Cinque SI ai referendum dell’8 e 9 Giugno:
perché non sei una merce, perchè non hai paura dei nuovi cittadini
Tempo di lettura: 8 minuti
Cinque SI ai referendum dell’8 e 9 Giugno: perché non sei una merce, perché non hai paura dei nuovi cittadini
L’art.1 della Costituzione dichiara che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. I sedicenti riformisti, molti dei quali hanno, da parlamentari o ministri, contribuito a demolire questo principio con leggi che ormai consentono tutto, soffrono di dislessia. Loro l’art.1 lo leggono così: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul datore di lavoro.
Jobs Act
Lavori in un’azienda, che ti ha assunta dopo l’aprile del 2015. Un bel giorno il tuo posto scompare dall’organigramma. L’azienda potrebbe ricollocarti? Sì. Ti ricolloca? No, ti licenzia (magari perché hai la pessima abitudine di fare figli). Quindi il licenziamento è illegittimo? Sì. Cosa prevede il Jobs Act per punire il sopruso? Quattro soldi. Pochi per forza, dal momento che la tua anzianità è bassa e la sanzione (definita non a caso “indennizzo”, non risarcimento) è proporzionata agli anni di servizio. Abolendo il Jobs Act tu puoi chiedere di rientrare in azienda, perché la disciplina che tornerebbe in vigore prevede la reintegra. Ma io non ci ritorno a lavorare in quel posto, manco morta. E’ comprensibile: infatti i casi di reintegra effettiva sono pochi. Ma in questo caso il giudice stabilisce che sei tu, lavoratrice ingiustamente licenziata, a scegliere se essere reintegrata nel posto di lavoro oppure incassare una somma, che però sarà correlata per importo al valore del posto di lavoro perduto. Sarà un risarcimento, non un indennizzo; quindi saranno tanti soldi, non pochi. Sta qui l’effetto deterrente della facoltà di essere reintegrato. Sei tu, vittima del sopruso, a scegliere tra un giusto risarcimento in denaro o tornare al lavoro nell’azienda che ti ha illegittimamente licenziato. Per il Jobs Act, invece, chi decide la mancia per cacciarti è chi ti licenzia.
Ti ammali. Se ti licenziano prima che scada il tuo periodo di comporto, e il licenziamento è illegittimo, secondo il Jobs Act ti spetta una modesta somma di denaro. Non sei tu, danneggiato, che puoi scegliere tra essere reintegrato in azienda ed essere risarcito con una cifra importante, correlata al danno ingiusto che hai subito. (Tranquillo: non ti scriveranno che ti licenziano perché sei malato, ma ad esempio per “scarso rendimento”).
Lavori in un’azienda per cui viene dichiarato lo stato di crisi, e avviata una procedura di licenziamento collettivo. Secondo i criteri di legge vengono licenziati i più giovani senza carichi familiari e mantenuti in servizio coloro che hanno carichi di famiglia. Se questi criteri vengono violati, ad alcuni licenziati illegittimamente (quelli assunti prima del Jobs Act) spetta il reintegro, ad altri (quelli assunti dopo il Jobs Act) spetta solo un indennizzo in denaro.
Sono solo tre esempi, se ne potrebbero fare tanti altri. Secondo il Jobs Act, chi viola la legge può scegliere il prezzo (basso) per il proprio sopruso. E’ un costo aziendale che l’imprenditore può mettere in preventivo, perché può calcolare in anticipo quanto (poco) gli costerebbe.
Piccole imprese
La ricattabilità di una persona sul luogo di lavoro, resa universale dal contratto a “tutele crescenti” – e precarietà costante – del Jobs Act, esiste già prima del Jobs Act nelle imprese con meno di 16 dipendenti. Nelle piccole imprese, un licenziamento ingiusto viene “punito” con al massimo sei mesi di stipendio. Niente valutazione delle capacità economiche dell’impresa, niente valutazione dei carichi familiari della persona licenziata, niente di tutto questo. Il padrone si può liberare di una persona sgradita (magari è brava, ma fa troppi figli) e sa già cosa spende: al massimo 6 mensilità.
Contratti a termine
Attualmente non esiste nessun obbligo di motivare perché ti assumono con un contratto a termine fino a 12 mesi, anziché farti un contratto a tempo indeterminato. Non c’entra il periodo di prova: quello esiste comunque, ed è il periodo nel quale il datore di lavoro può recedere liberamente. Ma non dura un anno. Trovi corretto che un’azienda ti possa lasciare a casa, o possa lasciare a casa tuo figlio, dopo un anno senza alcuna motivazione? Eppure avevi superato il periodo di prova.
Ti piace tutto questo? Ti sembra adeguato per costruirci sopra un futuro per te o i tuoi figli, un impegno di vita basato sulla certezza di un impiego stabile? Prima di rispondere, vai in banca a chiedere un mutuo: poi torna e dammi la risposta. E comunque, sappi che è la disciplina attuale. Quindi, se vuoi abrogarla, vai a votare tre sì al referendum.
Chi critica i referendum sul pacchetto lavoro asserisce che dall’entrata in vigore del Jobs Act sono aumentate le assunzioni a tempo indeterminato e diminuite le assunzioni a termine. Un sacco di gente ci vuol far credere che i numeri degli assunti e delle ore lavorate (oltre che quelli sulla misura degli stipendi) migliorino in proporzione alla libertà di licenziare le persone, anziché in relazione alla dinamica del sistema economico e alla produttività delle aziende. Diminuire le tutele per chi lavora (la famosa flessibilità, cioè precarietà) non serve a migliorare i numeri del mercato del lavoro: serve a rendere più ricattabili le persone. Serve ad assimilare il tuo lavoro a pura merce, da rimpiazzare quando fa comodo al padrone. Hai un lavoro? Ringrazia, e stai zitto e buono. Non ammalarti troppo, non fare troppi figli, non criticare, non alzare la voce, non far valere i tuoi diritti: se lo fai rischi il posto. (E’ questo il “matrimonio” di cui discetta Marattin in tv paragonandolo al rapporto di lavoro: come se marito e moglie fossero sullo stesso piano, come se le dimissioni dell’uno equivalessero al licenziamento dell’altro).
