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Caro Draghi, anche se tu ti credi assolto, sei lo stesso coinvolto

 

Tre giorni fa Francesco Monini su questo quotidiano, intuendo la frittata che sarebbe sortita dalle repentine dimissioni del ‘formica elettrica’, ha attaccato duramente e preso in giro Mario Draghi [Vedi qui].  Devo invece confessare che, circa due anni fa, anche io avevo riposto alcune disincantate aspettative (ossimoro dettato dalla prudenza) in Mario Draghi (leggi qui). Per carità: non ero convinto che l’intervento del Drake versione libero pensatore, pubblicato sul Financial Times il 25 marzo 2020 (leggi qui), un mese scarso dopo l’esplosione mondiale della pandemia, lo avesse trasformato nel nuovo John Maynard Keynes.

Non ne ero convinto, anche se in un angolino del mio cervello albergava la speranza. Del resto, scusate, Draghi allora scrisse cose come questa: “Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.”

Ha scritto “debiti cancellati”. Lo ha scritto lui, ed io ho pensato: toh, ha capito che questa non è una crisi come le altre, questa è una crisi che impone un cambio di paradigma. Attenzione, perché scrisse anche questo: “O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva”.

Lì pensai: la situazione è veramente pesante se lui arriva a dire queste cose (sacrosante). Ma ciò che più mi sorprese e al contempo mi rinfrancò fu quando lessi: “I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.”
Capite? L’incremento del debito come male necessario e largamente preferibile alla distruzione della base produttiva. E infine: “Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.” 

Queste non sono parole di un banchiere. Queste sono parole di uno statista.
Un anno dopo Draghi è diventato Presidente del Consiglio
, spintoci da persone che lo hanno individuato come uno dei pochi (l’unico?) in grado di attuare certe linee di politica economica, perché dotato della credibilità e della affidabilità necessarie per attuarle senza farsi bacchettare dai burocrati del pareggio di bilancio e senza farsi condizionare dalle consorterie di partito.
Bene. Le ha attuate?

200 euro una tantum, 85 milioni per l’innovazione digitale a scuola, fino a 840 euro (tetto massimo) per le famiglie con handicap (eredità del precedente governo); negazione del reddito di cittadinanza a chi rifiuta una “offerta di lavoro congrua”; blocco sostanziale del superbonus per eccesso di abusi (che però parrebbero soprattutto esserci stati sul bonus facciate); rimodulazione Irpef sostanzialmente piatta, che ha restituito più potere d’acquisto a chi guadagna di più e meno a chi guadagna meno, con buona pace del criterio della progressività, e dell’idea della redistribuzione. Sto tenendo fuori i fatti che Draghi non poteva prevedere: la guerra e la conseguente impennata dei prezzi, rispetto a cui le misure adottate finora non sono minimamente avvertibili.

C’è uno scarto abissale tra il Draghi visionario del marzo 2020 e il Draghi capo di un governo che risponde con misure stitiche alla più grave crisi del secondo dopoguerra.
Non sono così ingenuo da pensare che fosse possibile trasporre integralmente, declinandole in provvedimenti di concreto e strutturale aiuto a famiglie e imprese, le linee da Piano Marshall da lui delineate in quell’intervento. Ma se devo pensare che questa sia stata la visione che lo ha ispirato, dovrei definire la sua gestione di questi 500 giorni di governo totalmente fallimentare.

Il fatto che sia caduto proprio adesso è considerata una sciagura perché proprio adesso stava arrivando il bello, la ciccia; i soldi del Pnrr, la riforma del fisco, quella della giustizia, il tetto al prezzo del gas (notare che la Spagna lo ha già introdotto, e noi no; quando pensiamo di introdurlo, invece di limitarci a dichiararlo?). A parte che suona comico questo “proprio adesso”, dopo che sono passati 516 giorni, non 56. Ma io chiedo: di chi è la responsabilità di avere messo “proprio adesso” nei casini il Paese, quel Paese nell’interesse del quale tutti, a partire da Draghi, dichiarano di agire?

I 5 Stelle hanno posto dei temi sociali all’attenzione del Governo. Se ci fossero state delle reali aperture, non credo che avrebbero rifiutato di votare la fiducia al cosiddetto Decreto Aiuti. Hanno fatto una cosa irresponsabile? Non saprei. Se avessero ritirato tutta la delegazione di ministri avrebbero fatto un passo da cui non potevano tornare indietro, ma non lo hanno fatto, per cui hanno lasciato la porta aperta.
Forza Italia e Lega non hanno votato la fiducia perché il Governo l’ha posta unicamente su una risoluzione del PD, firmata Casini, che diceva in sostanza “va bene quello che ha detto Draghi, punto e basta”. Irresponsabili pure loro? Può darsi.

Ma questa irresponsabilità va equamente divisa, perché se la logica è questa, c’è un terzo irresponsabile: Mario Draghi.

Il suo Governo, infatti, non è stato sfiduciato. Anzi, ha ottenuto nuovamente la fiducia della maggioranza del Parlamento. Nonostante questo, Draghi ha confermato le sue dimissioni.
In pratica ha detto: se non ci sono dentro tutti quelli di prima, io non ci sto più, però devono fare quello che dico io. Se non è un peccato di arroganza questo, vorrei capire cos’è. Dietro questo sfarinamento si intuisce chiaramente una difficoltà anche nella gestione di rapporti personali, e quando gestisci un gruppo da primus inter pares questa incapacità non è un difetto da poco.

Quindi Mario Draghi se ne va pur non essendo stato tecnicamente sfiduciato, ed è una mossa che personalmente non comprendo.
Se avesse a cuore i problemi che lascia aperti sul campo, se ne occuperebbe con un Governo dalla maggioranza più risicata ma sicuramente dalla linea più coesa. Invece è come se dicesse: io me ne vado, e se dopo di me deve diluviare, che diluvi. Non la trovo una mossa da statista.

Parole e figure /
L’estate più bella

Ai luoghi che restano e ci vedono passare

Acchiappastorie è il nome, azzeccatissimo, della collana di Terre di Mezzo che più mi piace, compagna paziente di questi afosi pomeriggi di vacanze estive. Sono al mare, finalmente un po’ di riposo e di relax, immersa nelle letture che più mi piacciono, da sempre, gli albi illustrati per ragazzi ma anche per adulti che si sentono sempre bambini. Una bella vignetta di Snoopy mi ricorda che abbiamo sbagliato tutti quando ci chiedevano cosa volevamo fare da grandi: la risposta giusta era restare bambini. Io ci provo, almeno, e non mi è difficile.

In queste acchiappastorie ci sono tutti gli ingredienti più appetitosi: (acchiappa)sogni, (acchiappa)fantasmi, (acchiappa)fantasia, (acchiappa)ricordi, (acchiappa)bellezza.

Lei è una delle autrici-illustratrici francesi più interessanti del panorama di questa zona sogni: Delphine Perret, classe 1980, laureata in design alla Scuola di Arti Decorative di Strasburgo. Con Terre di mezzo Editore ha pubblicato Björn (2018) e Björn. Una primavera di scoperte (2019) e Tutto comincia da un punto (2020). In Francia è stata premiata al Salone del libro di Montreuil, la più importante fiera francese dell’editoria per ragazzi.

Il libro che ho tra le mani è il suo ultimo capolavoro, L’estate più bella (Le plus belle été du monde, Éditions les Fourmis rouges), da lei scritto e illustrato, che ha ottenuto il Prix Sorcières (il premio attribuito dall’associazione dei bibliotecari di Francia e dell’associazione librerie specializzate per ragazzi) ed è stato inserito nella IBBY Honour List 2022 (IBBY è l’organizzazione no-profit l’International Board on Books for Young People che effettua una selezione biennale di libri di recente pubblicazione, opera di scrittori, illustratori e traduttori dei suoi paesi membri, caratterizzati dal rappresentare il meglio della letteratura per bambini del Paese di provenienza ma dall’essere, allo stesso tempo, adatti alla pubblicazione in tutto il mondo, con un approccio quindi interculturale. Le collezioni permanenti dei libri della Lista d’Onore sono conservate a Monaco di Baviera, Zurigo, Bratislava, San Pietroburgo, Tokyo, Kuala Lumpur, Tucson).

L’estate più bella riporta indietro nel tempo, quando i gesti più semplici erano naturali e ci rendevano felici, oggi più che mai che quei momenti restano solo bei ricordi.

Il libro è illustrato con acquerelli dai colori tenui e un poco sfuocati, come il ricordo e il tempo spensierato dell’infanzia meritano.

La bellezza dei momenti passati solo con la mamma, in attimi fatti di felicità e complicità memorabili, ci abbraccia teneramente. Bastava un gelato, un prato verde e un picchio rumoroso a rendere unica un’estate che trascorreva lenta.

Il libro è un dialogo ma è fatto anche per essere letto ad alta voce, a due magari, leggendo e rileggendo passaggi alla sera prima di andare a dormire. Va sfogliato e risfogliato con calma, immagini, parole e pensieri quasi da cullare.

Delphine si ispira ai ricordi d’infanzia della casa dei nonni nel dipartimento del Giura, in Borgogna, e accarezza la dolcezza dei luoghi che restano e ci vedono passare. Quella casa di campagna, fatta di paesaggi quasi eterei, accoglie tutti gli elementi di un bel racconto d’infanzia: le caramelle all’ananas rimaste sull’armadio di cui sentiamo ancora l’odore e il sapore, gli stivali da pioggia gialli che forse un anno dopo sono diventati un poco stretti, i tappi di sughero numerati e dimenticati, i fili d’erba che fra le labbra emettono piacevoli suoni, la soffitta piena di polvere, stoviglie, fotografie e forzieri, le api, i calabroni e le ortiche, un attento fuocherello nel bosco, il lavarsi i denti canticchiando in pigiama, prima di andare a letto, l’osservare un picchio verde, uno scarabeo, un grillo, i girini, una farfalla, una tela di ragno o le formiche, le foto di un cane nella sua cuccia, le macchinine colorate da non lasciare lungo le scale, il sonnellino pomeridiano, le pigne da colorare, il rumore dei passi sulla ghiaia, la cena con l’attesa del dolce, la visita degli amichetti e le avventure nelle tende o nelle recite teatrali, spettacolo in maschera e costume, la raccolta di more o di lamponi, i guanti spaiati (perché mai si trova sempre solo il destro?), il panino mordicchiato a metà, i soldatini da spostare perché stanno sempre in mezzo, un piccolo guscio d’uovo di volpe.

I luoghi dove passiamo e che restano non significano tanto che le cose ci sopravvivono ma, come dice l’autrice in una delicata e originale intervista su radio france, che vi invito ad ascoltare se comprendete il francese, che quei luoghi sono fatti da tutte le persone che ci hanno preceduto. Se si tratta di membri della famiglia, magari sono ancora lì con noi (“mi ricordo che un giorno il nonno ha portato a casa una biscia enorme, in un catino”. “Il nonno? Quand’era piccolo?” “No, era grande. Era già diventato il mio papà”… “Quando il nonno è morto, tu hai pianto?”. “Certo”) se, invece, sono altri, sono coloro che, con la loro esistenza, hanno fatto quei luoghi. Coloro che gli hanno dato vita, respiro, luce, energia e anima. E che nel e con il ricordo di tutti accompagnano la storia. Parlare e raccontare di chi non c’è più anche a chi non lo ha mai conosciuto rende vivo un essere che magari da lassù ci guarda con affetto, tenerezza o amore. La memoria salva, fa amare la vita e cerca di impedirne corsi e riscorsi storici. Anche il semplice ricordo di un sapore può essere meraviglioso.

La complicità con un genitore, fatta di piccoli ma indimenticabili momenti, rimane per sempre, se pur sfumata da e con un acquerello. L’acquerello della vita che scorre.

Il tutto mentre si prova ad allacciarsi da soli le scarpe, finché, dopo numerosi vani tentativi, finalmente vi ci si riesce. E allora si è cresciuti. Ricordando quell’estate, lontana ma vicina, quell’estate che è ed è stata la più bella del mondo.

 

TACCIANO LE ARMI NEGOZIATO SUBITO!
Oggi flash mob anche a Ferrara: piazza Municipale ore 18

?️‍?TACCIANO LE ARMI: NEGOZIATO SUBITO!?️‍?

VENERDI’ 22 LUGLIO ORE 18.00 – PIAZZA MUNICIPALE FERRARA

La Rete per la Pace di Ferrara organizza un flash mob nell’ambito della mobilitazione nazionale per la pace che si terrà in tutte le città italiane.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa ed ha già fatto decine di migliaia di vittime. Si avvia a diventare un conflitto di lunga durata con drammatiche conseguenze sulla vita e il futuro delle popolazioni ucraine, ma anche sull’accesso al cibo e all’energia di centinaia di milioni di persone, sul clima del pianeta, sull’economia europea e globale.
Siamo e saremo sempre dalla parte della popolazione civile, accanto alle vittime, e con i pacifisti russi che si battono per porre fine all’aggressione militare.

Questa guerra va fermata subito cercando una soluzione negoziale, ma non si vedono sinora iniziative politiche in questa direzione, né da parte degli Stati, né da parte delle istituzioni internazionali e multilaterali.

Occorre che il nostro paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato e avviino un percorso per una conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro.
Bisogna fermare l’escalation militare. Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione. Non c‘è nessuna guerra da vincere: noi invece vogliamo vincere la pace, facendo tacere le armi e portando al tavolo del negoziato i rappresentanti del governo ucraino, di quello russo, delle istituzioni internazionali.

La popolazione italiana, nonostante sia sottoposta a una massiccia propaganda, continua a essere contraria al coinvolgimento italiano nella guerra e a chiedere passi concreti da parte del nostro governo e dell’Unione Europea perché sia ripresa con urgenza la strada dei negoziati.
Questo sentimento maggioritario nel paese è offuscato dai media più diffusi e non è rappresentato in Parlamento. Occorre dargli voce perché possa aiutare il Governo a cambiare politica e a imboccare una strada diversa da quella attuale.

Per questo – a 150 giorni dall’inizio della guerra – aderiamo anche a Ferrara alla giornata nazionale di mobilitazione per la pace con iniziative in tutto il paese per ribadire:
TACCIANO LE ARMI, NEGOZIATO SUBITO!
Rete per la Pace Ferrara

LA BANDIERA SBAGLIATA
Tra i giornali ferraresi, Estense.com ci è sempre sembrata una esperienza coraggiosa, un esempio di giornalismo locale indipendente. La consideriamo una testata amica, non certo un concorrente, anche perché questa testata, periscopio, non è un quotidiano locale, nè lo era il quotidiano glocal ferraraitalia. Questa volta però, in occasione della pubblicazione del comunicato de Rete per la Pace Ferrara, ci è parsa sbagliata, giornalisticamente non corretta, la scelta di Estense.com di scegliere come copertina la bandiera dell’Ucraina. L’appello “Negoziato subito!” si rivolge a tutte le parti in campo (Russia, Ucraina, Stati Uniti, Inghilterra, Francia ,Italia …), a tutti i Paesi che (direttamente o indirettamente) prendono parte al conflitto. La solidarietà dovuta al popolo ucraino, non deve essere scambiata con al solo appoggio all’Ucraina e all’adesione del popolo pacifista alle posizioni atlantiste. Scegliere di mettere in copertina i colori dell’Ucraina, invece, induce proprio in questo equivoco. Le manifestazioni che oggi si terranno a Ferrara e in tutte le città d’Italia chiedono, in coerenza con le posizioni del movimento pacifista internazionale, la trattativa, la tregua, la pace per tutti i civili: per il popolo ucraino come per le minoranze russofone. Dunque, l’unica bandiera che si può e si deve sventolare (e correttamente mettere sul giornale) è la bandiera arcobaleno. Così noi ci siamo sentiti di fare.
Francesco Monini

Progetto FERIS: non basta dire no.
Lavoriamo insieme ad una nuova idea di città

 

Con la riunione del Consiglio comunale del 12 luglio si è concluso solo il primo round relativo al progetto FERIS (Ferrara Rigenerazione Innovazione Sostenibilità), quello che mette insieme la ristrutturazione della ex Caserma di Cisterna del Follo, la creazione di un nuovo parcheggio in viale Volano e di un ulteriore ipermercato in via Caldirolo. Lo svolgimento di questo round ci dice non solo che l’approvazione di tale progetto è filata in modo tutt’altro che liscio rispetto a quanto previsto dall’Amministrazione, ma che è possibile, nei passaggi successivi, fermarlo e rendere possibile soluzioni completamente diverse.

E’ necessario lavorare per questa prospettiva, perché il progetto è radicalmente sbagliato e regressivo rispetto ad un’idea di città che guarda al futuro.

Checché ne dica l’acronimo FERIS, nel progetto non c’è nulla che parli di rigenerazione, innovazione e sostenibilità.
Tante sono le ragioni e le motivazioni di un giudizio totalmente negativo avanzate da più parti[vedi ad esempio la stroncatura di Italia Nostra]. Mi limito qui a ricordare quelle essenziali.

il nuovo Ipermercato in via Caldirolo riesce, contemporaneamente, a consumare suolo agricolo e a insistere in un’area in cui, nel raggio di poco più di 1 km, ce ne sono altri 5 per servire circa 13.000 ferraresi, con un rapporto, quasi incredibile, tra mq. di superficie di vendita e 1000 abitanti pari a 461metri quadri.

Il parcheggio in viale Volano, oltre a svalorizzare il paesaggio nel vallo murario, contraddice qualunque approccio adeguato al tema di una nuova mobilità non più incentrata sull’utilizzo dell’auto privata, nonchè di incentivazione al trasporto pubblico collettivo, che in tante città europee significa parcheggi scambiatori nelle zone periferiche e non a ridosso del centro cittadino.

la ristrutturazione dell’ex Caserma è tutta guidata da interventi, siano lo studentato, la parte di edilizia residenziale e quella destinata ad altri servizi, che, anziché guardare all’utilità pubblica, sono finalizzati alla redditività dei soggetti privati che gestiranno quelle attività.

Per farla breve, siamo in presenza di una logica, già fatta propria in altre vicende (dall’utilizzo delle piazze del Centro a quella del Parco Bassani per il concerto futuro di Bruce Springsteen), di privatizzazione degli spazi pubblici e della città. Il tutto seguendo i più classici concetti neoliberisti, a partire dal dogma di attrattività degli investimenti privati che, di per sé, produrrebbero ricchezza economica e sociale.

Il punto è che tale modello ormai non funziona più da tempo e solo fanatismi ideologici e/o interessi di natura privata impediscono di guardare in faccia questa conclamata realtà.

Sempre per stare a Fe.ris, si può dire che esso ha quasi una valenza paradigmatica rispetto all’idea di sviluppo e di città dell’Amministrazione di centrodestra: edilizia e commercio (ai quali si aggiunge il turismo come “fattore produttivo”) come volani per la crescita e il rilancio economico e sociale. Un’impostazione per lo meno datata, vecchia di decenni, e incapace di prospettare una traiettoria adeguata ai problemi di oggi. Non a caso la parte dedicata ai risultati occupazionali del progetto FERIS – 350/400 posti di lavoro strutturati in più- non è assolutamente argomentata e si presenta come stima completamente arbitraria: allo stesso modo, si poteva dire che l’incremento occupazionale previsto è di 100 unità o di 1000 unità, tanto esso è privo di qualunque analisi e approfondimento.

Dicevo in premessa che l’operazione congegnata dall’Amministrazione su FERIS non è andata come progettato. Si era pensato ad una sorta di approvazione-lampo – nel giro di una settimana il passaggio in Commissione consiliare e poi in Consiglio comunale- nel silenzio della città per poi procedere speditamente con gli altri passaggi. In realtà, il voto è stato assai risicato – 17 favorevoli e 15 contrari, con l’opposizione significativa di 3 componenti della maggioranza-, l’opposizione è riuscita, a differenza di altre vicende, a far sentire la propria voce in modo sufficientemente chiaro, si sono prodotte molte prese di posizioni di contrarietà di persone e delle organizzazioni/associazioni sociali, dalle rappresentanze dei commercianti a quelle dei sindacati, dal mondo ambientalista a importanti settori intellettuali.

Soprattutto, si è visto il Consiglio comunale affollato da tante cittadine e cittadini che, senza essere “ convocate” in particolare da nessuna organizzazione, ma spinte dalla consapevolezza dell’importanza delle questioni in gioco, segnalano una possibilità di risveglio e protagonismo delle persone interessate al futuro della città.
Sono queste le risorse su cui diventa possibile contare per fermare il progetto FERIS nei suoi passaggi successivi e invertire la tendenza negativa che lo anima. In particolare, se vogliamo provare ad arrivare lì, a mio parere è necessario avere chiaro almeno 3 ordini di questioni.

La prima, tutt’altro che banale, è che l’attuale opposizione, per essere credibile, dovrebbe riconoscere che, nella sua attività di governo precedente, anche sui temi urbanistici e di visione della città, non ha avanzato una progettualità alternativa a quella cui oggi giustamente si oppone. Certo, è intervenuta in modo meno “sgarbato”, dentro un quadro di regole fissato e non pensato di volta in volta, secondo le proprie convenienze (e quelle dei privati), ma non c’è dubbio che, per usare l’esempio dello sviluppo degli ipermercati e del rapporto pubblico-privato, anche le Amministrazioni di centrosinistra hanno guardato alla loro proliferazione come punto positivo ai fini della crescita economica e sociale.
Detto in altri termini, fa quasi ridere sentire dal sindaco Fabbri che la presenza di un nuovo soggetto privato avrebbe il merito di rompere il monopolio rappresentato dalla grande distribuzione affidata alla cooperazione amica del centrosinistra– narrazione che ricorda l’ “anticomunismo” di Berlusconi degli anni ‘90 del secolo scorso- se invece si pensa che, come è stato giustamente ricordato da Stefano Lolli, oggi operano sul territorio comunale anche Tosano, Interspar, Lidl, Aldi, Despar, Famila, Penny Market, Ecu, Eurospin, Cadoro, In’s, Conad, Carrefour, Md, Crai e Superday.

E’ proprio questo, invece, che merita una riflessione: non un’ autocritica fine a se stessa, operazione notoriamente priva di significato, ma la riconsiderazione di un approccio per cui anche il centrosinistra si è dimostrato subalterno alle logiche privatistiche e dettate dal mercato e che, oggi, come su altre questioni, il centrodestra aggrava e porta alle sue estreme e negative conseguenze.
Per esemplificare, tale riconsiderazione potrebbe partire appoggiando la battaglia aperta in città dal Comitato “Save the Park”, con l’obiettivo di far svolgere il futuro concerto di Bruce Springsteen in un’area diversa dal Parco Urbano Bassani: un tema rilevante, che parla anch’esso dell’idea di città.

Da qui si arriva alla seconda questione di fondo, e cioè al fatto di intervenire nei prossimi passaggi relativi all’approvazione di FERIS, con l’idea di farlo bocciare e iniziare a costruire un altro percorso. Altri attori dovranno pronunciarsi nei mesi a venire, dovendo modificare il Piano provinciale del commercio e produrre la variante urbanistica, a partire dalla Provincia e, se non ho capito male, dalla Regione. Detto solo come inciso, non mi dispiacerebbe capire cosa pensa in proposito il presidente della Giunta regionale Bonaccini che, per usare un eufemismo, non si è certo distinto per proporre un modello di sviluppo sociale e produttivo diverso dall’idea di pura crescita quantitativa del PIL, con quel che ne consegue.

Infine –  terzo e decisivo punto fondamentale – occorre, appunto, mettere in campo un progetto alternativo a FERIS.
Il docente di urbanistica Farinella, nei giorni scorsi, ha ricordato come diverse città hanno organizzato gli ‘Stati generali’ per discutere gli obiettivi di fondo del futuro urbanistico della città. Dubito che quest’Amministrazione sia interessata a farlo, visto come ha proceduto in questa vicenda, tutta costruita per silenziare la città.
Mi sento, però, di riprendere lo spirito della proposta: si potrebbe pensare di dare vita ad una sorta di ‘Stati generali dal basso’ per dare voce a tutti i soggetti – cittadini, associazioni e organizzazioni, intellettuali, esponenti politici – che si oppongono a FERIS ed elaborare, in modo partecipato, un’ipotesi alternativa ad esso, come premessa per impostare un nuovo ridisegno della città. Penso valga la pena ragionarci sopra.

Se non l’hai ancora fatto, puoi  leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 23.000 firme [la trovi Qui]

Più di Undici
Storia Passionale di Amore e Ludibrio (SPAL)

 

Non esiste in Europa una squadra di calcio il cui nome sia un acronimo più raffinato di SPAL: Società Polisportiva Ars et Labor (esiste CSKA, ma sta per Club Sportivo dell’Esercito, una cosa molto più dozzinale). Così come non esiste in Europa una Curva di tifosi che abbia scritto una storia collettiva (ma anche molto individuale) di sè e l’abbia pubblicata in veste di romanzo, con tanto di codice ISBN. Con un’eccezione: la Curva Ovest di Ferrara, la cui lingua ufficiale è un dialetto da grezz e aldamar, contraltare della raffinatezza latina dell’acronimo.

