaiono spesso nella musica pop che imperversa in streaming, mentre i piedi come simbolo di ribellione e liberazione attraverso la danza, sono ben rappresentati in Footloose, un film del 1984 diretto da Herbert Ross e distribuito dalla Paramount Pictures.

Nel film, Ren McCormack, ragazzo di Chicago, si trasferisce con la madre separata a Bomont un piccolo paese di provincia che ha bandito la musica rock, il ballo e tutto ciò che può corrompere la moralità dopo che cinque ragazzi (tra i quali il figlio del reverendo del paese Shaw Moore) sono morti mentre tornavano da un concerto. Ren riuscirà a riportare la musica in paese grazie ad una festa di ballo memorabile.

Bella storia, belle inquadrature e primi piani sui piedi dei ragazzi che ballano. Ballano, ballano, una tribù che balla. Il film ha una colonna sonora famosissima e la frase “Tonight I gotta cut loose, footloose/Kick off your Sunday shoes” (“Stasera devo scatenarmi, sfogarmi/Togliti le scarpe della domenica”) è diventata un simbolo di ribellione e liberazione attraverso la danza. Il film ha vinto due Golden Globes per le canzoni “Footloose” e “Let’s Hear It for the Boy” e tre candidature all’Oscar.

I piedi sono organi di movimento estremamente complessi, costituiti da uno scheletro composto da ventisei ossa articolate tra loro, che sfrutta per i propri movimenti un complicato sistema di forze muscolari, tendinee, capsulari, legamentose e neurotiche. I piedi, grazie alla loro complessa anatomia, sono in grado di eseguire una vasta gamma di movimenti. Questi possono essere movimenti di flessione ed estensione, inversione ed eversione, supinazione e pronazione. In aggiunta, i piedi effettuano movimenti complessi durante la deambulazione, come l’ammortizzazione, il supporto e la propulsione.

Sono organi importanti dal punto di vista funzionale, estetico e simbolico. Guardando i propri piedi non sempre ci si rende conto di quanto compagnia ci facciano e di quante persone abbiano riflettuto sulla loro presenza, utilità e bellezza. I bambini piccoli se li succhiano, i grandi li massaggiano, impomatano, tatuano, colorano, fotografano e agghindano con calze di tutti i colori e con scarpe che, in parte servono per accompagnare la camminata e in parte affermano uno status e l’eventuale desiderio di trovare l’amore.

I piedi sono affascinanti, lo sono stati per molti pensatori. Così scrive, ad esempio, il poeta Pablo Neruda nella sua Oda a los pies: “Mis pies eran dos palomas / atrapadas / por la gravedad de la vida...” (I miei piedi erano due colombe / intrappolate / dalla gravità della vita…). Oda a los pies (Ode ai piedi) è un componimento in cui il poeta celebra i piedi come parte integrante del corpo umano e della vita stessa. In particolare, sottolinea il ruolo fondamentale dei piedi nel movimento, nella scoperta, nel contatto con la terra e nell’esperienza dell’esistenza.

Nella tradizione religiosa o mistica i piedi sono simbolo di devozione e sono spesso associati all’umiltà, alla venerazione o alla sottomissione. I piedi raccontano il movimento, il cammino, la resistenza. Sono simbolo della vita in marcia, del destino e della trasformazione. Dante, nella Divina Commedia, descrive spesso il movimento dei personaggi in termini di cammino: i piedi sono ciò che li porta verso la redenzione o la dannazione.

I piedi sono anche un dettaglio estetico o sensuale. Soprattutto nel decadentismo, nel simbolismo e in certi autori moderni, i piedi possono diventare oggetto di contemplazione estetica o di desiderio erotico. Sono un elemento realistico o degradante in autori naturalisti come Zola e Verga, mentre in autori più contemporanei, i piedi sono spesso rappresentati in modo crudo, come parte di un corpo che lavora, soffre, marcisce.

I piedi sono inoltre simbolo poetico o spirituale. Per alcuni poeti o scrittori, i piedi possono evocare leggerezza, la libertà, l’infanzia, o essere segno di passaggio sulla terra. Ad esempio, Rainer Maria Rilke usa spesso immagini corporee delicate ai i piedi che danzano, scivolano e ci sfiorano.

Tanti illustri personaggi si sono occupati di piedi scrivendo, ballando, parlando, pensando. Eppure, se li guardo sono semplicemente i miei piedi e proprio in questa semplicità ritrovo il senso della loro presenza e appartenenza. Sono i miei, sono il mio corpo, altri come questi non ci sono, camminano con me e invecchiano con me. In questa loro perenne presenza sono confortanti e in questa loro accompagnare la mia età sono tranquillizzanti.

Un passo dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro … chissà dove si arriverà.

In psicanalisi, i piedi possono essere interpretati come simboli di diversi aspetti della psiche. Possono rappresentare l’ancoraggio alla realtà, l’attaccamento alla terra, l’orientamento nella vita, e il rapporto con la sessualità e la sessualizzazione.

Alcuni psicoanalisti hanno inoltre collegato i piedi a simboli di potere e controllo, così come al desiderio e alla gratificazione. James Hillman, nel suo approccio psicologico, considera i piedi come un ponte tra il corpo e lo spirito, simbolicamente collegati alla nostra capacità di muoverci nel mondo e di prendere decisioni.

I piedi, per Hillman, sono strumenti per l’esperienza del camminare, una pratica che lo psicologo vede come un modo per entrare in contatto con il mondo e con sé stessi. Il cammino e la sua associata azione di camminare, usano come tramite i piedi e come fine l’entrare in contatto con il mondo.

Un contatto che può causare grande sofferenza in questo periodo, in cui la terra e i suoi abitanti soffrono per delle guerre inutili e devastanti, le grandi democrazie non si sa se siano davvero grandi e, soprattutto, se siano ancora democrazie. Un mondo che rende triste il cammino. Per questo i piedi dovrebbero fare male, il loro contatto con il mondo li dovrebbe rendere molto dolenti, in accordo con il rifiuto della violenza in tutte le sue manifestazioni.

Anche i miei piedi non sono ben messi, certe volte mi pungono come se contenessero aghi. Così come quelli di molti miei simili, che camminano su questa terra bellissima e adesso dolorante. Ma questo non deve interrompere il cammino, né farci credere che sia inutile camminare, anzi attraverso il cammino possiamo vedere con maggiore lucidità il mondo. Percorrendo strade e sentieri sia fisici che spirituali, possiamo trovare pensieri buoni che addomesticano la preoccupazione per il futuro e possiamo riscoprire la semplicità di un gesto quotidiano che migliora la vita.

Tutto ciò grazie ai nostri piedi che sono garanzia di movimento, veicolo di cammino e soggetto di rappresentazione simbolica.

Intanto li guardo, questi miei piedi magri e lunghi, e penso di dover rammendare le calze, perché hanno un buco da cui esce l’alluce. Non che mi dispiaccia così il mio alluce, lo vedo in una inquadratura originale, ma questo non si confà al buongusto imperante e un po’ di senso di comunità deve albergare in ogni comportamento e parola.

Belli i piedi per quello che ci permettono di fare e pensare dirigendo il cammino verso un modo nuovo.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di CatinaBalotta, clicca sul nome dell’autrice

Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods:
se invece di Trump tornassimo a Keynes?

Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods: se invece di Trump tornassimo a Keynes?

Facciamo l’ipotesi teorica che i dazi di Trump non siano uno strumento negoziale per portare vantaggi agli Stati Uniti ma una vera politica per riportare la manifattura in patria, ridurre il deficit commerciale e quello pubblico. E’ un’ipotesi teorica perché qualche giorno fa Trump ha fatto un accordo temporaneo (3 mesi) con la Cina per ridurre i dazi dal 145% al 30% (10% i dazi della Cina) e con il Regno Unito che potrà esportare in Usa 100mila auto con dazi solo del 10% (anziché 25%), zero dazi per acciaio e alluminio (mentre per il resto 10%), in cambio di acquisti di aerei americani Boeing per 10 miliardi, di carne di manzo made in Usa, etanolo, chimica e macchinari. Seguirà probabilmente un accordo temporaneo analogo con l’Europa.

E’ in corso una lotta tra chi (Bannon, Maga) vuole tornare ad un’America più protezionista che ricostruisce le comunità locali distrutte da globalizzazione, povertà e droghe (e con meno immigrati possibile, come vuole anche il Regno Unito) e le multinazionali high tech (Elon Musk in testa) che non vogliono chiusure, zero dazi e più immigrati professional (sono già il 40% di tutto il personale nelle big tech). Se dovesse prevalere (com’è probabile) l’ala Maga resteranno i dazi (seppure ridotti). Il nuovo protezionismo “light” Usa costringerebbe i paesi con surplus commerciale a dirottare parte del loro eccesso di produzione altrove. Dove, non è chiaro, in quanto non c’è nessun paese disposto ad assorbire tante merci quanto lo sono stati per decenni i consumatori americani o gli operai americani, che hanno visto lentamente chiudere le proprie fabbriche. Non si potrà non riconoscere che il sistema “aperto” ha prodotto una distruzione non solo della classe operaia americana della manifattura, ma anche nel resto del mondo avanzato e in Europa (specie al Sud).

Ma come è possibile allora che l’occupazione americana vada così bene? Gli occupati americani aumentano ogni trimestre ad un ritmo di 150-200mila occupati, ma non si dice che ciò avviene per la forte immigrazione. Negli Stati Uniti l’occupazione dal 2014 al 2023 è cresciuta di 15 milioni di unità, ma in un Paese che aumentava la popolazione di 18 milioni; mentre sparivano gli alti salari della manifattura si diffondevano i posti con bassi salari nei servizi vari. Un fenomeno simile è avvenuto anche in Europa, dove gli occupati sono cresciuti di 16 milioni e la popolazione di soli 6 milioni, con effetti di grande beneficio soprattutto nei paesi dell’Est Europa dove è stata delocalizzata parte della manifattura europea e tedesca.

 

 

A ben vedere le cose sono andate meglio in Europa che negli Stati Uniti, l’esatto contrario della narrazione mainstream sulle “magnifiche sorti e progressive” del neo liberismo globalizzato americano. Idem per l’Italia dove è cresciuto il lavoro (+9,2% dal 2021 ad oggi) ma è calato il monte salari delle buste paga del 6,1% (post inflazione). Ciò è dovuto al fatto che chi va in pensione guadagnava di più dei neo assunti, ma anche al fatto che con un parziale recupero dell’inflazione c’è stato uno slittamento verso le aliquote fiscali più alte (fiscal drag); ciò spiega perché l’Irpef è salita dai 198 miliardi del 2021 ai 235 del 2024 (fonte Ministero delle Finanze). Nonostante gli sgravi del Governo ai ceti bassi, le loro busta paga nette sono minori di 4 anni fa e così dicasi per i milioni che sono saliti sopra i 28mila euro lordi o i 50mila. Chi invece paga sui redditi di capitale, la cedolare secca sugli affitti, le rivalutazioni delle società non quotate, etc. cioè i benestanti, paga aliquote simili a quelle dei poveri. Se poi si nota che le spese in ricerca si stanno riducendo dal 2020 (già erano basse) e che cresce la distribuzione agli azionisti, si capisce bene perché l’Italia declina pur “aumentando” il suo lavoro, che è sempre più povero.

