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Gli azzeccagarbugli servi dei padroni dell’energia

Ci sarà un motivo se Alessandro Manzoni, maestro nel cogliere lo spirito italico prima dell’Unità d’Italia (espressione ossimorica, come sappiamo), ha ideato un personaggio come l’avvocato Azzecca-garbugli.

L’azzeccagarbugli mette la sua abilità nel trovare cavilli sempre al servizio del potente. In questo racchiude in sè due vene congenite dell’italiano: la litigiosità bizantina e il servilismo, che purtroppo trovano udienza in molti tribunali italici, evidentemente sensibili alle medesime sirene.

L’ultimo esempio è di oggi. Il Governo impone (ai tempi di Manzoni sarebbe stata una grida, cioè un editto dell’autorità) una tassa di solidarietà a carico delle aziende distributrici di energia, gas e petrolio: si confronta il dato derivante dalla somma algebrica tra le spese e i ricavi dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022 con il dato spese e ricavi dello stesso periodo dell’anno precedente. Se l’aumento del dato tra un anno e quello precedente supera il 10%, sull’ importo dell’aumento – che lo Stato ha deciso di calcolare prendendo come riferimento l’imponibile IVA –  l’azienda deve pagare il 25% di extra tassa, che vada a finanziare uno sconto sulle nostre bollette.

Faccio un esempio: se io sono un cane a sei zampe e ho avuto quest’anno un saldo di 5 miliardi, mentre l’anno precedente il mio saldo dello stesso periodo era 1 miliardo, sulla differenza di 4 miliardi pago allo Stato il 25%, ovvero 1 miliardo, che ritorni ai cittadini a mezzo Stato per fargli sopportare l’aumento enorme della bolletta. Infatti quei 4 miliardi io, cane a sei zampe, li ho lucrati in massima parte comprando energia a prezzo prefissato e rivendendola a prezzo di mercato, prezzo che attualmente è schizzato verso l’alto per motivi quasi esclusivamente di speculazione. Si chiama contributo di solidarietà: una minima misura di redistribuzione che non affama il cane (che continua ad essere bello pasciuto) e serve a non far crepare i gatti, che siamo noi.

Sapete che sta succedendo? Che i consulenti azzecca-garbugli del cane a sei zampe e suoi derivati stanno suggerendo ai loro clienti di non pagare l’acconto (40%) di questa cifra. Infatti il Governo ha incassato pochissimo rispetto alla stima di fine giugno: circa un quarto del previsto. Gli azzecca-garbugli servi del cane stanno dicendo al cane di non pagare le tasse, perchè il cosiddetto “differenziale IVA”, ossia la variazione della cifra imponibile su cui si paga l’IVA da un anno all’altro, potrebbe dipendere non solo dalla differenza di prezzo, ma dall’ampliamento del portafoglio clienti, dall’acquisto di un ramo d’azienda o dal semplice aumento della quota di mercato. Quindi sarebbe un indicatore spurio, e addirittura incostituzionale.

Sarebbe come se io decidessi di non pagare l’Irpef sui miei guadagni perchè secondo me sono stato bravo a farli, e quindi non è giusto che ci paghi le tasse. Se lo faccio io o lo fai tu, domani hai l’Agenzia delle Entrate alla porta. Se lo fa il cane a sei zampe, abbiamo Draghi incazzato che “minaccia sanzioni”. Contro un’azienda controllata da lui stesso, peraltro, visto che il Tesoro ne detiene il 30%.

“A saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente” 

L’ avvocato Azzecca-garbugli a Renzo, ne I Promessi Sposi

 

 

PRESTO DI MATTINA
Il pellegrino e la conchiglia

 

Il pellegrino e la conchiglia

È il cuore che per lontane imprese s’incammina.

Rainer Maria Rilke [Qui] scrive Il Libro d’Ore, in parte in Italia, a Viareggio, all’inizio del 1900 quando ha 25 anni. Presentando il libro, nella versione italiana di Pietro De Nicola, Cesare Angelini scrive:

«Così la poesia di Rilke, col pudore delle sue immagini e la potente labilità del suo linguaggio ci si apriva davanti proprio come “un giardino che si desti all’alba” – ricordando poi che – in una lettera a Ilse Jahr lo stesso poeta descrive il clima sentimentale di certi passi del Libro, precisando che non si tratta di una professione di fede, ma quasi una “esalazione di Dio dal cuore respirante: il cielo se ne copre ed Egli ricade come pioggia”».

Le strade mai si vuotano di quelli
che a te vogliono andar come alla rosa
che fiorisce una volta ogni mill’anni.
Ma li ho visti nel loro camminare:
e perciò credo che respiri un vento
da quei loro mantelli in movimento,
quieti sol se si posano per terra:
sì grande era nei piani il loro andare.

Così vorrei andar verso di te;
raccogliendo da soglie forestiere
elemosine che mal volentieri
mi nutrano. E se molti dei sentieri
mi confondessero coi lor grovigli
con i più antichi m’accompagnerei.

Vorrei essere, Iddio, di pellegrini
una folla e così venire a te,
in lunga fila, ed essere un frammento
di te, giardino con viali viventi.

Dal tuo equilibrio, non cadere, Iddio.
Anche colui che t’ama e che il tuo volto
conosce al buio, se come una luce
ondeggia al tuo respir: non ti possiede.

E se alcuno t’afferra nella notte
si che tu devi entrar nella sua prece:
‘tu sei l’ospite
che procede ancora.
Tu sei il solo,
solitudine sei, tu sei il cuore
che per lontane imprese s’incammina.

(Rainer Maria Rilke, Il libro del pellegrinaggio, in Il Libro d’ore, Morcelliana, Brescia 1950, 7; 9; 78-79; 84).

È l’apostolo Giacomo che nella XXVa cantica del Paradiso interroga Dante sulla speranza. Nel delinearne la figura, Dante si ispira al racconto di Isidoro di Siviglia che indica in Giacomo l’evangelizzatore della Spagna: «e Beatrice, piena di letizia, mi disse: “Guarda (Mira), guarda: ecco l’apostolo Giacomo (il barone), per venerare il quale (per cui) sulla terra (là giù) si va in pellegrinaggio (si vicita) in Galizia”» (XXV 18).

Secondo una tradizione medievale i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni rappresentavano la fede, la speranza e la carità. Sicché, prima di avanzare verso un altro cielo, Dante, nell’VIII cielo delle stelle fisse o delle costellazioni viene esaminato su queste tre virtù dai rispettivi apostoli.

Beatrice si rivolge all’apostolo Giacomo dicendo: «fa che risuoni in questo cielo (altezza) il valore della speranza (speme): tu sei in grado di farlo (tu sai), poiché la simboleggi (la figuri) negli episodi evangelici in cui (tante fiate… quante) Gesù mostrò maggiore predilezione (fé più carezza) verso i tre apostoli», (XXV, 33).

Una leggenda narra che quando i primi cristiani giunsero sulle coste della Galizia trasportando il corpo dell’apostolo Giacomo, un cavaliere − Cristo stesso − si fece loro incontro e gettandosi in mare riemerse con tutto il corpo rivestito di conchiglie.

Leggenda nata forse dal fatto che i pellegrini che arrivavano a Compostela dovevano immergersi nel mare, come a rinnovare il loro battesimo, e poi raccogliere una conchiglia come simbolo della speranza nella risurrezione, che avrebbe accompagnato il loro ritorno.

Uno dei significati della conchiglia nella simbologia cristiana è quello legato all’acqua e alla rinascita battesimale. Ma è pure figura di uno scrigno, dell’arca, custode delle due tavole dell’alleanza, del bastone fiorito di Mosè e della candida manna, come polvere di madreperla.

Infine il guscio della conchiglia, con le sue due valve chiuse, rappresenta anche un sepolcro, così da conferire a questo oggetto un duplice contestuale significato di occultamento e svelamento dell’annuncio del mistero pasquale: la conchiglia simboleggia cioè il corpo dell’uomo, che come una tomba chiusa custodisce dentro di sé, dopo il battesimo, la perla preziosa della vita risorta.

 

Pellegrino tra pellegrini

«Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24, 13-15).

Pellegrino tra pellegrini: così viene da pensare se ci si lascia guidare dai pittori che hanno raffigurato il racconto dei discepoli di Emmaus. Le conchiglie non sono dimenticate. Anche se piccole, esse sono effigiate sulla borsa del santo Pellegrino nel dipinto di Duccio da Buoninsegna [Qui].

Non solo, nella taverna di Emmaus il Caravaggio [Qui] ha dipinto una conchiglia sul vestito del discepolo pellegrino, che tiene le braccia distese, le mani aperte per lo stupore e − a me sembra − pure per trattenere il Cristo che ha riconosciuto dallo spezzare il pane.

Per questo egli proferisce: “è bello stare qui non andartene”, resta con noi ancora, affinché sia Emmaus il capolinea. E tuttavia, come sul Tabor, occorre riprendere il cammino: il Risorto con il solo gesto della mano indica l’uscita, aprendosi così il cammino in mezzo a loro.

Ma a differenza di quanto accadde sul Tabor, ora i due sono traboccanti di gioia. Il loro cammino missionario è appena cominciato: «E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro».

