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“Per rispettare gli Accordi di Parigi bisogna alzare l’asticella in materia di mitigazione e adattamento: ad oggi gli impegni presi ridurrebbero le emissioni del 5-10% al 2030. Troppo poco: serve tagliarle del 30-45%, altrimenti arriveremo a toccare i 2,4°C entro il 2100!”. Ridurre le emissioni: è questo il tema centrale trattato alla COP tenutasi a Sharm El-Sheikh, la ventisettesima conferenza delle parti sul clima. Ne hanno parlato a Radio3 Scienza, intervistati da Elisabetta Tola  – poco prima del termine dei lavori previsti per il 18 di novembre, ma slittati al 20 – Ferdinando Cotugno, giornalista freelance, collaboratore del quotidiano Domani, e Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network. Altro tema della massima importanza nell’agenda dei lavori della Conferenza, la questione del “loss and damage”, il risarcimento delle perdite e dei danni provocati dalla crisi climatica, obiettivo questo fissato nell’incontro tenutosi nel 2021 a Glasgow. Fa rilevare Cotugno quanto nei negoziati sul clima, visti i tempi ristrettissimi e la complessità delle questioni, contino le singole parole e addirittura la punteggiatura.

In un editoriale apparso il 26 novembre su Domani[1], Cotugno scrive chenon c’è leva di marketing, o politica, o economica, che non tenteranno di usare gli oltre seicento lobbisti che si aggiravano per la COP27, ma anche la retorica saudita ai tavoli negoziali per concentrarsi sul clima e non parlare di specifiche fonti di energia. Volevano che i combustibili fossili rimanessero fuori dalla bozza di accordo e ci sono riusciti”. Diverse sono le analisi a livello mondiale apparse sui più importanti quotidiani, dice Cotugno, “su come funziona lo sforzo dell’Arabia Saudita (e del suo «rinascimento»), di continuare a perpetrare la dipendenza globale da petrolio per decenni, ben oltre qualunque margine per avere un aumento della temperatura entro il limite di 1,5°C. Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, già oggi produce un barile di petrolio su dieci. Non esiste un futuro sostenibile se questa produzione non cala: è questo il mandato della scienza. Ma negli ultimi cinque anni i soldi del regime saudita hanno prodotto 500 studi universitari per dimostrare il contrario, gettando dubbi sull’elettrificazione dei trasporti, promuovendo benzine alternative o addirittura sistemi di cattura delle emissioni mobili da inserire sui tubi di scappamento dei veicoli”. “Solo negli Stati Uniti – continua Cotugno – il regime saudita ha pompato 2,5 miliardi di dollari negli atenei. Secondo una nota ufficiale del ministero dell’Energia «gli idrocarburi devono continuare a essere una parte essenziale del mix energetico globale per decenni». Il paradosso è che l’Arabia Saudita sta lavorando per arrivare a produrre metà della sua elettricità da fonti rinnovabili nel 2030. Il punto, però, non è quello che fai a casa tua. Il punto è il petrolio che continui a estrarre e vendere nel mondo”.

Ma cosa è successo realmente a Sharm el Sheikh?
Ne scrive Gwynne Dyer, che commenta i risultati della COP su Politics, in un articolo ripreso da Internazionale.it. “Dopo lunghe trattative, anche notturne, i presenti sono riusciti a concordare la creazione di un nuovo fondo che compensi i paesi poveri di loss & damage (perdite e danni) subiti a causa di eventi climatici estremi. Il denaro verrà dai paesi sviluppati le cui emissioni passate e attuali sono all’origine dei danni provocati, e – dice il giornalista canadese – dovrebbero bastare altri due o tre anni per istituire la nuova agenzia per perdite e danni”.

Il risultato della Conferenza è confermato anche da Sofia Belardinelli, che, sul sito di Micromega (https://www.micromega.net/ambiente/), scrive del “successo raggiunto al termine dei negoziati in una delle COP sul clima più lunghe di sempre, storica per alcuni aspetti, ma deludente sotto moltissimi punti di vista. Tra i principali successi raggiunti va senz’altro annoverato il fatto che nel testo finale sia stata inserita la risoluzione di istituire un fondo economico internazionale per far fronte alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico. In tal modo, viene per la prima volta riconosciuta ufficialmente la centralità della giustizia climatica, che porta con sé il riconoscimento implicito della diversa ripartizione delle responsabilità storiche nell’aver causato i cambiamenti climatici. Di questo successo – scrive Belardinelli – hanno gioito soprattutto i paesi in via di sviluppo, che si trovano nella posizione di essere al tempo stesso coloro che hanno meno contribuito a causare l’attuale crisi climatica ma che ne pagano, già oggi, le più aspre conseguenze”.