Ciò spiega perché già dal 2016 negli Stati Uniti tutti i politici hanno cominciato a mettere in dubbio l’efficacia del libero scambio e lo stesso TPP, il trattato di libero scambio Trans Pacific. L’idea era che non c’era bisogno di “maggiore globalizzazione” ma di fare in modo che quella esistente fosse vantaggiosa anche per gli americani. Trump ritirò l’adesione al TPP, Biden in molti aspetti proseguì. Oggi l’America assorbe gran parte del risparmio e del surplus commerciale degli altri paesi mentre si riduce anno dopo anno la sua produzione manifatturiera (oggi al 15% sul totale mondiale, quando era quasi la metà nell’immediato dopoguerra). Se questo processo fosse continuato avrebbe portato al crollo dell’economia americana. Molti provvedimenti (anche di Biden) sono stati all’insegna del rientro in patria della manifattura e del sostegno alle aziende made in Usa. Trump ha spinto in modo ancor più radicale, anche se non sarà solo coi dazi che lo si potrà risolvere. Per multinazionali e banche le cose andavano bene così. I fondi finanziari hanno fatto una montagna di soldi assorbendo l’eccesso di risparmio degli europei e del resto del mondo e trasformandolo in asset finanziari ed è per questo che hanno assunto una influenza crescente sui politici e, in alcuni casi, li hanno anche corrotti.

Non è un caso che tutte le banche nel mondo stanno felicemente prosperando sopra le macerie di tante manifatture ed operai. La narrazione era che “mobilità dei capitali e deregolamentazione” avrebbero arricchito tutti e rafforzato il dollaro. In realtà mentre i ricchi americani traevano enormi vantaggi a spese dei lavoratori e pensionati americani, anche gli industriali e finanzieri cinesi e tedeschi non erano da meno, in quanto la globalizzazione ha indotto tutte le imprese a rilocalizzarsi con la scusa della competitività: creando nuove filiere in paesi poveri  con salari più bassi, norme sulla sicurezza più blande, maggiore inquinamento da trasporti (specie da quando è stato inventato il container) e tasse più basse ovunque (si stimano 150 miliardi di euro in meno ogni anno nella sola Europa).

La narrazione era che così i poveri cinesi (et similia) si sarebbero arricchiti…la globalizzazione si faceva per i gli “ultimi”, i diseredati, quasi fosse un messaggio evangelico (sic!). L’effetto reale è sotto gli occhi di tutti (per chi vuole vedere): impoverimento per il 50-60-70% di chi vive nei paesi avanzati, riduzione delle imposte e del welfare, meno spese per sanità e istruzione, salari più bassi o, là dove crescono, meno di un tempo rispetto al valore aggiunto che generano, più debiti degli Stati, abbandono degli investimenti nelle infrastrutture e nelle energie rinnovabili proprio nel momento dell’aggravarsi della crisi climatica. Siamo giunti al paradosso che la finanza fino al 2008 ha pensato di guadagnare convincendo le famiglie americane ad indebitarsi per acquistare a rate una casa, con mutui insostenibili.

Del resto cos’è la disuguaglianza, se non uno spremere la maggioranza delle famiglie per trasferire reddito e patrimoni a quel 10% sempre più ricco al mondo? Il fatto è che questo modello non è sostenibile perché porta ad una riduzione della domanda interna, dei consumi, a maggiore indebitamento e ad un surplus dell’export…finchè c’è qualcuno (USA) disposto al deficit commerciale. Ma ora pare che il n.1 al mondo non sia più disponibile ad assorbire tutto questo.

Il permanere di questa guerra dei dazi ha di sicuro effetti negativi su tutti e prima di tutto sugli Stati Uniti, creando un clima di incertezza e anarchia com’è stato solo 200-300 anni fa. Per la stabilità finanziaria e dei portafogli di chi possiede azioni, la speranza è tornare al passato globalista. Ma esso non farà che impoverire ulteriormente le classi operaie. Prendiamo la Germania. Potrebbe passare da un avanzo di bilancio ad un disavanzo, abbassare le tasse sui lavoratori più poveri, aumentando così il loro reddito. Investendo poi su ponti, strade, treni e infrastrutture, energia verde, alleggerendo i mutui su chi compra la prima casa, crescerebbe la domanda interna, il tenore di vita, l’occupazione. L’Europa potrebbe seguire. Se poi si introducesse una normativa che finalmente elimina almeno i paradisi fiscali al suo interno, con una BEI che finanzia i grandi progetti infrastrutturali europei, forme di sussidio alla disoccupazione comuni, una crescente convergenza dei sistemi di pensione europei, tutta l’Europa si solleverebbe in un nuovo rinascimento. La Bei potrebbe emettere debito come fa il Tesoro Usa coi suoi tresaury, con finanziamenti internazionali se non trova quelli interni (che pure ci sono se pensiamo che gli europei risparmiano 30mila miliardi all’anno). Si potrebbe poi introdurre anche un’imposta sui grandi patrimoni dei più ricchi in tutta Europa. Se Cina e altri paesi seguissero, ci sarebbe uno straordinario aumento del tenore di vita all’interno di tutti i paesi e l’indebitamento scenderebbe. L’aumento dei consumi darebbe vita ad una nuova fase di rilancio degli investimenti. Il sistema basato di più sulla domanda interna con dazi limitati, potrebbe poi evolvere verso un sistema più aperto dove i dazi rimarrebbero per quei paesi che sfruttano i loro lavoratori e su cui potrebbe avviarsi un vero confronto, nel nome della Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII e dell’iniziativa del nuovo Papa Prevost (Leone XIV) che auspica la difesa del lavoro in tutto il mondo.

Manifattura significa non solo alti salari ma interrelazioni spesso vitali con altre industrie. Se l’Ilva di Taranto chiude ci sarà un effetto a catena sugli impianti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e sulle industrie italiane che si riforniscono di acciaio, com’è stato per la chiusura del cracking Eni di Marghera per la chimica. Per questo è importante ridare peso allo Stato, alla politica industriale e alla manifattura.

Sembra difficile ma fu fatto a Bretton Woods. Lì si formarono nuove regole che originarono un grande sviluppo nei primi 30 anni post bellici, all’insegna della domanda interna. Poi quelle regole erano imperfette, ma le ragioni di Keynes si potrebbero riprendere e quello che allora apparve uno sconfitto, sarebbe ora il vero vincitore: la sua idea del bancor (una moneta di riserva mondiale fatta da molte monete e da materie prime), di uno sviluppo globale basato sull’eguaglianza, sulla cooperazione e la pace e lo sviluppo della domanda interna. I popoli sarebbero d’accordo: molto meno i super ricchi e la finanza.

 

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Per certi Versi / L’armatura

L’armatura

Involucro mortale
l’armatura spaccata
tra le mani di un fabbro
nella realtà di sanare

l’urlo dell’anima
non si può stagnare
l’assoluzione del sangue
è il segno che vale

In copertina: immagine Flickr 

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Lo stesso giorno /
17 maggio del 1990: l’omosessualità viene rimossa dall’OMS dall’elenco delle malattie mentali

Il 17 maggio del 1990 l’OMS ha depennato definitivamente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali,

Finocchio, frocio, busone, ricchione, culattone… Cosi, nel gergo comune e in infinite barzellette, venivano chiamati e dileggiatigli omosessuali- Che erano comunque malati, da espellere (vedi l’esempio del giovane Pasolini) o internare (in manicomio) o da sopprimere (nei lager nazisti in compagnia degli ebrei). Questo prima del 1990 quando l’OMS (ma quanto ci ha messo?) decidesse finalmente di rimuovere l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.

Dall’ora ufficialmente, per la scienza e per tutte le enciclopedie del mondo, l’omosessualità è un orientamento sessuale che comporta l’attrazione emozionale, romantica e/o sessuale verso individui dello stesso sesso. Nella definizione di orientamento sessuale, l’omosessualità viene collocata nel continuum etero-omosessuale della sessualità umana.
Naturalmente la decisione dell’OMS, registra finalmente un grande mutamento nella cultura e nel sentire comune, ma non elimina totalmente ignoranza e pregiudizio. Ignoranza e pregiudizio oggi ancora molto diffusi. Per tanti, non solo per il neo onorevole Vannacci o per i cattolici integralisti, gli omosessuali sono ancora malati da curare (più o meno amorevolmente) e riportare sulla retta via.

Ma conta tornare alla storica decisione della Organizzazione Mondiale della Sanità. Tenete a mente la data:  17 maggio 1990. E ora fate un salto indietro di quarant’anni.

Intorno alla metà del Novecento, il biologo e sessuologo statunitense Alfred Kinsey intuì che il comportamento sessuale di uomini e donne non poteva essere ridotto soltanto alle categorie di eterosessuale e omosessuale. Il biologo avviò così un’inchiesta confluita nei saggi Sexual Behaviour in the Human Male e Sexual Behaviour in the Human Female, pubblicati rispettivamente nel 1948 e nel 1953. Gli studi condotti da Alfred Kinsey segnarono il primo rivoluzionario passo verso la legittimazione del concetto di sessualità fluida, oggi centrale nella lotta per i diritti della comunità LGTBQ+. Prima di allora, nessuno studioso aveva mai sostenuto e dimostrato scientificamente che il comportamento sessuale fosse un concetto mutevole, e che le inclinazioni di ciascuno potessero essere soggette a mutamenti nel corso della vita. Negli anni Quaranta e Cinquanta  del Novecento, inoltre, dominavano ancora convinzioni obsolete su diverse pratiche – come l’autoerotismo, i rapporti omosessuali e bisessuali, il sesso prematrimoniale ed extraconiugale – considerate promiscue e ai limiti della perversione. Mosso dall’esigenza di abbattere certi tabù, Kinsey avviò un progetto cui dedicò gran parte della propria vita, e che gettò le basi della scienza del comportamento sessuale degli esseri umani.

Quella di Hirschfeld rimase comunque l’unica stima scientifica disponibile fino al 1947, quando uscì il primo dei due volumi del celebre Rapporto Kinsey, dedicato al comportamento sessuale maschile.

Le statistiche fornite da questo Rapporto ebbero un effetto dirompente, suscitando molte polemiche. Alfred Kinsey era un biologo e non uno psichiatra, ed ebbe l’idea di applicare anche alla specie umana il metodo usato nelle ricerche scientifiche, catalogando i soggetti in base non a ciò che dichiaravano di essere, ma in base a quello che dichiaravano di avere fatto. Grazie a tale studio scoprì che quasi la metà dei soggetti studiati aveva avuto contatti sessuali protratti fino all’orgasmo con una persona dello stesso sesso almeno una volta nella vita.

Inoltre, il 5% (una su venti) fra le persone studiate aveva avuto esclusivamente rapporti omosessuali nel corso della sua vita dopo l’adolescenza, e un ulteriore 5%, pur avendo avuto rapporti con entrambi i sessi, ne aveva avuti in prevalenza col proprio sesso.