Quella conchiglia appuntata sul petto del discepolo senza nome ricorderà ad ogni discepolo il compito e la grazia dell’annuncio del vangelo della gioia e della pace: «Le nostre mani congiunte/ componevano una tenace/ conchiglia/ che custodiva/ la pace» (Antonia Pozzi [Qui]).

È stata dunque una grande sorpresa scoprire, di questi giorni, che minuscole conchiglie fanno da corona ai bordi lungo tutto il perimetro del Crocifisso di san Damiano. Sono così minute che uno non se ne accorge subito. Ma sono proprio lì, dipinte sul legno della croce, primizia e profezia di risurrezione.

 

La missione in una conchiglia

«La missione in una conchiglia», pensai una domenica mattina di molti anni fa, ritrovando nella tasca della giacca a vento, mentre cercavo le chiavi, la “cappa santa” che la sera prima era stata consegnata ai partecipanti della veglia missionaria nella parrocchia di Sant’Agostino.

Durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo – che quella domenica narrava del comandamento dell’amore − la mostrai alla gente e ai bambini incuriositi in prima fila. Forse che quella “cappa santa” esprimeva quello che era stato appena annunciato dalla Parola?

Domandai allora: «Mi sapete dire quale “cosa” sia uno e allo stesso tempo due, e quando due siano una stessa cosa?». Inizialmente, dall’assemblea mi guardarono male, poi piombò il silenzio, perché i pensieri quando cominciano a muoversi non fanno rumore.

Quelli dei bambini sono però più svelti e meno imbarazzati, tanto che dal terzo banco uno di loro mi disse, «Ma la conchiglia che hai in mano, don Andrea!». Io allora incalzai: «E cos’altro?». Ancora silenzio; poi dall’altra parte della fila vedo una testolina inclinarsi verso un’altra e questa a sua volta piegarsi verso la catechista per un breve consulto, innescando poi il movimento inverso di conferma.

Solo allora, la prima testolina emerse sulle altre e disse: «Il comandamento nuovo» − aggiungendo − «mi sembra». E proseguì − probabilmente attingendo da una “glossa” della catechista −: «Due modi di amare, come due sono le valve ma una sola è la conchiglia poiché unico è l’amore».

Provai allora a insistere nell’interrogatorio e domandai ancora: «Sapreste anche dire a quale parte della conchiglia assomiglia di più il primo comandamento ed a quale il secondo?»

E aggiunsi: «Non c’è una risposta esatta questa volta; lasciate quindi parlare il cuore». E quando parla il cuore, si sa, è il gesto che arriva prima, sorpassando la parola.

Subito alcuni indici delle mani segnarono quella parte della conchiglia più rigonfia, con le nervature esposte, tese e convergenti all’indietro: quella che sembrava una vela in cui soffia il vento. «Quella, quella − dissero alcuni − quella è l’amore verso Dio».

Era logico che quell’altra, più somigliante a una “cosa piatta” o ad un utensile tagliente, esprimesse invece quell’amore verso il prossimo come verso se stessi. «Ma perché questa scelta?» chiesi nuovamente.

Si ripeté il rito confabulatorio, ma un ragazzino svelto mostrò le mani capovolte come conchiglia rovesciata e disse: «Perché si deve accogliere Gesù come alla comunione». Più difficile fu trovare il significato dell’altra parte della conchiglia. Anch’io non ne trovavo un senso e ripetevo: «a che cosa assomiglia, forza», per prendere tempo.

Questa volta, una voce di mezzo alla gente disse: «Un piatto». «Ma certo» risposi, come colpito da quella parola: «ma certo, un piatto». E aggiunsi «avevo fame e mi avete dato da mangiare».

Si sentì una soddisfazione tra le persone per quel piccolo enigma risolto, per quel gioco di simboli svelato. Alla comunione soprattutto i bambini si guardavano le mani perché fossero il più somiglianti al piatto di una conchiglia e il loro sguardo, almeno così m’era sembrato, era attirato non solo dal bianco del pane eucaristico.

Quel piccolo pane bianco sembrava proprio ai loro occhi risplendere come una candida perla.

Allora non conoscevo ancora il significato più antico della conchiglia del pellegrino che si trova nel Codex Calixtinus [Qui], detto anche Liber Sancti Jacobi la cui origine di composizione è tra il 1139 e il 1173.

Vi si legge: «Nello stesso modo in cui i pellegrini che tornavano da Gerusalemme portavano con sé le palme, così i pellegrini che tornavano a casa dopo essere stati a Santiago portano con sé le conchiglie, e non senza ragione. La palma rappresenta il trionfo, la conchiglia le buone opere».

Ah! dissi tra me le buone opere dell’apostolo Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.

I ragazzini l’avevano compresso anche senza leggere il Codex Calixtinus e prima del parroco.

Al cuore del poeta che all’inizio attende l’Ospite entrare nella sua preghiera, un altro cuore corrisponde: conchiglia ripiena dell’eco del suo silenzio, infinito silenzio che muta il pianto in gioia.

In gioia si muta il mio pianto
quando comincio a invocarTi
e solo di Te godo
paurosa vertigine.
Io sono la tua ombra,
sono il profondo disordine
e la mia mente è l’oscura lucciola
nell’alto buio,
che cerca di Te inaccessibile Luce;
di Te si affanna questo cuore
conchiglia ripiena della Tua Eco,
o infinito Silenzio.
(David Maria Turoldo [Qui])

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

CI SIAMO ANCHE NOI …
Save The Park, dove migliaia di uccelli hanno la loro casa

 

È tollerabile il concerto di Bruce Springsteen all’interno del Parco Urbano?

Il Parco Urbano “Bassani” di Ferrara è stato creato per il godimento dei cittadini, sia per la sua funzione di ‘polmone verde’ che per agli aspetti ricreativi. Non bisogna dimenticare, però, che rappresenta un importantissimo serbatoio di biodiversità poiché racchiude importanti habitat costituiti da siepi, boschetti, prati e un bacino d’acqua di discreta portata.

Le specie di uccelli che transitano nel parco sono circa 130, mentre quelle nidificanti sono, con quasi assoluta certezza, almeno una quarantina.

Nelle siepi
, per esempio, costruisce il nido l’usignolo e la capinera, mentre nei boschetti nidificano il picchio verde, il picchio rosso, la cinciallegra, la cinciarella e probabilmente l’upupa, visto che è abbastanza usuale vederla raccogliere insetti nelle distese erbose.
Nel laghetto è ospite fisso il martin pescatore, anche se probabilmente non nidifica in luogo poiché le rive non sono adatte ad ospitare il suo nido, però viene regolarmente a pescare invitato dall’abbondanza di piccole prede.

Nidificanti di sicuro lungo le rive a canneto, invece, sono la cannaiola, il cannareccione e il tarabusino. Di quest’ultimo ho visto personalmente nella prima settimana di luglio un pullo (animale giovane, n.d.r.).che si arrampicava agevolmente sulle canne. Le specie descritte, come ho già accennato, sono una minima parte di quelle che realmente allevano i loro pulcini nell’ambito del parco urbano. Anche la galleria di foto che illustrano questo breve testo è solo una piccola rappresentanza degli uccelli che frequentano questa zona.

Non ci vuole tanto a capire che il Parco Bassani è una vera oasi e che la sua fragilità dovrebbe essere tutelata. Ovviamente Il concerto di Bruce Springsteen. che si terrà il 18 maggio 2023 (quindi in pieno periodo riproduttivo per molte specie), con la presenza di 50.000 persone, arrecherà un danno irreparabile al Parco, almeno per quello che riguarda l’aspetto faunistico, per via dell’enorme disturbo causato da migliaia di presenze umane e dai migliaia di decibel di un concerto.

Non bisogna privare Ferrara di un avvenimento musicale così importante, ma occorre trovare una soluzione alternativa alla location da riservare al concerto del Boss. Tantissimi ferraresi si sono mobilitati, ed è stata già proposta un’altra area più idonea. Fino ad oggi l’Amministrazione Comunale ha minimizzato le conseguenze derivanti da una scelta inspiegabile e sbagliata.  Ma il Comune ha ancora dieci mesi a disposizione… per cambiare idea. Che il buon senso prevalga!

Specie di uccelli sicuramente osservabili nel Parco Urbano

Airone cenerino (Ardea cinerea)

Cinciarella (Parus caeruleus)
Cinciallegra (Parus major)
Capinera (Sylvia atricapilla)
Codibugnolo (Aegithalos caudatus)
Folaga (Fulica atra)

 

Fagiano (Phasianus colchicus)

Gallinella d’acqua (Gallinula chloropus)

 

Gazza (Pica pica)
Ghiandaia (Garrulus glandarius)
Gufo comune (Asio otus)
Luì piccolo (Phylloscopus collybita)
Picchio rosso maggiore (Dendrocopos major)

 

 

 

 

 

Picchio verde (Picus viridis)

 

 

Pigliamosche (Muscicapa striata)

 

 

Tordo bottaccio (Turdus philomelos)
Usignolo (Luscinia megarhynchos)
Verdone (Carduelis chloris)
Passera mattugia (Passer montanus)

Le ilustrazioni: Tutte le foto che corredano il testo, come quella in copertina (Cannareccione, Acrocephalus arundinaceus) sono state realizzate da Maurizio Bonora e sono soggette a copyright.  Periscopio ringrazia l’autore per aver concesso gratuitamente il consenso alla pubblicazione sul nostro quotidiano.