Non ho mai capito come si fa a scrivere un libro a quattro mani, figuriamoci a trenta. Non ho mai davvero capito come fa il collettivo Wu Ming a scrivere, e quando l’ho chiesto a uno di loro, Wu Ming 1, mi ha risposto che nelle loro riunioni si scannano a parole fino a venire (quasi) alle mani. Questo produce un miracoloso compromesso al rialzo, che tiene il radicale e scarta il pallido. Il contrario del compromesso al ribasso, che tiene il pallido e scarta il radicale. Credo che il meccanismo sia il medesimo della scazzottata: dopo che ti sei picchiato, quello non è più un tuo nemico, perchè hai eliminato il non detto, ma anche il non fatto. Vi siete detti tutto e vi siete spaccati la faccia. Non c’è più spazio per covare il rancore, e questo fa scaturire addirittura la possibilità di un’amicizia.

Per capire come la Curva Ovest ha potuto scrivere “Più di Undici” ho condiviso una birra al circolo Blackstar, a margine della seconda presentazione “pubblica” del libro, con quattro di loro: Michele, Cristiano, Filippo e Marco. Mi hanno spiegato che alcuni membri della Ovest erano soliti scrivere piccole storie, tipo resoconti di trasferte o partite speciali, che poi venivano diffusi in Curva. Poi è lentamente maturata l’idea di scrivere dei racconti “finiti”, che si esaurivano nella vicenda narrata all’interno della singola storia. Ogni racconto aveva un protagonista: ognuno di questi (alla fine) quattordici personaggi è un dropout, ma più che di emarginati sociali (c’è anche qualche professionista in carriera) è appropriato parlare di persone che si trascinano dietro un nodo esistenziale irrisolto, e che hanno un punto in comune, pur non conoscendosi: un passato da ultrà della Curva Ovest, o perlomeno da appassionato curvaiolo dei tempi che furono. Qui sta la chiave di questa pionieristica opera di artigianato collettivo: dall’integrato allo scoppiato, ognuno di questi caratteri si ritrova a fare i conti con il suo passato, o prova a dare una svolta al suo presente, scegliendo come luogo fisico e simbolico di approdo lo stadio del Rapid Bucarest, dove la Spal deve giocare l’andata di un fantasmatico preliminare estivo di Europa League. Ad un certo punto, il gioco delle casualità e delle combinazioni fa in modo che le strade di questi personaggi si intersechino, si mescolino, e diventino una storia collettiva fatta di tante singole imperfezioni, rimorsi, rimpianti, inadeguatezze, scelleratezze. L’operazione di intersezione dei personaggi mi ha ricordato, in qualche modo (e non sembri sacrilego il paragone), quello che lo sceneggiatore del film America Oggi di Robert Altman fece con i personaggi di alcuni racconti di Raymond Carver, in origine separati l’uno dall’altro e invece intrecciati nella trama livida della pellicola che da essi prendeva spunto.

A Ferrara non si dice “vado allo stadio”, ma “vado alla Spal” . Per chi non si è perso una trasferta, nemmeno a Santa Croce contro il Cuoiopelli o a Solbiate, sfidando il ludibrio post-fallimento e credendo all’incredibile, cioè ad una Spal che dalla Lega Pro arriva alla serie A in tre anni, non può apparire impossibile nemmeno una “improbabile trasferta” a Bucarest, come la definisce il collettivo LAPS (Laboratorio Autonomo Produzioni Spalline). Chi invece alla Spal andava da ragazzino ma poi l’ha persa di vista, per disamore, scoramento o perchè la vita l’ha portato lontano dal Mazza, proverà un brivido nel rileggere la incomprensibile, arcana cantilena che negli anni settanta lo speaker gracchiava pochi minuti prima dell’inizio della partita: sigma, novaghemo, monocura . Erano prodotti per l’agricoltura, ma per le orecchie di un bambino erano le parole d’ordine esoteriche che preludevano all’ ingresso delle squadre in campo, quando il cuore batte a mille. Chi infine vuole provare l’emozione straniante e rassicurante di sentir parlare in dialetto ferrarese trovandosi in un lontano altrove straniero (a chi non è capitato di sentir esclamare un maial! in capo al mondo?), si tuffi dentro le pagine di “Più di Undici”:

La luce del fumogeno illuminava gli avversari: si distingueva nettamente il viso di Aldro su una, due, tre maglie delle ombre avversarie. “Fermi! Fermi! A sén ad Frara anc nualtar!”…In un secondo l’elettricità nell’aria si dissolse in uno scoppio di risa, pacche sulla schiena e cori. C’erano tutti: quelli di Barco e di Vigarano, Claudio col suo megafono e il gruppo dei giovani con Sambo in testa. Tutti si abbracciarono ridendo in mezzo al fumo delle torce. I due pullman dispersi a Trieste si accodarono agli altri tre e si ricostituì la colonna. Era tempo di ripartire. Il confine con la Romania non era lontano. 

Oggi, 20 luglio 2022, “Più di Undici” sarà presentato allo Spazio Grisù-Consorzio Factory Grisù a partire dalle ore 19.

Dopo Lui il diluvio? Macché, il diluvio c’è già stato!
Le inspiegabili ragioni del successo di una “formica elettrica”.

 

Mario Draghi si è dimesso. O dio mama!
Ma davvero il paese è in lutto? Da buon cronista dovevo fare un’immediata verifica.
Appena appresa la ferale notizia, sono subito andato a fare un giro in citta. Centro e periferie. Tutto normale. Poi ho preso il cellulare e ho telefonato agli amici in tutta Italia, da Bolzano a Catania. Nessuna visibile reazione. Come se niente fosse successo.
Sara colpa del popolo bue?
Sicuramente è il segno della distanza siderale (visibile solo con il nuovo telescopio spaziale appena entrato in funzione) tra la politica e i partiti da una parte, e il popolo che in teoria dovrebbero rappresentare dall’altra.

Ai ‘piani alti’, le dimissioni di Draghi hanno innescato una inarrestabile reazione a catena, una frana emotiva, una valanga di accuse incrociate. Tutti i leader di partito della eterogenea maggioranza larga piangono e protestano in pubblico, molti (il più accorato è Enrico Letta) implorano Draghi di restare, di non fare lo schizzinoso, di ripensarci, di aver pietà di loro. Si segnalano i soliti affabulatori: il nuovo uomo di regime Luigino Di Maio e il fine politologo Matteo Renzi. E assieme ai partiti, piangono e strillano, intingendoci il cucchiaio fino al gomito, giornalisti e commentatori, governativi (per fede o per necessità),  tutti i canali televisivi, i grandi quotidiani mainstream. Il più sparato di tutti? Sempre lui, il direttore Maurizio Molinari e la sua Repubblica.

Sono giorni (e notti) di riunioni, risse, trattative convulse per mettere insieme i cocci di una qualche maggioranza e convincere Draghi a tirare avanti almeno fino a dicembre. Ce la faranno? Come sempre, tutto dipende da lui, sarà Draghi a decidere. Domani il Presidente del Consiglio dimissionario andrà in Parlamento e finalmente sapremo: un Draghi bis o elezioni anticipate?
Messi male come stiamo, confesso che l’alternativa mi lascia indifferente e, al di là dei soliti inaffidabili sondaggi, ho la sensazione che la grande maggioranza degli italiani sia indifferente come e più di me.

Insomma, mentre partiti e media sembrano eccitati, quasi isterici per le dimissioni di Mario Draghi, il paese reale (esattamente quello che i nostri politici citano spesso senza conoscerlo affatto) non sembra per nulla traumatizzato. Al contrario, ho il sospetto che molti italiani abbiano tirato un sospiro di sollievo. Non se ne poteva più del “più bravo di tutti”, del santo taumaturgo, del gran finanziere “fazo tuto mi”, del Salvatore della patria… che invece non ci aveva salvati per niente: dall’impoverimento, dalle morti record per Covid, dall’inflazione galoppante, dalla disoccupazione e dal lavoro precario e malpagato, dalle fabbriche chiuse grazie al lasciapassare governativo ai licenziamenti e alle delocalizzazioni gratis et amore dei.

Un mistero da sondare

Mi appassiona invece provare a rispondere ad alcune domande, che tutte insieme rappresentano un vero mistero, impossibile da sciogliere. O quasi.
Per quali motivi tutta la classe politica italiana è schierata come una truppa di soldatini di stagno dietro il generale Draghi?
Perché tutti i ‘nostri alleati’, in Europa come Oltreoceano, lo ritengono una garanzia autorevole e necessaria per l’equilibrio europeo e mondiale?
E per quale arcana e oscura ragione Super Mario rappresenterebbe (come tutti ci ripetono) l’ultima e unica risorsa per salvare l’Italia?

Per favore, lasciamo perdere il suo aureo curriculum in Banca d’Italia e alla BCE.  Avrebbe salvato l’Euro? Non so, c’è pure chi la pensa diversamente, soprattutto i greci che per i diktat della troika hanno versato moltissimo sangue, ma va bene, magari come capo banchiere d’Europa ha fatto anche cose buone, come, negli ultimi anni del suo mandato, il comunque tardivo quantitative easing.

Qui però stiamo parlando di Mario Draghi Presidente del Consiglio, di quanto è riuscito a combinare nei 18 mesi in cui ha comandato con pugno di ferro la baracca Italia. Quali eccezionali risultati può vantare il suo governo? Di quali meriti, di quali medaglie si può fregiare? Se questi successi, anche solo parziali, ci fossero, allora si potrebbe capire l’entusiasmo per il governo Draghi di tutto l’establishment politico. Invece di questi successi non c’è traccia.

Corrado Oddi, su questo quotidiano, ha scritto più di un articolo denunciando, dati ufficiali alla mano, il completo fallimento delle politiche neoliberiste perseguite dal governo Draghi. Puoi leggere alcuni interventi di Oddi Qui  Qui Qui e Qui.

Ma mettiamoli in fila i grandi in-successi di Draghi.
Dal 2005 (prima della grande crisi) al 2020, in Italia il numero delle famiglie e delle persone sotto la soglia di povertà assolutè triplicato (primi in classifica in Europa e con grande distacco). Negli ultimi 18 mesi, quelli di Mario Draghi, nonostante il grande rimbalzo del PIL registrato nel 2021, i poveri sono rimasti tali e quali. A chi è andato allora il surplus di ricchezza prodotto da quel +7,5 di PIL del 2021? Sono sicuro che il lettore può arrivarci senza un mio suggerimento.

L’inflazione, lo sappiamo, è alle stelle. Metteteci pure l’onda lunga della pandemia, la guerra in Ucraina e la conseguente ‘guerra del grano’, le sanzioni alla Russia a cui la Russia ha risposto tagliando il gas all’Italia, metteteci anche la grande speculazione sui prezzi di gas e petrolio, fatto sta che i prezzi al consumo, quindi la spesa delle famiglie italiane, continuano a salire come un razzo. Fonte Istat+ 4,5 nel 2021 e + 6,4% nel primo semestre dl 2022.

Nel medesimi 18 mesi, i salari sono cresciuti poco o nulla (rimando ancora a Oddi che mostra come i salari italiani, a differenza di quelli francesi o tedeschi, siano ‘inchiodati’ da più di quindici anni). In ogni caso Draghi ha ascoltato le richieste dei sindacati ma ha fatto solo vaghe promesse. Quanto a calmierare i prezzi, il governo non ci ha neppure provato. Giusto una spuntatina alle tasse sulla benzina, qualche rimborso causa Covid e il famigerato bonus edilizio del 110%, il quale, tra l’altro, ha fatto impennare i prezzi di calce, mattoni e di tutti i materiali da costruzione.

Primi in Europa

Rimarrebbe, ultima bandiera, il figurone fatto del governo Draghi per la sua gestione della pandemia: vaccinazioni, tamponi, e quant’altro. E’ stato o non è stato Draghi a scegliere di persona personalmente Francesco Figliuolo, l’ormai celebre generale con la piuma sul cappello? Da tutto il mondo sono piovuti complimenti per la strategia italiana di lotta al virus. Nessuno ha vaccinato più di noi, anche perché nessuno ha martellato i cittadini come in Italia; grazie a Draghi, devi vaccinarti per amore o per forza… se non vuoi essere licenziato in tronco.

Non è questo il luogo per discutere ancora di vaccini e vaccinazioni (periscopio ne ha parlato diffusamente, usando sempre il beneficio del dubbio), ma c’è un dato macroscopico  –  e che nessuno ama citare –  che dimostra come nella gestione della pandemia qualcosa sia andato storto. Anzi, più di una cosa. Il dato è quello delle morti per Coronavirus – in rete trovate tabelle aggiornate quotidianamente [Vedi qui]. Provate a confrontare i numeri dei vari paesi europei. Ecco un piccolo ma significativo estratto: dall’inizio della pandemia in Italia si registrano 170.037 morti per Covid, in Francia (con una popolazione superiore all’Italia di qualche milione più) le morti sono 151.875,  in Germania (84 milioni di abitanti) 143.650. Significa che – senza la nostra campagna mediatica asfissiante, senza il ricatto della perdita del lavoro, senza la demonizzazione dei non vaccinati –  gli altri hanno fatto meglio di noi, o almeno meno peggio. La Francia ha avuto circa il 12% di morti in meno rispetto all’Italia (che diventa un -15% se si considera l numero degli abitanti dei due paesi), mentre in Germania il conto dei decessi è  inferiorie del 20% (- 30% se calcoliamo che la Germania ha 25 milioni di abitanti dell’Italia).
Saremo pure i primi per il numero di vaccinati, ma siamo primi (cioè gli ultimi della classe) anche per il numero dei morti.

Fatto sta che, per non guastare la narrazione trionfalistica e nazionalista, in Italia delle statistiche dei morti si preferisce non parlare. Come non si parla più degli ospedali in cronica e mai sanata carenza di personale medico e paramedico.
La triste verità è che anche sul fronte Covid, prima il governo Conte bis, poi il governo Draghi. non si sono coperti di gloria. Ce la raccontano, ma quelle 170.000 croci dimostrano il contrario.

La formica elettrica

Non voglio crocifiggere Mario Draghi – so anche che alla Confindustria e al suo dinamico presidente Bonomi piace tantissimo – dico semplicemente che non vedo traccia di un suo successo (basterebbe uno) nei 18 mesi di suo governo. Eppure, inspiegabilmente la sua stella brilla sempre di più. Ho rimuginato questo mistero, queste domande senza una risposta almeno plausibile.
Poi l’altra notte ho riletto La Formica Elettrica, uno straordinario racconto di Philip K. Dick. Ecco l’incipit; “Alle quattro e un quarto del pomeriggio, T.S.T., Garson Poole si svegliò, si rese conto di essere in un letto di ospedale in una stanza a tre letti e si accorse di altre due cose ancora: che gli mancava la mano destra e che non sentiva dolore”. Dopo poche righe, il medico lo informa che ha perso la mano in un incidente, che potrà avere una perfetta protesi sostitutiva e che lui, l’alto dirigente Garson Poole, non era un uomo ma un androide, “una formica elettrica” secondo il felice neologismo di Dick.

Un androide non è un semplice robot, non è fatto di metallo e di plastica. Un androide è fatto di materia organica, ha un’ intelligenza autonoma, perfino dei sentimenti. L’androide ha una capacità di lavoro sovrumana, non si stanca mai, come una formica appunto. E’ uno pseudo-uomo assolutamente indistinguibile da un uomo. Ma è molto più performante di un uomo; più veloce, più efficiente, più resistente, non sente dolore, non si ammala mai, neppure un raffreddore. Ragiona e decide meglio e più in fretta. Se programmato e assemblato bene, dimostra di essere molto intelligente. E straordinariamente furbo.

Va da sè che una formica elettrica è naturalmente destinata a una carriera formidabile. Può scalare tutti i gradini, e arrivare in alto, molto in alto. Esiste forse qualche uomo, un normale homo sapiens, capace di resistere al suo fascino? Di non trasecolare davanti alla sua competenza, sicurezza, perfezione? Chi non è tentato di farsi da parte per cedergli un qualsiasi scranno? A uno così gli puoi dare tranquillamente le chiavi di casa, cedergli la guida della tua auto o di un intero Stato.

Garson Poole, il protagonista del racconto, era arrivato in cima, governava con efficienza una grande impresa. Collaboratori e dipendenti non sapevano fosse un androide. per loro era un uomo ed era il loro capo, un capo bravissimo. Anche Garson Poole ignorava di essere un androide: credeva di essere un uomo, solo più fortunato della media, Quando si accorge di essere una formica elettrica gli crolla il mondo, ma è coraggioso, determinato, e decide… Leggete il racconto e lo saprete.

Non so se si è ancora capito, ma il mio tremendo sospetto è che l’irresistibile ascesa di Mario Draghi, il consenso e l’ossequio unanime di tutta la classe dirigente italiana (economica e politica), la decisione di dargli in mano tutte le chiavi, tutte le deleghe, tutti i poteri, possa avere a che fare con il racconto di Dick e la storia del protagonista.
Mario Draghi è una formica elettrica come Garson Poole? E se lo è, è cosciente di esserlo, o come Garson Poole pensa di essere un uomo, solo più intelligente, più capace, più fortunato della media degli uomini?  Non sono sicuro, ma da quando mi è entrato in testa quel pensiero, l’ipotesi fantascientifica di un Draghi androide mi sembra l’unica che possa spiegare l’inspiegabile.

Un consiglio e una nota 

Il consiglio. Se vi piace la fantascienza, mollate gli imperi galattici e le tre leggi della robotica del vecchio Asimov e leggete Philip Dick. Per campare ha scritto tantissimo, anche 5 romanzi all’anno, e nonostante la scimmia sulla spalla. Se non vi piace la fantascienza ma amate Franz Kafka e lo ritenete il più grande degli ultimi 150 anni, leggete i libri e i racconti di Philip Dick. Ovvio, Dick non vale Kafka, ma nelle sue prove migliori ritrovate la claustrofobia e la ragione disperata dell’autore praghese. Soprattutto leggete Dick per le sue visioni e le sue premonizioni. Cinquanta o sessanta anni fa scriveva (prevedeva) quello che sta incominciando ad accadere oggi, sotto i nostri occhi. La fine della politica cosi come l’abbiamo conosciuta, le nuove forme del potere, il dominio della tecnica e dei tecnici, la bulimia mediatica, la nuove forme di alienazione e di sfruttamento. Eccetera.

La nota. Chi è abituato a leggermi, avrà capito che con Mario Draghi e Philip Dick mi sono un po’ divertito. Probabilmente Mario Draghi non è un androide (ma non scartate a priori l’ipotesi, guardate il suo modo meccanico di camminare e di usare le mani e le braccia, l’occhio fisso, la bocca senza labbra e dritta come un segmento…). Ma se Mario Draghi non è la prima formica elettrica che arriva nella stanza dei bottoni – questo è il sottotesto della storia che ho raccontato – l’avvento di Mario Draghi rappresenta una novità assoluta, per l’Italia e per tutto il mondo. Molto pericolosa a mio avviso. Con Draghi, per la prima volta la tecnocrazia si impone, dispone, comanda, mentre la politica si inchina ossequiosa. Non è un caso che Draghi si sia portato con sè una piccola squadra di tecnici dentro il governo, e che questi siano gli unici ministri che contano qualcosa.
Quello di Draghi non è uno dei soliti ‘governi tecnici’ che abbiamo conosciuto. E non è solo il governo di ‘un uomo solo al comando’, E’ qualcosa di più e di diverso: è la tecnocrazia che si impone sulle forme della democrazia, ormai sfilacciate.
Non so dove ci porterà questo esperimento inedito. Non conosciamo come governerà la tecnocrazia, se non dalla letteratura distopica e dalla fantascienza, ma sicuramente la tecnocrazia non fa rima con democrazia. E, a differenza del populismo, non ha più bisogno nemmeno del popolo. In fondo in fondo, meglio Berlusconi che Mario Draghi.

CONTRO L’IMBROGLIO DEL PIANO FERIS DEL COMUNE DI FERRARA:
inaccettabile, assurdo, pericoloso, contro tutti i vincoli di legge

Ospito con particolare piacere la durissima nota della sezione ferrarese di Italia Nostra dedicata al piano Fe.ris., già da più parti contestato. Parliamo dei famigerati 3 progetti ‘ammazzaverde’ che il Comune ha commissionato a un pool di aziende private e di cui il Consiglio Comunale ha appena approvato con una risicata maggioranza la prima delibera di indirizzo. Come sempre, le contestazioni e le accuse di Italia Nostra sono precise e documentate, senza appello. Sono perciò curioso di leggere, se avrà la compiacenza e il senso civico per farlo, cosa riuscirà a controbattere il sindaco Alan Fabbri.
Devo dire che questo intervento ha un valore tutto particolare, almeno per me, e credo per tanti ferraresi con un po’ di memoria. Se oggi, almeno urbanisticamente, “Ferrara è bella”, se abbiamo l’Addizione verde, lo straordinario patrimonio delle Mura, della grande cerchia verde del Sottomura, del Parco Urbano Bassani, lo dobbiamo soprattutto al lavoro di Italia Nostra e all’impegno e alla perseveranza dei suoi uomini migliori, come l’avvocato Paolo Ravenna, storico presidente e animatore della sezione ferrarese della associazione, l’architetto Carlo Bassi, l’Ingegner Serafino Monini.
I ferraresi, e chiunque ami questa meravigliosa città, hanno quindi un debito storico con Italia Nostra. Leggere in questa nota che scende in campo aperto e promette battaglia contro un inaccettabile vulnus al patrimonio pubblico – di ogni singolo cittadino e di tutti i cittadini che diventano città – mi sembra un buon auspicio. Non sarà facile fermare il cemento, vincere sopra i grandi interessi degli speculatori, ma possiamo e dobbiamo provarci.
Francesco Monini

Contro il progetto Fe.ris.
Per la difesa del patrimonio ambientale ed urbanistico di Ferrara

Italia Nostra fu tra le poche voci contrarie al testo della nuova legge urbanistica della regione Emilia Romagna, varato nel dicembre del 2017, perché, dopo l’enunciato positivo del limite al consumo di suolo, rinunciava a stabilire a priori a favore dell’interesse collettivo le regole di trasformazione del territorio, demandando di fatto ogni decisione alla contrattazione tra pubblico e privato.

Il voto dei giorni scorsi del Consiglio Comunale di Ferrara, che dà il via all’iter di approvazione del progetto Fe.ris., rende evidente quali possono essere gli effetti nefasti di una legge che lascia alla discrezionalità delle singole amministrazioni comunali la valutazione dell’interesse pubblico nella contrattazione coi privati.

Nella bozza di accordo una società privata si impegna ad intervenire per la “rigenerazione” del comparto delle caserme di via Cisterna del Follo, irrisolto da decenni, recuperandolo ad usi privati (studentato, abitazioni e attività commerciali) con un consistente aumento della capacità edificatoria sull’area di sedime dell’antico convento di San Vito.

Chiede di realizzare la quota di parcheggi pubblici di pertinenza non in loco ma in area extra mura, divenuta nel frattempo di sua proprietà, lungo la via Volano, vincolata a verde nel vigente piano regolatore, nel rispetto delle indicazioni del Progetto Mura.

Condiziona i punti precedenti alla costruzione di un nuovo ipermercato con superficie di vendita di oltre 3.700 metri quadri in area privata  lungo la via Caldirolo, anch’essa destinata a verde nel vigente piano regolatore, quindi inedificabile.
Il Piano Regolatore vigente, come quelli precedenti almeno dal 1975, considerava patrimonio intangibile le aree verdi residue, alcune ancora ad uso agricolo, in prossimità del lato est della cerchia muraria.

In altre parole: io privato mi impegno ad acquistare e sistemare il comparto della ex caserma, per gli usi che fanno comodo a me, ma tu, comune, mi autorizzi a realizzare i parcheggi in area di mia proprietà fronte mura, dove non potrei in ogni caso costruire, ma soprattutto mi concedi di costruire una grande struttura commerciale in area prossima alle mura, anch’essa inedificabile, cedendoti la quota di verde pubblico che dovrei comunque cederti se costruissi in qualsiasi altra parte della città.
Delle “rilevanti ragioni di interesse pubblico” richieste dalla legge per accordi con privati in assenza di PUG ed in deroga al piano vigente, neanche l’ombra.

Inaccettabile, oltre che puerile, dal punto di vista paesaggistico, la proposta di mascherare l’ipermercato all’interno di una sorta di collinetta verde, proposta che si innesta nella corrente architettonica, ultimamente sempre più diffusa, del “So che qui non potrei farlo, lo faccio lo stesso, ma lo nascondo”. E’ tra l’altro evidente che un rilevato “verde” a poche decine di metri dalle mura entrerebbe in contrasto col rilevato storico delle mura stesse. 

Sull’ assurdità di un nuovo ipermercato, dichiaratamente voluto non per motivi di necessità per la città, che già sovrabbonda di tali strutture, ma di concorrenza territoriale tra marchi commerciali, già si sono levate numerose e qualificate voci contrarie e sembra quindi inutile dilungarsi.