“La creazione del fondo loss & damage è il più grande risultato di giustizia climatica mai ottenuto, ribadisce Cotugno. “In cambio si è dovuto rinunciare a sforzi più incisivi sulla mitigazione, rinviando il tutto a Cop28, ma c’è una cosa che non si deve sottovalutare: il fondo danni e perdite è anche uno strumento di mitigazione”, e poi “questa gigantesca opera di responsabilizzazione degli inquinatori è anche una vittoria dell’attivismo e della società civile ambientalista. Per trent’anni i paesi industrializzati avevano ignorato la questione danni e perdite perché non volevano prendere atto delle conseguenze della crisi climatica. A Sharm el-Sheikh hanno dovuto farlo, ed è stato un grande risultato”. Si può dire che a Sharm el-Sheikh “un pezzo di colonialismo è finito”, perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea “hanno dovuto non solo concedere il fondo, ma anche accettare una decisione a cui erano contrari senza ricevere nulla in cambio”.

“E’ anche una questione culturale”, afferma sempre Cotugno nell’intervista a Radio 3 Scienza. Nei paesi «occidentali», il Nord del mondo, si è ancora abituati a vedere la crisi climatica come qualcosa che riguarda il futuro, nei paesi del Sud come qualcosa del presente. Il Nord del mondo “vive ancora come si fosse nell’ultimo dopo-guerra”. Un profondo cambiamento è quindi necessario.

E una spinta in questo senso è venuta dalla grande sorpresa di questa COP, la vera leader del fronte dei “vulnerabili”, Mia Mottley, premier delle Barbados. “È stata lei – scrive Sara Gandolfi, inviata del Corriere della Sera – a lanciare una proposta nuova e dirompente sulla finanza climatica e sulla riforma dei prestiti internazionali, che sarà sicuramente e presto al centro del dibattito mondiale”, raccogliendo una standing ovation quando in sessione plenaria ha spiegato “come una tassa del 10% sui profitti delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili avrebbe contribuito alla finanza per il clima con ben 37 miliardi di dollari nei soli primi 9 mesi di quest’anno. Cifra che equivale più o meno alle perdite economiche dell’alluvione in Pakistan”.

Mottley, scrive invece Repubblica.it, nota per gli impegni climatici promossi dalla sua isola e per il programma Roof to Reefs di protezione della biodiversità, è stata inclusa fra i “campioni della Terra” delle Nazioni Unite, e c’è chi la vede come futura segretaria generale dell’Onu. Il Time poi l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo. Ma a lei interessa soltanto una cosa: “In questo mondo possiamo avere un senso di responsabilità verso il nostro ambiente, ma anche verso le generazioni future. Ecco cosa desidero più di tutto”.

Intervenendo a Radio 3 Scienza, Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network, il movimento italiano per il clima, fa presente invece come si parli di “mitigazione e adattamento, ma ancora poco di riduzione dell’uso dei combustibili fossili” e come “occorra più coraggio da parte delle grandi economie del mondo che devono prendersi maggiori responsabilità nel cambiamento”, considerando che “la permanenza della CO2 in atmosfera può arrivare anche a 100 anni!”.

Anche in questa edizione i 35.000 delegati in rappresentanza di 195 nazioni non sono riusciti a mettersi d’accordo sul fatto che il mondo debba smettere di bruciare combustibili fossili per produrre energia e a definire azioni decisive e immediate per contenere l’innalzamento delle temperature entro il grado e mezzo previsto come limite dagli Accordi di Parigi del 2015. Altrimenti nel 2100 vivremo in un modo più caldo di 2,4-2,8 gradi. “Questo – scrive sempre Gwynne Dyerè ciò che si ottiene quando un’istituzione globale è governata dal consenso.
Tutti hanno diritto di veto, compresi i paesi che dipendono dal carbone, dal gas e dal petrolio, e gli interessi a breve termine di alcuni (denaro e rapida crescita economica alimentata dai combustibili fossili) si scontrano con l’interesse a lungo termine della collettività”. “Questo è il prezzo da pagare per appartenere a una specie che sta ancora emergendo da un lungo passato tribale e che ha sviluppato una civiltà ad alta tecnologia e ad alta energia prima ancora di essere culturalmente attrezzata per gestirla”, argomenta il giornalista.