Questi dati furono contestati con estrema violenza soprattutto da coloro che, giudicando l’omosessualità un comportamento estraneo alla natura umana, ritenevano poco credibile che quasi la metà degli esseri umani l’avesse sperimentata almeno una volta nella vita. Per screditare l’attendibilità dei suoi studi, Kinsey fu attaccato a livello personale come pornografo, omosessuale e pedofilo

Kinsey cercò di ribattere alle critiche con un ulteriore volume della sua ricerca, che avrebbe dovuto essere il terzo, dedicato esclusivamente al comportamento omosessuale; ma la Fondazione Rockefeller, che lo aveva sin lì finanziato, poco soddisfatta delle polemiche innescate dalla ricerca e soggetta a forti pressioni da più parti, gli negò ulteriori fondi. La ricerca di Kinsey subì pertanto un drastico ridimensionamento e da allora le ricerche sulla percentuale di omosessuali sono compiute con estrema cautela, su campioni limitati, spesso traendo conclusioni in base al modo in cui gli intervistati si definiscono anziché in base al loro comportamento effettivo.

Per questo motivo la stima dell'”uno su venti” (cioè del 5%) continua ad essere considerata come la più attendibile da un punto di vista scientifico, al punto da essere adottata ufficialmente dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per valutare l’incidenza dell’omosessualità esclusiva all’interno della popolazione umana.

Secondo Kinsey, la dimensione sessuale era troppo dinamica e complessa per essere ingabbiata in rigidi dualismi e in categorizzazioni semplicistiche: l’identità sessuale di ciascun individuo costituiva, a suo dire, un continuum di sfumature spesso ignorate, represse o taciute. Nel corso della sua carriera, il sessuologo si batté non solo per i diritti di omosessuali e bisessuali, ma anche per la legittimazione della masturbazione, del sesso extraconiugale e di altre tipologie  considerate deplorevoli e addirittura pericolose. Secoli di pregiudizi, dogmi religiosi e scarsa informazione, sommati alla scarsa conoscenza del proprio corpo – sia da parte degli uomini che delle donne – avevano contribuito infatti ad alimentare paure e pregiudizi infondati, molto difficili da scardinare.

Alfred Kinsey

Deciso ad abbattere tabù e pregiudizi, e partendo dalle proprie conoscenze di biologo e zoologo, Kinsey avviò un’indagine scientifica che consisteva in una serie di interviste a campione a vari strati della popolazione statunitense. Durante le interviste, il sessuologo si dimostrava in primo luogo attento a mettere a proprio agio l’intervistato; in questo modo, sosteneva, era più facile che le testimonianze fossero prive di reticenze o autocensure, che avrebbero inficiato l’attendibilità delle statistiche. Emersero presto risultati interessanti: il 62% delle donne e il 92% degli uomini dichiararono di aver praticato la masturbazione almeno una volta nella vita; il 50% degli uomini sposati affermarono di aver avuto esperienze sessuali extraconiugali; il 26% delle donne ammisero invece di aver avuto almeno un’esperienza sessuale extraconiugale prima dei quarant’anni. In questo progetto di ricerca Kinsey fu affiancato da un gruppo di suoi allievi, tra i quali si distinguono i nomi di Wardell Pomeroy e Clyde Martin: i due, diretti eredi del lavoro di Alfred Kinsey, contribuirono a interessanti scoperte nell’ambito della sessuologia e dei comportamenti sessuali ritenuti erroneamente fuori dalla norma.

Per diversi anni Kinsey effettuò interviste e raccolse testimonianze confluite nei Kinsey Reports; se dapprima si concentrò sull’osservazione del comportamento maschile, qualche tempo dopo dedicò i suoi studi alla sessualità femminile. Ma oltre ai due saggi, che ebbero un’imprevedibile risonanza diventando in breve tempo dei bestseller, l’inchiesta di Kinsey e dei suoi collaboratori generò la cosiddetta Scala Kinsey. Questo strumento comparve per la prima volta in Sexual Behaviour in the Human Male e si articola in una scala da 0 a 6, ognuna corrispondente al grado di eterosessualità o di omosessualità dell’individuo sottoposto al test. Se il grado 0 corrisponde a un’esclusiva eterosessualità, il grado 1 indica leggere tendenze omosessuali, il grado 2 un’eterosessualità con forti tendenze omosessuali, e il 3 la completa bisessualità. Procedendo si arriva ai gradi 4, 5 e 6, che indicano rispettivamente omosessualità con forte componente eterosessuale, omosessualità con leggera componente eterosessuale e, da ultimo, la piena ed esclusiva omosessualità. Nella Scala Kinsey compare anche il grado X, attribuito a chi non prova attrazione sessuale né per individui del sesso opposto né per quelli dello stesso sesso.

Nel 1947, Alfred Kinsey fondò presso l’Indiana University di Bloomington l’Institute for Sex Research – meglio conosciuto come Kinsey Institute – che da oltre settant’anni promuove la ricerca interdisciplinare nel campo della sessualità nell’uomo e nella donna, occupandosi anche della conservazione del materiale storico e della sensibilizzazione sui temi della libertà e della fluidità sessuale. Con la sua inchiesta su base scientifica, Kinsey ha segnato una prima, fondamentale tappa in un processo di conoscenza del comportamento sessuale che prosegue ancora oggi. Nonostante la notevole risonanza del progetto – che fu finanziato dalla Rockefeller Foundation – Kinsey fu oggetto di aspre contestazioni da parte di gruppi conservatori. Il sessuologo fu accusato di istigazione all’adulterio e al libertinaggio; furono anche criticati i suoi metodi di ricerca scientifica, che prevedevano l’osservazione diretta – da parte di Kinsey o di un suo collaboratore – del comportamento sessuale dei soggetti presi in esame. Inoltre, il saggio Sexual Behaviour in the Human Male raggiunse il quarto posto nella Ten Most Harmful Books of the Nineteenth and Twentieth Centuries di Human Events, importante rivista degli ambienti conservatori statunitensi.

James H. Jones – che alla figura di Kinsey ha dedicato un libro – ha sostenuto che, nel condurre la propria ricerca, il sessuologo sia stato guidato dai propri bisogni sessuali e dalle proprie esperienze controverse. Benché sposato e padre di quattro figli, Kinsey avviò infatti una serie di relazioni omosessuali, tra cui quella con il suo allievo e collaboratore Clyde Martin. Un punto importante della sua biografia coincide con il 1953, quando, dopo la pubblicazione del saggio sul comportamento sessuale femminile, un comitato della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti – presieduto dal membro del Congresso per lo Stato del Tennessee Brazilla Carroll Reece – cominciò a indagare sul sessuologo e sulla Fondazione Rockefeller per presunti legami con il Partito Comunista. In seguito a queste accuse – avvenute nel pieno della Guerra Fredda e del Maccartismo – il presidente della Fondazione Rockefeller Dean Rusk decise di revocare i finanziamenti destinati al progetto di Kinsey nel 1954. La decisione gettò il sessuologo in uno stato di grave prostrazione, che non gli impedì però di portare avanti il suo progetto ancora per due anni, fino alla sua morte nel 1956.

Il Senatore Joseph McCarthy, 1950

La ricerca di Kinsey è stata uno spartiacque non solo riguardo al comportamento sessuale individuale, ma anche a proposito dell’identità di genere. A partire dalla rivoluzione del biologo e dalla fondazione del Kinsey Institute, la sessuologia ha gettato le basi per una diffusa conoscenza del corpo, della sessualità e della percezione di sé. Fu così che, nel campo della scienza e della sessuologia, iniziò ad affacciarsi il concetto di gender che, non più vincolato al sesso biologico, si articola in uno spettro non riducibile ai poli maschio/femmina – così come la “Scala Kinsey” contempla una gamma di sfumature tra i due estremi di eterosessuale e omosessuale. Il concetto di gender – in aggiunta a quello di orientamento – ha portato negli anni all’introduzione, nel linguaggio comune, di alcuni neologismi che identificano le varie sfumature dello spettro – cisgender, transgender, transessuale, genere non binario, genderqueer, genderfluid, agender. Questa lenta rivoluzione è stata osteggiata come quella di Kinsey degli anni Cinquanta – e lo è tutt’ora – da gruppi di detrattori e di conservatori. Ciononostante il processo innescato da quegli studi non si è mai arrestato, fornendo basi scientifiche alla battaglia per i diritti della comunità LGBTQ+. A dominare è oggi l’idea che identità sessuale e identità di genere costituiscano due spettri molto ampi; di conseguenza, i sistemi binari maschio/femmina e eterosessuale/omosessuale sono limitati e insufficienti per contemplare e descrivere una realtà tanto eterogenea e complessa.

Le scoperte di Kinsey rappresentarono un punto di rottura rispetto a un certo diffuso bigottismo, che si ostinava a classificare l’identità sessuale secondo categorie rigide e che apponeva lo stigma su certe pulsioni socialmente non accettate. Kinsey fu il pioniere della legittimazione della sessualità fluida e anche dopo la sua morte la ricerca nel campo della sessuologia continuò a procedere lungo il percorso da lui tracciato, osservando sempre più capillarmente il comportamento sessuale degli individui. In particolare, a raccogliere il testimone del lavoro di Kinsey – oltre ai suoi diretti collaboratori – furono William Masters e Virginia Johnson, che negli anni Sessanta si avvalsero addirittura di apparecchi che misuravano le reazioni fisiologiche degli individui di fronte a determinate stimolazioni sessuali. La risonanza ottenuta dagli studi di Kinsey sull’omosessualità e la bisessualità hanno ricoperto un ruolo fondamentale anche nel processo che ha portato alla sentenza del 2003 della Corte Suprema statunitense che ha dichiarato incostituzionali le leggi statali contro la sodomia. Il traguardo, raggiunto dopo quasi cinquant’anni di lotte, ha segnato un passo fondamentale nell’acquisizione dei diritti da parte della comunità LGBTQ+ statunitense.

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Presto di mattina /
Nelle tue mani

Presto di mattina. Nelle tue mani

Nelle tue mani

“Se lo Spirito scegliesse lei?” domanda la giornalista al cardinale Prevost due giorni prima del conclave.
Risposta: “tutto è nelle mani dello Spirito santo… nelle sue mani”.

 È Re, più in alto dei gioghi dell’Alpe
regge gli ardori meridiani;
senton le vigne le sue mani calde
calarsi sui grappoli sani:
la roccia, disfatta e più bionda,
in altissima luce affonda.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, 34).

Perde
calore in cielo l’aereo tremore,
a intervalli cadono le messi ne’ campi gialli,
esse salendo a Dio
saranno nelle sue mani come un fiore
in quelle d’una giovinetta che le ha belle.
(Mario Luzi, Tutte le poesie, 30).

 Dignitas humana

Rerum novarum / Desiderio delle cose nuove, così l’incipit dell’enciclica di papa Leone XIII (15 maggio 1891) circa la necessità e urgenza vitale – come diceva spesso – di «accrescere e migliorare le cose vecchie con le nuove». Al centro dell’attenzione era soprattutto la questione operaia, riflettendo l’Enciclica dava inizio al cammino di apertura della chiesa verso la società e il mondo del lavoro.

Ma tutto questo veniva fatto a partire dal tema della dignità umana: «A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili» (Rerum Novarum, 32).

Dignità umana che la recente dichiarazione del Dicastero vaticano della fede (25.03.2024) qualifica come “dignità infinita”, cui si deve “un rispetto incondizionato”.