Chi dichiara che i dati sul lavoro sono migliorati dopo il Jobs Act fa un’affermazione azzardata, offensiva e fuorviante. Azzardata, perché non esiste la prova che senza il Jobs Act i dati aggregati sul lavoro (sui quali peraltro ci sarebbe molto da discutere) sarebbero peggiori, a parità di contesto economico. Offensiva per gli stessi datori di lavoro, perché equivale a dire che le imprese assumono solo se possono licenziare liberamente, e illegittimamente, pagando un’oblazione di cui possono calcolare in anticipo il costo. Fuorviante, perché il tema non è il mercato del lavoro, ma che cosa si intende per “lavoro”. Per chi difende le scellerate leggi sul lavoro degli ultimi venticinque anni, le persone che lavorano sono variabili dipendenti non del “mercato”, ma delle scelte del padrone. L’azienda è mia e faccio quello che mi pare. (L’assioma vale per tutti, tranne che per i loro figli, of course. Per i loro figli ci sono le “relazioni”, gli “amici di famiglia”, oppure la successione nell’azienda di papà).
Appalti e subappalti, per chi muore sul lavoro il committente non rischia nulla: una vergogna da cancellare
L’obiettivo del quarto quesito è quello di cancellare un comma del decreto 81 del 2008, modificato con l’ultimo decreto Lavoro fino al testo attuale della legge 215 del 2021, che esclude la responsabilità anche del committente in caso di infortunio di un dipendente della ditta appaltatrice o subappaltatrice, quando l’infortunio è causato da “rischi specifici propri delle attività” delle imprese che stanno eseguendo i lavori. Spesso le imprese lucrano sul massimo ribasso del prezzo che strappano alle impresine cui subappaltano lavori vari (nell’edilizia, nei servizi), fregandosene poi se l’impresina risparmia sui presidi di sicurezza e chi ci rimette la vita o la salute è il lavoratore dell’impresina. Cazzi loro: attualmente l’impresa committente può cavarsela in questo modo. Molto comodo: metti il padroncino nelle condizioni di dover risparmiare su tutto per accaparrarsi l’appalto, poi se uno dei loro muore tu, committente, te ne puoi lavare le mani. E’ una delle regole più vergognose del mercato del lavoro, voluta dal governo Meloni. E’ talmente vergognosa che i critici del referendum agitano la muleta rossa sull’art.18 vecchio arnese comunista (peccato che il padre dello Statuto è Gino Giugni, uno degli ultimi socialisti che non tinsero di ludibrio il sostantivo), consigliando la spiaggia al corpo elettorale, ma di questo quesito non parlano mai. E’ una norma che scaturisce, come detto, dal decreto Lavoro del 2023. Una norma che fa talmente schifo che persino i più servili propagandisti del peggior mondo padronale non trovano argomenti per difenderla(tranne l’ineffabile Marattin che anche in questo caso sfida il pudore dicendo che si risolve tutto aumentando i controlli: su chi, se la legge esclude comunque la responsabilità del committente?).
La cittadinanza va data a chi è nato e vive in Italia: dieci anni sono troppi.
Secondo la legge in vigore, un adulto straniero, originario di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana. L’obiettivo del referendum è ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza. Il termine dei dieci anni è tra i più lunghi in Europa. La riduzione a cinque anni del requisito di residenza può indirettamente semplificare anche il percorso per molti minori nati in Italia da genitori stranieri: oggi un minore nato in Italia da genitori non italiani non acquisisce automaticamente la cittadinanza, ma può richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Dieci anni (che poi diventano tredici grazie alla nostra efficiente macchina burocratica) sono la fotografia di un paese che ha paura dei nuovi cittadini, senza capire che sta morendo, perché gli “indigeni di pelle bianca” sono sempre più vecchi. Un bambino nato in Italia, che fa le stesse scuole dei tuoi figli, mangia la pasta, parla italiano e il dialetto veneto, o romanesco, da quando è nato, non è italiano perché i suoi genitori sono stranieri. Gli esempi sono migliaia: basta frequentare le nostre scuole, i nostri quartieri, che sono già molto in anticipo sulla legge. Le nuove generazioni sono già meticce, per fortuna. Particolare non secondario: queste persone (tra cui circa un milione di minorenni) potrebbero essere i cittadini di domani, legittimati a votare.
I fascisti e molti sedicenti liberaldemocratici contano sul fatto che se metà dell’elettorato attivo più uno non va a votare, il risultato del referendum non vale. Come se sull’aborto e sul divorzio, chi non era d’accordo avesse fatto propaganda per non andare a votare. Invece andarono tutti a votare e vinse il no all’abrogazione della legge sul divorzio e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Stare a casa è un suggerimento da vigliacchi. Ora, dai fascisti la vigliaccheria uno se l’aspetta. Dagli altri, compresi alcuni parlamentari e cariche istituzionali, addirittura sindacalisti, arriva l’oscena pubblicità dell’indifferenza, del disimpegno. Vai al mare, ti dicono. Tu vai al seggio, e mandali dove si meritano di andare.

Sostieni periscopio!
Nicola Cavallini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
Lascia un commento