Se non l’hai ancora fatto, leggi la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 24.300 adesioni [firma qui la petizione]

Una Matrioska salverà il mondo

 

Patria: il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni“. “Nazione: il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione in unità politica“. (Treccani)

Mi sono sempre meravigliato di quanto l’uomo, nella storia, abbia sentito il bisogno di combattere per qualcosa che pone fuori (sopra) di sé, invece che per sé. Dio, Patria, Nazione. Uso la parola “uomo” in senso specifico: sono i maschi che hanno costruito queste astrazioni. Per renderle dei feticci in nome dei quali uccidere e morire, i maschi ci hanno iniettato dentro concetti tratti dalla fisiologia: il sangue, come se un legame di sangue potesse allargarsi dalla propria ristretta cerchia di avi e discendenti, fino a ricomprendere una moltitudine di consanguinei che fanno un popolo, che formano una nazione. Anche qui, il maschio umano parte da un elemento reale, che scorre nelle sue vene, e lo trasforma in un’astrazione. Un allargamento della propria genìa ad un numero indefinito di pseudo-consanguinei. Un’idea folle. Che infatti porta all’altra follia genocida, quella della razza pura.

Non so se sia completamente attendibile, ma obbligherei tutti i nazionalisti, tutti i razzisti, tutti i sostenitori della superiorità della loro razza a fare il test genetico che attraverso il DNA rivela le varie origini etniche. Sarebbe bello vedere la faccia di un suprematista che scopre che nelle sue vene scorre sangue nigger, l’espressione di un nazista con la svastica tatuata addosso che scopre di essere di origine ebraica, l’amara sorpresa di un turco fanatico che scopre di avere ascendenze armene e curde.

Qui si innesta un altro elemento, questo sì biologico. Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato che un elevato livello di testosterone aumenta l’aggressività e diminuisce la capacità di ponderare le proprie decisioni, rendendole più impulsive. Lo ha detto anche la bravissima Francesca Mannocchi, inviata di guerra (anche) in Ucraina: “c’è troppo testosterone”. Si riferiva nello specifico ai proclami bellicisti di politica e stampa. Fino a che un uomo soddisfa il bisogno simbolico di prolungarsi il pene acquistando un Suv, i rischi sono limitati. Quando l’uomo in questione ha la possibilità di imbracciare un fucile, i rischi aumentano. Se poi il maschio in questione può azionare dei missili, diventa anziano ma non lo accetta ed è strafatto di steroidi, il rischio diventa maledettamente alto.

La parola “patria” ha un etimo che deriva da “terra dei padri”, ma sono le madri che danno la vita. Sono persuaso che questa, come tutte le guerre, sia una guerra dei maschi, come scrive anche Roberta Trucco in un bello e drammatico pezzo appena pubblicato sul nostro giornale (qui). Una progressiva presa delle leve del potere (potere anche mediatico) da parte delle donne non rivestirebbe solo una funzione di riequilibrio sociale ed emancipazione culturale, ma contribuirebbe a spostare le priorità nei valori e le modalità di narrazione e magari anche gestione dei conflitti. Le donne non hanno bisogno di esibire ed esercitare la virilità: non è nella loro natura. Non intendo essere agiografico (ci sono state donne di potere feroci o spietate, perchè hanno mutuato un attitudine maschilista), nè costruire un santino: sono disperatamente interessato a intravedere un futuro per la specie umana. Guardate due donne che litigano. La loro ferocia verbale è superiore a quella maschile, più raffinata e greve al tempo stesso. Si potranno odiare per sempre, difficilmente arriveranno ad ammazzarsi.

Quando qualcuno mi dice che ho una spiccata parte femminile lo considero un bel complimento. Gli uomini ucraini in età dai 18 ai 60 anni, come sappiamo, hanno il divieto di uscire dal loro paese da quando è partita la guerra di aggressione russa. Questo divieto oblitera d’imperio la loro parte femminile, statuendo per legge la declinazione della loro individualità in termini esclusivamente virili: lotta, combattimento, aggressività. Le donne e i bambini possono andarsene, loro no. Loro devono rimanere a difendere con le armi…che cosa? La Patria, la Nazione. Non venitemi a raccontare che separarli dai figli e dalle compagne e lasciarli lì a combattere e a morire (non su delle alture, non lontano e sopra i bombardamenti ma sotto le bombe) serve a difendere la loro famiglia. Se volessero proteggere i loro affetti dovrebbero avere la possibilità  – almeno la possibilità – di andarsene via insieme alle loro famiglie. Se lo ritengono necessario, dovrebbero avere la chance di ricostruire un futuro altrove insieme ai loro cari. Invece, anche solo parlare di questa opzione (trovare una “seconda patria”) ti fa incasellare dentro una scatola con l’etichetta di smidollato, di vigliacco. Sono loro che ci chiedono di avere le armi, sento dire. Ma loro chi? Chi è costui che ha parlato con ogni singolo maschio ucraino per essere così sicuro delle sue intenzioni? Se lui muore, la Patria un giorno forse gli sarà grata, ma sicuramente i suoi figli saranno orfani e sua moglie vedova.

Albert Einstein dopo la salita al potere di Hitler si trasferì negli Stati Uniti. Sarebbe stato meglio per l’umanità se avesse imbracciato le armi contro il Kaiser? Sigmund Freud dovette chiedere un visto per l’Inghilterra, mentre le sue opere venivano bruciate e quattro delle sue sorelle trovavano la morte in un campo di concentramento. Rudolf Nureyev chiese asilo politico alla Francia e in Unione Sovietica – dove, accusato di essere una spia, fu condannato in contumacia per alto tradimento –  tornò solo nel 1987, grazie ad un permesso concessogli da Gorbaciov. Avrebbe dovuto andare in galera, anzichè espatriare? Cosa sarebbe stato meglio, per lui e per tutti, che ballasse tutta la vita in carcere? Cassius Clay rifiutò di arruolarsi per il Vietnam, affermando che, a differenza di quanto accadutogli nella sua nazione, nessun vietcong lo aveva mai chiamato “sporco negro”.

Però i partigiani hanno fatto la Resistenza armata, si obietta. Certo, ma chi si trovava in guerra e come l’hanno fatta la Resistenza? Pietro Secchia (Brigate d’assalto Garibaldi) afferma che, su 1.673 nomi di dirigenti del movimento partigiano, circa il 90% erano militanti che erano già stati condannati al carcere, al confino o all’esilio dal regime fascista. Moltissimi erano disertori. Quanto all’approvvigionamento di armi e alle leggendarie piogge di rifornimenti aerei dagli Alleati, cito quanto scrive Carlo Levati (partigiano Tom) nel suo libro “Ribelli per Amore della Libertà”:
«Dal Comando di Brigata ci veniva comunicata l’imminenza di un rifornimento di armi da parte degli Alleati; e la notizia ci procurò molta gioia. Il lancio dall’aereo sarebbe avvenuto entro il territorio sotto il nostro controllo e cioè tra Gorgonzola, Trezzo e Vimercate. Il segnale avrebbe dovuto darlo Radio Londra con queste parole: “Lucio 101” che significava attesa; “Lucio 1O1 il pollo è cotto” voleva significare che la notte seguente noi avremmo dovuto accendere dei falò nelle località citate e quindi recuperare le armi venute dal cielo. Andammo avanti tante notti ad ascoltare la radio e ad aspettare il famoso “pollo”, che non venne mai; tant’è che anche il più paziente di noi, dopo un paio di mesi di vana attesa, si lasciò sfuggire questa battuta: “Se il pollo c’è … ormai è carbonizzato!”. Così, senza ulteriori attese di lanci, decidemmo di organizzare l’assalto alla Caserma dei repubblichini di Vaprio d’Adda per recuperare armi.»

Questo accadeva, tra l’altro, in una situazione completamente diversa dall’attuale: le truppe di Hitler avevano già sfondato in mezza Europa. La guerra era già diventata mondiale, e gli italiani non solo avevano i nazisti in casa, ma facevano i conti da anni con un regime interno che si era alleato coi nazisti per mandare i giovani italiani coscritti a morire in nome del Duce. I fautori dell’invio di armi alla “resistenza” ucraina, facendo un parallelismo con l’aiuto alleato ai partigiani, raccontano una favola ad un tempo mitologica e superficiale: mitologica perchè, come l’episodio sopra narrato mostra, gli alleati lanciarono armi soprattutto a partire dalla tarda primavera del 1945, alla vigilia della Liberazione; superficiale, perchè l’Europa e l’Italia non sono alleati bellici dell’Ucraina contro la Russia. Chiunque sostenga il contrario (compreso il nostro Governo) dovrebbe spiegare su quali basi giuridiche l’Italia offrirebbe assistenza armata all’Ucraina, che non è un paese aderente alla Nato e non fa parte dell’Unione Europea. 