Dignitas infinita

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù.

Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza». Di tale dignità ontologica e del valore unico ed eminente di ogni donna e di ogni uomo che esistono in questo mondo si è resa autorevole eco la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”» (Dignitas infinita, 1).

Papa Leone XIV

Nato il 14 settembre 1955 a Chicago, negli Stati Uniti, dell’Ordine degli Agostiniani, Robert Francis Prevost è stato missionario in Perù per molti anni. Nominato recentemente da papa Francesco prefetto della Congregazione dei vescovi è stato fatto cardinale il 30 settembre 2023.

Il cammino del “Papa delle due Americhe”, potremmo dire, si è sviluppato attraverso un duplice e parallelo percorso: il sentiero tracciato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che inizia ricordandoci che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (Articolo 1) e il sentiero della dignità infinita che sgorga dalla gioia del vangelo e dalla vita di Gesù di Nazaret.

Si legge ancora nella Dignitas infinita: «Fin dagli inizi del suo pontificato, papa ha invitato la Chiesa a “confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano” ed a “scoprire che “con ciò stesso gli conferisce una dignità infinita”, sottolineando con forza che tale immensa dignità rappresenta un dato originario da riconoscere con lealtà e da accogliere con gratitudine.

Proprio su tale riconoscimento ed accoglienza è possibile fondare una nuova coesistenza fra gli esseri umani, che declini la socialità in un orizzonte di autentica fraternità: unicamente «riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere fra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità» (Dignitatis infinita, 1).

Così come il nome di ogni papa racchiude un seme che si farà pianta, con uno sguardo di fede e uno stile pastorale rivolto a Dio e all’umanità, quello prescelto da papa Prevost mi fa pensare a una pianta il cui seme contiene due cotiledoni, foglie embrionali: dignitas humana e dignitas infinita.

Due gemme piccole, nell’ombra della terra in attesa del sole, i cui fiori e i frutti presentano la massima varietà di forme, spuntano con le radici e hanno un compito nutritivo finché la pianta non sia riuscita ad attivare la funzione di fotosintesi. Sono respiro per la pianta ancora senza foglie, come la dignità è respiro di umanità ancora senza pace.

Certo, il nome Leone rimanda al passato, fa pensare a Leone XIII e alla questione sociale e va anche più indietro nel tempo, a Leone I, detto anche Leone Magno per il suo impegno per la pace profusa nel 452 e nel 455, quando, disarmato, dissuase Attila e poi i Vandali d’Africa, guidati dal re Genserico a continuare l’invasione dell’Italia.

Non sorprende allora che le prime parole del papa siano state per la pace, quella donata a Pasqua dal Cristo risorto ai discepoli e all’umanità: soffio del suo Spirito: «Una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva Roma!».

Ma si può pensare anche a un altro Leone, che ci fa ritornare a un presente aperto ad un futuro di pace, a quella fraternità universale così insistentemente evocata da papa Francesco nella Fratelli tutti.

Mi riferisco a frate Leone, fedele custode delle origini francescane; pecorella di Dio lo chiamava Francesco d’Assisi. Nel papa che ci ha lasciato e in colui che è venuto mi piace allora pensare che Francesco e Leone stiano di nuovo camminando insieme con noi nel solco dell’Evangelii gaudium e dell’opzione preferenziale per i poveri, per il riscatto della loro dignità.

Ancora insieme come quella volta – si narra nei Fioretti – quando Francesco spiegava a frate Leone in cosa consistesse la “perfetta letizia”. Sta questa tutta nella sequela e nell’imitazione del Cristo, nel suo abbandono al Padre, servendo umanità.

Così scrive sant’Agostino: «Perciò, fratelli, se il nostro amore è sincero, imitiamo anche noi. Non potremmo infatti rendere miglior frutto di amore di quello che è l’imitazione dell’esempio: Cristo in realtà “patì per noi lasciandoci un esempio perché ne seguiamo le orme”» (Discorso 304, 2.2).

Francesco d’Assisi, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone».

Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere il suo volto per te
e ti faccia grazia.
Il Signore elevi il suo volto su di te
e ponga su di te la pace
(Nm 6,22-27).

Benedica te Leone XIV.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza: 5 Sì per il futuro delle giovani generazioni

Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza:
5 Sì per il futuro delle giovani generazioni.

Nonostante l’appoggio di molte personalità del mondo della cultura (per esempio: Luciana Castellina, Alessandro Barbero) continua imperterrito il silenzio mediatico sugli importantissimi referendum che chiamano gli italiani alle urne l’8 e il 9 Giugno 2025. Un silenzio che si adatta benissimo ai tempi: una becera destra nazionalista al governo, il neoliberismo come ideologia trasversale del momento, l’espropriazione pervasiva delle libertà costituzionali e dei beni comuni, l’erosione dei diritti sociali e un’opinione pubblica sempre più chiusa, dubbiosa e allo stesso tempo diffidente e indifferente che non trova più gli strumenti per esprimersi.

Ecco perchè è fondamentale oggi parlare dell’importanza di questi 5 referendum proposti dalla Cgil:

  • si parla dell’abrogazione delle vergognose norme neoliberiste sul lavoro introdotte con la riforma del Jobs Act del governo Renzi che vennero definite a “tutele crescenti”, realizzando de facto un’ulteriore precarizzazione del lavoro e una riduzione delle tutele;
  • si parla delle condizioni di lavoro, dei diritti, delle tutele sul lavoro per garantire alle generazioni futuro il futuro come promessa e non come precarietà;
  • si parla di un diritto alla cittadinanza più democratico e inclusivo.

Votare SI’ ai 5 quesiti è un imperativo categorico perché ogni anno muoiono 1000 persone sul lavoro.

I 5 quesiti:

Stop ai licenziamenti illegittimi:

Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre 3 milioni e 500mila ad oggi e aumenteranno nei prossimi anni le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.

Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese:

Nelle imprese con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata  l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione rispetto alla/al titolare. Abroghiamo questo limite, aumentiamo l’indennizzo sulla base della capacità economica dell’azienda, dei carichi familiari e dell’età della lavoratrice e del lavoratore.

Riduzione del lavoro precario:

In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.

Più sicurezza sul lavoro:

Arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi 1000 i morti. Modifichiamo le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro.

Più integrazione con la cittadinanza italiana:

Riduciamo da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter fare domanda di cittadinanza italiana, che una volta ottenuta sarebbe trasmessa ai figli e alle figlie minorenni. Questa modifica costituisce una conquista decisiva per circa 2 milioni e 500mila cittadine e cittadini di origine straniera che nel nostro Paese nascono, crescono, abitano, studiano e lavorano. Allineiamo l’Italia ai maggiori Paesi Europei, che hanno già compreso come promuovere diritti, tutele e opportunità, garantisca ricchezza e crescita per l’intero Paese.

Rendiamolo più sicuro!

Cancelliamo le leggi che hanno reso le lavoratrici e i lavoratori più poveri e precari.

Rimuoviamo l’ingiustizia che nega il diritto alla cittadinanza a 2 milioni e 500mila persone che vivono e lavorano in Italia.

 

Per ulteriori informazioni:

https://files.cgil.it/version/c:ZTA3ODRmMmMtOWI0YS00:MGVlYjg0ZjQtNTNjZS00/CGIL-informazioni-generali-referendum-Ok.pdf

https://www.cgil.lombardia.it/wp-content/uploads/2025/01/Scheda-Cgil-di-approfondimento-quesiti-referendari.pdf

https://www.cgil.it/referendum

https://files.cgil.it/version/c:ODM5MTQxNmItYjBjMS00:YzM1NWJkYjktNzhmZS00/volantinoA4-RaccoltaFirme-ReferendumPopolari2025%28web%29.pdf

https://www.lavorodirittieuropa.it/images/CESTER.pdf

https://www.fisac-cgil.it/141351/i-quattro-quesiti-referendari-promossi-dalla-cgil?pdf=141351

People Have the Power

People Have the Power

Sono pensierosa e scontenta. Il mondo non è bello. Neanche l’Italia. Neanche Ferrara. Questa sera, vado alle prove di canto senza ispirazione, per un educato senso del dovere. Cominciamo con una bella ninna nanna, tenera, dolce, che invita ad un sonno sereno. Mi rivolgo alla mia amica di sezione e le bisbiglio: “non sono queste le cose che, oggi, vorrei cantare”.

Non so come la cosa sia partita ma, la maestra, adesso, sta parlando delle tesine delle sue allieve e viene menzionata una canzone che, per errore, (il caso non è mai per caso, dice Jung) scambio per People have the power. …“Di chi?”…

Le mie amiche più giovani ma esperte di musica, mi aiutano a dare ordine alle idee e a ricordare. Mi suggeriscono. Mi ritrovo. “Ah certo di Patti Smith”, “Bellaaa!”. Sì è questo che vorrei cantare. È questo che mi servirebbe adesso. Non un materno, rassicurante, lenitivo cullare che fa passare tutto, ma la convinzione che le persone hanno Il potere di bloccare i folli della terra”.

(…) Stavo sognando nel mio sogno

mentre mi arrendo al mio sonno
Ti affido il mio sogno

Le persone hanno il potere

Il potere di sognare, di governare (…)

È stato il 1° giugno del 1988 quando Patti Smith ha pubblicato People Have The Power, una delle sue canzoni più famose e una delle canzoni di protesta più note di tutti i tempi. Dalla fine degli anni ’80 in poi non c’è, probabilmente, qualcuno che sia sceso in piazza per protesta che non abbia urlato almeno una volta il ritornello di People Have The Power.

Un inno così semplice eppure così potente.

Un brano che non ha solo la rabbia e la pretesa ma un ottimismo che non chiede il permesso e una presa di coscienza che rimbomba forte.


(…)
Ascolta, io credo che tutto quello che sognamo
può arrivare e farci arrivare alla nostra unione
noi possiamo rivoltare il mondo
noi possiamo dare il via alla rivoluzione sulla terra (…)

Mi permetto di scomodare Jung (ancora?) e gli archetipi (insisti?) giovane per aver fatto il 68, sento però che nella mia mente e nel mio background culturale, esplicito ma in parte anche inconsapevole, si sono depositati modelli, principi fondamentali collettivi che mi precedono. Anche se relativamente recente, quello che riemerge e da cui derivano altre rappresentazioni è lo spirito sessantottino trasportato fino ad oggi, così come la rinascita di quel tipo di energia che si riaffaccia anche quando pensi si sia esaurito.

La canzone è nata come protesta per la guerra in Vietnam, ma come non pensare che ha estremo valore anche oggi per tutte le guerre in corso, per prima Gaza la martire.

I versi sono stati scritti da Patti Smith, ma è stato il suo amato marito Fred ‘Sonic’ Smith a dare l’idea per il concetto del brano e per lo spirito che pervade People.

Fred non fece in tempo ad assistere alla trasformazione di People Have The Power in un inno del popolo, morirà nel 1994. Ma il brano è diventato esattamente ciò che lui sperava che fosse: “Lui ha scritto la musica, il concetto era suo e voleva che diventasse una canzone che la gente di tutto il mondo potesse cantare per le cause più disparate. Lui non ha fatto in tempo a vederlo, ma io sì. Ho visto la gente e ho partecipato a cortei in tutto il mondo in cui le persone cominciavano a cantarla spontaneamente, che si trattasse di Parigi, di New York o della Palestina. Il fatto che il suo sogno si sia realizzato è qualcosa che mi commuove molto”, dirà Patti Smith.