Marinella Correggia sul Manifesto del 19 novembre parla di una COP senza accordo, e riporta una dichiarazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans sulla questione del fondo per i disastri climatici chiesto dal blocco G77+Cina. La mossa a sorpresa dell’accettazione viene giustificata così da Timmermans: “Non eravamo convinti dell’utilità di un Fondo ad hoc per le perdite e i danni causati da eventi climatici nei paesi più vulnerabili, ma siccome i G77 sono affezionati all’idea, li abbiamo ascoltati”. Motivazione quanto meno bizzarra!
“La proposta europea, continua Correggia, oltre a circoscrivere i destinatari ai «paesi più vulnerabili», impone «precise condizioni», e proponendo quello che chiama un «accordo pacchetto», chiede in cambio maggiori ambizioni da parte di tutti nel taglio delle emissioni e pretende una base di donatori ben più ampia rispetto al blocco occidentale”.

Meena Raman, coordinatrice della rete di attivisti Third World Network, cogliendo il nodo della questione, evidenzia che “la scala dei disastri è così enorme che i paesi sviluppati ne temono le implicazioni finanziarie”. Ma la proposta Ue aveva anche lo scopo di rompere l’asse negoziale G77 e Cina, mettendo nell’angolo quest’ultima che sarebbe vincolata sia a target nelle emissioni nazionali sia a esborsi finanziari per il loss and damage.
Un negoziatore cinese sulla questione ha infatti dichiarato: “Anche noi siamo un paese in via di sviluppo e subiamo enormi danni climatici”. Il paese, pur essendo ormai al primo posto al mondo quanto a emissioni totali (ma non a quelle pro capite), nella Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici del 1992 era classificato fra quelli in via di sviluppo, e finora aveva evitato l’obbligo di contribuire alla finanza climatica per i più poveri.

Visti i tanti nodi sul tappeto, quando ormai si era giunti al termine previsto della Conferenza, la presidenza egiziana ha annunciato che i negoziati sarebbero continuati oltre i termini. Questo anche a causa del silenzio degli Stati Uniti sulla proposta europea; Stati Uniti che più di tutti dovrebbero contribuire al Fondo, a cui lavorerà un Comitato di transizione con 24 paesi membri e che sarà reso operativo entro fine 2023. “Per ora, è il commento del think tank Power Shift Africa (https://www.powershiftafrica.org/), abbiamo una cassaforte vuota”. Chi darà, chi riceverà, come, quando e quanto si chiedono in molti, specie tra i rappresentanti dei paesi più vulnerabili. “Del resto – aggiunge Correggia – sempre più lobbisti del fossile (sponsor a parte) affollano le annuali conferenze al capezzale del clima”, a cominciare da Hill & Knowlton, l’agenzia multinazionale di pubbliche relazioni con oltre 80 uffici nel mondo, che ha curato la comunicazione per la conferenza delle parti COP27 a Sharm el Sheikh, malgrado i suoi decenni al servizio della disinformazione e greenwashing dei suoi clienti fossili.

Massimo Tavoni e Pietro Andreoni, in un lavoro presentato sul sito de lavoce.info[2], hanno mostrato come la scienza economica del clima, sviluppatasi di recente, permetta di quantificare, seppure con margini di incertezza, i rischi economici legati al cambiamento climatico e di identificare sistemi di finanziamento compensativi. Una delle ragioni per cui le negoziazioni alla COP hanno proceduto molto lentamente “è che quantificare i danni dei cambiamenti climatici e le relative richieste finanziarie è un compito complesso”. L’Agenzia europea per l’ambiente ha stimato una cifra di mezzo trilione di euro per la sola Europa negli ultimi 40 anni.