Il recupero del comparto della caserma Pozzuolo del Friuli è argomento serio, di enorme importanza per la città, che non può prescindere da un investimento pubblico diretto e massiccio capace di coinvolgere la partecipazione di privati.
Esigenze delle strutture civiche di arte antica, dell’università e anche dei residenti in quella parte della città (perché la storia insegna che una città resta viva finché anche il suo centro storico rimane abitato da ogni strato sociale della popolazione) possono trovare risposte attraverso il recupero di quello straordinario comparto-risorsa.
E’ ad esempio impensabile che il bellissimo edificio della Cavallerizza non diventi in futuro struttura pubblica per convegni al servizio dei vicini musei e dell’ università.
La Caserma è uno dei casi emblematici in cui una previdente progettualità pubblica avrebbe potuto cogliere la straordinaria opportunità offerta dal PNRR.

Italia Nostra, che tanto in passato ha contribuito alla realizzazione del patrimonio urbanistico costituito dal parco delle mura e dal parco urbano, si batterà perché le aree salvate dall’edificazione in prossimità delle mura rimangano tali e perché nel parco Bassani, protetto dal Piano Paesaggistico Regionale come “zona di particolare interesse paesaggistico ambientale”, non si organizzino eventi potenzialmente devastanti per un ambiente tanto bello quanto delicato.

ITALIA NOSTRA – sezione di Ferrara
Ferrara, 18 luglio 2022

Cover il Parco delle Mura di Ferrara, Baluardo dell’Amore. 

Le storie di Costanza /
Luglio 1959 – La Violetta di Parma

 

In luglio la maturità di mia madre Anna terminò e lei si diplomò. Allora il diploma dell’Istituto magistrale era abilitante e permetteva alle neo-maestre di iniziare subito la carriera di insegnante.

In settembre, posti disponibili permettendo, avrebbe potuto cominciare ad insegnare alla scuola primaria di primo grado (che allora si chiamava semplicemente scuola elementare).

Intanto era luglio e a scuola non andava nessuno. Mia madre passò quell’afoso mese estivo nel negozio della nonna Adelina, vendendo spagnolette, bottoni e passamaneria.

Il negozio era fresco e aveva un profumo intenso dato dagli oggetti là stipati pronti per essere venduti e dall’umidità che trasudava dai muri. Il connubio era interessante, l’umidità tratteneva gli odori del negozio e in parte li trasformava, rendendo quel posto inconfondibile.

È proprio l’odore che rende i luoghi unici. Basti pensare all’odore di polvere, fiori e incenso che caratterizza le Chiese, all’odore di disinfettante, medicinali e minestra che caratterizza gli ospedali, all’odore di carta e gesso che caratterizza le scuole.

Esistono poi luoghi particolari che hanno odori unici e riconoscibili solo per ciascuno di noi. Mi viene in mente il ‘cantinetto’ della vecchia casa della nonna Adelina, che aveva un odore forte di umidità mischiata all’odore morbido dell’olio e a quello fortissimo delle botti di vino, o all’odore riconoscibile e festaiolo della mia cucina quando è appena stato fatto il ripieno di zucca per i tortelli natalizi (ingredienti: zucca, cotognata, amaretti, noce moscata, formaggio e scorza di limone). Quell’odore di zucca sa per me di ritorno a casa, di festa, di parenti, amici, ricordi, di sospensione del tempo ordinario per assaporare il momento dell’incontro.

Sa di punto d’arrivo in cui si fa la somma degli eventi successi e si cerca di tirare un rigo per vedere se il totale è positivo o negativo. Sa anche di attesa per il futuro, per una una ripartenza inevitabile, piena di insidie e sfide, perché così è il rientro nel tempo quotidiano, nel mondo di tutti dove si consuma buona parte della nostra vita su questa imprevedibile e tumultuosa terra.

Nel negozio della nonna, nella parte posteriore del banco di vendita, c’era un reparto con le boccette di profumo. Il banco aveva due grandi cassettoni laterali e uno piccolo centrale. In quello centrale c’era la cassa, in quello più vicino alla stanza chiamata stufa c’erano i profumi e in quello dalla parte verso l’ingresso del negozio c’erano elastici, bottoni e cerniere variopinte.

Le boccette di profumo erano tutte di vetro col tappo di metallo. Le più belle avevano la scatola di cartone mentre le altre erano nude. Il vetro era pesante e a volte colorato.

Tra i profumi più venduti c’era la Violetta di Parma che aveva la bottiglietta trasparente, il tappo viola e un’etichetta con disegnate le violette. Una fragranza apprezzata ancora oggi, soprattutto dalle nonne. Un profumo che a me ricorda la primavera e Adelina.

Fu Maria Luigia D’Asburgo, seconda moglie di Napoleone Bonaparte, amante delle violette che a Parma fioriscono in molti giardini, a battezzare la nascita di questa fragranza.

Proprio lei sostenne le ricerche dei frati del Convento dell’Annunciata che lavoravano sui distillati vegetali. I frati, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscirono ad ottenere dalle violette e dalle loro foglie un’essenza molto simile a quella dei fiori appena sbocciati.

Nel 1870 Ludovico Borsari [Qui] acquistò dai canonici la formula segreta per la preparazione di quel profumo. Borsari ebbe per primo la coraggiosa idea di farne una produzione da offrire ad un pubblico vasto. Fu un grande successo.

Il secondo, e più prezioso, profumo venduto dalla nonna Adelina e da mia madre era la Lavanda Coldinava.  Aveva la bottiglietta di vetro trasparente, leggermente bombata e il tappo viola. Sull’etichetta, anch’essa viola, era disegnata una contadina con un cesto di lavanda appena raccolta sulla schiena.

La sua formula è rimasta immutata nei decenni. Nel 1932, la ditta Niggi [Qui] diede vita ad una larga produzione di colonia alla lavanda, raccogliendo una tradizione artigianale diffusa fin dal primo dopoguerra nell’entroterra ligure, al di là del colle di Nava. Da qui il nome.

Questo secondo profumo era più costoso e, poche delle clienti del negozio della nonna, potevano permetterselo. La vendita aumentava in occasione di qualche evento particolarmente significativo per la comunità: un matrimonio, l’arrivo del Vescovo, la festa della Madonna d’ottobre e qualche viaggio particolarmente lungo per andare al funerale di un parente defunto, le cui spoglie erano deposte in un cimitero lontano.

Il viola usato per dipingere l’etichetta della Violetta di Parma e quello usato per la Lavanda Coldinava erano uguali, la stessa tonalità di colore e lo stesso potere evocativo legato al ricordo dei fiori che, in campagna, tutti avevano visto sbocciare.

Quel bel viola chiaro, caratterizzava le etichette delle boccette di profumo e abbelliva di colore il cassetto della nonna Adelina. Ogni volta che si apriva il cassetto, il profumo si diffondeva per tutto il negozio.

Le essenze si mescolavano all’aroma degli altri prodotti allineati sugli scaffali del negozio e diventavano un tutt’uno che comprendeva l’odore dei fili di cotone, del sapone, dello shampoo sintetico in busta, del dentifricio al fluoro in tubetto, della cipria e del talco, della crema per le mani alla glicerina e della pasta Biancardi.

pasta biancardi pomataLa Biancardi era una poltiglia bianca che si metteva sulla pella per non abbronzarsi. Nel 1959 era molto ricercata perché nessuna donna voleva avere la pelle scurita dal sole. La pelle scura era un segno di appartenenza ad un ceto sociale ‘basso’, rivelava chi d’estate passava il suo tempo lavorando nei campi.

Nel negozio della nonna si vendeva anche la Leocrema che ha mantenuto la stessa composizione e la stessa confezione fino ad oggi.

C’era poi il reparto cartoleria con i quaderni che servivano ai bambini per andare a scuola. Le copertine dei quaderni erano mono-colore e non esistevano figure disegnate che potessero indirizzare la vendita verso un prodotto piuttosto che un altro.

Nel negozio erano inoltre esposti altri articoli non molto richiesti. Stavano lì più per riempiere tutti gli scaffali che per rispondere alle esigenze delle persone di Cremantello che frequentavano il negozio.

Una merceria con alcuni scaffali vuoti non era bella da vedere, per questo la nonna Adelina aveva sapientemente posizionato vasetti, imbuti e piccoli attrezzi da giardinaggio che non comprava quasi nessuno, ma che completavano l’estetica di quel negozio rendendolo vivo e bellissimo.

Per incartare i prodotti acquistati dai clienti, mia nonna e mia madre usavano fogli di vecchia carta.

Poco distante da casa loro abitava un signore che faceva il venditore di giornali. Andava sempre in giro con una bicicletta arrugginita sui cui erano sistemate due sacche di cuoio piene di quotidiani e riviste da vendere. Se qualcuno voleva acquistare un giornale, doveva uscire per strada e urlare ad alta voce: “Pinara fermati! fermati! fermatiiiii!!! Voglio comprare un giornale”.

A quel punto Pinara tornava indietro e ti dava il giornale che volevi o, in alternativa, quello che era disponibile quel giorno. Tantè, qualche notizia la si capiva comunque. A volta te lo consegnava in mano, mentre altre, se aveva fretta, te lo lanciava con una certa precisione.

Pinara e sua moglie Carolina vivevano ina una casa fatiscente, una specie di catapecchia piena di mobili e suppellettili preistoriche ed erano degli antesignani giornalai.

Marito e moglie facevano inoltre parte di quella curiosa e non troppo diffusa categoria di persone che dicono “pioverà”, quando vedono dei nuvoli neri in cielo e “si vedranno le stelle cadenti”, quando è agosto e fa molto caldo. Dei profeti nostrani che sapevano propinare oracoli efficaci e facevano promesse molto veritiere, anche se inutili.

Vivevano al limite del decoroso, erano poverissimi, senza contratto di lavoro, ferie, pensione e sanità gratuita. Senza niente da ereditare e senza figli a cui lasciare tutta la loro carta. Questi erano i giornalai del 1959, queste le loro condizioni di vita considerate allora normali.

Pinara e Carolina regalavano alla nonna Adelina vecchi giornali in cambio di un quaderno all’anno che usavano per la gestione domestica. Con quei fogli tutti pieni di scritte, in negozio, si incartavano i prodotti da consegnare ai novelli proprietari. A volte erano quotidiani e a volte riviste.

Mia madre e mia nonna tagliavano i giornali in quadrati, che impilavano nel cassone centrale stando attente a mettere i più vecchi sopra la pila. Mia nonna era inflessibile, bisognava usare sempre i più vecchi, perché la carta si deteriora facilmente e l’incartamento con fogli molto rovinati non fa un bel vedere.

Mia madre Anna, a cui è sempre piaciuto leggere, appena poteva, estraeva dei fogli impilati per l’imballaggio e leggeva le notizie documentate sui pezzi di carta. Così, tra un cliente l’altro, in quel luglio caldissimo del 1959, mia madre costruì una sua visione del mondo grazie ai ritagli che metteva insieme e a cui attribuiva un significato, aiutata da un personalissimo senso di causalità.

Sperava sempre di riuscire a finire l’articolo che stava leggendo prima che entrasse il cliente successivo. La rigorosità procedurale della nonna Adelina era infatti inalienabile e non si poteva cambiare il modo con cui venivano utilizzati i ritagli di giornale. Se entrava un cliente bisognava usare il foglio più sopra. Se conteneva un articolo potenzialmente interessante o letto solo a metà, non faceva nessuna differenza.

Un giorno Pinara chiese a mia nonna se poteva regalargli una boccetta di Violetta di Parma da donare a sua moglie per il suo settantaduesimo compleanno. Per mia nonna non era un regalo da poco ma, mossa a compassione dalla povertà di quella gente, regalò a Pinara una boccettina di profumo.

Pinara andò a casa tutto contento, ma purtroppo non poté regalare a sua moglie la Violetta di Parma. Carolina era morta mentre lui era in giro in bicicletta.

N.d.A.

I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

La Terra dei Sogni
Lettera a mio nipote Filippo

 

Un classico.
Dico la lettera.
Alla moglie, alla fidanzata, al nipote…
Ma a volte è veramente un’ultima possibilità.
Per dire cose che si ritengono importanti ma senza voler scatenare un contraddittorio.
Appunto perché non interessa aver ragione ma far arrivare un messaggio.
Ecco cosa voglio fare: affidare questo messaggio al mare della vita, lo metto in una bottiglia chissà che ti arrivi prima o poi. Lasciami questa speranza.

Cosa è successo è presto detto.
È successo che ieri sera è arrivato un pensiero dalla mia Terra dei Sogni.
Arrivano senza farsi annunciare.
Nei momenti più diversi.
Senza notifica si accomodano nella mia anima e aspettano che li legga.
Provengono da un paese assolutamente reale dove vive tutto ciò che non esiste.
Negli anni si è popolato di progetti, cose, viaggi e persone.
Intanto tutte le persone che ho amato e che hanno lasciato questa terra vanno qui.

Bene, ieri è capitata una di quelle cose che per la Terra dei Sogni è assolutamente importante e che qui invece è di una banalità sconcertante tanto da non essere mai, e dico MAI, essere presa in seria considerazione.
Sto riferendomi al fatto che non posso più parlare, a voce viva intendo, con le persone che non ci sono più!
Cosa è quella faccia?
L’avevo detto che era una cosa evidente!
Mai ieri ero particolarmente felice, ero sopra pensiero e volevo dirlo ad una di quelle persone che abita ora nella Terra dei Sogni!
Ho proprio preso in mano il cellulare, (sì, altro comportamento psicologicamente etichettabile come per lo meno originale: non cancello i numeri delle persone che muoiono ma le conservo appunto in una cartella CONTATTI TERRA DEI SOGNI) e stavo per digitare il suo numero.
Ecco. Tutto qui: Occhi di Cielo (questo il suo nome nella Terra dei Sogni, lì si cambia nome… ma adesso non ho tempo per spiegare questo aspetto della faccenda) non può più rispondere.

Filippo, hai capito cosa ho detto?
Lo dico a te perché se lo dico a qualcun altro mi guarderebbero strano.
Occhi di Cielo non potrà rispondere mai più!
Per sempre dico.
Questo benedetto “per sempre” che ad altri da’ grande sicurezza a me mette profonda inquietudine.
Significa che per quanti sforzi io faccia la sua voce non la sentirò mai più.
Ma ti rendi conto che alcune cose molto importanti con lei non riuscirò mai più a chiarirle? Non saprò mai se quella volta ero riuscito a farmi capire o no? Se quel tipo che avevo intravisto le piaceva veramente? Cosa pensava durante la chemio? Eh, sì perché cazzo, questa domanda non l’ho mai fatta… le chiedevo come stava ma non cosa pensava.
Ma come poteva stare una persona che sa di dover morire? Lo avrei potuto immaginare… è cosa sentiva che non lo so!!!! Questo avrei dovuto chiedere, no?
Insomma oggi posso solo fare domande.
Le risposte dalla sua voce non arriveranno mai più.

Allora panico.
E subito penso: se le cose stanno così, con tutti gli altri che sono ancora qui, meglio chiarire fino a che c’è tempo.

Ed ecco il punto.
Che sembra non interessare a nessuno, me compreso.
Assurdo, vero?
Cioè mi comporto come se il Tempo fosse senza fine, come se ci fosse sempre la possibilità di aggiungere, chiarire, parlare…

Si comincia senza pensarci su troppo.
Non si chiariscono subito le cose.
Lascio passare le giornate.
Alcuni aspetti rimangono sotto terra.
Non verranno più presi in considerazione.
E la mente li dimentica.
Non per forza dolorosi.
Anche aspetti belli.
Un sorriso al momento giusto.
Un incontro mai più ritornato.
Chi lo dice che valgono solo gli incontri con persone che ritroviamo poi abitualmente nella nostra vita e altri no?
Sappiamo con certezza cosa forma la nostra sensibilità, il nostro modo di essere?
Sta di fatto che un numero impressionante di emozioni non le rammentiamo più.
Poi improvvisamente per motivi sconosciuti, per sinapsi particolarmente favorevoli, arriva come un flash dal passato. E il ricordo si materializza sotto i miei occhi, così come mi è capitato ieri e allora la voglia di parlartene esplode dentro e mi precipito per chiedertelo… ma tu non puoi rispondere.

Allora Filippo chiedi adesso!
Chiedi tutto adesso.
Appena imparerai a parlare.
Ti prego… non aspettare
Appena puoi chiedi alla tua mamma di quanto ti ha desiderato.
Ma falle tante domande, tempestala di particolari.
Farglielo ripetere più volte.
Se riesci poi scrivi un diario.
Non badare al fatto che non è più di moda… fregatene della gente e di ciò che pensa, scrivi, scrivi tutto!
Così quando non sarà più lì con te, leggendo quelle pagine ti sembrerà di averla ancora vicino, avrai le sue parole.
Filippo… avere le parole è tutto!

E alla fine arrivato all’ultima pagina del tuo racconto potrai baciare quel foglio e ti assicuro, te lo giuro, sentirai il suo profumo che dalla Terra dei Sogni è arrivato fino a te.

Solo in Italia il Tour europeo del Boss invade il verde protetto. E Monza e Ferrara insorgono.

 

Ultimamente, tra musica rock/pop  e sostenibilità ambientale, nel Bel Paese ci sono alcune importanti frizioni. A quella arcinota, con protagonista The Boss e due dei suoi futuri concerti in Italia, è tornata a riproporsi, come coda di un’analoga polemica già infuriata tre anni fa, prima della chiusura di queste manifestazioni a causa della pandemia, proprio sui nostri lidi, quella con protagonista Lorenzo Jovanotti con il suo Jova Beach Party, che in una delle sue prime tappe si è fermata vicino alla Pineta di Marina di Ravenna.

La cosa sconcertante però non è questa. Il nostro è il Paese delle polemiche, dei cento campanili, dei leader che stanno al governo, ma che si chiamano fuori ad ogni piccola o grande scelta timidamente impopolare. Quello che lascia perplessi è che le polemiche infuriano anche tra ambientalisti, non tutti contrari alle scelte che sono al centro della discussione. Ma perché stupirsi. Anche i virologi, importanti esponenti del mondo scientifico, hanno litigato e stanno litigando sulla lettura dei fatti.

Se in matematica, cambiano le premesse – tecnicamente le assunzioni o ipotesi – le conclusioni saranno completamente diverse. La scienza non è un monolite e quindi nemmeno l’ambientalismo, che nelle sue migliori espressioni alla scienza si rifà. Saranno infatti sempre le premesse a fare il discrimine e l’onestà intellettuale, che da queste premesse, razionalmente, porta a determinate conclusioni e quindi alle scelte.

E’ insomma sempre una questione politica, perché le premesse di un discorso nascono da lì, da quello che si chiamava e si dovrebbe ancora chiamare governo della polis. Allora, se scorriamo le tappe del lungo tour che l’anno prossimo porterà The Boss e la mitica E. Street Band in giro per l’Europa [Qui], una prima annotazione balza agli occhi: le uniche location collocate all’interno di ambienti naturali sono in Italia, rispettivamente a Ferrara e a Monza (la terza tappa italiana del Tour è prevista a Roma al Circo Massimo).

Alla scelta di Monza e dei suoi prati, ci si è arrivati dopo l’indisponibilità di San Siro, dove il Boss si è esibito in tutte le precedenti tourné. Come a Ferrara, entusiasti gli amministratori, nettamente contrario meno il Comitato Parco locale [vedi l’articolo su Milano Today], che già in passato si è opposto a questo tipo di eventi – ad esempio per il concerto di Ligabue alcuni anni fa – per i danni all’ecosistema che decine di migliaia di persone inevitabilmente comportano.

Per le nostre attività, anche per pulire una porzione di bosco, dobbiamo firmare fior di carte, sottolinea Matteo Barattieri, referente di un gruppo di volontari che opera all’interno del gioiello naturale del parco dell’autodromo di Monza, in un post su Facebook – e garantire che lasceremo le aree interessate dalle cose che organizziamo nelle stesse condizioni di partenza. [Vedi qui] 

Per il Parco Bassani, si tratta invece della prima volta in assoluto, per una manifestazione di questa portata. Legambiente e altre associazioni sul territorio ferrarese si sono immediatamente attivate per contestare questa assurda location, ma, anche se a titolo personale, Ermete Realacci, fondatore e ancora presidente onorario di questa grande associazione ambientalista, si è detto più che possibilista sulla sostenibilità dell’evento. [Qui]. 

Premetto che non conosco in maniera approfondita il contesto naturalistico e faunistico del parco Urbano. – Afferma Realacci nella sua intervista – Di base, comunque, non sono contrario al fatto che si facciano concerti in luoghi diversi dagli stadi, dunque nei parchi. E’ un’esperienza ormai consolidata. L’importante è che si riesca, dopo il concerto, a ripristinare l’integrità ambientale del luogo“. Mi pare quasi un nonsense, perché dopo l’irruzione di decine di migliaia di persone in un ambiente naturale, non è materialmente possibile che tutto resti come prima, a meno che non si pensi che ripulire da una montagna di rifiuti un’area voglia dire ripristinarla ambientalmente.

In Europa infatti nessuno lo sostiene, altrimenti non si capisce la scelta di usare solo Stadi o aree vocate all’interno delle città, per i concerti del Boss. A conferma di quello che scrivo, riporto quanto dichiarato lo scorso maggio, da Claudio Trotta il promoter dei concerti di Springsteen in Italia.
Con il progetto A.R.M.O.N.I.A, Trotta ha inaugurato un nuovo sistema di realizzare concerti, incontri e conferenze più rispettoso della natura. Un esempio su tutti: si utilizzano luci autoalimentate. “È ovvio che non possono essere tutti così” – dice il manager – ma è importante prendere coscienza di questo fatto: i grandi concerti hanno spazi già pronti, stadi e palazzetti, che possono essere usati senza problemi. Andare nella natura significa metterla in alcuni casi in disordine. Non sarebbe forse meglio che tutti noi cercassimo di evitare o limitare le nostre opzioni rispetto alle location? Molto importante è anche la disponibilità del pubblico a utilizzare sempre meno mezzi di trasporto inquinanti e invasivi”.[qui la versione integrale].

Un’altra interessante annotazione è quella del prezzo dei biglietti, così come si evince dal sito ufficiale Bruce Springsteen Tickets, Tour Dates & Concerts 2022/2023, per alcune date, questi non sono ancora disponibili, ma per le altre, normalmente i prezzi di partenza sono più bassi di quelli italiani, probabilmente perché la collocazione è in ambienti più ampi, quasi sempre Stadi, che anche se non vocati a manifestazioni di questo tipo, offrono logisticamente un supporto sicuramente migliore sul piano organizzativo, una capienza più adeguata alla domanda ed innegabilmente un molto più basso impatto ambientale.

Come denuncia la cantante Elisa [Vedi qui] che ha inaugurato lo scorso 28 giugno il suo tour “Back to the future”, l’Italia non ha infrastrutture adeguate alla fruizione di musica a basso impatto ambientale e quindi l’organizzazione di grandi eventi musicali in giro per la penisola deve confrontarsi con non pochi problemi.

Il dopo Covid – sempre che sia effettivamente finita – ha lasciato non poche macerie in ambito culturale e in particolare, nella fruizione della musica, la ripresa a tutto tondo dei concerti, oltre a rivelare la gran voglia di lasciarsi alle spalle due anni di restrizioni, rappresenta sicuramente una boccata d’ossigeno per le migliaia di maestranze che campano, più o meno precariamente, sulle tournée delle star musicali.

Se il tour di Elisa si appoggia a Legambiente, attraverso la quale sostiene una campagna per la riforestazione di alcune aree del nostro Paese, oltre a fare da testimonial per  SDG ACTION [Qui] (la campagna  delle Nazioni Unite per sensibilizzare contro i cambiamenti climatici), Jovanotti e la sua riedizione del JOVA BEACH PARTY si avvale della collaborazione con il WWF, che lo ha difeso tre anni fa e continua a coprirlo in questi giorni dalle infuocate polemiche che accompagnano diverse delle sue tappe, sulle spiagge nostrane.

Come deve atteggiarsi allora un ambientalista di fronte a questi diversi punti di vista all’interno di importanti organizzazioni che si dichiarano e complessivamente sono, a difesa delle ragioni dell’ambiente?
Dobbiamo accordarci almeno sulle premesse: grandi eventi come quelli di cui abbiamo parlato, non possono assolutamente avere location in aree delicate sul piano degli equilibri naturalistici. L’impatto non è valutabile e comunque dovrebbe valere il principio di precauzione, soprattutto perché ci sono alternative praticabili (anche a Ferrara o a Milano – Monza) e che nulla tolgono alla magia di un concerto.
Accettare il confronto su questa semplice verità, a mio modo di vedere, non è possibile.
Piccoli concerti possono funzionare, mega raduni mai.