E a me commuove che Patti, oggi, con i suoi lunghi capelli bianchi, continui a cantare questi versi contro la disumanità e l’indifferenza dei folli che pare abbiano preso il sopravvento, perchè la gente ha rinunciato ad ascoltare (“perché la gente ha le orecchie”). Lei, però, non rinuncia alla speranza e alla fiducia nella gente:

(…) Gli atteggiamenti vendicativi divennero sospetti
E piegandosi in basso come per sentire

gli eserciti smisero di avanzare
perché la gente ha le orecchie

I pastori e i soldati
giacciono sotto le stelle
scambiandosi ideali, abbassando le armi
da disperdere nella povere (…)

Noi abbiamo il potere
La gente ha il potere

Il potere di sognare, governare
di bloccare i folli della terra

È promulgata la legge della gente

______________________________________________________

In copertina: Banski a Gaza

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Pepe Mujica, «la pecora nera», un comunista anomalo che ha fatto la storia

Pepe Mujica, «la pecora nera», un comunista anomalo che ha fatto la storia

E’ morto all’età di 89 anni a Montevideo dove era nato il 28 maggio del 1935, José Alberto Mujica, chiamato “El Pepe” dai suoi concittadini e presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015. Era stato un guerrigliero del Movimento di liberazione nazionale, Tupamaros (dal 1966) ed aveva spesso rischiato la vita. Catturato finì in galera (come la sua compagna Lucía) per 13 anni (dal ’72 all’85). Una galera dura, fatta di isolamento, torture psicologiche e fisiche, ma El Pepe non ha mai ceduto.

Questa galera gli aveva minato il fisico, come riconobbe lo scorso gennaio, annunciando “semplicemente sto morendo di cancro” (all’esofago) che gli aveva compromesso il fegato. Rinuncio alle cure, non userò la chemio pesante, né operazioni chirurgiche perché il mio fisico è debole, ne ha passate troppe… il guerriero ha diritto al riposo”.

Pepe ha preferito morire a casa sua, in pace, assieme alla sua compagna di una vita, con cui è stato più di cinquant’anni, Lucía Topolansky, anche lei ex militante contro la dittatura ed ex senatrice. Lucía e Pepe, un grande amore, anche se non potevano nascere più diversi.

Lui in un quartiere operaio di Montevideo, orfano di padre a sette anni, lei figlia di un ricco ingegnere e imprenditore, educata dalle suore domenicane. “Tutto è intestato a lei, un essere superiore a cui devo ogni cosa”. Sposati soltanto nel 2005, dopo una lunga convivenza non hanno fatto figli, “perché dovevamo cambiare il mondo”.

Vivevano in modo molto spartano in una piccola casa, alla periferia di Montevideo, coltivando la terra. La casa era sempre quella che aveva abitato anche quando era presidente, una umile chacra (casolare) alla periferia (povera) di Montevideo con accanto la sua auto, il “mitico” maggiolino Volkswagen, immortalato nel documentario a lui dedicato nel 2018 dal regista serbo Emir Kusturica (El Pepe, una vita suprema).

Il maggiolino era diventato il simbolo del suo stile parco e popolare, vecchia e un po’ scassata con cui si muoveva dalla casa di tre stanze al palazzo della presidenza. E quasi il 90% del suo stipendio da presidente devoluto alla lotta contro la povertà.

«Pepe è l’ultimo eroe politico in un mondo dove i politici parlano di cose che la gente non intende», sosteneva Kusturica, ma anche i due giornalisti uruguaiani Andrés Danza e Ernesto Tulboviz che hanno firmato un libro a lui dedicato (Una oveja negra al poder, Una pecora nera al potere).

Dopo la guerriglia e il carcere (erano ispirati dalla rivoluzione di Fidel Castro a Cuba), dopo la fine della dittatura, l’amnistia permetterà ai guerriglieri di cercare con le elezioni il Governo. Nel 2010 Mujica diventa così presidente dell’Uruguay e un’icona della sinistra latino-americana.

Nei cinque anni di governo Pepe (con Lucía sempre al suo fianco) vara un liberalismo progressista, una critica violenta al consumismo, la legalizzazione della marijuana venduta attraverso lo Stato, dando un bel colpo ai narcos, regolamenta l’aborto e le nozze gay. Era a favore dell’integrazione e della multiculturalità, “perché la razza pura é una merda”.

Mujica non aderirà mai al socialismo del XXI secolo di Hugo Chavez e Fidel Castro. Li ammirava, ne condivideva parte dei programmi e la lotta antimperialista, ma non l’impostazione ideologica. Andava più d’accordo con l’ecuadoriano Correa e ancor di più con l’amico brasiliano Lula – ma a Montevideo, si sedeva e trattava con imprenditori.

Se li caccio e nazionalizzo, corro il rischio che si riducano gli investimenti e i posti di lavoro per la mia gente…l’esperienza di Cuba dimostra che lo Stato non dà garanzie di saper maneggiare meglio gli affari. Dunque, bisogna essere pragmatici, affiancare il buonsenso – la migliore delle ideologie – mentre si espongono idee di progresso”. Il primo ex guerrigliero – e probabilmente l’unico – invitato alla Casa Bianca dall’allora presidente Obama, in procinto di “aprire a Cuba” e recarsi in visita all’Avana (2016).

Una vera pecora nera, ma ascoltato, della sinistra latinoamericana, che secondo Alberto Fernández, ex presidente dell’Argentina “parlava come un filosofo, ma fuori dagli schemi”. L’orizzonte della sua politica era a favore della felicità umana, dell’amore per la Natura, delle relazioni umane. Concetti che ripeteva anche in interventi politici, come nel corso del vertice della Celac (Comunità Stati latinoamericani e del Caribe) all’Avana (2014). Spiazzando un poco il linguaggio sinistrese, ma ricevendo applausi e consensi.

Danza e Tulbovitz nel loro libro descrivono un uomo contrario al dogmi e innamorato del buon senso. «Una delle principali fonti di conoscenza è il senso comune – affermava Mujica -. Il problema è quando metti l’ideologia al di sopra della realtà. La realtà ti arriva come un pugno e ti fa rotolare per terra… Io devo lottare per migliorare la vita delle persone nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Questa è la realtà. Sto lottando per degli ideali, ok; ma non posso sacrificare il benessere della gente per degli ideali”.

Sarà sepolto sotto la sequoia che ha piantato lui stesso, insieme alla sua adorata cagnolina Manuela.

Su Mujica leggi anche su Periscopio:
Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso;
Josè Mujica, Il miglior discorso del mondo;

Giuseppe Ferrara, Il vaso rosa di Josè Mujica

In copertina: immagine di spondasud.it

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Maggie: «FIORI DI CORALLO»

Maria Mancino (Maggie): «FIORI DI CORALLO»

Scrivere e leggere poesie è frequentare un mondo parallelo. Un universo che ogni tanto si connette, si tiene in contatto, entra curiosamente nella vita di ogni giorno, cerca punti d’osservazione originali, possibilmente non scontati, ripetitivi.
Capita spesso di sentirsi chiedere cosa vuol dire per me, cosa significa scrivere poesie in questo tempo. E’ necessario? E’ utile? E’ un esercizio di stile o retorico? Un paio d’anni fa, su Periscopio, scrivevo alcune riflessioni che mi piace condividere pensando alle poesie di Maria Mancino: “Io penso che la poesia debba essere uno spazio di libertà assoluta, senza confini o limitazioni espressive. Io credo che ci sia ancora molto bisogno di sperimentare nella/con la parola. Penso sia un bisogno che non dovrebbe mai scomparire. Un bisogno di pensiero differente! Una parola fatta di suoni larghi, sintetici, di spazi/silenzi, di corse al rallentatore, di istantanee da rischiare anche se dovessero uscire “sfuocate”. Una parola che si trasforma in immagini. Una sperimentazione non accademica che non si arrenda ad una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, al “mordi e fuggi”, alla “superficialità” e fatica a lasciare tracce significative, solchi. Una poesia che si presenta sempre più spesso sotto forma (e sostanza!) di chiacchiera dove “le parole non misurano niente, fanno giri inutili, mancano deliberatamente ogni bersaglio” (Emilio Tadini). Iosif Brodskij scriveva che “la poesia è anche l’arte più democratica – comincia sempre da zero. In un certo senso, il poeta è davvero come un uccello che canta senza guardare al ramo su cui si posa, qualunque sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad ascoltarlo, anche se sono soltanto le foglie”.
Fiori di corallo” è un libro antologico uscito un paio di mesi fa per le Selvatiche Edizioni. E’ una silloge suddivisa in quattro sezioni dove sono selezionate alcune poesie da tre delle precedenti raccolte dell’autrice (“Bianco Spino“, Babbomorto Editore, 2018; “Mani d’argilla“, Babbomorto Editore, 2019; “Bacio di carta“, Babbomorto Editore, 2022) e la quarta sezione “Fiori di corallo” con poesie inedite.

In particolare, con continuità, la poesia sbuca con insistenza, si riveste di versi, si fa contigua, si fa sorella di vita nella sezione “Bacio di carta“, facendo “rivoluzioni di silenzio“.

Il mio alibi

Mi allontano da pelli abrasive
senza pori e respiro

trasporto il mio pensare
in luoghi estranei
dove poter infrangere
leggi e vetri

faccio rivoluzioni di silenzio
nel chiasso di calcificate convinzioni
vivo all’estremità del quieto essere
e svendo certezze sottobanco

Condannatemi pure
il mio alibi è la poesia

Passi di fango

Fuggono gli alberi
dal finestrino di un treno
sotto nuvole
che declamano la sentenza

sarà acqua di pozzanghera
sarò passi di fango
Sarà ramo denudato
sarò foglia senza vita

si arrotola il corpo
in un abbraccio di versi
incarno i colori della malinconia
in questa stagione
di silenzio e di poesia

Fiori di corallo“, che da corpo al titolo del libro, invoca senza tregua un desiderio di libertà, che cancelli, dimentichi il filo spinato del tempo.

Fiori di corallo

Fiori di corallo vacillano
su lutti dimenticati
non è sepolto il dolore

gli epitaffi senza croci
hanno bisogno di ricordare
un passato che non trova pace

sul filo spinato del tempo
la gemma caparbia cuce fiori
su pelle preziosa libertà

Una voglia disperata di libertà che incrociamo anche ogni giorno guardandoci negli occhi, sfiorando le nostre pelli, coprendo gli stessi passi.