Sul sito greenreport.it[3] del 20 novembre è invece descritta la delusione del segretario generale dell’ONU, António Guterres, per i limitati risultati raggiunti, dopo i due giorni in più di drammatici negoziati in cui è stato raggiunto l’accordo che ha stabilito il meccanismo di finanziamento per compensare i vulnerabili per “perdite e danni” dovuti ai disastri indotti dal clima. Il luogo dove si è tenuta la Conferenza delle Nazioni Unite, non lontano dal Monte Sinai, ha ricordato Guterres, “è appropriato per parlare di una crisi di proporzioni bibliche i cui segni sono ovunque, come ci indicano le vittime delle recenti inondazioni in Pakistan che hanno inondato un terzo del Paese”. “Dobbiamo ridurre ora e drasticamente le emissioni (oltretutto alla luce dei nuovi report IPCC usciti quest’anno sempre più duri e incalzanti), e questo è un problema non affrontato da questa COP, anche se è stato compiuto, ma non sarà sufficiente, un passo importante verso la giustizia accogliendo la decisione di istituire un fondo per perdite e danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo, e che ha permesso di evitare, in extremis, il totale fallimento dell’incontro”.

Facendo riferimento a Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice, e al suo libro «L’imbroglio dello sviluppo sostenibile»[4], Costantino Cossu, sul Manifesto del 23 novembre, nell’articolo «L’ambiente e la crescita non vanno a braccetto. L’inganno delle COP», riprende le parole di Guterres. “Il tentativo di tenere insieme la crescita economica con la sostenibilità ambientale, cioè il cosiddetto sviluppo sostenibile, è stato l’obiettivo delle ventisei Conferenze delle parti che si sono svolte a partire da quella sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. Poiché la crescita economica è la causa dell’insostenibilità ambientale, i due obiettivi sono inconciliabili, come dimostra il fatto che dal 1992 la crisi ecologica si è aggravata”.

L’agire umano – afferma Pallante – in particolare quello economico, non è più ambientalmente sostenibile. In altri termini, sviluppo economico e mantenimento degli equilibri ecologici sono incompatibili. Perciò parlare di sviluppo sostenibile è una truffa, alla quale si prestano persino molti ambientalisti”. Allora tutti “i tentativi di frenare la corsa verso il disastro ambientale che non prevedano una riduzione, ragionata e programmata a livello globale, della crescita economica sono inefficaci. Tutt’al più rallentano quella corsa, ma non la arrestano”.
L’esempio più stringente è quello delle fonti energetiche rinnovabili: eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Per attenuare l’effetto serra “la strada maestra non è la ricerca di fonti pulite che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti. Questo è necessario, ma non basta”. Secondo Pallante “per portare nuovamente in equilibrio il rapporto tra attività umane e ambiente occorre ridurre la domanda complessiva di energia”, attraverso un modello di decrescita che introduca “criteri qualitativi nella valutazione delle attività produttive e quindi di riduzione selettiva del Pil facendo scendere la quantità delle merci inutili e dannose che peggiorano le condizioni di vita: la decrescita allora non è il meno contrapposto al più, ma il meno quando è meglio”. Un argomento molto complicato da affrontare, mentre si preferisce puntare ad una transizione verso modelli produttivi che riducano drasticamente le emissioni solo attraverso soluzioni tecnologiche.

A conclusione di questa rassegna, qualche annotazione sulla partecipazione italiana alla Conferenza di Sharm el-Sheikh. Cosa ha fatto e quale ruolo ha svolto il governo italiano? Molto poco, viene detto dai vari osservatori e commentatori, specie nella fase più “politica” del negoziato dove i nodi tecnici andavano risolti politicamente. Se le figure più importanti dei governi europei, ministri e vice-ministri dell’ambiente, sono state presenti e hanno partecipato concretamente ai tavoli delle contrattazioni, per l’Italia nessuna figura di rilievo del governo ha seguito le fasi cruciali del negoziato e senza un’agenda per seguire i lavori: è di fatto mancata la presenza italiana.