Per chiudere queste mie brevi considerazioni, vi propongo, come sempre, il testo di un brano musicale. Questa volta ho scelto una canzone, credo poco nota, di Roberto Vecchioni, Canzonenoznac” , tratta da un album del 1975, “Ipertensione”. Il titolo è palindromo ed è il modo migliore per presentare questo brano, che se non conoscete vi consiglio di ascoltare. L’ho scelto per associazione con il tema del mio articolo. A voi ogni rimando e considerazione ulteriore.

ll leader della parte scura,
dietro una barba quasi nera,
diceva cose alla sua gente,
a voce bassa come sempre;
e ricordava cose antiche,
proibite ma pur sempre vive,
come il martini con le olive.
Dal millenovecentottanta
anno di grazia e d’alleanza,
felice e immobile la gente
viveva solo del presente;
ma lui a quei pochi che riuniva
come una nenia ripeteva
quel suo programma che chiedeva.
Fosse permesso ricordare,
fosse permesso ricordare,
poi ricordò che era vietato
nel mondo nuovo anche il passato.

Il leader della parte chiara,
con quella cicatrice amara
sul mento a forma di radice,
gridava “Abbasso questa pace”.
Coi pochi giovani insultava
la polizia che costringeva
soltanto ad essere felici:
ed abbatteva e rifaceva
palazzi d’arte e di cultura
e delle bibite e del niente
sì, ma soltanto con la mente; e all’occorrenza le prendeva
davanti ai giudici abiurava,
ma appena uscito risognava.
Fosse possibile cambiare
fosse possibile sperare
ma la speranza era un difetto
nel mondo ormai così perfetto.

E il leader con la cicatrice
credeva l’altro più felice,
e l’altro quello con la barba,
di lui diceva “È pieno d’erba”
si sospettavano a vicenda
di fare solamente scena
d’essere schiavi del sistema
e l’uno l’altro beffeggiava
e l’altro l’uno ricambiava,
pur descrivendo alla rinfusa
due volti di una stessa accusa:
che era impossibile cambiare,
tornare indietro, andare avanti
avere voglia di sbagliare.

Come ad esempio ricordare
Come ad esempio ricordare
questo ricordo era un difetto
nel mondo ormai così perfetto,
né si poteva più cambiare
né si poteva più sperare
questa speranza era un difetto,
nel mondo ormai così perfetto.

E il leader della parte chiara
pianse di rabbia quella sera
seduto sopra la sua vita
perduta come una partita;
ma il servofreno dentro il cuore,
che scatta al minimo segnale,
gli eliminò tutto il dolore.
E il leader della parte scura
contando i passi e la paura
si avvicinò alle parti estreme
dove correva un giorno il fiume,
ricostruendo da un declivio
l’ultima chiesa, un vecchio bivio,
l’acqua e l’amore che non c’era,
si sentì stanco in quel momento,
tolse la barba e sopra il mento,
apparve a forma di radice
quella sua vecchia cicatrice.

Se vuoi leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già raggiunto e superato le 21.000 firme [la trovi Qui]

Cover: il “Bosco Bello”, il Parco di Monza dove è inserito l’autodromo. Nel parco è prevista la location del Tour europeo di Bruce Springsteen.

Italia sì, Italia no, la terra dei cachi

Anche oggi il grillo parlante è infastidito. È arrivato qualche lieve alito di vento ma, fra le cicale impazzite che assordano, le zanzare e i maleducati bambini vocianti e calpestanti, non è una bella giornata.

Questa volta è la proposta del nuovo ipermercato ferrarese a destargli una sensazione pruriginosa al collo. L’ennesimo compr(ami)ficio, non è mai l’ultimo. Fino a quando? Un altro pomo della discordia.

Legge le cronache locali, una dopo l’altra ripetono che non vi è stato confronto in giunta sulle scelte di via Caldirolo (a 100 metri dalle mura rinascimentali) né consultazione della cittadinanza. Come se questa, in Italia fosse la regola… Anche la Confesercenti è contraria. Si legge che, in centro, sono state chiuse quasi 60 attività commerciali, non c’è più spazio o respiro per molti. Anche di fronte a questa desolante situazione in cui pare versare il fragile centro storico (affitti dei locali alle stelle, peraltro) a cosa serve un altro centro centro commerciale? Ferrara è la città con maggior numero di ipermercati della Regione. Pochi giorni fa è stato anche inaugurato in via Saraceno, angolo via Terranuova, un altro discount: la banca che ospitava quei locali se ne è andata, lasciando spazio all’Ecu, proprio in un punto dove c’è già una bella concentrazione, se si pensi alla vicina Coop di via Mazzini, per citarne uno.

Serviranno mai così tanti super e ipermercati anche in uno scenario di calo demografico e dei consumi, di prezzi in ascesa e di enorme crisi energetica? Crisi galoppante, ma dove? Non sarebbe forse meglio investire e puntare sui negozi di prossimità, quei piccoli esercizi e artigiani che fanno dei quartieri un luogo di incontro, di scambio e di vera comunità ? Da bambino il grillo parlante andava con la sua piccola bicicletta rossa dai salumieri del centro a comprarsi i pezzetti di prosciutto e di formaggio per il suo bel e invidiato panino, accompagnava la mamma dal macellaio che le incartava le bistecche (sottili per carità, costavano troppo…) in quella carta oleosa dal colore di canna da zucchero. Era un lusso della domenica recarsi alla gastronomia per acquistare quella specialità che rallegrava la famiglia insieme alle pastine di Boni (tronchetto al cioccolato in testa), del caffè Europa o del Leon d’Oro.

Se c’era poi il Corriere dei Piccoli o qualche cioccolatino della Perugina di Corso Giovecca, la felicità era completa. Per i regali alle amiche si poteva sempre andare da Il piccolo Parigi o alla Cartoleria Sociale. Negozi piccoli e un po’ più grandi, tanti esercenti che arricchivano la città, magari più semplice di oggi ma vivace nel suo centro cittadino che accontentava tutti. Non parliamo dei negozi di giocattoli (la mitica Gioia dei Bimbi per ricordarne una per tutti), del tutto scomparsi, o dei blocchi di cioccolata dei fratelli Bazzi, i gentili Grigioni dal lungo e operoso grembiule scuro allacciato intorno al collo. Oggi tutti i negozi sono spostati nelle gallerie infinite e luccicanti degli ipermercati, rifugio per chi cerca l’aria condizionata, al centro non restano che bar e ristoranti. Alla faccia della sostenibilità.

Il grillo parlante ricorda a tutti che i turisti che oggi affollano le nostre piazze, anche per i concerti e gli spettacoli tanto conclamati e pubblicizzati, con un’offerta interessante, lasciateglielo dire, soprattutto in termini di Teatro e mostre, non meritano solo cibo e paccottiglia, ma anche qualche bell’oggetto, magari pure di fine artigianato o antiquariato, qualche abito elegante che si possa provare anche in una via centrale che non sia per forza incollata al Duomo, un itinerario  fra i negozi che sia originale, come la città meriterebbe. Riqualificare significa equilibrio e spazio per tutti. Anche verde.

Perché non sia sempre perennemente lo stesso mantra: Italia sì, Italia no …. La terra dei cachi.

 

Parcheggi abusivi
Applausi abusivi
Villette abusive
Abusi sessuali abusivi
Tanta voglia di ricominciare, abusiva
Appalti truccati
Trapianti truccati
Motorini truccati che scippano donne truccate
Il visagista delle dive adesso è un altro
Papaveri e papi
La donna cannolo
Una lacrima sul visto
Italia sì
Italia no
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè
C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’
Commando sì, commando no, commando omicida
Commando pam, commando papapapapam, ma se c’è la partita
Il commando non ci stà e allo stadio se ne va
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà
Infetto sì, infetto no, quintali di plasma
Primario sì, primario dai, primario fantasma
Io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò
“Fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l’ho nella panza”
Viva il crogiuolo di pinze
Viva il crogiuolo di panze
Quanti problemi irrisolti
Ma un cuore grande così
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo du spaghi
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi
Una pizza in compagnia, una pizza da solo
Un totale di due pizze e l’Italia è questa qua
Fufafifi’ fufafifi’ Italia evviva
Italia perfetta (perepepè nanananai)
Una pizza in compagnia, una pizza da solo
In totale molto pizzo, ma l’Italia non ci sta
Italia sì, Italia no
Italia sì, uè
Italia no, uè uè uè uè uè
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi

Elio e le storie tese – La terra dei cachi

Per leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK [clicca Qui]

E’ ora di pensare in grande:
pianificare uno sviluppo equilibrato della città futura

 

Esistono, nella storia di una città o di un territorio, occasioni importanti di trasformazione o crescita, alle volte dovute ad accadimenti imprevedibili, anche esterni ai fatti della comunità locale, di fronte alle quali è necessario farsi trovare pronti, per non correre il rischio di perderle. Emblematico l’esempio del Progetto Mura, ultima grande realizzazione a scala urbana che ha profondamente e positivamente inciso sulla vita della città.
L’amministrazione comunale di allora, siamo negli anni Ottanta del Novecento, capì l’importanza di una idea capace di modificare in modo sostanziale il rapporto tra centro e periferia in questa città ed ebbe il coraggio di investire in un progetto, preceduto e garantito dai lavori di una commissione scientifica di altissimo livello. Quando si presentò l’occasione della legge nazionale sul Fondo Investimenti e Occupazione Ferrara si fece trovare pronta e presentò il progetto già predisposto che fu finanziato perché ritenuto tra i migliori a livello nazionale. Per il bene della città arrivarono e furono spesi oltre 80 miliardi di lire.

Oggi  si presenta l’occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma l’impressione è che Ferrara si sia fatta trovare sostanzialmente impreparata.

Da tempo mancano occasioni di confronto, di dibattito e di elaborazione sul futuro di questa città. Sembra mancare una visione strategica di lungo respiro, capace di concretizzarsi in progetti da mettere sul tavolo quando si presentano le, rare, occasioni giuste.
Ciò di cui si legge sulla stampa come progetti finanziabili col PNRR sono certamente cose utili o auspicabili, ma come parziali aggiustamenti della realtà attuale. Nulla a che vedere con una visione strategica complessiva della città futura, di quali scelte sarebbero necessarie per una città migliore.

Nulla a che vedere con la portata dell’occasione che si presenta. Preoccupa il ritardo col quale sono state affrontate le scadenze imposte dalla nuova legge urbanistica regionale (la legge 24 del 2017) che prevedeva la scadenza di tre anni, poi prorogata a quattro, per impostare la revisione degli strumenti urbanistici vigenti attraverso la redazione del nuovo Piano Urbanistico Generale (PUG).
Preoccupa perché la nuova legge urbanistica contiene novità importanti (come lo stop alle nuove espansioni e quindi all’erosione di suolo agricolo) ma estremamente delicate se non affrontate nei tempi e con gli strumenti adeguati (come il possibile stravolgimento di parti di città esistente, se le spinte di interessi immobiliari non sono incanalate e guidate all’interno di una pianificazione pubblica forte e di una progettualità adeguata). Solo in questi giorni è in scadenza il bando per la scelta dei tecnici che dovranno redigere il nuovo piano (dopo un primo bando andato, non a caso, deserto). Il piano vigente costituisce certamente una buona base di partenza, ma con limiti e difetti evidenti. Momenti di confronto tecnico e politico negli anni trascorsi dall’approvazione della legge avrebbero potuto fornire indicazioni preziose a chi sarà chiamato ad elaborare il nuovo strumento urbanistico, ma avrebbero anche potuto produrre progetti concreti pronti per essere presentati nell’occasione del PNRR.

Spero che, in questo quadro di sostanziale assenza, almeno a livello urbanistico, di approfondimenti e stimoli (fatta eccezione per la proposta, a livello territoriale, di “Metropoli di paesaggio”, tanto affascinante quanto realistica, portata avanti da Sergio Fortini con la cooperativa Città della Cultura/Cultura della Città) possano essere utili alcune riflessioni riguardanti possibili progettualità per un migliore assetto della città esistente, premettendo la convinzione che, oggi più che mai, ogni piano urbanistico debba partire dal presupposto della identificazione e della difesa della qualità preesistente, soprattutto nell’edificato storico, ed in particolare in una città dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

Ricordo anzitutto che un grande progetto pronto a scala urbana esiste già: il ”Progetto finalizzato al restauro, recupero e valorizzazione delle mura e del sistema culturale-museale della città”. Il progetto Mura infatti fu in gran parte realizzato, ma restò incompiuto in due parti molto importanti:
1 ) le nuove connessioni tra le varie parti della cerchia muraria, oggi interrotta in più punti,
2 ) il completo recupero degli edifici che definiscono il Quadrivio dei Diamanti.

Quanto sia stato importante, per la vita dei ferraresi, recuperare il sistema terrapieno-mura-vallo che circonda la città è chiaro e noto a tutti.
Ma sarebbe ancora più importante completare il progetto realizzando nuovi collegamenti in quota dove le mura sono state, nel tempo, interrotte da parziali demolizioni per ricreare quella continuità di percorso che, oltre a non costringere i numerosissimi utenti e frequentatori a pericolosi attraversamenti, eviterebbe l’isolamento di zone diventate nel tempo, a fasi alterne, soggette a frequentazioni ed interessi socialmente pericolosi o potenzialmente tali. In questi casi sono convinto che la frequentazione dei cittadini e l’uso comune degli spazi possano contare più di qualsiasi recinzione. Il progetto mura propone soluzioni che possono essere riprese, approfondite, modificate ma soprattutto realizzate.

Per i palazzi del quadrivio dei Diamanti il Progetto Mura prefigurava, già negli anni Ottanta del Novecento, l’inserimento organico nel sistema culturale e museale della città con pinacoteca a palazzo dei Diamanti, ampliamento delle strutture della pinacoteca e strutture espositive permanenti a palazzo Prosperi Sacrati, strutture espositive (temporanee, aggiungo io, con spazi finalmente adeguati per le grandi mostre) a palazzo Pallavicino (attuale caserma Bevilacqua), dando per scontato l’uso espositivo per le collezioni dell’Università a palazzo Turchi Di Bagno.

La seconda riflessione riguarda quella che ritengo potrebbe essere, nei prossimi decenni, la parte di città maggiormente soggetta a trasformazioni: la zona ad ovest del centro storico. Dando per scontato che la città non potrà più espandersi  a scapito del territorio agricolo, anche perché finalmente le leggi urbanistiche vanno in modo più deciso in questa direzione, quindi che il lato a nord della città (il patrimonio inestimabile del Parco Urbano) rimanga sostanzialmente inedificato e che ad est e a sud, in assenza di espansioni,  l’edificato sarà oggetto semplicemente di aggiustamenti e miglioramenti localizzati.
La parte di città che meglio si presta a trasformazioni profonde, perché oggi in buona parte caratterizzata da un tessuto urbano sfrangiato e casuale, è quella che dall’irrisolto nodo viario delle barriere di porta Po, attraverso il grattacielo, la stazione e comparti di strutture produttive in buona parte dismesse
 giunge al canale Boicelli  e oltre, con gli immobili, in parte di grande qualità, della ex distilleria Alc.Este. Si tratta di un brano di città da ripensare completamente, carico di potenzialità,  ricco anche di spazi verdi da conservare e valorizzare, soprattutto lungo il Po di Volano ed il canale Boicelli, con alcune presenze architettoniche contemporanee di qualità, in parte già con funzioni pubbliche o aperte al pubblico, che sembrano precorrere i tempi della rigenerazione di quella zona: il complesso dell’ex Eridania, gli edifici che ospitano gli uffici finanziari dello stato, un supermercato all’inizio di via Modena e altri minori.

Solo in questa prospettiva sembra può avere senso concreto il cospicuo investimento della Conferenza Episcopale Italiana per la nuova chiesa di San Giacomo, con le annesse opere parrocchiali. Questo comparto costituisce l’occasione, in una città storicamente cresciuta per addizioni programmate, per una nuova addizione di qualità che però sarà attuabile solo attraverso una forte iniziativa pubblica di guida e di programmazione.
Va completamente ripensato il collegamento con la città storica trasformando, con approfondimenti progettuali adeguati, la ferrovia (con stazione): da barriera ad opportunità permeabile. E il grattacielo, da presenza ingombrante ed incongrua, oggi totalmente fuori scala,  ad isolato di edilizia di qualità integrato nel tessuto urbano (trovo a questo proposito sbagliata, se non raccapricciante, l’idea di recente prospettata di attingere  ad oltre 4 milioni di euro di fondi pubblici, attraverso le detrazioni fiscali del 110%, per “efficientare” e rendere più gradevole l’aspetto di quello che rimane e sempre rimarrà, se non drasticamente ridimensionato, un eco-mostro).

Questa grande parte di città che dalla darsena arriva al Boicelli  potrebbe dunque nei prossimi decenni essere determinante per l’equilibrio futuro della nostra realtà urbana.

Terza riflessione riguarda il superamento dell’ingorgo veicolare permanente che mortifica il borgo di San Giorgio, una delle parti più belle e storicamente più importanti della città. E’ necessario dare uno sbocco ad est alla strada di scorrimento posta a sud della città (la via Wagner)  con investimenti pubblici adeguati. Solo in questo modo il borgo san Giorgio, ridotto da decenni a spartitraffico, con l’aggravante recente della piccola assurda rotatoria al servizio di una struttura commerciale la cui collocazione mai avrebbe dovuto essere approvata in quel luogo, potrà rientrare organicamente e a pieno titolo a far parte del centro storico della città, centro storico il cui futuro meriterebbe una lunga riflessione a parte.

Sarebbe dunque il momento di pensare e di progettare in grande per consentire alla città esistente di essere anche la città del futuro,  sciogliendo i principali nodi che ne condizionano oggi il buon funzionamento.

Nota: questo articolo, esce su periscopio con il consenso dell’autore. Il medesimo testo è già apparso in precedenza sulla Nuova Ferrara.

In copertina: veduta aerea di Ferrara, particolare,

Gli operai resistenti del Collettivo ex GKN:
la Festa e la Lotta

 

A Campi Bisenzio la lotta determinata degli operai ex-GKN non si è mai fermata!

Dal 9 luglio 2021, la fabbrica occupata non è mai stata lasciata sguarnita dagli operai in cassa integrazione, affiancati dagli ausiliari che si sono uniti alla lotta e da oltre un centinaio di “solidali”, volontari che appoggiano gli operai sia nel presidio che nell’organizzazione delle manifestazioni e degli eventi.
Sono centinaia le persone che si sono rese disponibili, ormai da un anno, ad essere presenti, giorno e notte, estate e inverno, tutti PARTECIPI DELLA LOTTA e DECISI A NON MOLLARE!

Così è stato anche per la festa del 9 luglio scorso; più di 2000 persone davanti ai cancelli della fabbrica occupata e al palco dove si sono alternati per tutta la serata gruppi e cantautori: rap, rock, canzoni popolari, canti di lotta. Tutti si sono esibiti gratis, attorniati dallentusiasmo collettivo. Il pubblico batte le mani, canta in coro, balla. Tutti sono lì, davanti alla fabbrica, per condividere gli obiettivi e le strategie dei lavoratori della GKN in lotta: difendere il diritto al lavoro, alla dignità e alla vita nella sua più ampia accezione.

Tra i tanti saliti sul palco, ecco i Malasuerte, il gruppo storico fiorentino di hard-rock, e l’immancabile, magnifica e potente voce di Ginevra di Marco (ex NCCP) hanno coinvolto tutte e tutti. , uniti nei cori e nel cuore della festa!

Ma il giorno stesso della festa, il 9 luglio scorso, a un anno preciso dal ricevimento della famosa “mail di licenziamento per chiusura della fabbrica”,  i lavoratori sono stati convocati in Prefettura con urgenza! Nonostante avessero già mandato l’avviso per l’evento/festa. L’incontro è stato poi rimandato al giovedì seguente, com’era ovvio.
La risposta del Collettivo di fabbrica è stata immediata. Davanti alla Prefettura si sono riunite centinaia di persone, tra cori, canti e risuonare di tamburi, a dimostrazione che gli operai ex-GKN possono contare su una forte solidarietà del territorio fiorentino e non solo. C’è la disponibilità a mobilitarsi di un vasto movimento, dagli studenti, agli ambientalisti , alla Fiom toscana, ai sindacati di base.

La fabbrica rimane occupata, i macchinari (compresi robot nuovi e ancora impacchettati) non usciranno se non verranno avanzate proposte serie che disegnino un futuro concreto e possibile di investimenti e di lavoro.
L’urgenza della nuova proprietà è solo pretestuosa. E governo e ministro dello sviluppo economico si sono defilati, non hanno idee e non fanno proposte.| Impegnati come sono a finanziare la guerra in Ucraina e ad inviare armi, per procrastinare la fine di un conflitto disastroso sia per i Paesi direttamente coinvolti che per tutta l’Europa e il Paesi più poveri del mondo.

Le idee invece il Collettivo di fabbrica ex GKN le ha molto chiare, e c’è un crescente fronte popolare che lo sostiene.
Bene, ci rivediamo a fine estate: Tenetevi liberi, la lotta continua.

Cover: Campi Bisenzio 9 luglio 2022. I Malasuerte, lo storico gruppo fiorentino, sul palco della festa della ex GKN.

DIARIO IN PUBBLICO
Perdite e ricordi

 

Un tempo maledetto mi/ci strappa amicizie feconde e insostituibili, che hanno ritmato la nostra vita. Il senso del ricordo diventa allora la chiave di volta per capire la realtà esistenziale, ma non solo.

Uso consapevolmente il termine ‘ritmo’ perché, come ci ha insegnato Proust [Qui], lo scadenziario dei ricordi modella ciò che siamo o chi vorremmo essere.

Elettra Testi [Qui] l’insostituibile amica ci ha lasciati silenziosamente, potrei dire con discrezione. E a lei dedicherò, a breve, un saggio che cercherà di interpretarne vita e opera.

Alla sua scomparsa si aggiunge il trapasso di un altro insostituibile amico: Adalberto Ciaccia, in famiglia ‘Adal’, con la consonante elle gorgogliante alla ferrarese. Personaggio straordinario non solo per l’importanza scientifica del suo lavoro ma perché, nella mia famiglia, considerato alla stregua di un fratello.

Giovanissimo, giocava a tennis al Circolo della Marfisa con mio cognato Vanni; poi prese un posto fondamentale nella nostra vita. Assieme, quando ci conoscemmo, si commentava non solo la qualità medica del bellissimo Centro pneumologico di Tresigallo, ma con spirito di curiosità si cominciò ad allargare i nostri comuni orizzonti.

Nella mia attrazione per tutto ciò che aveva a che fare con le cure mediche regolarmente lo interpellavo per qualsiasi piccolo disturbo pensassi mi avrebbe distrutto la vita; lui rideva e mi confortava. Ma quando c’era da curare seriamente era insostituibile.

Con il suo matrimonio il circolo degli affetti si allargò ai figli, ai nipoti. E per Michele e sua sorella Isabella siamo ancora ’zio’ e ‘zia’. Si aggiunse l’incontro e la conoscenza con Manù, Manuela degli Uberti, compagna musicale di mio cognato Romano Guzzinati, sempre in giro per festival e concerti.

Quando mi era possibile, ne facevo il resoconto ad Adal con tutte le punture ironiche insite nel suo spirito burlone. E che festa il giorno che laureò un carissimo allievo, che altro non è che nostro nipote Ippolito Guzzinati, che con tanto impegno ne prosegue la strada.