Occhi negli occhi

Spalla conto spalla
in oceani di anime
si sfiorano corpi
inciampo in ognuno

occhi negli occhi
su volti senza nome
dentro gli stessi passi
in scarpe differenti

prigionieri senza cella
con le croste sul cuore
smerciamo sembianze

Una invocazione trattenuta, piena di parole non dette che fanno male perché fai fatica a dipingere di speranza quello che provi, che vedi e non sai (è una speranza) se altri vedono/sentono. E’ una invocazione laica nelle intercapedini del cielo dove
le stelle brillano ancora
come lumi di petrolio
a indicare la strada
per tornare a casa

Crampi

Ho tutte le cose
del mondo nello stomaco
non so se assimilarle
o vomitare
ho ingoiato immagini
e parole
sperando di poterle digerire
neppure il digiuno
mi fa stare bene
ho i crampi nel cuore

(In copertina, foto di Michaela da Pixabay)

Maria Mancino è nata a Campobasso e cresciuta a Matrice, si è poi trasferita a Imola, dove attualmente vive. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive, e sostiene che la poesia abita in un luogo intimo dentro ognuno, ancor prima di essere scritta. Curatrice della collana di poesia “DIFETTOSE” con la Casa Editrice Selvatiche. Ha pubblicato le raccolte poetiche Bianco Spino, Mani d’argilla, Nascosta è in lui la mia follia, Bacio di carta, La memoria della betulla e la raccolta di racconti I plumcake del nonno. Nel 2022 ha vinto il PREMIO LUIGI ANTONIO TROFA – Ferrazzano (CB) e nel 2024 il PREMIO MARIA VIRGINIA FABONI – Tredorzio (FC)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 285° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

Pubblicato da Pressenza il 14.05.24

Membro del movimento guerrigliero dei Tupamaros negli anni Sessanta, imprigionato dalla dittatura uruguaiana tra il 1972 e il 1985, poi ministro, presidente e due volte senatore dopo la sua presidenza, leggendario leader del Movimento di Partecipazione Popolare (MPP) – settore maggioritario del Frente Amplio, ora nuovamente al governo – “Pepe” ha messo tutta la sua vita al servizio del suo popolo.

Coerente con il suo approccio critico nei confronti della spinta capitalista ad accumulare beni materiali che non contribuiscono alla felicità umana, Mujica ha condotto uno stile di vita austero fino alla fine, donando il 90% del suo stipendio a istituzioni di azione sociale a beneficio di settori impoveriti e piccoli imprenditori.

Tra i principali risultati politici durante il suo mandato presidenziale, va ricordato il Piano di edilizia sociale “Juntos”, il cui obiettivo era quello di fornire alle famiglie bisognose una casa in cui vivere. La costruzione delle case ha coinvolto non solo i professionisti, ma anche le persone stesse, insieme ai loro vicini e ai volontari.

Nel giugno 2012, con una decisione da pioniere, il governo Mujica ha proposto di legalizzare e regolamentare la vendita di marijuana. Un altro progetto importante è stata la promozione dell’Università Tecnologica dell’Uruguay, un’istituzione pubblica e autonoma che offre istruzione in sei dipartimenti del Paese, consentendo agli studenti dell’interno del Paese di accedere all’istruzione universitaria.

Mujica è anche riuscito a promulgare, dopo un’accanita resistenza conservatrice, la legge sul matrimonio egualitario nel maggio 2013. Sempre sotto il suo mandato presidenziale, nel 2012 è stato depenalizzato l’aborto con la legge n. 18.987, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza (IVE).

Strenuo oppositore della guerra, nel suo discorso alle Nazioni Unite del settembre 2013 ha affermato che il primo compito dell’umanità è “salvare la vita”.

In quel messaggio poetico e pieno di significato, ha sottolineato: “Porto il fardello dei milioni di poveri dell’America Latina, una patria comune in via di formazione. Porto con me le culture originarie schiacciate, i resti del colonialismo nelle Malvine, gli inutili blocchi di quell’alligatore sotto il sole dei Caraibi chiamato Cuba. Porto con me le conseguenze della sorveglianza elettronica che ci avvelena con la sfiducia. Porto con me un gigantesco debito sociale, con il dovere di lottare per l’Amazzonia, per una patria per tutti e perché la Colombia trovi la strada della pace. Porto con me il dovere della tolleranza. La tolleranza è necessaria per chi è diverso e non per chi è d’accordo con noi. La tolleranza è la base per vivere insieme in pace”. Mujica ha poi definito “piaghe contemporanee” l’economia sporca, il traffico di droga e la corruzione.

“Abbiamo sacrificato i vecchi dei immateriali e occupato il tempio con il dio mercato, che organizza la nostra economia, la politica, la vita e finanzia persino l’apparenza della felicità a rate. Sembra che siamo nati solo per consumare e consumare, e quando non possiamo farlo, ci sentiamo oppressi dalla frustrazione e dalla povertà”, ha aggiunto.

Ha criticato con forza il consumismo. Se l’umanità aspira a consumare come l’americano medio, ci vorrebbero tre pianeti per vivere. Gli sprechi e le speculazioni andrebbero puniti.

Né i grandi Stati, né le multinazionali e tanto meno il sistema finanziario dovrebbero governare il mondo”. Per il presidente uruguaiano, è l’alta politica intrecciata con la scienza, “che non brama il profitto”, che dovrebbe fornire le linee guida.

Al di là delle critiche, Pepe Mujica ha concluso il suo discorso con un messaggio di speranza per la capacità dell’umanità di trasformare i deserti, di creare piante che vivono nell’acqua salata, di sradicare l’indigenza dal pianeta e di accettare il fatto che la vita è un miracolo di cui bisogna prendersi cura.

Attivo promotore dell’integrazione regionale sovrana, ha fatto parte dell’asse politico latinoamericano, accanto a Cristina Kirchner, Lula da Silva e Hugo Chávez, tra gli altri.

Nell’ambito delle Giornate Latinoamericane e Caraibiche dell’Integrazione dei Popoli, che si sono svolte a Foz de Iguazú nel febbraio 2024, alle quali ha partecipato con i suoi 88 anni, il veterano attivista ha affermato che “non c’è integrazione senza popoli che la sostengano”, tracciando una chiara rotta per gli sforzi di costruzione di una casa comune in America Latina e nei Caraibi.

Nel suo intervento nell’atto finale della Conferenza, Mujica ha illustrato interessanti esempi sulla necessità e l’utilità dell’integrazione per il miglioramento della deplorevole situazione del gruppo che siamo soliti chiamare “popolo”, anche se molti dei suoi membri, forse influenzati da false promesse individualistiche, non sempre si considerano tali.

Mujica ha proposto una prima fase con possibili questioni, difficili da respingere, che potrebbero facilitare la comprensione da parte della base sociale dei vantaggi e dei requisiti di sopravvivenza che l’integrazione continentale comporta.

“L’integrazione non è fine a se stessa e non prospera se non migliora la vita dei popoli. Inoltre, per non essere uno slogan vuoto e inutile, deve configurarsi con immagini precise, acquisire colore, forma, plasticità, suscitare passione…”.

E’ difficile descrivere in modo completo della sua persona, a volte affabile e altre acida nella sua franchezza, profonda e allo stesso tempo affezionata ai detti popolari. José Alberto “Pepe” Mujica Cordano passa alla storia come un umanista integrale.

Come ha detto durante una recente visita del Presidente cileno Boric alla sua fattoria di Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo: “Siamo diversi, ma sappiamo tutti che ci sono troppe persone che non hanno una possibilità nella vita. Per questo ci definiamo di sinistra, ma in realtà non siamo né di destra né di sinistra, siamo umanisti. Pensiamo a ciò che è meglio per il futuro dell’umanità. E moriremo sognando questo.”

Javier Tolcachier
Javier Tolcachier, argentino, umanista da lungo tempo, è ricercatore dal Centro Mondiale di Studi Umanisti; analizza per Pressenza i fatti dell’America Latina. Ha scritto numerosi saggi sulla situazione mondiale, sulla storia latinoamericana, sulla Cina. javiertolcachier@disroot.org Twitter: @jtolcachier

Quest’articolo è disponibile anche in: SpagnoloFrancese
Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

Leggi anche su Periscopio:
Josè Mujica, Il miglior discorso del mondo;
Giuseppe Ferrara, Il vaso rosa di Josè Mujica

Cover: Pepe Mujica (Foto di Juliana Barbosa, MST-PR)

Vite di carta /
Tra Mogadiscio e Ostia con Saba Anglana

Vite di carta. Tra Mogadiscio e Ostia con Saba Anglana

Era da un po’ che non mi spostavo a Mogadiscio con le mie letture, dai tempi di Giuseppe Catozzella e del suo Non dirmi che hai paura, il romanzo che ha vinto il premio Strega Giovani nel 2014 con la storia di Samia Yusuf Omar, la ragazzina somala figlia del vento che si qualifica per la corsa dei 200 metri alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 e arriva orgogliosamente ultima.

Le altre atlete sembrano culturiste rispetto a lei, che è vestita più che altro di orgoglio nazionale mentre la maglietta bianca e i fuseaux neri sono quelli che usa ogni giorno per allenarsi.

Credo che ora, dopo avere letto il magnifico La signora meraviglia di Saba Anglana, avrò in mente anche lei, l’adulta che vive a Roma ma è nata a Mogadiscio, non usa il suo nome nel romanzo ma sappiamo che è Saba, riveste il ruolo di narratrice e di protagonista ed è in continuo movimento.

Siamo nel 2015 e lei si muove tra Italia ed Etiopia a raccogliere i documenti che possano conquistare, dopo quarant’anni di vita a Roma, la cittadinanza italiana per la zia materna Dighei.

L’iter burocratico a cui la narratrice e la sua famiglia devono sottostare non è meno complicato del viaggio di Samia dalla Somalia a Pechino, viene da dire. Anche se l’ironia è fuori posto, perché Samia poi muore cadendo dal barcone che la porta in Europa anni dopo, in prossimità delle Olimpiadi di Londra.

La signora meraviglia, esordio nella narrativa della cantante e attrice italiana di origine somala, è scritto con parole che incantano.

Sembrano uscire dagli organi interni dell’autrice, un po’ sangue e tanta sensibilità armonizzati insieme in una prosa che scorre segmentata in frasi brevi. Rivelano verità giunte a maturazione, pronte a essere trasformate in parole.

Raccontano le radici famigliari che affondano nel Corno d’Africa, nella storia coloniale italiana fino all’astio contro gli italiani in Somalia , che nei primi anni Settanta spinse a venire a Roma la famiglia di Nina col marito italiano Carlo e lei, Saba.

Il montaggio è alternato e di volta in volta opera uno strappo spazio-temporale tra l’oggi della vita a Roma e nel Veneto e il memoir famigliare tra Etiopia e Somalia. Dalla luce maestosa tra Roma e Ostia alla assolata Mogadiscio si snodano le memorie che la narratrice ha ricevuto dalla madre Nina e da zia Dighei, che vivono accanto a lei, e dagli altri che abitano in Veneto, zio Bab e le zie Sophia ed Esther.

Non le ha introiettate solo da loro, figli di nonna Abebech e di nonno Worku: qualcosa le è stato travasato nell’anima per via sotterranea. Lungo i solchi delle radici più profonde le sono arrivate le scosse ancestrali del Wukabi: una sorta di demone interiore, che noi chiameremmo attacco di panico, il disagio psicologico di chi non si sente accolto.

Non si è mai sentita veramente integrata nonna Abebech, etiope, rapita da un somalo e poi da lui abbandonata a Mogadiscio con una figlia. Dopo anni più sereni vissuti accanto al marito pure etiope Worku e i loro otto figli, Abebech affonda nel buio, posseduta dallo spirito pericoloso che le toglie il senso della vita e perfino l’uso delle gambe.