Per quanto mi riguarda, sono e sarò un renitente e un disertore. Preferisco andare in carcere che ammazzare persone che non conosco e che non mi hanno dichiarato guerra, per soddisfare la brama di potere di qualcuno. Potessi avere una remota possibilità, imbracciando un fucile, di far fuori il tiranno: invece ho la certezza che dovrei ammazzare l’ innocente per salvare la mia vita, contemporaneamente perdendola per sempre. La guerra la dichiara qualcuno che sta in cima alla piramide, ma a morirne sono quelli che si trovano alla base della piramide. In nome di cosa? Il mio nemico è Putin, ma il mio fucile al massimo potrebbe uccidere un potenziale Bulgakov, un futuro Kandinskij, un Cechov, un Dostojevskij.

Tutta questa gente che si è messa in modalità “partigiana”, esaltando e propugnando la magnifica resistenza dei camerieri e ragionieri ucraini che diventano guerriglieri e “dobbiamo mandare loro le armi”: intanto se ne sta a casa, e sfoggia il proprio patriottismo in un talk show (in Italia, una delle peggiori degenerazioni dell’informazione). Avrei un briciolo di rispetto per questa posizione se chi la sostiene si muovesse per andare a combattere in prima persona a fianco degli ucraini, perchè almeno rischierebbe in proprio. Invece non ho nessun rispetto per i colonnelli da tastiera, nè per le margherite che si scoprono tupamaros, ma non si schiodano dalla poltrona. La battaglia per la “patria” la combatta chi la vuole combattere, ma almeno lo faccia assumendo il rischio sulla propria pelle. Altrimenti sono esercizi di oscenità verbale. Come l’osceno Ed-War-d Luttwak, che racconta che l’Europa è cresciuta a guerre, che lui se ne è fatte tre (mai una in trincea o sotto le bombe) e che è “un’esperienza bellissima”.

Io mi sento a mio agio nella “matria“, insieme alle donne e madri russe, alle donne e madri ucraine, che vedo già nel mio condominio, con bambini ma senza uomini. Sono loro che possono cambiare il paradigma della storia umana, perchè hanno dentro il seme della vita e non l’anelito alla morte. La mia estrema speranza che questa non diventi una guerra all’ultimo europeo, o all’ultimo essere umano, ha l’aspetto di una matrioska.

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Diario di un agosto popolare 5
Coccia di Morto

COCCIA DI MORTO
Roma, 5 agosto 2019

Confesso che nella scelta del mare, prevale il mio lato borghese.

Da un po’ di tempo non mi capitava più di andare in spiaggia di domenica: l’idea di finire in una bolgia di umani, tra le famiglione rumorose, il muro di giocatori di racchettoni nella pisciarella dei bambini sulla riva e poi soprattutto la claustrofobia dell’ingorgo nel ritorno, mi hanno sempre spinto a lidi più lontani, senza troppo pensare alla benzina, al costo del lettino più ombrellone e soprattutto approfittando di un mestiere che può permettersi una gita in un giorno infrasettimanale.

Sin da ragazzo, anche con pochi soldi in tasca, ho conosciuto molte delle mete preferite dai ricchi, dall’Argentario a Porto Cervo, da Sabaudia a Porto Rotondo, anche se ci andavo con la Lambretta e dormivo nella tenda canadese. Mi attraeva l’idea di godermi paradisi isolati ed esclusivi senza regalargli una lira.

Naturalmente nella vita ho fatto molte altre esperienze in mezzo mondo.

Ma oggi, che voglio provare a ricordarmi di come se la passa qui la maggioranza della gente, estorco alla mia compagna il consenso per andare al mare una domenica d’agosto.

Dato che vorrei una spiaggia davvero popolare, mi viene in mente un film visto di recente, dove lo stereotipo del litorale borgataro s’incarna in un nome che è tutto un programma: andiamo a Coccia di Morto.

Nel film, Antonio Albanese, che rappresenta un borghese “democratico” noioso e pieno di pregiudizi, salta sul sedile della macchina quando la figlia, innamorata di un ragazzino di periferia, gli chiede di accompagnarla al mare a Coccia di Morto.

“Dov’è questa Coccia-del-morto?” scandisce il papà “Dice che è tra Passoscuro e Ponte Galeria” risponde la ragazzina. La scena è molto divertente anche perché è vera: in questo tratto di costa, i nomi delle località fanno paura.

E in effetti, quando ci arriviamo (anticipata da una Googleata in cui appare come “la più brutta spiaggia del Lazio” seguita da raccapriccianti immagini di monnezza buttata lungo tutta la spiaggia), i proprietari di uno stabilimento hanno piazzato una lavagnetta che spiega, a chi arriva come noi la prima volta, qual è la ragione del suo trucido nome.

“Qui confluivano” dice la lavagnetta “le acque del Tevere e scontrandosi con le correnti del mare portavano a riva ogni genere di rifiuto, compresi i cadaveri dei naufraghi e di chi non riusciva ad avere sepoltura”. L’uso dell’imperfetto non rassicura più di tanto: dicono che qui quando sgomberano un campo nomadi arrivino ondate di immondizia e che nel 2016 si sia registrato il record di raccolta di cottonfioc. Come a dire “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

In realtà, una volta superata una barriera di scoraggianti pregiudizi, le cose, come al solito, cambiano di aspetto. 

Innanzitutto, per essere Domenica, la spiaggia libera è quasi deserta. Sarà che la gente è già in vacanza o forse che sono sempre meno quelli che possono permettersi una domenica al mare.

Comunque, rispetto alle ammucchiate adriatiche o i formicai salentini, Coccia di Morto da qua sembra la Grecia. Basta però guardare l’acqua del mare e si capisce il perché. Entrandoci dentro senti un fondo melmoso, e i piedi che spariscono subito alla vista, vengono accarezzati da ectoplasmi di plastica fluttuanti e da altre oscure presenze.

Dopo trenta secondi mi accorgo poi che ogni minuto, decolla un aereo e passa sulla testa con un rumore che impedisce qualsiasi conversazione, come nel “Fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel.

Ma pensare che qui, dato che l’acqua fa schifo, ci vadano solo i poveracci, mi sembra porti fuori pista. Sicuramente, visto che ci si arriva con l’autostrada dell’aeroporto, Coccia di morto è il mare più comodo e vicino.

Ed è anche piacevole, ben organizzato e non ha affatto quell’aspetto da girone dantesco che avevano le spiagge popolari nei film degli anni ’60.

Anche qui, come nel mio quartiere, colpisce la forte presenza di stranieri.

Non solo la famiglia cinese accanto al mio ombrellone, ma un gran numero di ambulanti che passano trascinando carretti, rastrelliere con vestiti, o tenendo in bilico sulla testa una torre di cappelli ti offrono grattachecche, statue africane, auricolari o articoli di bigiotteria esattamente come in ogni altra spiaggia da Fregene al Salento.

Un tizio commenta “quest’anno sono molto meno, sarà l’effetto Salvini”.

A me sembra invece che siano tantissimi e a uno gli chiedo: “E’ cambiato qualcosa per voi da quando c’è questo Governo?” lui mi risponde, con accento arabo “Iguale!”. Non so quanto valga, ma un po’ mi rassicura.

Mi domando infatti, guardando la fatica e anche l’iniziativa di tutte queste persone che s’industriano a trovare una qualche forma per guadagnarsi da vivere, quale ossessione, quale fastidio, quale tortuosa giustificazione possa spingere un politico ad accanirsi contro questo movimento vitale, che in modo abbastanza evidente non disturba nessuno (salvo forse qualche maschio un po’ taccagno costretto a sborsare da una compagna spendacciona). Anzi, attrae e genera curiosità in molti bagnanti, offrendo gratificazioni a poco prezzo.

Certo, è un lavoro fatto senza regole, al nero, in concorrenza sleale col commercio legale: ma se uno Stato si impegnasse davvero a regolarizzare, non sarebbe più logico – e umano – cominciare dai produttori e dai grossisti che smerciano i prodotti senza fattura? E prima ancora, non sarebbe più etico impegnare le forze contro gli evasori dei grandi patrimoni e gli speculatori?

Non ho visto nessun negozietto sul lungomare che possa lamentare un danno dalla concorrenza degli ambulanti. Mi pare che l’ordinanza contro i vu cumprà sia davvero un accanimento insensato contro chi non ha i mezzi per protestare.

Continuo la mia passeggiata nella spiaggia, appizzando l’orecchio (tra un decollo e un atterraggio) per carpire altri stralci di conversazioni.

C’è chi sta scegliendo la nuova macchina, chi le vacanze della figlia, chi un ristorante dove fanno bene il pesce. Chiacchiere da spiaggia. Non ricordo che nelle spiagge più chic si senta invece parlare di bioetica o di intelligenza artificiale.

Mi domando se gli stereotipi rappresentati nelle commedie, anche per produrre un effetto comico, non diventino poi, un po’ per tutti, delle categorie mentali di interpretazione della realtà.

Finendo per creare una frattura sociale ancora maggiore di quella reale: oggi, ad esempio, con i famosi buonisti benestanti in paradisi scomodi ma civilizzati (cestini per la differenziata, rumori soffusi…) e il popolo razzista accalcato accanto a una fogna, a difendersi dagli extracomunitari con un volume da discoteca. Troppo facile. E nonostante ora dal bar sia partito un ritmo techno che spacca i timpani, io non mi sento “Come un Gatto in tangenziale”.