Ciao Adal! Il nostro ricordo ci inciterà alla vita anzi a una buona vita.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Se vuoi leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 23.500 adesioni [firma qui la petizione]

TUTTA LA STORIA DEL CONSIGLIO DEL 11 e 12 LUGLIO:
ma la vittoria del sindaco Fabbri assomiglia a quella di Pirro

 

[ 1 ] Seduta del 11 luglio: dove, con un po’ di furbizia si può arrivare al niente

“Io non c’ero”, anche se lo dico senza sospirare. Ero appena tornato dalla festa dell’ ‘insorgente’ Collettivo di Fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio e non avevo cuore di infilarmi in Consiglio Comunale: bisogna stare attenti ai cambiamenti climatici. Verso sera telefono agli amici più diligenti di me, sempre presenti sugli spalti, e scopro che non mi ero perso niente. Una seduta che si preannunciava memorabile, o forse no (a Ferrara si dimentica in fretta), ma dove lo spettacolo sembrava assicurato. Anche se il sindaco Fabbri aveva già in tasca l’esito favorevole, sui tre progetti di rigenerazione urbana, ovvero sui tre missili terra aria che avrebbero ferito a morte la città e l’ambiente, maggioranza e opposizione se le sarebbero date di santa ragione (forse addirittura di più di Barattieri e Menelik, come vuole un detto in ferrarese risalente alla guerra d’Africa). Invece niente, nulla di fatto, seduta sospesa, tutto rimandato a oggi pomeriggio. Kill Bill 2.
Dopo cena, è un abitudine, apro Facebook e vado a leggere la pagina di Stefano Lolli – ne seguo solo tre di pagine e la sua è la prima delle tre. Leggo l’ultimo post e capisco quello che un giornalista anche ‘mediocacca’ dovrebbe sapere da un pezzo. Che anche quando non succede niente succede sempre qualcosa, Solo che quel poco o niente è più difficile scriverlo di quando racconti un terremoto. Stefano Lolli, la più bella penna degli ultimi trent’anni di giornalismo autoctono, ci riesce benissimo, facile come bere un bicchier d’acqua.
Cosi nasce il pensiero delittuoso. Perché non rubargli il post e schiaffarlo tale e quale su
periscopio? Ricordo benissimo quello che ha dichiarato solennemente andando in pensione, che non avrebbe mai più scritto per nessun giornale; so che l’autore può denunciarmi per appropriazione indebita e furto con scasso. Stefano Lolli è un amico? Peggio, “dagli amici mi guardi Iddio”. Sono sfuggito miracolosamente 18 mesi fa all’ira funesta di Vittorio Sgarbi, che sulla sua pagina Facebook (2 milioni di followers) rispondeva in diretta video a un mio innocuo articoletto modestamente ironico, gridava: “Ma chi cazzo è  ‘sto Monini, domattina lo querelo”. Beh, mi avrebbe pelato vivo, ma alla fine non mi ha querelato. Si è dimenticato, oppure non ne valeva la pena, in fondo chi cazzo è ‘sto Monini. Ma come reagirà il giornalista pensionato ma informatissimo su tutto e commentatore compulsivo in proprio?
Va bene, facciamola corta, ogni mestiere ha il suo rischio, quello del giornalista come quello del ladro. Sia quel che sia. Con un po’ di tremarella offro ai lettori l’ultimo gioiellino di Stefano Lolli. Chi non l’ha ancora letto, si divertirà e imparerà pure qualcosa.
Francesco Monini

RATTI COME GATTI

Non una semplice seduta, ma la più classica delle ‘fasulare’, quella odierna. Tra illustri assenze, consiglieri evocati per l’appuntamento di domani (quando si discuterà del controverso progetto del nuovo ipermercato) e pasticci tecnici, non si sa quanto veri o quanto creati ad arte, non sono mancati momenti da teatro dell’assurdo. Alla Ionesco, si direbbe. O meglio, io n’esco, prendo e me ne vado di fronte al clamore di certe affermazioni. Si impone ancora una volta il consigliere di Pura Luce Benito Zocca, che dopo le acrobazie in streaming, ora dispensa perle in presenza. Quella odierna è relativa al progetto del nuovo Lidl che dovrebbe sorgere in via Ungarelli: dopo aver detto che servirà soprattutto la popolazione anziana della zona, “che non può fare tanti chilometri” (notare che il Conad di via Foro Boario è a 200 metri e il Carrefour di via Argine Ducale a 350), l’immaginifico leghista ha toccato l’Everest senza bisogno d’ossigeno. La zona in cui sorgerà il Lidl, ha detto, va riqualificata perché popolata, oggi, da “ratti grossi come gatti” che a detta di Zocca s’infilerebbero nelle case e nei giardini come incursori della Folgore. Abito, in linea d’aria, a poche centinaia di metri, passo quotidianamente in via Ungarelli e vedo gente quieta, nulla che faccia pensare a battaglie notturne contro sorci giganti e famelici.
Con queste premesse, probabilmente domani il consigliere di Pura Luce, o qualcun altro come lui, dirà che a giustificare l’insediamento di Esselunga o Effecorta in via Caldirolo, c’è anche la presenza di colonie di babbuini o branchi di caimani che minacciano le vicine Mura.
Ho già premesso, in un altro post, di non essere – per storia personale e interessi – pregiudizialmente contrario all’apertura di centri commerciali, quale che sia la loro sigla. Perché è il libero mercato, e le scelte dei consumatori, che determinano il successo o meno delle iniziative, sia dentro che fuori le Mura. Ma con altrettanta fermezza, sono contrario alle prese per il c**o, e alla luce di quanto visto e sentito oggi in Consiglio – sino agli strategici ‘problemi tecnici’ che hanno interrotto la seduta – spero che domani si parli con chiarezza. Che si dicano i motivi veri del progetto, anche quelli qui irriferibili; che i consiglieri che si sono dichiarati fermamente contrari sulle pagine dei giornali non vengano colti da convulsioni o folgorazioni; che chi ha pubblicato video contro l’apertura di un supermercato di quartiere, ergendosi a paladino del commercio tradizionale e di quello ambulante, non receda dal proposito (pur recondito) di incatenarsi allo Scalone per quella che sarebbe, stando alle sue stesse parole, una “devastazione delle piccole imprese commerciali”. Domani riapparirà, sempre che i voli internazionali non vengano sospesi, anche la consigliera di Forza Italia Paola Peruffo : tendenzialmente inserirei anche lei, per forma mentis, tra i possibili ‘incatenati’ (giacché l’ho sentita spesso, come il suo compagno di partito assessore al Commercio Fornasini, sostenere e patrocinare la salvaguardia dei piccoli negozi che vivacizzano il centro storico), ma da cinico quale sono non so più che pensare. Ho notato in varie circostanze che il magnetismo del voto a favore è inarrestabile, quasi che sedere sui banchi della maggioranza sia una sorta di lato oscuro dell’intelligenza artificiale, più forte di quella naturale (che mai ho negato).
Vedremo e, temo, sentiremo. Immagino già Zocca affilare le metafore; penso ai vari Caprini, Savini, Pignatti, nei loro lettucci, tormentati non dal caldo ma dalla luce pulsante di un voto che può proiettarli, in un senso o nell’altro, nella storia. Mi auguro che il sindaco sia presente, di persona personalmente (come direbbe il poliziotto di Montalbano), risparmiando la tesi, anche questa letta sul giornale, di un ostracismo determinato da ‘voglia di immobilismo’ e dall’ansia “del Pd di difendere catene della grande distribuzione considerate amiche”. Frase, quest’ultima, che può essere pronunciata solo da chi non conosce la città e la sua storia commerciale, che vede oggi insediata almeno una quindicina di diverse insegne della grande distribuzione. E se è innegabile che Coop Estense, da fine anni ’80, abbia tratto un vantaggio dalla possibilità di insediarsi vicino al centro storico come in nessun’altra città, a nessuno può sfuggire che oggi operino sul territorio comunale anche Tosano, Interspar, Lidl, Aldi, Despar, Famila, Penny Market, Ecu, Eurospin, Cadoro, In’s, Conad, Carrefour, Md, Crai e Superday.
Solo un terrapiattista – dunque non Fabbri, che vede il sole e la luna ruotare attorno al Bar del Mister di Scortichino – può pensare che siano tutte catene ‘amiche del Pd’ e animate da comunisti. Potrà anche essere stato ispirato dalla lettura, realmente interessante (a suo tempo l’ho letto anche io) del libro Falce e Carrello di Bernardo Caprotti, indimenticato patron di Esselunga e grande imprenditore. Ma si tratta di un libro del 2007, e in quindici anni nel commercio tante cose sono cambiate, purtroppo anche in modo negativo specie per tanti negozi tradizionali; nella grande distribuzione c’è stata evoluzione, e involuzione, per effetto del ‘modello Amazon’ che sta incidendo sui consumi, non consentendo più a nessuno antiche rendite di posizione. Sarà comunque Esselunga? Ben venga, sarò tra i primi ad entrare per fare acquisti (sono già andato in quello di Bologna), non ho dubbi sulla qualità dell’impresa, e sulla bontà dell’investimento. Sarà il mercato a decretare il successo, come è giusto che sia, senza bisogno di sterili crociate politiche _ o parapolitiche _ di chi è a favore o contro. Senza epiche né topiche.
Per non farla troppo lunga, appunto come una esse, attendiamo il confronto (invocato a mezzo stampa anche dal presidente dell’Ascom Giulio Felloni), e il dibattito che domani si preannuncia vivace, e ahinoi a rischio di farsa. Ma risparmiateci almeno i “ratti grandi come gatti”, perché anche nelle bestialità occorre misura
Testo rubato dalla pagina Fb di Stefano Lolli

 

[2′] Seduta del 12 luglio: alla fine arriva al voto, ma che fatica

Finalmente in Consiglio Comunale volano gli stracci tra maggioranza e opposizione. Volano anche le accuse reciproche, perché ogni parte può (legittimamente) rinfacciare all’altra di aver cambiato negli ultimi mesi e anni opinione e posizione. Primo esempio: nel programma elettorale di Fabbri si esaltava molto l’ambiente e si prometteva di fermarsi con il “consumo di suolo” (leggi: cemento al posto dell’erba). Ma La Destra risponde: “ora siete contro tutto, ma la Giunta di Centrosinistra aveva in progetto un grande Ipermercato in viale Volano”, proprio nella stessa area a ridosso Mura dove il nuovo piano Fabbri prevede un megaparcheggio.
In tutto questo, comunemente chiamato “trasformismo”, i partiti e la classe politica ferrarese nel suo complesso, fa la deprimente figura che ogni lettore può intendere. Ma tant’è, l’effetto concreto in Consiglio è che alcuni consiglieri (della maggioranza) non sappiamo se per un sussulto di coerenza o inseguendo un furbo riposizionamento politico, votano contro il progettone. Senza il voto dei transfughi Savini, Caprini e Pignatti, la vittoria finale del sindaco appare assai striminzita: 17 a favore e 15 contro.
E siamo solo all’ inizio di un percorso che si prevede piuttosto accidentato. Tante associazioni, Italia Nostra in testa, continuano a contestare, dati alla mano, un progetto “inutile e pericoloso” . Poi c’è l’intervento contrario del presidente dell’ Ascom e la grande rabbia dei commercianti che scrivono sui social e ai giornali ferraresi. Infine, e questo rischia di diventare l’ostacolo più grande, c’è SAVE THE PARK, la mozione popolare che ha già superato di slancio le 19.000 firme. Con tanti e crescenti nemici (consiglieri, cittadini, tecnici, professori universitari, associazioni) mi pare che la strada del progettone della maggioranza penerà non poco per superare i tanti passaggi necessari e dare il via ai cantieri.
Alla fine della maratona consiliare, non so quale sia in questo preciso momento l’umore del nostro Primo Cittadino. Certo, ha vinto la battaglia, ma se, come spero, non è del tutto digiuno di storia, ricorda bene come finirono le avventure di Pirro e di Annibale. Entrambi si erano portati dietro gli elefanti, ma non bastò. Anche Fabbri, se vi piace usar un po’ di fantasia, può assomigliare a un elefante, ma io lo immagino chiuso e malinconico dentro un circo, fermo immobile sulle gambe, o sdraiato a terra, depresso, mentre rimugina su quella risicata quanto inutile vittoria.

Francesco Monini

Se vuoi leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 18.100 adesioni [firma qui la petizione]

Caro Bruce ti scrivo…

Tanti si sono forse chiesti perché una persona come Bruce Springsteen, un liberal impegnato, un artista stellare da sempre votato alle cause sociali e ambientali, abbia potuto avvallare la decisione di tenere un concerto nel centro di un parco da proteggere, creando danni alla natura e all’avifauna. La risposta è piuttosto ovvia: tutti i mille aspetti del grande Tour europeo, compresa l’individuazione delle location, sono di competenza del suo staff, non certo della guest star.
Ma allora perché non provare a raggiungere Bruce con una lettera? Perché non informarlo della megalomane, stupida, non necessaria e poco onorevole (anche per lui) decisione del sindaco di Ferrara di invadere con migliaia di decibel e un esercito di 55.000 spettatori il Parco Urbano Bassani? Ci stanno provando in molti. Inviano la lettera a Bruce Springsteen, sia direttamente sia per tramite del suo manager italiano, Claudio Trotta.
Non so se le lettere, almeno una, raggiungerà il grande artista, se l’inconsapevole Bruce verrà finalmente a conoscenza di un minuscolo quanto essenziale  ‘particolare’ del Tour preparato dal suo agente e dai suoi collaboratori. Io spero di sì. E’ comunque giusto far conoscere a tutti, e in primis a coloro che assisteranno allo storico evento, il testo della lettera.
Effe Emme
Dear Bruce,
We’re really excited that you’re coming to Ferrara in May of 2023! Your concert is a very big deal for our small historic city. We applaud our mayor for making this possible and are proud to host you, Bruce. As you know, we Italians are known for our warmth and hospitality, and it is this hospitality that led our city officials to present you with the best our city has to offer, parco urbano Giorgio Bassani. It is home to many trees, large and small, to nesting birds and wildflowers. In one word, this serene and beautiful area is biodiverse. You would love it at first glance if you could see it.
My friends and I are very concerned with the damage that 55,000 people are going to wreck on our park and of the disturbance to wildlife.  We believe that if you, the Boss, ask to perform in another location, like the Ferrara airport, our mayor and city officials would be honored to accommodate you. It has enough space for 55,000 people and is more suitable for a rock concert. So this is my prayer and dream Bruce, that you will save our park. I wish it from the bottom of my heart. 
Sincerely
Caro Bruce,
Siamo veramente molto felici della tua venuta a Ferrara a maggio del 2023! Il tuo concerto è veramente una grande opportunità per la nostra città, Ferrara, piccola ma ricca di storia. Apprezziamo il nostro sindaco per aver reso possibile questo avvenimento e siamo orgogliosi di poterti ospitare. Come saprai, noi italiani siamo famosi per la nostra  calorosa ospitalità ed è questa propensione all’ospitalità che ha guidato i nostri amministratori ad offrire il sito più bello, il Parco urbano Giorgio Bassani, per l’evento. E’ un luogo ricco di alberi, giovani e adulti, che danno rifugio a diverse specie di uccelli che qui nidificano, e di numerose varietà di fiori e piante selvatiche. Per dirlo in una parola: è un luogo ricco di biodiversità. Se lo vedessi te ne innamoreresti immediatamente.
I miei amici ed io siamo molto preoccupati per il sicuro danno che le 55.000 persone che arriveranno per assistere al tuo concerto, procureranno a questa oasi di natura incontaminata. Crediamo che, se tu che sei il Boss, chiedessi di esibirti in un’altra location, ad esempio nell’area dell’aeroporto, il nostro sindaco e gli amministratori sarebbero felici ed onorati di accontentarti. Ci sarebbe abbastanza spazio  per ospitare 55.000 persone e sicuramente è un luogo più adatto ad un concerto rock. Questa è la mia preghiera e il mio sogno Bruce: che tu salvi il nostro Parco. Te lo chiedo dal profondo del cuore.
Con affetto
(traduzione di Marina Carli)
Se vuoi leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già raggiunto e superato le 2.100 adesioni [la trovi Qui]

Macroeconomia, ovvero come fregarsene delle persone in carne e ossa

“In Italia un quarto dei lavoratori totali ha una retribuzione individuale bassa, cioè, inferiore al 60% della mediana. Almeno un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà, cioè vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana (11.500 euro in base ai valori del 2018).”

Ancora: “il fenomeno dei working poor è esploso dapprima negli Usa e ora sta interessando molti paesi europei, pur con significative eccezioni come la Svezia, dove i tassi di povertà al lavoro sono insignificanti e i Paesi Bassi, dove il tasso di working poor è in costante decrescita. “L’insorgere del fenomeno è imputabile a diverse cause, alcune legate all’evoluzione del mercato del lavoro, altre a cambiamenti istituzionali. Tra le prime rientrano i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati,… la delocalizzazione del lavoro nei paesi in via di sviluppo che può avere comportato una riduzione dei salari dei lavoratori meno qualificati in Europa, i fenomeni migratori che possono aver ridotto il salario dei lavoratori nativi poco qualificati. Tra i cambiamenti istituzionali rientrano certamente le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata che possono aver avuto ripercussioni negative sui salari in genere, ma soprattutto sulla coda sinistra della distribuzione dei salari”.

Sono brani tratti da un articolo apparso su collettiva.it (leggi qui) che illustra bene la differenza tra la microeconomia e la macroeconomia. Sempre dal pezzo di colletiva.it, leggiamo: “Per avvicinarsi a una prima quantificazione dell’area dei lavoratori poveri, applicando uno dei riferimenti Istat (sotto la soglia dei 9 euro l’ora di retribuzione), il ricercatore del Censis, Andrea Toma, parla di 2,9 milioni di lavoratori; 35% nella classe 15-29 anni; 47,4% nella classe 30-49 anni; 79% operai, 53,3% uomini. Decisivo è il calcolo delle giornate lavorate durante l’anno. Tra gli operai ci sono 8,6 milioni di persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno con una retribuzione media annua di 14.762 euro. Ci sono poi 629 mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Nella sfera del lavoro povero, spiega ancora Andrea Toma, si possono inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari che devono essere sommati al lavoro irregolare (circa 3 milioni di persone), una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico (921mila).”

Questa è microeconomia, nel senso che è l’economia vissuta nei panni e nella pelle delle persone che si trovano in questa situazione: hanno un lavoro, ma questo lavoro non permette loro di progettare nessun futuro, perchè è saltuario, precario, sottopagato, sotto ricatto.

Poi ci sono i grafici dei macroeconomisti

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "23.400 23.200 Occupati 23.000 22.800 22.600 22.400 22.200 22.000 21.800 nov-19 gen-20 mar-20 mag-20 lug-20 lug-20 set-20 nov-20 nov- 20 gen-21 mar-21 mag-21 lug-21 set-21 nov-21 nov-21"

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "18.200 Lavoratori dipendenti 18.000 17.800 17.600 17.400 17.200 17.000 nov-19 nov-19 gen-20 mar-20 mag-20 lug-20 set-20 nov-20 gen-21 mar-21 mag-21 lug-21 set-21 nov-21"

Questi due grafici sono stati esibiti (senza peraltro citarne la fonte) in un post di Luigi Marattin (attuale presidente della Commissione Finanze della Camera), che li ha commentati così:

“Il primo grafico mostra il totale degli occupati, che è ancora inferiore di 232.000 unità al livello del marzo 2020 (pre-Covid).
Il secondo grafico mostra invece i soli lavoratori dipendenti, il cui livello già a maggio 2021 aveva recuperato appieno il gap perso durante la pandemia, e che ora continua a salire. A conferma che le previsioni fosche derivanti dalla fine del blocco dei licenziamenti (unico paese al mondo a farlo) erano del tutto infondate.”
Non è che io me la prendo con Marattin. Me la prendo per come espone le sue idee, che spaccia sempre come evidenze scientifiche alle quali si abbeverano i suoi seguaci, mentre gli altri sono o populisti o sovranisti (quando usa un linguaggio istituzionale; quando si scatena per il godimento dei suoi fans, gli altri sono dei deficienti). Ma andiamo a leggere cosa scrive Istat nel bollettino flash sul primo trimestre del 2021, pubblicato l’11 giugno:
“Nel primo trimestre 2021, l’input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, registra una diminuzione di -0,2% rispetto al trimestre precedente e di -0,1% rispetto al primo trimestre 2020; il Pil è aumentato dello 0,1 in termini congiunturali e diminuito dello 0,8 in termini tendenziali. Dal lato dell’offerta di lavoro, nel primo trimestre 2021 il numero di occupati diminuisce di 243 mila unità (-1,1%) rispetto al trimestre precedente, a seguito del calo dei dipendenti a tempo indeterminato (-1,1%) e degli indipendenti (-2,0%) non compensato dalla lieve crescita dei dipendenti a termine (+0,6%). Contestualmente, si registra un aumento del numero di disoccupati (+103 mila) e degli inattivi di 15-64 anni (+98 mila). I dati mensili provvisori di aprile 2021 – al netto della stagionalità – segnalano il proseguimento della crescita dell’occupazione (+20 mila, +0,1% in un mese) registrata nei due mesi precedenti (dopo il forte calo di gennaio), che si associa all’aumento del numero di disoccupati (+88 mila, +3,4%) e al calo degli inattivi di 15-64 anni (-138 mila, -1,0%).
E’ fantastico notare come un economista che si gloria sempre del fatto di saper leggere i dati reali e di non fare demagogia, pecchi contemporaneamente di approssimazione e demagogia. Basta infatti entrare dentro i numeri dei grafici per accorgersi che la realtà è molto diversa dalle magnifiche sorti e progressive che descrive il macroeconomista Marattin, partendo da un grafico (che spaccia per la Bibbia) senza misurarsi nemmeno per sbaglio con la disaggregazione dei dati di quel grafico.
Ma anche i prossimi dati (sempre Istat) sono interessanti, perchè mostrano le variazioni tendenziali 2021 su 2020:
-Occupati, meno 3,9%
-Occupati dipendenti, meno 3,2%
-Occupati a tempo indeterminato, meno 2,5%
-Occupati a tempo determinato, meno 7,3%
-Occupati indipendenti, meno 6%
-Tasso di occupazione 15-64 anni: meno 2,2%
-Disoccupati: più 10%
-Inattivi 15-64 anni: più 3,7%
-Monte ore lavorate: meno 0,2%
(Per consultare il bollettino Istat completo,(leggi qui)
Verrebbe da dire: ma di che diavolo parla Marattin? Di quello che accade realmente, o di quello che vorrebbe dimostrare stia succedendo, da quando la geniale operazione politicista di Italia Viva ha portato il salvifico Mario Draghi al premierato? Quelo, il santone mago delle previsioni creato da Corrado Guzzanti, risponderebbe “la seconda che hai detto”. Però fare gli scienziati dell’economia con un grafichetto, come direbbe Marattin, “da studente di economia del primo anno”, traendone conclusioni opposte alla realtà, è roba da lancio del libretto. (NB il brillante economista non è nuovo alle “bianche”: ha dovuto rettificare la verità rivelata secondo la quale i percettori di reddito dai 35 ai 55.000 euro pagano il 60% dell’Irpef, poichè quella fascia di reddito – dati Mef – paga in realtà il 21,6% dell’Irpef. Leggi QUI)
In una recente intervista a estense.com (qui), Marattin si fa latore di un messaggio “riformista e liberale” che declina in questo modo:
“Chi vuole redistribuire soprattutto opportunità, non solo reddito; chi vuole usare il sistema fiscale come strumento di crescita, non di mera redistribuzione; chi non ha paura di dire che nella scuola bisogna pagare di più gli insegnanti migliori, e non appiattire tutti sullo stesso livello; chi è convinto che per combattere le delocalizzazioni e i licenziamenti non occorra vietarli per legge, ma migliorare le condizioni di competitività del territori, far costare meno il lavoro”.
Traduzione dello storytelling di stampo renziano: soldi no, lavori sì, anche senza tutele (sei giovane, datti da fare); soldi dal fisco ne riceverai indietro in maniera piatta, non progressiva; pagare di più gli insegnanti “migliori” (io per esempio); per evitare di far spostare le aziende all’estero bisogna pagare meno i lavoratori (Renzi vorrebbe costassero come in Arabia Saudita). 
Qui non ci sono seri (liberali, lui) contro cialtroni (sovranisti e populisti, resto del mondo). Qui c’è un rampante che gioca con i dati e le regole del lavoro, parlando (ogni tanto a sproposito) di aggregati come se si trovasse a un Risiko nel quale le “risorse umane” si spostano come le truppe di soldatini. Lo andasse a raccontare agli operai della GKN, o a quelli della Logista all’Interporto di Bologna, o a quelle/i della Whirlpool di Napoli. A Ferrara però non si candida più per andare in Parlamento, stranamente scegliendo un altro collegio. Non la viene più a raccontare ai risparmiatori di Carife, la storia farlocca degli azionisti “speculatori” (classica stupidaggine da macroeconomista superficiale), dopo che il “suo” governo (all’epoca lui era responsabile economico del PD) ha fatto un bellissimo esperimento di bail in anticipato, azzerando migliaia di risparmiatori della sua amata Ferrara. Il “liberalismo” nel campo dell’economia e del lavoro non è un concetto neutro. Anche Milton Friedman era un liberale in economia, e le sue teorie hanno fatto danni incalcolabili a livello sociale. La differenza tra chi parla di economia per insiemi ed aggregati e chi analizza cosa succede ad una singola impresa, ad un singolo mercato, ad un singolo lavoratore, è la differenza tra chi considera il lavoro come una pura merce e chi sa bene che dietro i numeri ci sono la carne e il sangue delle persone.

Ho già comprato il biglietto per Bruce ma voglio salvare il Parco Urbano

Waiting on a sunny day
(Aspettando una giornata di sole)

Mi piace il blues ma sono più sincero se scrivo che mi piace ascoltare musica, senza bisogno di suddividerla in categorie, più comode per i critici che per gli appassionati.

Fra gli artisti che stimo e che mi piacciono di più, c’è Bruce Springsteen, che da solo vale molto, ma senza la sua E Street Band sarebbe come Ferrara senza il Castello Estense.

Negli anni, la puntina del mio giradischi ha letto, riletto e scavato ogni solco dei suoi LP fino ad estrarne chilogrammi di energia, quintali di potenza e tonnellate di vitalità.

Lo vidi per la prima volta in un concerto allo stadio di Torino nel 1988 e fu un’esperienza unica: una performance straordinaria, corroborante, addirittura terapeutica.

Mi piace talmente Springsteen che appena ho saputo del suo concerto a Ferrara ho comprato i biglietti nonostante il prezzo e nonostante la località scelta.

Mentre, fra i primi, compievo l’operazione online ricordavo tristemente a me stesso la differenza tra un passato in cui si contestavano gli artisti manifestando per i prezzi troppo alti dei loro concerti e questo presente in cui da un lato, senza ritegno, gli organizzatori chiedono cifre astronomiche per poter assistere ad uno spettacolo (più altre ingiustificabili per poter comprare il biglietto online) e, dall’altro, noi appassionati siamo disposti a pagare quelle cifre mantenendo le nostre lamentele nei confini di una cosiddetta normalità che comincia ad essere preoccupante.