Saba ha ereditato da lei l’inquietudine che scava gorghi di vuoto, dentro. Nella sua stanza tiene il proprio autoritratto, una sagoma che ha tracciato col sangue e che la ammalia come una Gorgone. Si guardano nei momenti in cui torna in lei il Wukabi.

A nonna Abebeck hanno portato la salvezza alcune figure misteriose, a metà tra saggezza e magia. Una più di tutte, una maga etiope che conosce anche le superstizioni e le mitologie dei somali, e ha per nome Wezero Dinkinesh.

Per Saba l’iter burocratico che garantirà la cittadinanza italiana a zia Dighei si rivela come un videogioco: “le regole sono a volte da fantascienza, si materializzano dei marziani da neutralizzare” a ogni step, riesce a dire con ironia. Intanto deve affrontare i ricordi, recuperare i brandelli di identità sua e dei famigliari.

Dice: “Lo sono tutti speciali, gli immigrati. Perché hanno qualcosa di rotto dentro da aggiustare” e poi passando al tu di un interlocutore più intimo: “diventi un umano esperto in riparazioni”.

Saba va fino ad Addis Abeba a cercare un ultimo documento per zia Dighei, visita la città alta con la mistica chiesa di San Michele e anche la tomba dei nonni Abebech e Worku.  E proprio qui, dopo avere attraversato le storture della burocrazia raggiunge un traguardo: Saba comprende che il Wukabi va accettato come parte di sé, dice “la bestia non muore, ci devo convivere”.

Giunti qui, alla conclusione del libro, ritroviamo a nostra volta la Signora Meraviglia del titolo, con tutta la sua ironia e il suo sorriso. La strega Wizero Winkinesh e l’appellativo dato dalle zie e da Saba al documento della cittadinanza italiana hanno infatti lo stesso nome.

Nota bibliografica:

  • Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2014
  • Saba Anglana, La signora Meraviglia, Sellerio, 2024

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

l'ornamento del mondo

L’ornamento del mondo

L’ornamento del mondo

I have been here before,
But when or how I cannot tell…
[Dante Gabriel Rossetti]

L’ornamento del mondo: come musulmani, ebrei e cristiani hanno creato una cultura di tolleranza nella Spagna medievale (Back Bay Books / Little Brown & Co., New York, 2002). Avete mai letto o sentito parlare di questo libro?

Maria Rosa MencaL,introduzioneHaroldBloom, The Ornament Of The World: How Muslims, Jews, and Christians Created a Culture of Tolerance in Medieval Spain, New York 2002.

Si tratta di un bestseller scritto da una professoressa di Yale, Maria Rosa Menocal, con una preziosa prefazione di Harold Bloom. Il libro è di fatto un ritratto illuminante della Spagna medievale nel periodo in cui musulmani, ebrei e cristiani vivevano insieme in un’atmosfera di tolleranza.

Questa storia avvincente di un’età dell’oro “perduta”, riporta in vita la ricca e fiorente cultura della Spagna medievale, dove per più di sette secoli musulmani, ebrei e cristiani hanno vissuto insieme e dove la letteratura, la scienza e le arti sono fiorite… O, forse, la tolleranza è fiorita grazie alla letteratura, alla scienza e alle arti?

“Non è esagerato dire che ciò che presuntuosamente chiamiamo cultura ‘occidentale’ è dovuto in larga misura all’illuminismo andaluso… Questo libro ripristina in parte un mondo che abbiamo perso.” [Christopher Hitchens, The Nation].

Diciamo subito che questo è un libro sulla nostalgia, e la nostalgia può essere una cosa pericolosa quando diventa un trucco della nostra memoria per filtrare il passato attraverso una lente sentimentale, dimenticando tutto il male e magnificando solo il bene.

In generale quando pensiamo a un tempo precedente alla nostra vita, corriamo il rischio non solo di distorcere la verità, ma di inventarla: anche a questo si riferiscono i primi due versi di Dante G. Rossetti posti in epigrafe.

Il libro parla di Al-Andalus, della penisola iberica islamica chiamata cosi dagli stessi musulmani, – dal 711 al 1492 – e, come anticipato, della cultura della tolleranza che fiorì durante questo periodo. Menocal prende il suo titolo da un’osservazione di Hroswitha, una monaca cristiana tedesca, che durante un incontro con un ambasciatore, definì Córdoba “l’ornamento del mondo”.

A dispetto della sua professione Menocal non scrive una storia convenzionale e cronologica, ma preferisce mettere in fila una serie di immagini di quel periodo. Il suo è un approccio molto più vicino a quello di una giornalista che a quello di una storica, indugiando su scorci biografici e aneddoti delle personalità più accattivanti ed evocative di quel periodo.

In questi momenti di crisi internazionali dove sembrano ri-convergere le stesse identiche cose (e personalità) emerse nel passato, ricordare queste storie può rivelarsi di aiuto soprattutto considerando che anche il nostro tempo presto sarà datato.

Come ci ricorda Rossetti, siamo già stati qui. E allora proviamo a dire quando, dove e… come  siamo “arrivati qui” e, al contrario, ne siamo “venuti via”.

L’ornamento del mondo è stato pubblicato nel 2002 tra gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e l’invasione dell’Iraq ed è un libro di una straordinaria attualità, perché tratta di una delle cause conclamate ed evidenti delle guerre: l’indurimento delle ortodossie e l’esasperazione di posizioni radicali (imperialiste, sovraniste, nazionaliste…razziste).

All’inizio del libro viene tracciata una breve storia della Spagna musulmana, evidenziando la composizione multietnica e multireligiosa della penisola iberica nel periodo trattato e la coesistenza pacifica di monoteismi rivali che però si riconoscevano come “popolo del Libro”.

La cultura di Cordoba di quel periodo beneficiò delle traduzioni arabe della filosofia greca che si fecero strada da Baghdad ad Al-Andalus e che favorirono un’atmosfera culturale di pluralismo, tolleranza e raffinatezza.

Al-Andalus terminò con la riconquista cristiana della Spagna nel 1492 e con la conversione forzata o l’espulsione di musulmani ed ebrei. La cultura andalusa fu infine sterminata nel secolo successivo mediante l’opera dell’Inquisizione verso qualsiasi pluralità culturale e religiosa e, addirittura contro le stesse lingue araba e ebraica.

La tesi principale della Menocal è che quasi tutte le conquiste culturali che tendiamo a pensare come moderne e occidentali siano in realtà arrivate attraverso Al-Andalus. Fu dai canti d’amore dell’Arabia preislamica, modificati in canzoni popolari, che i trovatori appresero l’arte della lirica che portò alla moderna poesia europea; fu la narrazione orale popolare della Persia, di Baghdad e di Cordova che diede vita alla moderna narrativa secolare di Boccaccio e Chaucer.

Con la reconquista da parte cristiana del 1492 fu questa “sacrosanta” diversità religiosa a venire cancellata tanto che la Menocal sembra avanzare la tesi che sia la stessa religione, attraverso un suo indurimento ortodosso, a essere un ostacolo alla convivenza in una società di prim’ordine.

E infatti nel capitolo riassuntivo del libro quello dal titolo Breve storia di un luogo di prim’ordine, la Menocal ricorre allusivamente al seguente aforisma di F. S. Fitzgerald: la prova di una intelligenza di prim’ordine è la capacità di mantenere due idee opposte nella propria mente e allo stesso tempo mantenere ancora la capacità di funzionare”.

Cover: Califfato di Cordoba: Ebrei e Musulmani giocano a scacchi. – immagine da Esefarad. com

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Cortometraggi europei allo European Projects Festival, appuntamento il 14 maggio

Anche quest’anno Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF), festival internazionale di cortometraggi, partecipa al ricchissimo programma della seconda edizione di European Projects Festival, il festival della progettazione europea, che si svolgerà a Ferrara dal 14 al 16 Maggio.

Lo fa con un’esclusiva rassegna a ingresso gratuito, mercoledì 14 maggio dalle 22h00 alle 23h00 presso la Sala Ex Refettorio – Chiostro S. Paolo, in via Boccaleone 19, con prenotazione online dei posti (qui).

Verranno presentati quattro cortometraggi europei, selezionati per le tematiche trattate, legate a tutela ambientale, diritti e cultura dei popoli nativi, immigrazione e diritti delle minoranze di genere.

Provenienti dall’ultima edizione del FFCF, questi quattro film dimostrano la grande qualità delle produzioni corte europee e la maestria degli autori presentati, capaci di rapportarsi con tematiche di estrema profondità e attualità, senza mai perdere la magnificenza visiva del cinema internazionale.

Programma delle proiezioni (tutti i film sono in lingua originale con sottotitoli in italiano):

  • ROOM TAKEN – di Tj O’Grady Peyton (Irlanda, 19 min)
  • THE FISHERMAN, THE ALIEN, THE SEA – di Elisabetta Zavoli (Italia, 9 min)
  • IVALU – di Anders Walter e Pipaluk K. Jørgensen (Danimarca, 17 min)
  • COLLAGE – di Màrius Conrotto Dïaz (Spagna, 10 min).

Qualche dettaglio per film che meritano davvero.

Room Taken: storie di marginalità

Il cortometraggio Room Taken (2023), del regista irlandese TJ O’Grady-Peyton, in soli 18 minuti porta lo spettatore a confrontarsi con alcuni dei temi sociali più attuali ed importanti: l’immigrazione, i problemi abitativi, la disabilità, l’assenza di politiche sociali, gli anziani abbandonati, l’inclusione (o, meglio, l’esclusione). In sintesi, la marginalità. Quella ribellione alla politica dello ‘scarto’ tanto caro al compianto Papa Francesco.

In tutto questo, il racconto di TJ O’Grady-Peyton, vincitore del Young Director Awards, a Cannes, nel 2013, è colmo di umanità e compassione, oltre che di tenerezza. Il cortometraggio ha ottenuto il Premio Miglior Cortometraggio al Cleveland International Film Festival e il Premio Miglior Cortometraggio al Dublin International Film Festival.

Al centro del racconto, Isaac e Victoria, entrambi ai limiti, della società e dell’umanità. Invisibili, soli, abbandonati, dimenticati.

Isaac (Gabriel Adewusi) è un uomo di colore da poco arrivato in Irlanda, un senzatetto, che non riesce ad avere un alloggio sociale, Victoria (Brid Brennan) una deliziosa signora anziana non vedente, che abita da sola in una casa vicino al bar dove, un giorno, Isaac entra per ricaricare il suo telefono.

Qui incrocia l’anziana, una habitué del luogo, da come parla alla barista. Nel riportarle la borsa dimenticata al bar, Isaac, si rende conto che quella dolce signora vive in una grande casa completamente da sola e, avendo un disperato bisogno di un posto dove stare, finge di uscire e si stabilisce in uno sgabuzzino del piano di sopra all’insaputa della proprietaria.

Nasce una convivenza forzata, dove Isaac si muove per casa educatamente e fa piccoli lavoretti, aggiustando cose qua e là. Mentre Victoria crede che gli oggetti aggiustati e gli scricchiolii che sente da qualche tempo, siano frutto delle gentilezze e dei gesti d’amore da parte del tanto amato marito defunto, una presenza sempre costante.