Mentre guardo il menu con le centrifughe, il panino vegano multicereali e le stoviglie riciclabili “a basso impatto”, finisce il techno e comincia addirittura Father and son di Cat Stevens. E mi viene da pensare che (per chi oggi può permettersi di andare al mare) tutto è ormai si è mescolato e Coccia di Morto non è così lontano da Capalbio, salvo qualche euro in più di benzina e di ombrellone.

(continua domenica  7 agosto)

24 ore per la libertà di Julian Assange

 

Pressenza promuove, insieme alle numerose realtà in continuo aggiornamento che leggete in calce, una maratona di 24 ore per la libertà di Julian Assange. Qui sotto l’invito/appello. Partecipate numerosi.

Julian Assange è un uomo, un giornalista che ha rivelato i crimini e i criminali delle guerre in Afghanistan e in Iraq degli Stati Uniti.

Julian Assange per questo è stato punito, è stato ingiustamente incarcerato e imbavagliato, gli è stato impedito di fare informazione. Mentre i crimini e i criminali sono impuniti e assolti.

Julian Assange rischia di essere estradato negli Stati Uniti e condannato a morte con 175 anni di carcere.

Julian Assange ha due figli piccoli e ha accanto una compagna e avvocata, Stella Assange, che continua a lottare.

Julian Assange è il simbolo di tutti i giornalisti, le giornaliste, le voci libere che con lui possono essere messe a tacere.

Julian Assange rappresenta un modello di mondo nuovo e migliore dove l’ingiustizia va condannata e i diritti umani difesi.

Sono sempre più numerose le iniziative per la libertà di Assange e per impedirne la pericolosa estradizione negli USA.

Ti invitiamo a partecipare a un’iniziativa grandiosa che possa far conoscere il suo caso in tutto il pianeta: 24 ore non stop dove giornalisti, attivisti, artisti, persone di cultura manifesteranno in tutto il pianeta per la libertà di Julian. Il 15 Ottobre sul Pianeta Terra.

Aderisci a: 24hAssange@proton.me

Prossimamente attivo il sito web http://www.24hassange.org in varie lingue.

Qui promotori e adesioni in continuo aggiornamento:

Comitato promotore

Organizzazioni e testate:

Amnesty International
Articolo21
Atlante delle guerre
Free Assange Italia
Italia che Cambia
Left
Media Alliance
Pressenza
Terra Nuova
transform! Italia
Sostenitori di Julian Assange
Sovranità Popolare
Unimondo
Ecomapuche

Persone:
Daniela Bezzi
Maurizio del Bufalo, Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli
Renato Giuseppe Napoli (EarthProtector-StopEcocide)
Maurizio Torti
Dale Zaccaria

Adesioni alla campagna

Organizzazioni e testate:
La Comunità per lo Sviluppo Umano
PeaceLink
Periscopio

Persone:
Maurizio Acerbo
Cecilia Capanna
Marco Cappato (associazione Luca Coscioni)
Geraldina Colotti
Pietro Folena
Alessandro Hellmann (autore)
Lazzaro Pappagallo
Stefania Maurizi
Vincenzo Vita

Iniziativa ideata e pubblicata da pressenza

La redazione di periscopio , credendo di interpretare anche il pensiero di tanti suoi lettori, aderisce alla iniziativa “24 ore per la libertà di Julian Assange“, la maratona informativa del 15 ottobre 2022, promossa dagli amici di pressenza. E’ in gioco la vita di Julian Assange, vittima di una feroce persecuzione giudiziaria. E’ è in gioco il presente e il futuro di una stampa libera e indipendente,

Parole a capo
Natasa Butinar: “Terra” e altre poesie

“Cosa è allora questa benedetta poesia? Che attrezzo è?
È una dotazione di pronto soccorso. In caso di bisogno fa rompere il vetro e aprire il varco di un’uscita di emergenza.”
(Erri De Luca)

LA SIGARETTA

Appena accesa
ballava fra le dita
seguendo un ritmo frenetico
mai visto prima.

Piccoli colpi d’indice
scrollavano la cenere scarsa,
nemmeno il  tempo a formarsi:
“desideri esauditi” cadevano a terra bagnata e fangosa.

Mi apparve una vita,
quella sigaretta,
consumata lentamente,
tormentata,
con la “bronsa” ancor’accesa ma
inutile a scaldar il cuore.

Intorno il tavolo del bar gli uomini
agitavano i giornali
e  parlavano di politica.

 

I MIEI EREDI

saranno delusi i miei eredi
non lascerò a loro
grandi denari,
né gioielli preziosi,
né terre fertili

per tutto questo
non ho mai avuto l’interesse
piuttosto
ho preferito vagare
dentro i sogni
e scrivere poi
d’avventura vissuta
sotto le palpebre

una poesia
che potrebbe
rivivere
sulle loro labbra
in una sera d’inverno
quando si sentiranno
un poco soli.

 

INTRAPPOLATI

intrappolati
nei pregiudizi
nelle “fake news”
(termini che non ci appartengono)
nel Tempo che precede il nostro “credo”
intrappolati
dentro gli amori impossibili
nei gusti improbabili
intrappolati
nei “social”
in fila dentro il supermercato
nelle droghe
in ufficio
nelle canzoni intramontabili
nella nicotina
nella pandemia
in fabbrica
nei bar
dentro l’ufficio postale
a pagare le tasse
nelle chiese
nell’alcol
nel sesso virtuale
nelle vecchie pellicole
nella noia
nel gioco d’azzardo
nell’autostrada in ora di punta
intrappolati dentro sogni infantili
nonostante abbia raggiunto il mezzo secolo
anni settanta
ottanta
nuovo millennio
dove finisce la gioventù?
dove inizia la vecchiaia?
intrappolati nella voce del cane
che di notte
forse
alla Luna
abbaia
intrappolati
sulla Terra
dentro i corpi mortali
intrappolati
da quando siamo nati
viviamo ingarbugliati…

 

GLI UCCELLINI

in anticipo
migrano gli uccellini
questa primavera

non partono dal sud
e non partono
per nidificare
su questo lembo della terra

cercano
il riparo sicuro
dall’Inverno Spietato
che dall’Est avanza

le loro ali sono fragili
ma negli occhi
c’è
ancora
il posto
per la speranza

 

TERRA

Terra morbida, Terra dura,
verde, bianca, azzurra,
Terra rossa, gialla, nera,
Terra fertile e poi quella
che in pioggia spera.

Avvallata, piana, appuntita,
Terra che ti scorre
nelle vene, liquida.
Lava, l’acqua, sabbia
che scivola tra le tue dita.

Terra piena di musica,
di canzoni, suoni,
un battito in torace,
nel nucleo stesso sussulta,
Terra che grida, Terra che tace,
Terra cristallina,
Terra occulta.

Infine:

Terra calda e accogliente
invitante come la tua bocca,
umida come il tuo gergo,
resuscita quel che tocca…

Natasa Butinar, Fiume (Croazia), 1971. Negli anni ’90 si trasferisce in Italia dove tuttora vive. Nel 2016 pubblica la raccolta di poesie bilingue Elefante Bianco. Nel 2019 esce Il guardiano silente. Le sue poesie fanno parte di numerose antologie tra le quali la prestigiosa Antologia di poeti contemporanei dei Balcani edita da LietoColle, 2019. Traduttrice e collaboratore per quanto riguarda il Festival internazionale della Poesia Pero Živodraga Živkovića (Bosnia) organizzato da poeta Emir Sokolović e  sponsorizzato dalla Ambasciata Italiana a Sarajevo. Nella rubrica “Parole a capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 18 marzo 2021.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Una bussola per il voto

Si avvicinano le elezioni e, come ginestre dopo il lungo inverno,  improvvisamente rifioriscono le categorie di “destra” e di “sinistra”.
Immancabilmente, qualcuno chiosa all’istante che la distinzione non avrebbe più senso, che si tratterebbe di categorie politiche obsolete, inadeguate alla pòlis globale contemporanea.

È davvero così?

In fondo, non sarebbe un dramma. Il mondo ha vissuto benissimo senza la destra e la sinistra fino alla fine del Settecento, ovvero fino a tempi molto recenti se osservati nella prospettiva della Storia.

Nel corso dei suoi circa 250 anni di vita, l’opposizione di ‘destra’ e ‘sinistra’ si è articolata intorno a diversi nodi concettuali: conservazione e progresso, individualismo e collettivismo, relativismo culturale e antirelativismo, e così via. Tra tutte queste opposizioni, ce n’è probabilmente una che è alla base di tutte le altre, o che fa loro da cornice: si tratta degli atteggiamenti e delle condotte verso le diseguaglianze.

Il concetto di Égalité, incastonato al centro del motto nazionale della Repubblica Francese (fino a essere incluso nell’articolo 2 della Costituzione del 1958), appare infatti connotato da uno spessore e da una profondità peculiari rispetto a tutti gli altri implicati nell’opposizione di destra e sinistra.

La riflessione sul senso e sul valore della diseguaglianza, infatti, non si limita a delle analisi di natura politica, o economica, o antropologica, ma si sviluppa come tale sul piano dell’ontologia, ovvero dell’indagine sull’essere.