I tempi son cambiati ed io non mi sarei mai aspettato un concerto del Boss a Ferrara ma soprattutto non me lo sarei mai aspettato in una zona così bella e delicata dal punto di vista naturalistico come il parco Bassani.

Ma lo stupore per l’arrivo del Boss a Ferrara è sicuramente inferiore a quello che ho provato per la zona scelta.

Non è logico che un evento così straordinario possa andare a rovinare un parco così straordinario, perché è evidente che 50 o 60 mila persone non possano fare del bene a quel parco.

In un certo senso, ho l’età per aver visto nascere e crescere il Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani.
Quando è nata mia figlia è stato bello ricevere una lettera dell’amministrazione comunale per comunicarci che avrebbero piantato un albero per ogni bambino e per ogni bambina nati a Ferrara.

Il Parco Bassani è diventato così bello anche per quella scelta metaforicamente bellissima: “Il futuro è nei nostri figli, nei nostri alberi, nel nostro verde e nella cura che vi dedichiamo”. C’è il finale di una filastrocca di Bruno Tognolini che riassume stupendamente quello che voglio dire: “Come sarà l’orizzonte che tracci dipende da come mi abbracci”.

Il Parco Bassani è diventato bello perché ha ricevuto cure amorevoli che hanno richiesto tempo ed attenzione.

Fare un concerto che porterà decine di migliaia di persona a Ferrara e al Parco Urbano vuol dire stuprare “il parco più bello della città” (quello sì che lo è, a dispetto di quello del grattacielo definito dall’amministrazione comunale il più bello ma che sicuramente non può reggere il confronto).

Fare il concerto di Springsteen al Parco Bassani vuol dire scegliere il ritorno di ‘immagine’ infischiandosene di violentare un ecosistema unico.

Fare un evento simile in un parco simile vuol dire che l’unico ambiente che gli organizzatori hanno a cuore è quello del portafoglio.

Del resto come non notare, anche in questi giorni, che il prezzo di una bottiglietta d’acqua durante i concerti del Ferrara Summer Festival in piazza Trento Trieste è di 3 e addirittura di 5 euro!!!

Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato pensato per essere un grande spazio di rinaturalizzazione tra la città, la campagna e il Po; il concerto di Bruce Springsteen è stato pensato in quel posto per avere più visibilità ma senza preoccuparsi troppo dell’organizzazione: dove parcheggeranno le auto tutte quelle persone, come verrà riorganizzata la viabilità, sarà sufficiente la capacità ricettiva di Ferrara?

Leggo che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che stanno preparando una task force; io quando si usano termini così roboanti e bellicistici penso ad un effetto finale inversamente proporzionale agli intenti. La task force non mi fa stare bene.

Leggo poi che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che starebbero elaborando un progetto per la tutela della fauna selvatica che prevede lo spostamento della stessa. In pratica stanno pensando di spostare ogni singolo essere vivente. Non so voi, ma io credo che questa sia una battuta incredibile di una comicità straordinaria se non fosse demenziale. Nemmeno l’amministratore più ‘scalzacane’ avrebbe potuto concepirla. La ‘demenzialità politica’ di certi soggetti non mi fa stare bene.

Quando, una volta sceso a compromessi con me stesso, ho comprato quel biglietto per il concerto di Springsteen al Parco Urbano, dapprima ho provato a digerire quella cifra ma poi ho promesso a me stesso che, nel mio piccolo, mi sarei impegnato per proporre alternative più sostenibili affinché il concerto di Bruce Springsteen e della E Street band si possa svolgere sempre a Ferrara ma in un altro posto.

Ad esempio, ricordo all’amministrazione comunale attuale e agli organizzatori del concerto che l’area dell’aeroporto di Ferrara è uno spazio molto interessante e da tenere in considerazione perché ha tutte le caratteristiche per poter ospitare un grande evento.

Ricordo che quello spazio, nel 1985, ospitò una partecipatissima Festa Nazionale dell’Unità.

Ricordo i concerti di Paolo Conte, di Lucio Dalla, di Claudio Baglioni, di Ornella Vanoni, di Gino Paoli, di Katia Ricciarelli e degli Style Council.

Ricordo che al comizio finale del segretario Alessandro Natta c’erano migliaia e migliaia di persone venute da tutta Italia.

Quello è un posto che sarebbe da valutare come alternativa concreta.

C’è una frase, fra le mie preferite, di una canzone di Springsteen che riguarda la scuola e che dice: “We learned more from a three minute record than we ever learned in school” (“Abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti di quanto abbiamo mai imparato a scuola”). Può significare che, se le istituzioni sono lontane, si impara anche e soprattutto dalle cose della vita.

Bruce Springsteen da solo vale molto ma, se al posto della E Street Band avesse un altra band, sarebbe come Ferrara con un Parco Urbano che i politici e gli affaristi pertUrbano con la loro presunzione che la politica sia tutto uno show.

Ben venga quindi un confronto costruttivo per cercare alternative sostenibili ma prima… “Sciò” allo show a tutti i costi perché quei costi ambientali, sociali ed economici poi li pagheremo noi cittadini.

Mi auguro che l’amministrazione e gli organizzatori riescano ad ‘imparare dalle cose della vita’ quindi dal passato, dall’esperienza. e non debbano fare le cose solo per dimostrare, a tutti i costi, di essere diversi dall’amministrazione precedente.

A noi cittadini basterebbe che dimostrassero, nei fatti, di avere a cuore la nostra città, di agire per il suo meglio e per un suo futuro sostenibile.

La scelta del Parco Urbano per il concerto di Bruce Springsteen e della E Street Band crea “Darkness on the edge of town” (Oscurità ai margini della città) noi invece stiamo “aspettando una giornata di sole” (Waiting on a sunny day).

Su questo quotidiano:
– per sapere qualcosa di più sul Parco Urbano Bassani leggi l’articolo di Gian Gaetano Pinnavaia [Qui]
– per leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK [Qui]

Cover: elaborazione grafica di Ambra Simeone

Caos Capitale

 

Il grillo parlante oggi si è svegliato di malumore. Non ha dormito, di nuovo. Non tanto per i pensieri legati alle vicissitudini lavorative, che, grazie al cielo, sembrano filare lisce, quanto per i consueti schiamazzi notturni e la solita musica assordante di chi non sa davvero cosa significhi regolare un volume a livello umano nelle ore notturne (né tantomeno conosce il significato della parola rispetto). Se poi un motorino s’incastra in una perfida buca (perfida perché ti inganna, si vede solo quando è ormai tardi…), ripartendo a tutto gas, il quadretto è completo. Dicono che ci vuole pazienza e tolleranza, ma il grillo parlante ormai le ha perse entrambe da tempo. Lui lascia pure vivere ma chi lascia vivere lui?

Se, in passato, l’assessore all’urbanistica di Roma, aveva altro a cui pensare (lo stadio della Roma di Tor di Valle, preoccupato dal vincolo culturale di un luogo avvolto da spazzatura e degrado, le torri stile Dubai che non si fanno più, incurante del rischio esondazione dell’area o della mancanza di piano trasporti per arrivarci), oggi i numeri del Covid non preoccupano più, così come non allarma la saturazione degli ospedali, con le loro lunghe code al caldo afoso sotto tettoie improvvisate e il loro scarso personale che fa turni impossibili a ritmi insostenibili.

Il teatro Valle non riapre, i cinema storici di quartiere chiudono (salvo qualche eccezione legata a grandi nomi o padrini illustri) e annaspano fra i topi, il Teatro Eliseo ha chiuso, pur con un ottimo cartellone e un tutto esaurito. Inerzie su inerzie oltre che totale noncuranza e disinteresse. Il cinema Sacher di Nanni Moretti, a Trastevere, sembra una vecchia sala di periferia, l’accesso è decadente e i graffiti sui muri non si contano più; il vecchio cinema Alcazar doveva rinascere dalle ceneri, come una vecchia e stanca fenice, ma ancora nulla. Un tempo questa città era la Hollywood sul Tevere, oggi tutto questo è in lontano e sfuocato ricordo, nonostante qualche sforzo di pochi che cadono nel vuoto cosmico.

E poi le scuole aprono e chiudono quando credono, senza tenere contro delle esigenze dei genitori che lavorano. I riscaldamenti invernali sono un optional, ma per fortuna il clima è sempre mite…Ci pensa il microclima dell’autobus a fare il resto, dove poveri passeggeri aggrappati si passano, stretti come sardine, virus, nervosismi, tic e urti. D’altra parte, gli sbalzi fuori cabina sono la normalità, visti i necessari slalom fra macchine parcheggiate in doppia e terza fila. Se poi scendendo dal tram (perché quello su rotaie resta il più affidabile) non stai particolarmente attento a dove metti i piedi, ecco lì ad attenderti al varco, calma calma, silente, una bella cacca di cane, quella che nessuno raccoglie, tanto chi dice nulla, chi obietta, chi multa. Lo stesso warning che va dato ai bambini al parco, quei parchi immensi pieni di storia non curati e senza fiori, perché anche qui bisogna fare attenzione, la stessa da prestare se si attraversa per arrivare all’oasi di gioco, quando il semaforo rotto non garantisce il passaggio sicuro. D’altra parte, il semaforo a che serve, è ben coperto dai camioncini degli ambulanti che caricano e scaricano liberamente  le merci per le loro bancarelle tutt’altro che abusive. Paccottiglia docet.

Se poi si decide di fare una passeggiata un po’ più lunga, i cassonetti della spazzatura non regolarmente svuotati o, se lo sono stati, i sacchetti lasciati di fianco a cestini poco capienti per quelle borse tristemente abbandonate, occhieggiano qua e là. Non parliamo di cassonetti di raccolta settimanale con sistema porta a porta per zone periferiche della città dove un solo condominio basta per riempirli in una giornata. Labirinti autorizzativi.

E intanto pullman giganteschi pieni di turisti attraversano bellamente le strade del centro storico (non li avevano interdetti?), con i loro tubi di scappamento che non perdonano, con gli autisti innervositi dal traffico romano e dai parcheggi in doppia-tripla fila. Con la loro sfacciatezza di parcheggiare dove credono, incuranti di quanto sta intorno.

Dai vetri delle carrozze della metropolitana non vedi più nulla, i graffiti hanno avuto la meglio. Molti sono orribili. Sono scarabocchi, come quelli informi che da bambini, incapaci ancora di disegnare, facevamo, con un pennarello blu-nero, su pezzi di carta o fogli volanti.

In tutto questo, oggi, a riscaldare il clima, nel vero senso della parola, arrivano gli incendi. Prima la discarica di Malagrotta e un tratto dell’Aurelia in cenere, poi la Pineta Sacchetti, il parco del Pineto e Montespaccato. Palazzi evacuati e metropolitana bloccata, inneschi multipli. Anche il Gianicolo è stato sfiorato. Ma non solo. L’incuria regna sovrana. Il manto erbose delle periferie non può essere tagliato, mancano soldi, personale e soprattutto pianificazione e visione. Tanto vale dargli fuoco. E poi ci sono i noti cinghiali. Il tutto mentre il Covid galoppa nuovamente al superamento dei 38 gradi e la guerra non fa più notizia.

Non è un lamento tanto per fare o per dire, tanto per denunciare o raccontare tutto quello che va male, ma un appello accorato, un allarme per tanta bellezza che non viene compresa, la città e i suoi cittadini chiedono aiuto, ascolto, rispetto, cura e attenzione. Dedizione. Quella dovuta alla Città Eterna, a un patrimonio di tutti unico al mondo. Non c’è più tempo.

E mentre la valle dei templi di Agrigento dimostra che lo splendore del paesaggio e gli interventi giusti esistono, qui si aspetta. Sempre. Un sogno metropolitano che non si realizza. Magari qualcuno un giorno si accorgerà di tanta bellezza. Spero.

GLI SPARI SOPRA
La propaganda e la semplice verità

I combattenti ucraini lottano per la loro e la nostra libertà!

Firmato: la Nato

I partigiani curdi non sono proprio partigiani, facciamo ciò che dice Erdogan.

Firmato: la Nato.

I partigiani palestinesi,

no quelli proprio no, quelli sono terroristi, non ci lasciano la libertà di espropriare le loro terre.

Firmato: la Nato.

Ma l’ONU esiste? In cosa consiste precisamente?

E l’imperialismo, che significato ha? Se io invado una nazione sovrana sono un imperialista, a seconda della parte da cui vedo sorgere il sole? C’è l’imperialismo russo e poi c’è chi esporta la democrazia, c’è chi abbatte i dittatori radendo al suolo delle nazioni, per mettere al potere altri dittatori. Poi ci sono i dittatori meno dittatori degli altri, un po’ come nella fattoria degli animali, in cui tutti sono uguali ma i maiali sono un po’ più uguali degli altri.

Io sinceramente non c’ho capito un cazzo. Ma poi più scrivo e meno ci capisco. E gli Armeni? Quelli non c’hanno nemmeno uno stato, come i palestinesi poi, sì ma gli armeni sono stati oggetto di genocidio. Ssssttt, non si può dire, poi è passato più di un secolo e i Turchi sono amici nostri. C’è pure il pericolo di islamizzazione del mondo, i talebani che tolgono ogni diritto alle donne. E’ vero: è una guerra di civiltà. Ma la Corte Suprema americana? Sì, però non è la stessa cosa. Scriiiitttt (rumore onomatopeico delle unghie sui vetri). Però ci sono popoli che sono guerrafondai, devi ammetterlo, i russi lo sono da sempre, perché gli arabi no? Attento, rilassati, fai passare un quarto d’ora e zac, un americano è morto sparato. Ma la colpa non è delle armi è di chi le usa, e quindi i guerrafondai? Gli Stati Uniti d’America nascono il quattro luglio 1776 e nei loro gloriosi 247 anni di vita, per ben 18 anni non hanno fatto nessuna, e sottolineo nessuna, guerra. Hai capito? Non tanto.

Allora te lo devo dire, tu sei un filo putiniano.
Chi, io? Guarda che a me lo zar fa schifo da sempre, un opportunista guerrafondaio, omofobo, illiberale, mafioso, colluso, capitalista della peggior specie, anticomunista, spietato, dittatore, amico dei potenti dell’occidente a cui si ispira e in cui si rivede. Molti altri lo hanno scoperto brutto e cattivo solo ora. Lo è sempre stato. Pure il popolo russo nell’ultimo secolo mi sembra molto peggiorato, ritrova la libertà per una notte per poi riperderla la notte dopo, senza nemmeno accorgersene. Io sto con i perseguitati che sono in galera, sto con i giornalisti uccisi, sto con chi non ha la libertà a causa delle proprie idee o del proprio genere, segregati in una prigione russa per cui nessuno si straccia le vesti in occidente, ma loro muoiono lo stesso. Non sto con chi acclama il dittatore allo stadio, così come da sempre odio chi acclamava il pelato affacciato su piazza Venezia.

I dittatori sono uguali ovunque, non ne esiste uno buono, l’unico posto adatto a loro è la galera.
La libertà di stampa va tutelata, in ogni parte del mondo….
Ma Julian Assange? Appunto. E Jamal Kashoggi? Per dire. E tutti i giornalisti uccisi da mafia e terrorismo in Italia? E Ilaria Alpi? E Daphne Caruana Galizia? Anna Stepanovna Politkovskaja? No sono troppi, mille e mille ancora a tutte le latitudini, sotto tutti i governi, in dittatura e libertà, non è possibile contarli, ma hanno lo stesso valore, la stessa dignità.

Bandiere della propaganda sventolano a seconda del vento, con le loro immagini tumulate sopra.

E come sempre mi perdo tra le parole che scrivo, non ho una tesi e nemmeno un pensiero fine e ben strutturato, mi mancano le basi per essere un editorialista, sono un casinista, spero di non divenire un ‘semplificazionista’, mai vorrei essere un qualunquista e tantomeno un menefreghista.

Mi piacerebbe che esistesse un mondo dove davvero esistono gli uguali, sia nel bene che nel male, dove un crimine, un omicidio, una guerra, la privazione della libertà, fossero fonte di sdegno in eguale misura e sotto ogni parallelo e meridiano. Vorrei che l’Organizzazione delle Nazioni Unite esistesse davvero, senza nessun diritto di veto, un luogo dove i paesi democratici potessero occupare scranni più comodi, ma in cambio venissero sottoposti a periodici test Invalsi, per una democrazia certificata, non solo sbandierata e magari esportata a cavallo di una bomba.

Mi piacerebbe un mondo diverso, dove la diversità diventa fonte a cui abbeverarsi, dove esista una rappresentanza per ogni idea e dove le idee fossero diverse, contrastanti, fonte di lotta sociale e non di appiattimento e estinzione. Mi piacerebbe sognare nuovamente con una moltitudine, nella speranza di un avvenire migliore per i nostri figli, vorrei vedere persone in lotta contro i soprusi e le vorrei vedere vincere, ovunque.

Ma lo sappiamo cosa succede a chi vive sperando, come disse il sergente Lo Russo in Mediterraneo. Eppure il vero proverbio recita: “chi vive sperando, muore cantando”.

Il corpo delle donne.
La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti

 

La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti è l’ultimo tassello del disegno di una élite globalista che ha come obiettivo il controllo sui corpi di tutti e di tutte. Disegno già emerso con la conduzione e narrazione della pandemia nei governi occidentali; scrivono le Libere Femministe Genova in un loro comunicato. E non potrei essere più d’accordo. È da 10 anni che mi occupo di maternità surrogata, un business costruito sui corpi delle donne, narrato come estremo atto di libertà e amore, che farà delle donne le proprietarie definitive del proprio corpo.

L’atto di prestarsi come madre surrogata che significa consegnare, attraverso la firma su un contratto, la propria vita e il proprio corpo per i 9 mesi di gravidanza, a committenti privati e alle cliniche private che vendono tale pratica, racconta bene come le donne siano l’indice di misura dello spiegamento del potere del sistema patriarcale all’interno di governi che si definiscono progressisti e democratici. Non dovrebbe stupire dunque la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che mostra i muscoli machisti ribaltando una sentenza di 50 anni fa per tornare a dichiarare sfacciatamente quello che non hanno mai smesso di fare: legiferare sui corpi delle donne. L’obiettivo, da sempre, è di creare categorie umane sulle quali imporre più o meno restrizioni all’autodeterminazione del singolo individuo. Il sistema è sempre lo stesso: creare delle sottocategorie per le quali si giustificano restrizioni alle libertà personali da parte di quelle élite di potere che vogliono mantenere i loro privilegi. E queste sottocategorie sono sempre state costruite a partire da quella che andava controllata e dominata perché capace di dare la vita: quella delle donne.

Lo dice molto bene Adriana Guzman nel suo intendimento del patriarcato “Qual è l’uomo piò sfruttato, più oppresso, più discriminato? Un uomo che è contadino, che non sa leggere, che non sa scrivere in castigliano, che non è andato a scuola, un omosessuale potrei dire, un orfano, un disabile. Ci sono tanti strati di oppressioni sopra un uomo, una sopra l’altra, però al di sotto di queste c’è sempre una donna, che è disabile, che è contadina, che non è andata a scuola, e che ha in più l’oppressione di essere una donna. Dunque al di sotto dell’uomo più oppresso del mondo che si possa immaginare c’è una donna più oppressa. Questa donna condivide tutte le oppressioni dell’uomo, di classe, di razza, di genere però ha in più l’oppressione per il fatto di essere una donna, ha un’oppressione per il fatto di essere donna. Non esiste una oppressione per il fatto di essere un uomo. Se sei oppresso lo sei perché sei proletario, perché sei un contadino, perché sei disabile ma non perché sei un uomo. Noi altre siamo oppresse per il fatto che siamo proletarie, perché siamo contadine, perché siamo disabili perché non sappiamo leggere né scrivere però in più perché siamo donne…”

Ebbene quello che sta succedendo negli Stati Uniti non è altro che il proseguimento della politica neo liberale di questi ultimi due anni. Non è forse vero che con la pandemia la maggior parte degli stati occidentali liberal-democratici ha impiegato tutta la sua forza mediatica per ridurre e contrarre il diritto all’autodeterminazione dei singoli? In nome di un “bene comune” hanno decretato nelle alte sfere le categorie che mano a mano dovevano piegarsi al volere politico, rinunciando al loro libero esercizio di autodeterminarsi.

Va detto però che è l’uso della lingua e della parola non incarnata che crea confusione e permette una narrazione falsata di ciò che significa autodeterminazione. E la parola disincarnata è il fondamento della ideologia transumanista (oggi presente in posizione apicali) che fa dei corpi delle mere macchine perfettibili. Grazie all’intelligenza artificiale, si consolida, questa volta veramente, la morte di Dio e della coscienza umana nella quale Dio dimora.

Come ha detto bene Valeria Gheno “la lingua è un atto costante d’identità”. Ma per lingua dobbiamo intendere quella lingua madre che è parola incarnata, che nasce da un sapere ancestrale dei corpi e non è solo una lingua che plasma il pensiero astratto. Una lingua la cui parola ha la capacità razionale di legare i nostri pensieri alle nostre emozioni e alle nostre esperienze incarnate.

È dunque necessario dire in modo chiaro che l’aborto non è un diritto. Il diritto è all’autodeterminazione e le Donne hanno il dovere e la responsabilità di esercitarlo sempre e a maggior ragione durante una gravidanza. Nessuna corte suprema può restringerlo.

Durante una gravidanza appare evidente a tutti che autodeterminarsi significa accettare di assumersi la responsabilità di fare una scelta tra due diritti in conflitto: quello alla vita della donna e quello alla vita del feto. Ma non è forse vero che autodeterminarsi è sempre una scelta fra il conflitto della realizzazione del sé (diritto di autodeterminarsi) e il “bene comune” (diritto di una società giusta e solidale)? Dunque, sarebbe giusto porsi la domanda: è bene che un’autorità astratta (non poi così astratta ma sempre fatta dal consesso di uomini) e terza, prevalga sulla coscienza individuale come è successo in questi ultimi tempi? o se questo sia inaccettabile?

Per noi Donne è chiaro. Nessuno può scegliere per noi e sul nostro corpo, e così dovrebbe valere per tutti. Lo spazio della coscienza di cui il corpo è espressione incarnata è inviolabile e resta il principio cardine del diritto all’autodeterminazione anche se in corso c’è il rischio della vita per altri.

Inflazione senza Scala mobile:
quando i lavoratori hanno perso la grande battaglia.

 

Non possiamo dirci usciti  – ammesso che ne usciremo mai – da una strana distopia mondiale a base virale, che già si ricomincia a parlare di rischio inflazione. Per almeno trent’anni, in Italia (e in parte dell’Europa) l’inflazione ha strettamente intrecciato le sue vicende con quelle di uno strumento nato come sua terapia sintomatica. La vicenda della scala mobile (nascita, evoluzione e morte) è uno straordinario e drammatico archetipo della storia dei rapporti industriali in Italia: rapporti di forza, di potere. Rapporti di classe.

Credo che spiegare questo meccanismo come fanno gli ‘addetti ai lavori’ rischia, in questo caso, di rendere oscuro ciò che deve essere chiaro; di intorbidare acque che devono rimanere limpide, nella loro feroce evidenza. La storia dell’istituto raccontata da politici, giornalisti di parte (non è un’offesa), ed economisti la puoi leggere in moltissime ricostruzioni, diverse tra loro a seconda dell’orientamento politico, economico, o più banalmente del tasso di conformismo dell’autore.
Personalmente mi interessa parlarti come se tu fossi un bambino di sei anni.
Anzi, ti mostro cosa sei.

Sei (ad esempio) un medio borghese, sui quarant’anni, cinico, fortunato ed individualista. Infatti vivi da solo nella casa che ti hanno lasciato i tuoi genitori. Prendi uno stipendio fisso, non disprezzabile per un single. Duemila euro al mese. Forse diventeranno duemila e cento tra cinque anni, quando un rinnovo contrattuale aggiornerà la tua paga base.
Per intanto, i duemila euro rimangono fissi. Con quei soldi, questo mese paghi le bollette. Trecento euro di luce, trecento di gas, duecento di acqua. Poi fai la spesa del mese: duecento euro. Ti restano mille euro. Un cinema, uno spettacolo a teatro, quattro pizze, una trattoria, un libro, un concerto, la benzina per la macchina, le sigarette, quattro biglietti del treno.
Alla fine del mese, riesci persino a farti avanzare duecento euro. Se le tue abitudini non cambiano, se riesci a non mangiare troppo, a non esagerare con la cultura e col fumo, se tutte le variabili di questo andazzo rimangono fisse, in un anno riuscirai a mettere da parte duemilaquattrocento euro, e non stai calcolando la tredicesima, che sono quasi due stipendi in uno. Ci scappa anche una bella vacanza di una settimana. Sei un signore.

Due mesi dopo, prendi sempre duemila euro. Facciamo finta, per semplicità, che i tuoi consumi non aumentino, né diminuiscano. Consumi la stessa quantità di luce, di gas, di acqua, di spesa, di benzina, di cultura e di sigarette. Una sorta di Asperger del consumo (lo so, Franco Modigliani considererebbe tutto ciò astratto, ma invece non vi è nulla di più astratto della macroeconomia).
Però spendi trecentodieci euro di luce, trecentodieci di gas, duecentodieci di acqua, duecentoventi euro di spesa. Fai la stessa strada di sempre, eppure ti vanno via in carburante venti euro in più di due mesi fa. Alla fine del mese in tasca ti restano centotrenta euro. Cominci a riconsiderare la meta della vacanza: poco male.