Il ministro dell’Ambiente e della Sovranità Energetica Gilberto Pichetto Fratin – si legge sul sito del giornale on-line fanpage (www.fanpage.it/)[5]  – lascia la COP27 prima dei negoziati decisivi, e il governo di Giorgia Meloni è l’unico tra i grandi paesi industrializzati a non gestire direttamente i negoziati più importanti sul futuro del mondo”.
Alessandro Modiano, ex ambasciatore in Egitto nel ruolo di inviato per il clima e capo delegazione per l’Italia è l’unico rimasto a Sharm el-Sheikh, ma con un mandato debole e senza ruoli politici nel nuovo governo. “L’Italia – scrive fanpage – che dovrebbe essere preoccupata dei cambiamenti climatici al pari di altri paesi europei e del mondo, è anche la prima linea dell’Europa per quanto riguarda un altro fenomeno che è destinato ad aumentare in maniera significativa: quello dei migranti climatici, la cui spinta non può che essere destinata ad aumentare”.

ECCO, think tank italiano dedicato alla transizione energetica e ai cambiamenti climatici (https://eccoclimate.org/it/), a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo, rilevava “impegni vaghi e una scarsa attenzione all’agenda climatica da parte della premier e della sua maggioranza, a cominciare da una «sorta di reticenza nell’identificare la decarbonizzazione quale variabile chiave per ridisegnare i sistemi energetici nazionali»
La priorità dell’azione di governo sembra essere il «perseguimento della sicurezza energetica indipendentemente dalla tipologia delle fonti di energia e a prescindere dalle ricadute sul clima». A ben vedere, conclude fanpage, “l’impegno del governo a COP27 è andato esattamente così, e di fatto il risultato più importante di Meloni è stato quello di aprire alla collaborazione sul gas con l’Egitto, dopo due parole di circostanza sui casi Zaki e Regeni”.

Il sito greenreport.it riprende il tema del ruolo e della presenza italiana alla COP27 partendo da quanto ricordato dal direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, Alessandro Giannì, relativamente alle affermazioni di Giorgia Meloni che, intervenendo al vertice sui cambiamenti climatici di Sharm El-Sheik, ha dichiarato “al mondo intero che l’Italia farà la sua parte per il clima”. Ma in che modo? Puntando su trivelle, rigassificatori e depositi di gas e continuare a favorire le solite compagnie che stanno macinando extraprofitti miliardari?
Il che vuol dire – conclude Giannì – “ignorare gli urgenti appelli della comunità scientifica che ci invita ad abbandonare al più presto i combustibili fossili”.

Note:

[1] https://www.editorialedomani.it/ambiente/cop27-lezioni-fossili-loss-damage-cina-torino-inquinamento-newsletter-cg3ov1m6.
[2] https://www.lavoce.info/archives/98787/dalleconomia-del-clima-un-aiuto-ai-negoziati-sulle-compensazioni/
[3] grennreport.it, quotidiano on-line per un’economia ecologica – https://greenreport.it/news/clima/il-quasi-fallimento-della-cop27-solo-un-piccolo-passo-aventi-verso-la-giustizia-su-perdite-e-danni/.
[4] L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, di Maurizio Pallante, LiNDAU, 2022.
[5] https://www.fanpage.it/attualita/la-cop27-decide-il-futuro-del-mondo-ma-il-governo-italiano-vola-via-al-momento-dei-negoziati/

 

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Gian Gaetano Pinnavaia

Ho lavorato come ricercatore presso l’Alma Mater Università di Bologna nel settore delle Scienze e Tecnologie Alimentari fino al novembre 2015. Da allora svolgo attività didattica come Docente a Contratto. Ferrarese di nascita ma di origini siciliane. Ambientalista e pacifista fin dagli anni degli studi universitari sono stato attivo in Legambiente e successivamente all’interno di Rete Lilliput di Ferrara fin verso il 2010. Attualmente faccio parte della Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara. Sono socio dell’Associazione culturale Cds OdV – Centro ricerca Documentazione e Studi economico-sociali, del cui direttivo faccio parte e collaboro da anni all’Annuario socio-economico ferrarese. Nel 1990 sono stato eletto con la lista “Verdi Sole che ride” nel Consiglio Comunale di Ferrara fino al 1995; in seguito, dal 1999 al 2004 consigliere della Circoscrizione Nord per la lista “Verdi”.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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PAESE REALE

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