Lo si vede bene in Marx, per il quale ovviamente le diseguaglianze devono essere radicalmente abolite attraverso il superamento definitivo della divisione della società in classi.

Tutte le trasformazioni prodotte da tale superamento sarebbero conseguite, nella visione di Marx, da un rinnovamento profondo della natura dell’essere dell’uomo, liberato dall’alienazione indotta dal ciclo di produzione del capitalismo.

Un’altra litania – spesso intonata da chi di Marx ha una visione di quarta mano – tenta di liquidare la visione di una società senza diseguaglianze e senza classi connotandola come utopia. Si dimentica il piccolo particolare che società umane non stratificate in classi sociali sono sempre esistite (per molti millenni anche prima che  nascessero quelle stratificate) e, sebbene in proporzioni molto ridotte, esistono ancora. L’antropologia culturale ce ne dà una ricca e incontrovertibile documentazione.

Ciò che spesso sfugge a chi intende minimizzare il valore del tema delle diseguaglianze è che si tratta di un’istanza che affiora lungo tutto l’arco del pensiero occidentale, come espressione di una società che la diseguaglianza l’ha, sebbene con varie gradazioni, nelle proprie radici.

Il ricorrere del tema enuncia, quindi la costante tensione di un mondo particolare, quello occidentale, che riflette sulla propria natura, il proprio essere, il proprio bene.

Per alcuni aspetti (la correlazione tra virtù e ricchezza; la relazione tra proprietà privata, universale e particolare) già in Platone, pur volendo evitare qualsiasi forzatura del suo pensiero, la questione appare ben attuale.

Sempre più, poi, essa emerge come una vera e propria interrogazione di fondo sulla possibilità stessa del bene nello spazio e nel tempo dell’occidente, come in Tommaso Moro, Campanella, Montaigne.

In Rousseau  (quello vero, non la piattaforma), l’interrogativo si fa disperante: la natura umana è benigna, ma l’addestramento a una società fondata sulla diseguaglianza e sulla competizione la corrompe e la fa degenerare. La scienza e la tecnica, inoltre, lungi dall’essere l’espressione più oggettiva e neutrale della ragione umana, sono un potentissimo meccanismo di amplificazione delle diseguaglianze stesse.

L’opposizione di destra e sinistra si distribuisce, insomma, intorno a una sorta di faglia che  incrina le basi dell’Occidente e ne impegna costantemente lo strumento prediletto: il pensiero.

In realtà, dal punto di vista politico, la scissura dovrebbe essere ormai abbastanza ridotta, già che come abbiamo visto le più evolute democrazie occidentali contemporanee, come quella francese, nascono proprio dalla costituzionalizzazione del primato dell’uguaglianza.

Ciò vale anche per la Costituzione italiana, come sa chiunque ne tenga a mente, o nel cuore, l’Articolo 3.

Per mantenersi, dunque, nel solco della forma e della sostanza del dettato costituzionale, destra e sinistra dovrebbero se mai differenziarsi intorno alle strategie, all’intensità, alla radicalità dell’agire democratico teso, in quanto tale, alla riduzione delle diseguaglianze.
In realtà, invece, si distinguono sempre meno, perse in una lontananza siderale dallo spirito della Costituzione.

Così, se ancora vi sentite di destra o di sinistra, avvicinandovi al 25 settembre potrete cercare di orientarvi tra le coalizioni e le liste che chiederanno il vostro voto in base a questo semplice e antico spunto di pensiero: quali sono stati e quali sono i loro atteggiamenti e le loro condotte reali (al netto, ovviamente, delle chiacchiere) verso le diseguaglianze.

Rischierete, in questo modo, di trovarvi entrambi in imbarazzo, per ragioni speculari: chi si sente di destra per un eccesso di offerta; chi di sinistra per la scarsità.

Gli amici di destra possono, però, giovarsi di un consiglio meno generale: se siete veramente di quelli che ritengono che le diseguaglianze debbano essere sapientemente alimentate, fortificate, modernizzate e moltiplicate, rivolgetevi senza esitazione a chi ostende – come un tempo si faceva con il libretto di Mao – l’Agenda Draghi e derivati.

IL CONCERTO
Ventata di freschezza con “La musica italiana” di Giorgio Poi ai Giardini del Grattacielo di Ferrara

Un’atmosfera bellissima, venerdì sera (29 luglio 2022), sotto i platani giganti del Parco Marco Coletta, i giardini del Grattacielo di Ferrara illuminati con gli effetti scenici del concerto di Giorgio Poi.

I Giardini del Grattacielo di Ferrara durante il Concerto di Giorgio Poi (foto GioM)

Una delle nuove voci emerse nel panorama della musica italiana per l’apertura del “Carino! Festival” è un’occasione da cogliere e la minaccia di pioggia non ha fermato i venti e trentenni assiepati sotto al palco.

Di fatto la pioggia caduta fino a pochi minuti prima ha reso ancor più piacevole trovarsi lì, in un clima inaspettatamente fresco e in una dimensione che sarebbe stata inaspettata fino a poco tempo fa, con tutte le forze sane, creative e attive di Ferrara unite insieme a un’amministrazione comunale di segno teoricamente opposto.

Pubblico al concerto di Giorgio Poi Ferrara (foto GioM)

Tanti studenti e giovani accorsi sotto il palco e trasformati in un’unica onda che si muove al ritmo delle canzoni dell’artista, classe 1986, che ha saputo dare un seguito a quel filone di cantautori nazionali che abbiamo tanto amato, imprimendoci un carattere personale fatto di giochi di parole e ironia, ma anche di delicatezza nel trattare i temi del mondo contemporaneo, dominati da amore e precarietà, inquietudine e una non facile ricerca di futuro.

Giorgio Poi sul palco del “Carino! Festival” a Ferrara (foto GioM)

Il modo di cantare fa ripensare a quella modalità un po’ in falsetto, che ha caratterizzato i brani prima maniera di Lucio Battisti, quelli come “Con il nastro rosa”, quando cantava “Chissà, chissà chi sei /chissà che sarai /chissà che sarà di noi /lo scopriremo solo vivendo /Comunque adesso ho un po’ paura /ora che quest’avventura /sta diventando una storia vera /spero tanto tu sia sincera!”. E di questa eredità Giorgio Poi è consapevole quando canta “La musica italiana”, il brano scritto insieme a Calcutta e che guarda con nostalgia e con autoironia a una relazione passata, con una ragazza che ora vive all’estero. E così, tra i raggi stroboscopici blu del palco, Poi ha cantato “Chissà che cosa pensi/Adesso che sei lontana/Se ti fa ancora schifo/ La musica italiana” ricordando “Le mani nei capelli/Quando partiva Vasco/ Battiato, che paura/Chissà che lingua parla/ Battisti e Lucio Dalla/ Fanno musica di merda/ Calcutta e Giorgio Poi/Madonna che tristezza”, ma chiedendosi anche “E forse chi lo sa/ Se visto da lontano/ Magari è tutto diverso/ Magari ti sembra meglio/ A me per esempio/ Dalla stanza accanto/ Sembra sempre tutto più bello”.

Struzzi e volpi sugli zainetti delle ragazze che ballano sotto il palco e dove fa la sua comparsa anche una delle voci più significative di questi anni Duemila come Vasco Brondi, mentre Poi intona il brano “Missili” scritto con Frah Quintale (“odio quando mi volti le spalle e te ne vai via di corsa/ Mi hai fatto a pezzi la voce/ e adesso non ti parlo più”).

Vasco Brondi al concerto ferrarese di Giorgio Poi (foto GioM)

La serata prosegue con “Supermercato” chiedendosi “E chissà se vai a fare la spesa/ Da sola anche tu” per poi scoprire che “Al reparto erano tutti contenti/Ad annusare i flaconi coi tappi aperti/ Ho fatto un giro tra i sottaceti/ Davanti al frigo dei surgelati/ E in preda a un vortice di emozioni/ Ti ho vista al banco degli affettati”.

Pubblico sotto la pioggia al concerto di Giorgio Poi (foto di Sara Tosi per ‘Ferrara sotto le stelle’)

Poi annuncia quindi che “visto che l’acqua è un tema centrale, la prossima canzone la dedichiamo a questo tema”. Ecco dunque il brano “Acqua minerale” che racconta “Che poi ti gira male, che vuoi fare/ Stavolta non è stata distrazione/ È un’incapacità di adattamento/ La bocca si trasforma in un groviglio/ Se il filo del discorso/ È un rospo da ingoiare/ Con l’acqua minerale/ Un fragile soccorso/ Per ricominciare/ A lasciarsi andare/ A volersi bene/ A sentirsi bene”, ma anche con “Niente di strano” che fa notare “Uh, fuori come piove/ Resta un altro po’”.

Giorgio Poi al clarinetto
Giorgio Poi alla chitarra
foto di Sara Tosi per ‘Ferrara sotto le stelle’

Conclusione con “Giorni Felici”, fatti di “baci con le labbra spaccate” e di “notti sudate a maledire l’estate”, che nel video su YouTube rievoca immagini di quotidiana poesia con uno stile vintage della coppia in fuga nel bosco e tinte pastello di gusto quasi Wes-Andersoniano.