È un toccante e profondo incontro fra individui di mondo diversi e distanti, una convivenza fatta di tolleranza, solidarietà ed empatia. Fino alla telefonata tanto attesa da Isaac: un posto-letto nel dormitorio pubblico si è liberato. A noi, in fondo, un po’ dispiace, ci eravamo abituati a quella strana coppia…

The fisherman, the alien, the sea: il granchio blu

In The fisherman, the alien, the sea, Elisabetta Zavoli racconta, in soli 9 minuti l’esplosione inaspettata, nel giugno 2023, della popolazione di granchi blu (Callinectes sapidus), nella laguna di Goro, nel Delta del Po.

Qui, tra le grida allarmate ma inerti dell’intera comunità, un giovane pescatore di quarta generazione, Alessio Tagliati, leader di una piccola cooperativa di allevatori di vongole che ha perso tutta la sua produzione a causa della voracità dei granchi blu, affronta questa nuova sfida ambientale rilanciando una tecnica di pesca tradizionale sostenibile insegnatagli dal nonno e seguendo ciò che il mare gli ha insegnato: essere pronto ad adattarsi a un ambiente in continuo cambiamento, dimostrando un enorme spirito di resilienza di fronte al collasso del suo mondo.

Nato come uno dei progetti che la regista doveva produrre per il National Geographic Society – Storytelling Grant, per dimostrare gli impatto dell’invasione del granchio blu, l’idea di farne un film nasce dall’incontro con Alessio, sotto il segno delle parole “mare” e “speranza”, oltre che “resilienza”.

Elisabetta vorrebbe seguire quella storia, per vedere come tutta la comunità, sull’esempio di quel pescatore modello, possa reagire, con coraggio e capacità di adattamento.

Ivalu

Ivalu è scomparsa. La sua sorellina cerca disperatamente di trovarla mentre la vasta natura della Groenlandia nasconde segreti. Dov’è Ivalu?

I registi danesi, Anders Walter e Pipaluk K. Jørgensen, raccontano, in Ivalu (2023), della durata di 16 minuti, la tragedia indicibile e inimmaginabile. Un’opera candidata a miglior cortometraggio agli Oscar 2023.

Tratto dall’omonima graphic novel di Morten Durr e Lars Horneman, la trasposizione cinematografica, ci portano fra i freddi paesaggi groenlandesi che osservano le giovani sorelle Pipaluk (Mila Heilmann Kreutzmann) e Ivalu (Nivi Larsen), rincorrersi spensierate tra le rovine, raccoglierei mirtilli sulle montagne, pescare d’estate sui fiordi prima che ghiaccino. Mentre tutti si adoperano nella piccola cittadina danese, per prepararsi all’arrivo della regina, Pipaluk è sulle tracce della sorella che sembra essere scomparsa. Di lei restano solo disegni a matita nera appesi al muro della loro cameretta condivisa e il costume folkloristico indossato alla sua cresima, che ancora trattiene il suo profumo.

Un corvo la accompagna nella ricerca, quel corvo che Pipaluk pensa sia la sorella.

È anche un viaggio interiore, una confessione dolorosa, una lettera d’amore, la difficoltà immensa di elaborare un’assenza. Si svela lentamente una realtà di abusi sottaciuti e di un gesto estremo mai reso esplicito ma sempre trasfigurato. Viaggiando a ritroso nei suoi ricordi, la solitaria Pipaluk scova i segni del male contro cui la piccola Ivalu combatteva silenziosamente: uno sguardo di troppo, le lacrime in notti insonni, un’improvvisa esplosione di violenza.

Il viaggio di Pipaluk si conclude con un grido senza suono, innocente e disperato allo stesso tempo, custodito dal corvo e dalle pareti rocciose di una desertica Groenlandia. Nel silenzio più immenso di tutto e tutti.

Collage

Una ragazza che lavora in un museo cerca di convincere un collega che due visitatori stanno flirtando. E lei come può saperlo? La giovane sostiene che, secondo studi scientifici, esistono sei segnali che dimostrano l’attrazione di una persona per un’altra.

È la narrazione divertente di un interessante cortometraggio spagnolo, Collage, diretto da Màrius Conrotto, del 2024, della durata di 9 minuti.

Zebra. Ridere fa bene

ZEBRA. RIDERE FA BENE

Zebra. ChristopherDa quando da giovane giocavo a calcio e volavo sulla fascia sognavo l’Italia la vostra serie A. Ora ho 34 anni e anche se per fare il calciatore non ho più l’età, non ho smesso di puntare in alto: presto esordirò come comico. 

Mia madre avrebbe voluto che frequentassi l’università, ma la sofferenza che vedevo ogni giorno in Edo State, lo Stato della Nigeria da cui provengo, era troppa e così la mia voglia di provare a costruire la mia vita altrove.

Mia madre ha capito le mie motivazioni e mi ha lasciato libero di scegliere. Lei è stata il migliore esempio a cui potessi guardare. Ogni volta che mi metto ai fornelli e preparo alcuni dei piatti che mi ha insegnato è un po’ come averla qui al mio fianco.

Il piatto che mi riesce meglio è il jolof rice, un riso a base di pomodoro e cipolla molto gustoso. In cucina sono bravo ma non ho mai fatto il cuoco. Ho sempre lavorato nel settore edile come muratore, in Nigeria e Alto Adige. Qui ho avuto modo di imparare a fare cose che nel mio Paese non si usano, come i cappotti termici.

Da giovane, però, sognavo di diventare un calciatore. Giocavo ala, il classico numero 7 o 11 di una volta: fascia destra o sinistra per me era indifferente, perché ero in grado di giocare con entrambi i piedi. I miei idoli erano Kanu e Okocha, campioni famosi anche in Europa a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Oggi non sono più veloce come una volta, però me la cavo ancora bene, anche se il calcio ormai è solo una passione da condividere con gli amici nel weekend.

Anche se per vivere non giocherò a calcio, tuttavia, non significa che abbia smesso di sognare. Il mio obiettivo è debuttare entro la fine dell’anno come stand up comedian. Adoro far ridere le persone. Mi ispiro ad alcuni comici nigeriani come Sabinus, Funny Bros e AY, ma ovviamente punto a trovare la mia cifra personale.

Al momento sto scrivendo alcuni testi che prendono spunto dal mio vissuto e da alcune storture della società. Sono convinto che ridere sia salutare e che ironizzare e mettere alla berlina situazioni della quotidianità che sfiorano l’assurdo, inoltre, possa sensibilizzare un pubblico ampio su temi che magari ai più sembrano distanti.

Uno di questi, che vivo in prima persona, è la difficoltà che si incontra quando si cerca una casa in affitto. Io, mia moglie e nostro figlio Christian di undici mesi viviamo in un appartamento il cui contratto non è mai stato registrato dalla proprietaria di casa. Questo è un ostacolo che non ci consente di prendere la residenza.

Da tempo stiamo cercando un’altra sistemazione, ma mi sono reso conto che, se già per tutti è complicato trovare una casa, quando di cognome fai Inegbezele lo è ancora di più. E su questo aspetto particolare, purtroppo, anche facendo grandi sforzi non ci trovo niente da ridere.

Non vede l’ora di dare appuntamento a lettori e lettrici di Zebra. al suo primo show.

CHRISTOPHER INEGBEZELE

CIT.: “Non ho smesso di sognare e presto debutterò come stand up comedian.”

Per maggiori informazioni in italiano: www.oew.org/zebra   In tedesco: www.oew.org/zebra

Nelle prossime settimane Periscopio ospiterà la voce di Zebra, attraverso gli articoli dei suoi redattori e collaboratori

Corte dei conti: gravi ritardi del “piano carceri”

Corte dei conti: gravi ritardi del “piano carceri”

di
pubblicato da Collettiva il 5 maggio 2025

L’importanza della notizia è data dal fatto che anche un organo dello Stato certifichi le denunce che in questi anni hanno continuato a fare i garanti per le persone detenute e le associazioni che si occupano di carceri. Tra queste Antigone, il cui coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione Alessio Scandurra ci ricorda che “una decina di anni fa fu approvato un piano straordinario per l’edilizia penitenziaria, con un commissario straordinario e sul quale erano stati messi soldi e che, come sempre, doveva essere la risposta della politica al sovraffollamento carcerario”.

Lavori ordinari per un’emergenza straordinaria

“Negli ultimi anni – prosegue – ci sono state diverse iniziative, ma non hanno mai cavato un ragno dal buco, o hanno prodotto sempre risultati molto modesti a confronto delle aspettative. Questo sembra in realtà il frutto di una politica ordinaria di edilizia penitenziaria che lentamente sostituisce alcuni istituti più vecchi, più malandati, ne costruisce di nuovi, ma in una successione più fisiologica che non emergenziale e straordinaria”.

Oltretutto la comunicazione istituzionale spesso non è completamente trasparente. “Ad esempio, quando si inaugura un’opera si dice che è l’esito dell’ultima iniziativa straordinaria, però poi, se si va a frugare nelle carte, si scopre che sì, magari l’ultimo piano aveva stanziato soldi per finire il tal padiglione carcerario, che però stava su un progetto di 25 anni prima. Per cui, dopo una serie di piani straordinari che non sono andati in porto, viene fatto l’ultimo miglio e quel successo se lo intesta il governo in carica in quel momento. Sono cose che abbiamo visto”.

Cause e concause

La Corte dei conti individua poi alcune cause del grave ritardo del piano straordinario, come la carenza di finanziamenti per le modifiche, il cambiamento delle esigenze di una struttura e le imprese inadempienti. Aggiungiamo noi che è di solamente un mese fa la notizia secondo la quale per il nuovo piano di edilizia penitenziaria, a pochi giorni dallo scadere della gara d’appalto, mancavano ancora i decreti ministeriali per istituire le nuove sezioni da realizzare in nove carceri.

Scandurra spiega che costruire un carcere è più complicato di qualunque altro edificio pubblico, “perché ha requisiti molto specifici. Però è evidente che da parte dell’amministrazione penitenziaria ci siano difficoltà a stare su questi progetti, a monitorarne l’esecuzione e la qualità”.

L’Associazione Antigone, ci fa sapere il suo coordinatore, ha incontrato tante vicende di lavori che “quando sono andati a compimento, ci si è accorti che non avevano alcuni requisiti indispensabili per l’utilizzo della struttura. A questo punto bisogna indire un nuovo bando per le modifiche e le integrazioni per renderlo adatto allo scopo a cui era destinato. Questo accade perché evidentemente non ci sono le competenze e il personale amministrativo per monitorare la realizzazione di questi progetti”.

Non solo sovraffollamento

Per la Corte dei conti il problema non è solamente la mancata creazione dei posti detentivi necessari, ma anche la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti.

È una situazione di complessivo degrado e la Corte ha individuato una serie di problemi che noi denunciamo da tempo, e credo che tutta la filiera dell’edilizia penitenziaria ordinaria e straordinaria presenti un bilancio fallimentare”, conclude Scandurra: “Se si entra negli istituti penitenziari, si vede che la situazione degli spazi detentivi in uso è spesso veramente inaccettabili. L’analisi sul piano straordinario è lo specchio del complesso della situazione delle carceri italiane”.