Passa un altro bimestre, e rispetto al bimestre precedente le bollette aumentano di altri dieci euro, idem la benzina, idem la spesa. Hanno ritoccato anche il prezzo delle sigarette: che sia un messaggio per la tua salute? Che strano: hai sempre le medesime abitudini di consumo, e in tasca ti restano sempre meno soldi.

Alla fine dell’anno non ti resta più niente in tasca, dei tuoi duemila euro mensili. Anzi: vai a debito di cinquanta euro, e per fortuna che avevi messo da parte qualcosa prima. La vacanza l’hai fatta, ma avanti di questo passo una settimana sarà troppo costosa, e passerai ai week end mordi e fuggi.
In dodici mesi, i prezzi medi delle cose che acquisti o delle materie prime che consumi sono aumentati del venti per cento. Il tuo stipendio invece è rimasto uguale, e rimarrà invariato fino a quando un rinnovo contrattuale lo alzerà. Tra alcuni anni, e sicuramente non in maniera tale da compensare l’aumento dei prezzi. Quindi: in ritardo, e non abbastanza.

L’aumento dei prezzi è noto come inflazione.
Adesso sembra assurdo fare un esempio di inflazione al 20% annuo, ma quarant’anni fa non era così. Ci sono stati anni in cui l’aumento dei prezzi si avvicinava proprio a questa percentuale. Quando questo fenomeno ha cominciato a mordere le caviglie degli italiani, gli italiani stessi erano molto più poveri di adesso e la cosiddetta scala mobile non esisteva.

Non credo che la Confindustria nel 1945 abbia firmato con la CGIL un accordo che prevedeva l’indicizzazione dei salari all’inflazione (allora con un meccanismo differenziato per età e genere) per far guadagnare di più i salariati. Lo ha fatto per tenere a livelli accettabili i consumi, per non impoverire le persone al punto che non riuscissero più ad acquistare i prodotti delle sue industrie.
Comunque la si pensi, è quindi impossibile invertire causa ed effetto: la scala mobile nasce come meccanismo di adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi.  Quindi la scala mobile è un effetto, o un rimedio, non la causa dell’aumento dei prezzi.

Ma l’illustre economista Franco Modigliani, a metà degli anni 70, comincia ad affermare che un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’incremento dei prezzi contribuisce esso stesso ad aumentarli. Il motivo sarebbe il seguente: se aumenta il denaro a disposizione dei consumatori ma non aumenta l’offerta di beni – in termini economici, cioè, non aumenta la produttività – la domanda di acquisto di beni (incentivata dall’aumento dei salari) supera l’offerta, e questo fa aumentare i prezzi.

Modigliani tuttavia non era un reazionario. Sosteneva che non solo i salari, ma anche le tariffe dovessero essere calmierate, altrimenti il costo del calmiere per evitare l’inflazione sarebbe ricaduto tutto sulle spalle dei lavoratori. Inoltre sosteneva che doveva aumentare la produttività del lavoro. Perché non c’è solo un modo per tenere sotto controllo l’aumento dei prezzi (cioè bloccare i salari): ci sono l’ aumento delle dimensioni delle imprese, gli investimenti sulla tecnologia, la ricerca sull’organizzazione del lavoro e sui prodotti.

L’industria italiana si è mossa su questi tre versanti? No, o comunque lo ha fatto in maniera insufficiente.
Il risultato è che la battaglia persa sulla scala mobile (simboleggiata dalla sconfitta nel referendum del 1985) non è stata una sconfitta parziale, ma ha segnato la sconfitta nella complessiva guerra di classe, ovvero quella sulla distribuzione dei ricavi tra profitti e salari.

Se l‘inflazione sale, seppure non ai livelli del passato, ma i salari restano fermi e la produttività pure, il divario tra chi incassa reddito da capitale e chi incassa reddito da lavoro aumenta.
Così è stato. L’Italia è, tra i Paesi dell’area Euro, quello in cui, negli ultimi trent’anni, i salari reali hanno perso maggiormente potere d’acquisto.

Come si fa a non legare questa dinamica all’inizio della cosiddetta ‘politica dei redditi’, della concertazione e della moderazione salariale, incarnata dall’accordo governo-sindacati del 1992?
Come si fa a non capire, almeno adesso, quello che Bruno Trentin capì allora, quando firmò l’accordo sotto il ricatto delle dimissioni del Governo (che avrebbe addossato la responsabilità della crisi istituzionale tutta sulla CGIL) e subito dopo si dimise da Segretario Generale, sapendo di non avere rispettato il mandato affidatogli?

Il tormento di un intellettuale come Trentin – un uomo della trattativa, il contrario del massimalista stile “tanto peggio tanto meglio” – rimane nella drammatica testimonianza umana lasciata nei suoi Diari: “Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità  future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. … Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto.”

Quel momento è stato per l’Italia uno snodo decisivo. Un evento, nel senso più proprio del termine, in quanto ha condizionato i successivi trent’anni di rapporti industriali.
Ha spalancato la strada ad un liberismo economico privo di progettualità, basato esclusivamente sulla moderazione salariale. Tanto più paradossale se inserita dentro un modello di società che identificava il consumo come unico indice di emancipazione, anzi di identità sociale, con le tragiche conseguenze antropologiche di cui Pasolini parlava già vent’anni prima. Una Estensione del dominio della lotta, per citare letteralmente il titolo del primo romanzo di Michel Houellebecq, uscito non a caso nel 1994. Un libro sull’assenza di uno scopo per cui lottare.

Se (mi) ami (mi) pianti!

 

Alcune cose non si buttano dopo l’uso, anzi si piantano!

Si possono allora realizzare oggetti di vario genere che hanno come caratteristica dei semi incorporati al loro interno e la biodegradabilità dei materiali con cui sono stati realizzati. È così che da alcuni oggetti di uso comune possono nascere i fiori. Sono idee regalo originali che possono aiutare chi non ha mai piantato un seme o coltivato una piantina a ritrovare un nuovo contatto con la natura. Abbiamo già parlato su questo giornale dei libri per bambini pensati appositamente per fare nascere nuovi alberi piantando la loro copertina. C’è tanto altro: matite, biglietti di auguri, partecipazioni, cartoline. Ecco alcuni esempi interessanti.

Sprout, la matita che si pianta

Se invece di buttare via le matite quando diventano troppo corte, una volta utilizzate e riutilizzate (salvo che ormai sono quasi fiori moda e le usano, forse, solo i cultori della scrittura a mano e del disegno), fosse possibile trasformarle in fiori, erbe o verdure? L’ecomatita Sprout, sviluppata da un gruppo di studenti del MIT, è fatta di cedro e utilizza la grafite e l’argilla al posto del piombo. Una capsula contente semi è montata all’estremità di ciascun esemplare, così, una volta che le matite diventano inutilizzabili, possono essere piantate nel terreno per dar vita a delle belle piante. Partita con finanziamenti ottenuti sulla piattaforma crowdfunding Kickstarter, da allora hanno fatto molta strada e oggi sono disponibili in oltre 20 varianti, con semi di menta, pomodori, peperoni, basilico e rosmarino. La capsula-seme è dotata di tre semi di uno stesso fiore, erbe o vegetali, per aumentarne le potenzialità: una volta bagnata, la capsula protettiva si dissolve per esporre i semi. La matita può essere tenuta nel terreno e usata come un’etichetta, poiché ha sul lato proprio il nome del seme che contiene. Un messaggero verde. Anche personalizzabili.

Contenitore take-away

Se il contenitore take-away dev’essere usa e getta, che almeno risulti completamente biodegradabile e a basso impatto ambientale.  è il nuovo contenitore per alimenti biodegradabile al 100%, costituito da materiali naturali e riciclabili. Al di sotto del coperchio si trovano dei semi da cui nasceranno fiori colorati o piante per l’orto. Il contenitore per alimenti progettato da Michal Marko è stato pensato per essere piantato nel terreno, dove scomparirà senza lasciare traccia nel giro di breve tempo, arricchendolo di nuove sostanze nutritive naturali. “Eat Your Food, Grow A Plant, Save A Planet“, ecco l’insegnamento che questo contenitore vuole lanciare: un impegno a ridurre l’impatto ambientale delle azioni quotidiane, come quella di nutrirsi. Il messaggio correlato al prodotto è semplice: è possibile rendere più sostenibile l’opportunità di mangiare fuori casa ed è dunque necessario che le persone siano consapevoli dell’esistenza di materiali biodegradabili alternativi a ciò che non risulta nemmeno riciclabile. Consumato il proprio pasto, si potrà riempire la vaschetta con del terriccio e quindi piantare i semi che si trovano al suo interno. Dopo alcuni giorni, grazie alle cure dei semi e alle innaffiature, le piantine inizieranno a crescere. Quando saranno forti, le si potrà trasferire nel terreno, in giardino o nell’orto, scatola compresa. Ecco allora un nuovo dono vivo e verde per noi e per la Terra.

Partecipazioni: se mi ami, mi pianti!

Il successo della carta che germoglia. Depliant ma anche partecipazioni di nozze che si trasformeranno in fiori. Questi speciali biglietti d’invito – “Se mi ami mi pianti” – sono realizzati in carta riciclata e al loro interno hanno degli inserti e delle fascette in “carta semi”. Le potrete piantare in vaso e osservare la nascita dei fiori dopo alcune settimane.

Per chi voglia organizzare un matrimonio green, e non ha idee per le partecipazioni, magari da consegnare rigorosamente a mano, ecco un suggerimento originale, quello di una partecipazione che non resti un semplice biglietto da conservare nella scatola dei ricordi, magari in una ombrosa soffitta, ma che si trasformi in fiori. Questa carta può essere piantata direttamente in un vaso, per vedere spuntare fiori di campo dopo poche settimane.

Cartoline eco

Eco-Postcard, invece, è una cartolina ecologica brevettata che nasconde all’interno una cialda di torba con veri semi selezionati.

Un vero “cuore vivente” che, se inumidito quotidianamente, farà crescere una piantina fiorita direttamente sulla cartolina.

Per chi ancora ama scrivere cartoline da posti lontani e vicini, per chi deve “eco-comunicare” o non vuole mai smettere di sorprendere l’amico dal pollice verde anche una cartolina, ora, sa fare la sua parte in fatto di sostenibilità. E far crescere una piantina.

Da una melanzana a un girasole, da un finocchio a una campanella, su una Eco-Postcard, 100% ecologica, si può vedere sbocciare la natura se solo, ovvio, se ne ha amorevole cura. Un vero e proprio “cuore vivente”.

Eco-Postcard può essere completamente personalizzata nella grafica e nella scelta dei semi e nell’imbustamento singolo in scatola o in sacchetto e formati e sagome speciali. Inoltre, si può scegliere tra fiori (girasole, campanella ipomea e bella di notte) e verdure (zucchino romanesco, melanzana, finocchio selvatico melone e peperoncino ornamentale). Ogni piantina può veicolare un messaggio diverso. Provare per credere.

Il tramonto chimico di Ferrara

Quando si parla di “chimica” tra le persone, si traspone sul piano dei rapporti umani un concetto che è considerato (giustamente) centrale nella dinamica dell’attrazione. Quando si parla di industria chimica, ogni attrattività scompare in favore di una immagine plumbea, grigia e mortale. In poche parole, superficiale e stereotipata, come se l’industria chimica in Italia fosse una sola, immensa, mefitica acciaieria, un orribile Moloch che si nutre di vite umane, e che sporca l’immagine e l’aria di una Ferrara che sembra, per altri versi, all’alba di un rilancio turistico su scala europea (leggi qui). Anche in questo caso, stereotipi e superficialità la fanno da padroni, ma per una volta almeno possono aiutare.

Torniamo al Moloch. Alla fine, Eni ha mantenuto la inquietante promessa che aveva fatto. Dal 9 maggio scorso il propilene prodotto a Marghera che attraverso la pipeline riforniva Ferrara, Mantova, Ravenna non arriva più, perché Eni ha deciso di chiudere l’impianto che produce la materia prima attraverso il processo chimico detto cracking. Volevamo parlarne con chi lavora al Petrolchimico senza avere attualmente un ruolo “istituzionale” nell’azienda o nel sindacato: una persona che conosce la realtà del Petrolchimico dall’interno, e che costituisce un riferimento sindacale pur se da “semplice” lavoratrice nella fabbrica.

Micol Giorgi lavora in Lyondell-Basell, in uno dei laboratori di controllo qualità che testa la resa dei catalizzatori, dei supporti e crea il polimero, cioè il prodotto finito. Detta in parole semplici, ricreano in laboratorio la polimerizzazione che poi verrà replicata su un impianto pilota o su un impianto industriale. Micol sa bene cosa succede quando l’approvvigionamento di materia prima (quella che normalmente arriva attraverso il tubo, o pipeline) cambia vettore, perché magari si verifica un guasto o c’è necessità di una manutenzione a Marghera. E’ successo anche di recente. Durante quel periodo il monomero arrivava attraverso ferrocisterne o navi, che non trasportano solo propilene: “le cisterne contengono inevitabilmente residui di impurità che “sporcano” la materia prima e la rendono di bassa qualità, nonostante la pulizia fatta dalle distillerie. Questo vuol dire scarsa qualità, sporcatura degli impianti, scarti elevatissimi. Ecco: Eni continua a dire che garantirà le forniture, ma se poi le forniture devono arrivare con questi mezzi gli impianti si sporcano, si bloccano e il prodotto “fuori resa” aumenta a dismisura. Se questa deve essere la fornitura alternativa da adesso in avanti, si tratta di una soluzione non sostenibile” conclude Micol.

La rigassificazione dell’etilene di cui parla Eni come altra possibile opzione, secondo Micol di fatto non esiste. “Ne hanno parlato, certo, ma da quanto mi è noto pare manchi addirittura il progetto della sua realizzazione”.  A Lyondell-Basell Ferrara sono circa 850 i lavoratori diretti, a cui sommando altrettanti lavoratori dipendenti delle multinazionali chimiche tra cui Versalis, che fa parte del gruppo Eni, arriviamo a 1.700. Tenendo conto infine dell’importante presenza del personale operante nelle società in appalto, il petrolchimico costituisce la maggiore realtà industriale rimasta nella provincia.

Sono preoccupati anche i lavoratori di Yara, altra realtà sita dentro il petrolchimico (che tra l’altro produce il 60% dell’additivo al diesel AD Blue): “Yara fermò la produzione di urea perché ad un certo prezzo del gas naturale (metano) che costituisce al contempo per la società materia prima e fonte energetica, non le conveniva. Adesso ha ricominciato perché il prezzo è calato, ma questa è una spia del fatto che il problema, in prospettiva, diventa di costi: costi di insediamento, costi di approvvigionamento delle materie prime”.

E’ da un anno che i lavoratori chiedono al Ministero un incontro, ma, dice Micol, “non ci ha mai considerato nessuno. L’unico che si è mosso per avere un tavolo è l’assessore regionale alle attività produttive, Vincenzo Colla. Del resto fino a poco tempo fa la proprietà di Lyondell-Basell faceva discorsi rassicuranti: “Eni ci garantisce le forniture, quindi è tutto a posto”, ma le RSU glielo dicevano che non era così… poi facciamo lo sciopero (il 9 maggio scorso, NdA) e all’improvviso salta fuori la lettera del presidente del CdA di Basell Italia, inviata al Presidente del Consiglio Draghi e a Giorgetti (Ministro dello Sviluppo Economico) nella quale scrive che se Eni dopo la chiusura del cracking di Marghera non garantirà le forniture e la qualità delle stesse, Lyondell-Basell non potrà garantire la sua permanenza in Italia”.

Secondo Micol, c’è una strana atmosfera di omertà attorno alle vicende che riguardano Eni. “Il cane a sei zampe non si può toccare”, sintetizza. Quando, a furia di insistere, l’assessore regionale Vincenzo Colla ha ottenuto un tavolo al Ministero dello Sviluppo economico, la prima convocazione incredibilmente non prevedeva la presenza dei sindacati di settore. Poi i sindacati hanno organizzato un presidio davanti alla Prefettura di Ferrara: il Prefetto ha ascoltato, si è fatto in qualche modo portavoce delle richieste dei lavoratori e finalmente i sindacati nazionali sono stati ammessi. Micol è invece rimasta delusa, come molti lavoratori, dall’assenza delle istituzioni della città a fianco dei lavoratori, ma lo dice quasi sottovoce per non prestare il fianco a polemiche strumentali. La situazione è troppo delicata per indulgere a schermaglie “di bottega”: qui c’è bisogno del sostegno di tutti.

Gli atti in corso concretizzano scelte gravi, che rischiano di portare allo smantellamento del sistema della chimica in Italia. La chimica sembra non interessare più, “però intanto in Germania gli impianti continuano a farli” chiosa Micol. La transizione “ecologica” fatta in questo modo è come buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Ed è incredibile che la comunità ferrarese, a partire dalle istituzioni di governo della città, sembri non rendersene conto. Ci sono duemila addetti direttamente coinvolti, che significano famiglie. Poi ci sono i lavoratori dell’indotto. E i lavoratori degli appalti, che saranno i primi a rimetterci, e contemporaneamente sono i più ricattabili: infatti molti di loro sono entrati in fabbrica anche il giorno dello sciopero. Micol lamenta anche un certo pregiudizio duro a morire: “molti ci percepiscono come l’Ilva di Taranto, ma basterebbe farsi un giro qui dentro per capire che le cose non stanno così. I sistemi di sicurezza non sono quelli di cinquant’anni fa. Qui si lavora per l’automotive, per il settore biomedicale, produzione che è stata di importanza vitale specialmente durante la crisi pandemica. Insomma: non produciamo cioccolata, ma non siamo degli inquinatori”.

 

 

«Laura allo specchio» in scena a Roma il 17 luglio

Estate Romana 2022

Rassegna “I solisti del teatro” XXVIII Edizione
««17 luglio ore 21,30
Presso i Giardini della Filarmonica romana, Roma

In occasione del centenario della nascita di Pierpaolo Pasolini, uno spettacolo ricco di canzoni ironiche scritte dallo stesso Pasolini, Arbasino, Flaiano, Moravia per Laura Betti. E in scena, proprio Laura Betti, racconta un Pierpaolo inedito e diverso

Fatima Scialdone in
“LAURA ALLO SPECCHIO”
Dedicato a Laura Betti e Pier Paolo Pasolini

Overture di chitarra Fausto Mesolella
Arrangiamenti  Francesco Bancalari
Al pianoforte  Andrea Bianchi
Alla Chitarra  Michele Kraisky

 

“Laura allo specchio“, interpretato da Fatima Scialdone, è un monologo (in senso stretto all’inizio, poi monologo /dialogante) con musica e canzoni, che ci fa conoscere un Pierpaolo Pasolini raccontato in modo diverso proprio da lei, Laura Betti (grande attrice di cinema e teatro ) degli anni sessanta, in cui giovane vitale, prepotente, anticonformista riuscì ad imbastire un spettacolo tutto di canzoni, scritte e composte per lei , dal titolo “Giro a vuoto” : un ‘calderone’, con la complicità e regia di Filippo Crivelli, in cui coinvolse i più prestigiosi scrittori e musicisti dell’epoca, Moravia e Pasolini in testa, e Arbasino, Parise, Soldati, Mauri ,Flaiano e musicisti come Marinelli, Umiliani, Carpi, Nebbia.
Laura Betti è la prima One woman-show italiana, ha inventato una forma di cabaret fino allora da noi sconosciuta, anche se praticata da tempo in Francia. Ed è proprio a Parigi che debutta, e trionfa, contemporaneamente alle grandi artiste francesi Edith Piaf  e Juliette Greco. Laura Betti ‘si parla addosso’, ne parla col suo “doppio nello specchio”, un novello Narciso che si ammira, si confessa, parla del suo presente e del suo passato.
Parla di  Pierpaolo in modo diverso, con un sentimento che si svela man mano nei suoi racconti .. .Diventa “la sua moglie non carnale” … Sono invischiati in un rapporto complicatissimo: litigano come due coniugi, si riappacificano come innamorati, cementano la loro “amicizia” tra tempeste e schiarite, un legame che le procurerà frutti notevoli sul piano artistico e inaudite sofferenze in seguito. In un cauchemar premonitore Laura viene catapultata nell’oscura dimensione del sogno, “vive” la tragica fine di Pasolini col funerale a Campo dei fiori.

Nello spettacolo non c’è soluzione di continuità tra parola e canto (l testi originali da Giro a Vuoto, di Fortini, Moravia, Arbasino, Nebbia, Pasolini, ecc.) in un amalgama che coinvolge in modo accattivante, anche se il distacco ironico e talvolta comico, stempera malinconie, inquietudini e talora anche “l’annuncio di qualche disperazione”.

qui video trailer

SIATE RAGIONEVOLI, SPOSTATE IL CONCERTO DEL BOSS!
Firma la petizione per tutelare il Parco Urbano

 

Un giornale – almeno questo giornale, così come lo pensiamo e componiamo ogni giorno – non si limita a dare le notizia, ma ci entra dentro; non sta sopra la società, ma è esso stesso parte della società. Davanti ai fatti, soprattutto a eventi o scelte irresponsabili, periscopio non può rimanere neutrale; non ha nessuna linea politica da sposare e promuovere, ma si schiera apertamente per difendere i diritti (delle persone, delle piante, degli animali) e la ragione. E’ il caso della assoluta necessità di tutelare il Parco Urbano Giorgio Bassani di Ferrara, un patrimonio inestimabile che la scelta irragionevole del sindaco Alan Fabbri mette concretamente e stupidamente a rischio. Esiste una location alternativa al Parco Urbano e migliore da un punto di vista logistico, e ci sono ancora 11 mesi prima dell’arrivo di Bruce Springsteeen. Il sindaco ha sbagliato, ci ripensi. 
Francesco Monini

 Save the Park

Il parco urbano Giorgio Bassani di Ferrara è un ecosistema fragile. Non può essere sede di concerti rock da 60000 persone. Per questi eventi, molto belli e desiderabili per la nostra città, chiediamo sia trovata fin da ora un’altra cornice.

Il 18 Maggio 2023 è previsto a Ferrara il concerto della star Internazionale Bruce Springsteen. Siamo favorevoli a che il concerto si tenga a Ferrara ma non condividiamo il luogo dove lo stesso concerto dovrebbe tenersi.

Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume. In più di venti anni si è creato un equilibrio biologico unico e prezioso, un ecosistema complesso che ora, nel pieno della sua maturità, costituisce un unico grande organismo vivente.
Nel Parco, tra alberi, laghetti e canali, trovano rifugio e protezione uccelli migratori e stanziali, animali selvatici e pesci di acqua dolce.
Nelle immediate vicinanze insistono le sedi locali ed i rifugi della LIPU, della Lega del Cane, il Gattile comunale e il Canile Comunale.

Ad oggi è previsto l’arrivo di circa 50.000 spettatori, l’impatto negativo e di lunga durata che tutto ciò potrebbe avere sul Parco è quasi superfluo spiegarlo:
Costruzione del palco, arrivo dei TIR dell’organizzazione;
Viabilità cittadina e creazione di parcheggi per il pubblico;
Creazione servizi logistici ed igienici;
Impatto dei volumi sonori del concerto ;
Danneggiamento indotto dal calpestio di 55.000 persone sul manto erboso del Parco e dunque sulla biodiversità;
Morte dell’avifauna;
Costi per il ripristino della zona dopo l’evento;
Rischio di creare un precedente per l’uso del Parco per grandi eventi.

Eventi simili tenutisi sul litorale, nonostante le promesse di “impatto ambientale zero” , hanno avuto effetti deleteri e non reversibili sui fragili eco sistemi delle nostre coste già abbastanza vituperate negli anni.
Abbiamo costituito un Comitato per aprire un confronto costruttivo con il Sindaco Alan Fabbri per poter valutare insieme un luogo alternativo dove tenere il concerto.
Essendo Ferrara in un territorio di pianura e già molto antropizzato, siamo sicuri che trovare una sede più idonea sia possibile, i tempi ci sono.
Vogliamo che la sostenibilità che tutti ultimamente si stanno appuntando sul petto questa volta sia effettiva, completa e dimostrabile, non solo una mossa di facciata.
Siamo convinti che Ferrara possa esprimere capacità e risorse per creare un evento di queste dimensioni che diventi un vero modello di sostenibilità anche per il futuro.

Faremo arrivare il nostro grido di allarme anche al diretto interessato Sig. Bruce Springsteeen, da sempre persona sensibile alle tematiche ambientali e sociali.

Chiediamo a tutti quanti hanno a cuore la grande musica e l’ambiente in cui viviamo di firmare il nostro appello, per questo vi ringraziamo di cuore e vi preghiamo di condividere il nostro appello con tutti i vostri contatti.