Tutti a casa mentre un papà pachistano si diverte a giocare sulle giostrine con il figlioletto e una famiglia africana corre ridendo sotto il Grattacielo a chiusura di una delle tre serate curate da Officina Meca insieme a Ferrara Sotto le Stelle Festival e Solido con Arci Ferrara, il Comune e il contributo della Regione Emilia-Romagna dentro al grande contenitore della rassegna Giardino per Tutti, che per il secondo anno porta nel quartiere un calendario di eventi musicali a ingresso libero.

Diario di un agosto popolare 4
Nella città deserta

 

NELLA CITTÀ DESERTA
Roma, 3 agosto 2019

Oggi invece esco per andare al mercato. Al mercato si parla poco di politica, ma molto di costo della vita, clima e di paranoie alimentari.

Ma oggi sono pochi i banchi aperti, il caldo ha fatto strage.

E arriva la notizia che la signora caduta ieri non ce l’ha fatta.

“S’è buttata de sotto” dicono. Mi viene un groppo in gola.

Immagino di averla incontrata qualche volta a fare la fila alle verdure o al banco dei salumi, ma oggi nessuno qui se la ricorda.

Mentre torno verso casa, incontro un giovane africano che sta spazzando il marciapiede, proprio quello stesso della disgrazia, solo un po’ più in là.

Mi sorride, come se mi conoscesse.

Vedo che ha sistemato dei barattoli di pelati su due banchetti all’inizio e alla fine del tratto di strada che ha stabilito essere di sua competenza e passa avanti e indietro una scopa di saggina, raccogliendo anche qualche residuo con le mani.

Per una volta non vengo assalito da appiccicosi venditori di calzini e penso: bravo questo ragazzo, perlomeno furbo. Fa qualcosa di utile (il marciapiede è pulitissimo ora, gli altri di fronte invece fanno schifo) e poi non ti costringe a sentirti in colpa se non l’aiuti. Ci metto un euro nel barattolo.

Tornando a casa, penso che avrei potuto chiedergli qualcosa su di lui.

Ma intanto la giornata si riempie di piccoli impegni, il cielo si fa oscuro e comincio a vagare nella periferia in cerca di un motore per la mia auto appena sbiellata tra gli sfasciacarrozze inviperiti per un ennesimo pasticcio del Comune (almeno questo sembra, sentendo la loro campana). Durante il viaggio osservo questo nuovo paesaggio urbano che sulla Casilina si colora di sari indù, hijab mediorientali, camicie coreane e caffettani afro e finisco allo sfascio, dove mi accolgono due che sanno tutto di ogni elemento meccanico di qualunque modello di auto, ma fra loro parlano solo rumeno.

Ne giro cinque e sono tutti con lo stesso schema: il padrone è un romano sulla sessantina, bell’uomo scafato dalla voce roca, tipo macchinista del cinema di una volta. I dipendenti, tutti forestieri.

Alla fine risolvo, trovo un motore intatto in un catorcio di lamiere, con la speranza di aver fatto un affare e il dubbio di aver preso una fregatura.

Sotto una cappa minacciosa e opprimente sfreccio in motorino come in un film di Moretti e mi ritrovo al quartiere Parioli, dove sembra che abbiano sganciato una bomba al neutrone, di quelle che lasciano tutto intatto polverizzando solo gli umani.

Se non fosse che nel vuoto, appare un giardiniere sikh mentre sta potando un’edera rampicante perfetta come fosse in una tavola di Escher e qualche domestico orientale costretto a passare l’estate a passeggiare i cani.

Torno finalmente al mio Prenestino, e davanti al supermercato non trovo più il ragazzo che spazza il marciapiede, ma al suo posto c’è il signor Bonaventura, che in realtà è un ragazzo nigeriano che da è da 4 anni in Italia e da sempre vive esclusivamente di elemosina piazzato lì davanti al supermarket.

Ha un bel sorriso, due cuffiette trendy per sentire musica e un aspetto tutt’altro che da barbone. Decido di fargli delle domande.

Gli chiedo se sta cercando lavoro. Dice che no, nessuno lo vorrebbe. “Perché? Non sai fare niente?”. “Ma no,” dice lui, “in Nigeria lavoravo negli hotel, ho imparato anche a usare una macchina per imbottigliare”.

“E allora che ci sei venuto a fare?” “Ho un fratello in Svizzera, lui là guadagna bene.”

C’è sempre un parente, penso io, che spinge gli altri a partire. Magari millantando successi inesistenti per la vergogna di avere, al contrario, fallito.

“Volevo lavorare anch’io nella ristorazione. Ora da due anni ho perfino il permesso di soggiorno”. “E ti sei messo a cercare?”. “Difficile, dice lui. Tu che lavoro fai? Puoi aiutarmi?”. “Io? Faccio documentari.”

Sguardo di delusione. Mi rendo conto di essere inutile.

“Hai provato con la Caritas?” gli chiedo,

“Una volta, ma mi hanno dato dei numeri di telefono che non rispondono mai”.

Non c’è dubbio, è difficile. Ma ci dev’essere qualcos’altro.

Anzi, c’è sicuramente qualcos’altro.

Con una lettura un po’ diffidente, potrei pensare che a lui, benché quello che fa sia deprimente, convenga tutto sommato restare dove sta a tirar su qualche monetina ascoltando musica nelle cuffiette.

Con una lettura empatica, posso immaginare l’enorme fatica, il viaggio tremendo,

i rifiuti subiti, le vessazioni burocratiche e poi la rassegnazione, ancora più inaccettabile alla sua età.

Non sono neanche così ingenuo da non capire che ci sono omissioni nel suo racconto, perfino un po’ di autocommiserazione per strappare qualche spicciolo.

Ma soprattutto silenzi obbligati da ricatti e gente sopra di lui, che ne approfitta.

Eppure non basta solo un’inchiesta giornalistica sui racket a spiegarmi queste vite sprecate. Credo che per capire Bonaventura, e mille altri come lui, non ci siano mai abbastanza orecchie, perché ognuno di loro è una storia diversa, che ha bisogno di più tempo per essere ascoltata.

(continua il 5 agosto) 

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Indagine sulle famiglie
In attesa della tempesta perfetta

Premessa
Lo studio che qui presentiamo non è stato commentato dai grandi quotidiani, nonostante l’usuale deferenza verso l’ autorevole fonte, ed è uscito (forse non a caso) il giorno dopo le dimissioni di Draghi. Evidentemente si ritiene più utile e vantaggioso divulgare altri dati invece che quelli sulla povertà.

La Banca d’Italia ha pubblicato il 22 luglio l’attesa indagine sulle famiglie relativa all’anno 2020 [Vedi qui] (la precedente era del 2016). Si tratta del più importante studio (su un campione di 7mila famiglie) sulle condizioni di reddito e patrimonio, confrontabile con le passate indagini a partire dal 1977.

I redditi medi dei dipendenti presentano un andamento piatto negli ultimi 45 anni, tranne un leggero aumento alla fine degli anni ’80. Il 1989 è l’anno del massimo picco (22.731 euro) rispetto ai 19.438 del 2020. Per gli indipendenti i redditi medi sono molto più variabili: dopo una crescita costante dal 1977 al 1987, subiscono un calo progressivo fino al 1995 per poi ricrescere fino al 2004. Da quel momento calano e recuperano qualcosa solo dal 2012 ad oggi. Sono il 69% in più di quello dei dipendenti nel 2020 ed avevano lo stesso differenziale nel 1977. E’ invece diminuita molto la ricchezza netta mediana delle famiglie: fatto uguale 100 il patrimonio del 2006, lo stesso è sceso a 68 nel 2020, con valori molto diversi tra i poveri (9mila euro per il 30% dei più poveri; 207mila per le classi centrali; 1,6 milioni per il 5% più ricco).

Un tonfo clamoroso dovuto in gran parte alla svalutazione delle case di cui gli italiani sono oggi proprietari nel 77% dei casi (rispetto al 47% del 1977) e che sono entrate nel mirino di grandi società (multinazionali e nazionali) pronte ad acquistarle dalle famiglie che non sono più in grado di reggere l’aumento del mutuo (via inflazione) e la perdita del lavoro (solo a Milano vanno all’asta 304mila immobili).

Lo studio, durato un anno, è stato meglio approfondito nelle estremità del campione (i più poveri e i più ricchi) sui quali è più ostico avere informazioni affidabili (i poveri per stigma, i ricchi per reticenza). Se la ricchezza netta mediana è in fortissimo calo dal 2010, come abbiamo visto (e le previsioni sono di un ulteriore calo per l’altissima inflazione e la probabile stagnazione -se non recessione-), le cose vanno bene per le famiglie ricche.

Il reddito medio scende dell’8% sul 2016, ma se si escludono quelle ricche (circa il 20% che, come vedremo, hanno guadagnato ancora) la perdita delle restanti 80% di famiglie sale al 15%. Cali imponenti certificati ora dalla Banca d’Italia, che sono alla base dell’erosione dei patrimoni e del crollo dei consumi (-20% sul 2006). Non stupisce quindi che Istat abbia visto salire i poveri assoluti da 1,8 milioni del 2005 a 5,7 milioni del 2021, a cui bisogna aggiungere 7 milioni di altri poveri “relativi” (chi guadagna meno di 1.049 euro mensili in una famiglia di 2 persone).