Firma qui la petizione

Il fentanyl e la nuova guerra dell’oppio:
la nuova droga sta arrivando anche in Italia

 

Un’epidemia silenziosa sempre più vasta sta colpendo le nuove generazioni occidentali, un coacervo d’interessi di multinazionali del farmaco, narcos e reti di produzione delocalizzate in Cina sta invadendo da tempo la società occidentale, prima fra tutte la società statunitense, e subito a seguire quella europea.

Ben Westhoff, autore del libro-inchiesta Fentanyl Inc. ci parla di un oppiaceo sintetico sviluppato in Oriente, che attraverso il Messico e il Canada arriva nel cuore degli States, e dagli USA sbarca ora anche in Europa.
L’autore di questo libro inchiesta ci parla di novelli “Pablo Escobar” che provengono da Oriente e non risparmiano nessuno.

Fentanyl Inc.

Nel 2021 più di centomila cittadini americani sono morti per overdose, si stima che oltre il 72% di queste morti sia proprio a causa di questi nuovi oppioidi sintetici prodotti in Cina, fatti arrivare nello Stato messicano di Sinaloa e nel Canadà per poi da lì invadere strade, scuole e società statunitensi.

Fentanyl, il nome di questo potente stupefacente, un antidolorifico sintetizzato negli anni 50′.
Bassi costi, una dose si vende a meno di 5 dollari, facile da reperire online, per strada o in farmacia. Non in tutti i Paesi serve una ricetta medica, ma a parità di dose è tra 70 e 80 volte più potente della morfina, cinquanta più dell’eroina.

 

Dosi mortali a confronto: Eroina e fentanyl a confronto

Il fentanyl è la droga perfetta. Anche come sostanza da taglio per la cocaina o l’eroina. Chi consuma una sostanza, non sa più cosa realmente consumi. Inodore, insapore, pochissimi granelli di questa sostanza pura sono sufficienti a mandare una persona in overdose. Assumibile tramite pasticche ma in modo molto più infido senza neanche rendersene conto anche tramite sostanze liquide, o inalabile tramite aerosol.
La fascia di età più colpita è quella fra i 15 e i 39 anni. Tanti bei discorsi e altrettanti bei principi da parte di chi come me la piaga dell’eroina la vide coi suoi occhi attraversare la nostra società e falciare una generazione di giovani intera, lasciano il tempo che trovano, si dissolvono come nebbia al sole, mentre a terra, per le strade delle periferie urbane delle città dove questa nuova droga è arrivata, restano i morti.

Negli Stati Uniti, (la nazione attualmente più colpita) il trend dei danni lasciati da questa nuova droga è in crescita esponenziale, passando dai 21.000 decessi per overdose del 2016 ai 104.000 del 2021. Altro segno visibile della circolazione di questa droga, per le strade, specie nelle periferie più degradate dove prende campo, sono le migliaia di giovani inebetiti che a guardarli sotto effetto di questo potente stupefacente sembrano più morti viventi che persone.

Ci sono poi i derivati del fentanyl che combinati con altre sostanze arrivano ad essere fino a 10mila volte più potenti della morfina.

Negli USA, nel solo periodo di cinque anni, il tasso di decessi per overdose a livello nazionale è quintuplicato.
Il National Center for Health Statistics dei Centers for Disease Control and Prevention nella Città di New York registrò tra il 2000 e il 2012 una percentuale di decessi per overdose associato al fentanyl che arrivava al 2%, 10 anni dopo, nel 2020, la percentuale registrata di overdose da fentanyl rappresenta il 72% del totale.

Oggi, il fentanyl è il farmaco che più viene associato a un’overdose mortale.

“I nomi commerciali del fentanyl sono vari, commercializzati dalle stesse aziende multinazionali farmaceutiche, per strada, dove negli ultimi anni questo farmaco, inizialmente usato come anestetico generale nella terapia del dolore, ha cominciato a diffondersi chiamandosi Apache, China Girl, China Town, China White, Dance Fever, Goodfellas, Great Bear, He-Man, Poison, Toe Tag Dope, Tango & Cash o, semplicemente, White Girl: la dama bianca.

Con il suo libro, (Fentanyl, Inc: How Rogue Chemists Are Creating the Deadliest Wave of the Opioid Epidemic – Atlantic Monthly Press, ed. 2019), Ben Westhoff (giornalista investigativo che lavora sul campo) ha suscitato un terremoto perchè non si è limitato a denunciarne il consumo, ma ha indagato il network di produzione e commercio del fentanyl.

Intrecci tra Narcos, laboratori cinesi, multinazionali del farmaco, dark web, mercato legale e illegale diventano osmotici, si compenetrano a vicenda, gli interessi di un mercato seguono a ruota quelli dell’altro.

Ma come è stato possibile che un antidolorifico, un farmaco medico usato nella terapia del dolore per le neoplasie sia diventato una sostanza comune d’abuso quasi comune tra i cittadini americani.

A darci la risposta è proprio Westhoff, nel suo libro inchiesta. Il fentanyl venne sintetizzato nel 1959 da Paul Janssen, un chimico belga, fondatore della Janssen Pharmaceutica N.V. che dal 1961 fa parte della Johnson & Johnson e, nel 1985, della Xi’an-Janssen Pharmaceutical Co., Ltd., la prima azienda farmaceutica occidentale della Repubblica Popolare Cinese.

Confezione di Fentanyl prodotto dalla Janssen

La compagnia farmaceutica ha sviluppato molti derivati della morfina, ma il fentanyl era particolarmente redditizio per la Janssen Pharmaceutica. Il fentanyl, spiegava Janssen, “ha permesso per la prima volta di eseguire lunghe operazioni e, insieme ai suoi successori, preannunciò una rivoluzione nelle sale operatorie. Operazioni a cuore aperto come quelle praticate oggi, – sosteneva Janssen, – non sarebbero state possibili senza il fentanyl. Questo per spiegarne l’origine.

Insomma, come spesso accade, quel farmaco fu una svolta.
Diventò l’anestetico più usato al mondo, la Janssen Pharmaceutica fu acquistata dal colosso americano Johnson & Johnson nel 1961 e Paul Janssen continuò a lavorare per l’azienda, incaricata di sviluppare altri tipi di fentanyl.

In seguito, a partire dal 1964, il fentanyl venne posto sotto il controllo internazionale della convenzione unica sugli stupefacenti delle Nazioni Unite. Un po’ come avvenne per la morfina prima, e per l’eroina poi, (sostanze nate per scopi medicinali e militari che in seguito negli anni 70′ invasero le società occidentali falciando generazioni intere di giovani), anche il fentanyl a partire dal 2014 ha cominciato penetrare la società occidentale e a diventare così un grande problema, di natura umana e sociale.

La gente ha cominciato a morire di fentanyl. Estremamente difficile da dosare, può essere letale con quantità di soli due milligrammi, quantitativo appena visibile ad occhio umano e molto più piccola di una dose di eroina.

Nel 2021 negli USA ha rappresentato la prima causa di morte, molto più delle morti da incidente stradale e di quelle dichiarate per covid.

I trafficanti “tagliano” il fentanyl in altre droghe. Così, molte vittime di fentanyl pensano di prendere eroina, cocaina o pillole di altro genere, ma quando c’è troppo fentanyl nella miscela, la morte è quasi istantanea.

“Il fentanyl ha cambiato le regole del gioco”, sostiene un agente della Drug Enforcement Administration (DEA).

Ed è proprio così: il fentanyl ha cambiato completamente il panorama delle sostanze stupefacenti, la sostanza che inizialmente veniva usata come taglio è diventata dominante nel mercato delle droghe a livello mondiale.

A spiegarci perché il fentanyl viene principalmente prodotto in Cina è sempre Westhoff nel suo libro:
“Ho visitato i laboratori di cui tutti parlano, ma che nessuno è mai andato a vedere. Io ci sono stato e ho verificato che in fase iniziale queste aziende per produrre ed esportare fentanyl e altre sostanze, hanno ricevuto sostegno in forma di sussidi e sgravi fiscali da parte del Governo cinese.”

Westhoff nel suo libro inchiesta racconta come tramite una mail falsa a un presunto dealer è riuscito a entrare in contatto con una delle tante aziende produttrici, spiega come a partire da lì ha poi trovato tutta una serie di connessioni e collaborazioni che viaggiano su un doppio e ambiguo filo fra mercato legale ed illegale.

E’ vero che il fentanyl dopo molte pressioni al governo cinese è stato vietato, tranne che per uso medico, eppure come nel caso-Zhang, una società di Shanghai che esportava clandestinamente fentanyl e altre sostanze, il Governo cinese ha scelto di non perseguire.
Le ambiguità permangono, e il libro di West ne tratta a lungo, senza complottismi, arrivando a scrivere senza peli sulla lingua che “i novelli Pablo Escobar del mercato mondiale della droga arrivano direttamente da queste aziende produttrici cinesi.”

“La Cina – come descritto da Westhoff – ha grandi problemi con droghe come l’eroina, la metamina e la ketamina, ma non ha un problema di fentanyl. Almeno, non come lo abbiamo noi negli Stati Uniti, – scrive Westhoff – Il grande tema in Cina è che molte di queste sostanze, che sono vietate negli Stati Uniti, sono ancora legali. E così le aziende le possono produrre con il pieno sostegno del Governo, ma poi l’esportazione diventa qualcosa di simile al contrabbando. Ovviamente non tutto il fentanyl che gira per le strade americane viene dalla Cina ma dalla Cina arriva sul mercato nero una qualità di fentanyl in purezza, al 90%. Una sostanza estremamente pura ed estremamente conveniente. Arriva via posta, con dei corrieri, in Canada o in Messico e, da lì, entra negli USA. Ma il fentanyl non tagliato o ridotto in compresse arriva direttamente. Quindi c’è un sistema che passa le frontiere, dopo il taglio, e un sistema di transito diretto.”

Le rotte del Fentanyl

Le principali aziende produttrici di Fentanyl vengono indicate nel distretto di Wuhan, nome diventato molto noto al pubblico occidentale per altri e differenti motivi.

Secondo i metodi descritti da Westhoff nel suo libro, ad esempio il fentanyl prodotto tramite la Qinsheng Pharmaceutical Co. Ltd. e trasportato dalla Zheng Drug Trafficking Organization (DTO) arriva sulle strade del mercato statunitense. Queste società di produzione gestirebbero un’operazione internazionale di produzione e traffico di droga che contribuirebbero in modo diretto alla crisi di dipendenza da oppioidi, overdose e morte negli Stati Uniti.
Queste società stando al libro inchiesta di Westhoff tutti gli anni avrebbero spedito migliaia di pacchetti di oppiacei sintetici negli Stati Uniti, prendendo di mira i clienti attraverso la pubblicità online e le vendite web, utilizzando corrieri postali commerciali per contrabbandare i loro farmaci.

Partita di Fentanyl sequestrata negli Stati Uniti

“La Cina prevede pene molto severe in tema di stupefacenti e sostanze, ma non ha un vero problema con il fentanyl. Almeno, non ha un problema sociale, con i suoi cittadini. Non avendo un problema sociale con il fentanyl, la situazione è di fatto molto alleggerita. Noi parliamo di epidemia, loro no.” – racconta Ben Westhoff – Visitando le fabbriche di sostanze in Cina, sono stato colpito dalla quantità di droga prodotta e dal numero di persone che lavorano in queste aziende. Certo, c’è molta repressione in Cina sul tema delle droghe e molte persone sono in prigione per produzione e spaccio, ma sul fentanyl c’è uno scontro di problematiche. Perché in Cina rimane tendenzialmente un antidolorifico. Negli Usa invece oramai è ben altro.”

Secondo la DEA, la Drug Enforcement Administration americana: “il fentanyl sequestrato al confine con il Messico ha una purezza media di circa il 7%. Poi, però, c’è il dark web.
In passato, per ottenere droghe illecite, un acquirente doveva incontrare fisicamente un trafficante in un vicolo, oggi può anche starsene in casa e, con un po’ di competenza e qualche strumento, accedere ai negozi del dark web.” conclude il funzionario.

“Molte persone – spiega invece Westhoff in un capitolo del suo libro, – assumono fentanyl assieme ad altre droghe, spesso inconsapevolmente. Oppure comprano medicinali sui canali paralleli e quei medicinali sono “tagliati”. Questo ha cambiato tutto e ha creato un’epidemia di morti per overdose mai registrata prima.”

“C’è anche un’inconsapevolezza dal punto di vista medico. – Spiega Westhoff – Molte persone usano queste droghe senza sapere di usare una sostanza di tale potenza. “ – riferendosi direttamente al sistema sanitario. –

Westhoff parla di persone che si curano e si ritrovano dipendenti senza saperlo e senza riuscire a uscirne. Il caso di Prince ne è un esempio, pare usasse antidolorifici al fentanyl per il mal di schiena. “Anche in Europa sta diventando prassi, nonostante i sistemi di welfare siano diversi. Molte persone usano queste sostanze senza sapere che cosa usano. Altre comprano una cosa e si ritrovano a che fare con un’altra, pensano di usare eroina o cocaina o qualche pasticca oppure pensano di usare “semplicemente” un antidolorifico e si ritrovano a che fare con il fentanyl.” – Scrive Westhoff nel suo libro.

Westhoff in una intervista rilasciata l’anno scorso sul settimanale spagnolo, “Juanjo Villalba” racconta di una sua precedente visita in Spagna e Portogallo dove c’è un certo allarme sulla questione fentanyl.
“L’epidemia” pare stia dilagando anche in Europa. In certi Paesi come Regno Unito e Svezia è già arrivata. In Italia sta cominciando a prendere campo ora.

Svezia: incidenza delle morti per fentanyl. Fonte: Polizia svedese

Westhoff nel suo libro è dettagliato e preciso nello spiegare come i mercati si intreccino fra loro, la strada, il web, la Cina, le multinazionali del farmaco, e i canali della prescrizione medica affidati al sistema pubblico sanitario:
“Se guardiamo al consumo, via web è possibile acquistare fentanyl molto puro a prezzi davvero bassi. Ancora più bassi di quelli che si trovano in strada, dove lo spaccio è solitamente gestito dagli stessi che vendono coca, ero o metanfetamine. C’è poi il canale delle prescrizioni mediche, – dettaglia West nel suo libro – che sono ovviamente un’altra cosa. Ma quando la gente è in difficoltà e non può farsi prescrivere un farmaco e sta molto male cosa fa? Va sul web. Salvo che se capita di diventare dipendenti o se non ci si possono permettere certi antidolorifici, magari perché non si ha un’assicurazione e si vive in un Paese che non ha un sistema sanitario pubblico di modello europeo, si finisce sul web o per strada.”

Siamo davanti a un problema di dimensioni enormi. Per gli Stati Uniti, questo problema ha un’evidenza che supera centomila morti all’anno, senza contare altre centinaia di migliaia di persone che hanno sviluppato una forte dipendenza. Oltre alla morte per overdose, ci sono da contare anche i danni prodotti sulle persone, quelli provocati dal fentanyl sono ben peggiori di quelli che possono produrre eroina e cocaina, arrivando a ridurre una persona a una specie di zombie ambulante, il fenomeno è in forte crescita, sta assumendo proporzioni globali e va a colpire come già avvenuto in altra epoca con altre droghe, le generazioni più giovani.

 

Leggendo il libro di West mi è venuto spontaneo ripercorrere come in un parallelo, però a parti invertite, i fatti storici che oltre 150 anni fa che portarono alle “guerre dell’oppio”. Due conflitti combattuti tra il 1839 e il 1860 dalla sola Gran Bretagna il 1° conflitto, e da Gran Bretagna e Francia successivamente il 2° conflitto, contro l’allora impero cinese.

Oggetto della contesa imporre nell’impero celeste la liberalizzazione del commercio dell’oppio da parte occidentale.
La prima guerra dell’oppio segnò storicamente l’inizio del colonialismo europeo in Cina.
La vittoria occidentale trasformò di fatto la Cina in una colonia delle potenze europee, le quali si assicurarono consistenti privilegi e concessioni commerciali e territoriali su tutto il territorio dell’impero cinese, arrivando anche a stabilire dei protettorati britannici come ad esempio Taiwan e Hong-Kong in pieno territorio dell’impero cinese.

La Cina inizialmente utilizzava l’oppio come medicinale, in seguito accortasi che stava diventando una vera e propria piaga sociale ne proibì l’uso.
La Compagnia delle Indie Orientali, istituita nel 1715 dalla Gran Bretagna, diede però fortissimo impulso al commercio dell’oppio proveniente dal Bengala in India, invadendo il mercato della Cina.
L’obiettivo britannico era di doppia natura, da una parte tramite questo export, ridurre il deficit della bilancia interna dei pagamenti commerciali dell’Impero britannico, dall’altra incoraggiare il consumo della droga tra gli appartenenti alla classe dei mandarini cinesi di modo da fiaccare, corrompere e infiltrare l’allora classe dirigenziale cinese, rendendola docile ai voleri e agli interessi britannici e occidentali.

Fumatori di oppio in Cina, in una stampa del 1858

La vendita dell’oppio per gli occidentali ebbe l’effetto sperato, per la Cina fu invece un vero e proprio disastro. Il consumo di oppio divenne una vera e propria piaga sociale, criminalità e corruzione aumentarono a dismisura, comportando anche la svalutazione del rame e l’aggravarsi della condizione dei contadini cinesi, i quali venivano pagati in rame per i loro prodotti, ma dovevano versare allo Stato le tasse in argento. In risposta a questi problemi, le autorità cinesi inasprirono i divieti sulla droga, confiscando e bruciando enormi quantità di oppio, ma ciò scatenò la violenta reazione delle compagnie commerciali britanniche e occidentali.

Le truppe inglesi attaccarono la Cina, dando inizio alla guerra, che si concluse con la vittoria britannica. I vincitori obbligarono i cinesi alla firma del trattato di Nanchino (29 agosto 1842). In base a questo trattato la Cina fu trasformata in una vera e propria colonia inglese: doveva risarcire una cospicua indennità per l’oppio confiscato e distrutto, aprire cinque porti al commercio inglese e cedere Hong Kong alla Gran Bretagna. Identici accordi furono conclusi con altre potenze occidentali.
Divenuta una vera e propria semi-colonia occidentale, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna, che sfociò nella ribellione contadina nota come la rivolta dei Taiping, e in una estera, che portò ad nuova guerra contro i britannici, sostenuti questa volta anche dalla Francia. La seconda guerra dell’oppio si concluse nel 1860, con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.

Stampa di una battaglia della 1° guerra dell’oppio

L’imposizione ai cinesi del libero commercio di oppio ebbe conseguenze nefaste con effetti trascinati sino al XX secolo e contese territoriali presenti tuttora. La potenza britannica comprese la possibilità di fare lauti guadagni dal commercio della droga, e al tempo stesso poter fiaccare la società cinese per poterne avere un controllo maggiore.
Questo portò la Cina a diverse spaccature interne, vaste aree del commercio dell’oppio furono subappaltate dalle compagnie britanniche a varie bande criminali che realizzavano i loro profitti con il traffico dell’oppio, muovendo spesso guerra allo stesso governo cinese attraverso armi acquistate dai britannici.

La crisi socio-economica arrivò a favorire la frammentazione della società cinese, e in conseguenza la nascita e lo sviluppo di rivolte contro le autorità cinesi, in seguito anche contro quelle occidentali, sorte in odio alle politiche economiche e commerciali occidentali.
Il disastro sociale che si produsse in Cina fu di proporzioni enormi, trascinandosi fino alla seconda metà del secolo scorso, tutto ciò come conseguenza delle politiche colonialiste e di penetrazione commerciale britanniche. I disordini e le rivolte interne in Cina assunsero dimensioni tali che tra il 1898 e il 1901 si decise per un nuovo intervento militare dell’Occidente (USA, Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania, Giappone e Russia) intervennero a sedare le sanguinose rivolte interne, facendo più morti e danno delle rivolte stesse. Meno di un decennio dopo in Cina ebbe inizio una lunga serie di rivolte e conflitti sociali che nel 1911 portarono alla prima rivoluzione cinese, l’imperatore destituito, e in atto un cambio radicale che segnava la fine di un impero millenario.

Luca Cellini
Redattore ed editorialista di Pressenza. Da sempre antimilitarista, è stato obbiettore e attivista nella LOC, nel Movimento Umanista, con Greenpeace, e nel Social forum. Durante la guerra della ex-Jugoslavia, col progetto “Mir sada” promosso dai “Beati i costruttori di Pace”, si reca in Bosnia nei gruppi d’interposizione nonviolenta che tentarono di fermare il conflitto in atto. Fondatore del comitato Valdarno sostenibile con cui furono promossi progetti alternativi per una gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, realizzando sul tema incontri di formazione pubblici e per gli studenti nelle scuole superiori. Padre di due figli, appassionato di scrittura, s’occupa di controinformazione, di diritti umani, d’economia e di ricerca nel settore energetico. Attualmente attivo come volontario in associazioni impegnate nella lotta contro la tratta e lo sfruttamento minorile.

C’È DEL RAZZISMO ANCHE NELLA SOLIDARIETÀ?

La domanda è lecita e provocatoria insieme. E, come si intuisce, riguarda innanzitutto l’immigrazione.
C’è stata una grande onda emotiva, e un ammirevole spirito di accoglienza in tutta Europa, verso gli oltre cinque milioni di profughi dall’Ucraina, ‘ariani’, ebrei, europei, comunque bianchi. Oltre tre milioni nella sola Polonia. Quel paese che, assieme ad altri e alle orde razziste di altri paesi democratici ancora, si è sempre opposto al criterio della redistribuzione delle poche decine di migliaia, dei rifugiati dall’Africa ed altri paesi asiatici. Immigrati questi, che continuano a venire, e a morire, per colpa della ostilità ad accoglierli. E sono, in tutto, ancora poche migliaia. In Italia 23 mila da inizio anno, a fronte dei 90 mila di analoghi periodi degli anni scorsi. Gente di colore, invece, questa.
Come di colore sono i messicani, che premono e muoiono sui muri, alla frontiera americana. Sono spariti dagli schermi tutti questi emigranti di colore. Solo una arida e rapida contabilità, se ne fa al massimo, e solo quando muoiono a gruppi, come il mese scorso in Messico, in Spagna, nel mediterraneo. Sì perché i singoli che muoiono da… soli, non esistono proprio.
Intanto i numeri. Proprio il caso dell’Ucraina, dimostra che la capacità di accoglienza dell’Europa, è molto più grande di quanto vogliono farci credere. Sul milione della pista balcanica che la Germania rischiava di dover accogliere, è stato fatto un gran casino fino alla splendida, costosa, in tutti i sensi, e brillante soluzione con la Turchia di quel bandito di Erdogan.
Poi il dato politico. L’immigrazione, soprattutto quella di colore, non è solo un problema per tutti i governi. È una grana. E lo è soprattutto perché molta popolazione, è stata istigata alla paura e all’odio. Gli episodi recenti più gravi e dolorosi, sono accaduti uno alla frontiera degli Stati Uniti a guida democratica, e uno a Melilla nella Spagna del socialista Sanchez!
Non che noi, in Italia, si brilli per spirito di accoglienza, viste le difficoltà che sempre si frappongono ad ogni sbarco, anche se Salvini ha smesso di abbaiare. Quella propaganda ormai gli rende poco più.
E dire che davvero, come si ripete sempre più spesso, l’immigrazione è tutt’altro che una grana, ma una importante risorsa. Intanto culturale, per quella contaminazione e per quello scambio, fra costumi, storie, sistemi di vita e di pensiero che é davvero un arricchimento reciproco, sempre. Qui, però, si va in un terreno troppo raffinato, per gli ottusi buzzurri che si oppongono, addirittura, allo jus culturae.
Ma sono anche una grande risorsa economica, come dimostrano molti parametri economici come il lavoro e la produzione (senza gli immigrati, dice Zaia, il Veneto crollerebbe), o il fisco e la previdenza.
È così evidente che abbiamo bisogno di loro! Anche di meticciato, aggiungo, abbiamo bisogno. Se no faremo la fine di quella nobiltà che, senza ricambio di sangue proletario, ha finito per subire un impoverimento genetico. Se poi si aggiunge che, come popolazione autoctona, non facciamo figli e invecchiamo, tutto è chiaro meno che agli ottusi ideologici ostili.
Eppure occorre dire, che il grosso dei flussi migratori dovremo ancora vederlo. Il più, o il peggio per alcuni, ha da venire. Il clima, la desertificazione, la fame e le 60 guerre in corso, sono tutte cause destinate a generare flussi migratori sempre più grandi.
E non ci potrà essere differenza fra bianchi e di colore.
Chi non vede questo vive nell’iperuranio.
Se però a non vederlo sono masse di popolo incapaci di ragionare, è un fatto grave. Ma se sono politici spregiudicati e inetti, di cui quelle stesse masse sono vittime, il grande problema sociale, economico e soprattutto umano dell’immigrazione, da grande diventerà enorme, con effetti ancora assolutamente imprevedibili
In copertina: A girl holds her young sister in a camp during a bore hole handing over ceremony in Kismayo, Somalia, funded by AMISOM on 6 December, 2014. AMISOM Photo / Ramadan Mohamed- licenza Creative Commons