Con l’inflazione che su base annua è già stimata dall’Istat all’11% e che proseguirà nel 2023, l’80% delle famiglie rischia di trovarsi a fine 2023 con un reddito reale inferiore del 20% (a prezzi costanti) rispetto al 2006.

Se poi si considera il coefficiente di Gini (che misura la disuguaglianza: zero se c’è perfetta uguaglianza, 100 se uno solo guadagna tutto) alla luce delle migliorie fatte nel disegno campionario, esso sale dal 33,3% (che si credeva) al 39%. Un dato clamoroso e che ci proietta al primo posto in Europa (media UE 30%, Brasile 57%, Cina 47%, Usa 41%, Russia 40%; i paesi leader Danimarca Giappone e Svezia sono al 24-25%). E’ stato proprio l’approfondimento sulle famiglie ricche e povere (gli estremi) che ha portato alla scoperta che la disuguaglianza è molto più ampia di quanto si credeva. Il 10% delle famiglie più ricche guadagna infatti in media 132mila euro all’anno, mentre il 10% di quelle più povere solo 7.550 euro.

La Banca d’Italia ci consegna un quadro di diffusa povertà della società italiana, molto diverso da quello che ci è stato raccontato (dai media soprattutto) negli ultimi 20 anni che parevano di “magnifiche sorti e progressive” e che sono stati invece di arretramento sociale, se si pensa che metà delle famiglie guadagnano al massimo 25.854 euro l’anno.

Ma non è andata così male per tutti: l’1,2% delle famiglie più ricche hanno, infatti accresciuto il loro reddito medio annuo (322mila euro), il cui valore complessivo è diventato pari a quello del 30% delle famiglie più povere. Metà del reddito percepito in Italia viene spartito così tra il 20,8% delle famiglie più ricche, mentre l’altra metà è distribuito tra il 79,2% delle altre famiglie (classe media, lavoratori e poveri). Dal 2006 ogni anno la “torta” diminuisce, ma la fetta che va a questo 20% più ricco aumenta. Non è quindi strano che nel Paese sia fiorita una critica alle élite, in quanto le condizioni delle restanti famiglie si aggravavano. Una società con tali livelli di disuguaglianza (e che cresce anno dopo anno) è destinata ad implodere e mina in profondità la coesione sociale, oltreché dover spendere sempre più in sussidi per mitigare la protesta degli individui sotto il 50% della mediana del reddito, che sono saliti dall’8% del 1989 al 15,1% del 2020.

Siamo passati dalla società dei 2/3 (che Peter Glotz criticava negli anni ’80 perché lasciava ai margini 1/3 dei poveri), alla società dell’1/5, cioè solo il 20% delle famiglie viene favorito dall’attuale sistema socio-economico e dalla finanza. E’ vero che l’inflazione oggi è dovuta ai prezzi dell’energia, ma è anche vero che essi sono ampliati dalla borsa Ttf di Amsterdam (che consente a centinaia di fondi speculativi di guadagnare), un sistema disegnato dal liberismo.

La povertà ha iniziato a crescere incessantemente dal 1990, proprio da quando è crollata l’URSS; come se il capitalismo occidentale non avesse più avuto la necessità di “farsi bello” agli occhi dei poveri e dei lavoratori per via de “la fine della storia”. Da allora la nostra società è diventata molto più disuguale: oggi “scopriamo” che lo è molto di più di quello che ci è stato raccontato per 30 anni.

Si capisce, pertanto, il motivo per cui “metà delle famiglie ha problemi ad arrivare a fine mese” (dice Bankitalia) e per cui sono crollati i consumi (-20%) sul 2006, dato che per le famiglie ricche si è trasformato invece in maggior risparmio. Nel biennio 2020-21, complice la pandemia, i risparmi degli italiani (famiglie e imprese) sono cresciuti infatti di 130 miliardi e sfiorano i 2mila miliardi (quindi di soldi ce ne sono ancora, anche molti e anche cash, ma molto concentrati), e quindi non stupisce che i risparmi siano cresciuti; ma sono al 90% quelli dei ricchi, se si considera che il patrimonio del 30% delle famiglie più povere è salito dal 2016 al 2020 da 6mila euro a 9mila (soprattutto per il Reddito di Cittadinanza e gli aiuti Covid del 2020), mentre quello del 5% dei più ricchi è salito da 1,2 a 1,57 milioni. Ci vuole poco a capire chi risparmia…

Lo sfacelo sociale è senza precedenti e getta seri dubbi su molte questioni, incluso il modo in cui stare dentro l’Europa. Ovviamente le colpe non sono tutte dell’Europa, ma di chi ha governato e soprattutto di processi mondiali come la globalizzazione e un crescente liberismo a cui ci siamo adeguati, che ha creato vincitori (Cina, paesi asiatici, Germania, Nord ed Est Europa) e vinti (paesi del Sud Europa, africani e altri in giro per il mondo). Un modello che distribuisce i profitti di una crescente privatizzazione dell’economia soprattutto ai ricchi e che ha smesso di arricchire la classe media. Una fascia minoritaria di imprenditori, consulenti, manager, quadri, anche talentuosa e volenterosa, ma a cui è stata ridotta la tassazione (elusione) e consentita una crescente evasione (Ocse stima in 150 miliardi la perdita annua di gettito fiscale negli ultimi 20 anni per via della concorrenza tra Paesi) con il conseguente strisciante smantellamento del welfare (o indebitamento pubblico).

In Italia i danni prodotti dai lockdown antiCovid hanno fatto schizzare il debito pubblico dal 134% del 2019 al 155% (2020). Ora la guerra Russo-Ucraina/Americana, con l’inflazione in crescita, ci prospetta una situazione futura che inizia a presentare sinistre similitudini con quella della Grecia.

Per la borghesia il problema è eliminare il Reddito di Cittadinanza (anziché riformarlo come indica da tempo l’apposita commissione), ma per la ricerca Bankitalia proprio questa misura ha evitato che i poveri assoluti arrivassero alla cifra monstre di 7 milioni. Per i sindacati invece il problema è creare più lavoro, alzare i salari netti, diminuire l’ evasione fiscale e incrementare la giustizia sociale con misure di redistribuzione. I partiti sembrano a corto di ricette.

Nel mondo occidentale i primati dell’economia e della proprietà privata hanno assunto una predominanza totale. Le scelte economiche sono guidate dalla mera logica del profitto e dai fondi finanziari. Dopo anni di narrazioni fuorvianti ora arriva una vera “tempesta”.

Molti cittadini lo sentono, come i vecchi contadini che scrutavano il cielo. Si percepisce che siamo su un “piano inclinato” che per ora ha triplicato i poveri assoluti in 20 anni (da 1,8 a 5,6 milioni), i poveri relativi a 7 milioni, ha portato un quarto dei lavoratori a guadagnare meno di mille euro al mese, con un tasso di occupazione che è lo stesso del 1961. Non parliamo poi di scuola e salute, i cui servizi si degradano ogni anno che passa. Tra qualche anno molti saranno costretti ad acquistare dai privati (Amazon & c.) una sanità scadente di seconda o terza mano (ma rapida e on line: tech verso touch), vista la crescente difficoltà ad accedere ai servizi pubblici. Che questo modello sia difeso da molti (quelli che contano nei vari gangli del paese, media inclusi) non stupisce. Infatti, pur nell’impoverimento generale, prosegue l’arricchimento di questo 20% di cittadini che in Italia comanda, anche nei media. Una finanza senza regole porta a bolle che prima o poi scoppiano e trascinano nella miseria chi lavora nell’economia reale. Sfortunatamente, nessun Governo vuole veramente porre fine all’instabilità dell’attuale sistema finanziario (come ha detto per anni, inascoltato, il segretario della Federal Reserve, Alan Greenspan).

Questa situazione mette ovviamente in pericolo la coesione sociale se, oltre all’impoverimento, si riducono diritti sociali e libertà e si porta la Terra al collasso climatico.

Che fare? Certamente cambiare strada.  Forse, almeno nelle società capitaliste avanzate, si dovrà riscoprire quella “decrescita felice” tanto vituperata e irrisa. Se il modello di sviluppo fosse meno improntato al consumismo, la  prospettiva potrebbe davvero essere migliore di quella crescita infelice (e per pochi) ora in corso.

Diario di un agosto popolare 3
Corpi dimenticati

 

CORPI DIMENTICATI
Roma, 2 agosto 2019

La storia di oggi purtroppo non fa ridere.

Stamattina vorrei andare in circoscrizione, ma appena giro l’angolo di casa, mi sorprende una scena spaventosa.

Una signora anziana, con uno di quei vestitini bianchi a fiorellini che le signore mettono in casa, a piedi nudi, senza un paio di scarpe vicino, è sdraiata sul marciapiede a faccia in giù, immobile.

Sono appena arrivate delle persone che le stanno accanto per capire cosa è successo.

E’ caduta dal secondo piano: dove? Dal balcone, quello là.

Com’è possibile? C’è la balaustra.

Avrà avuto un capogiro, si dev’essere sporta troppo.

Comincio ad avvertire una grande concitazione attorno a me.

Avete chiamato l’ambulanza? Chiedo io.

Si, abbiamo chiamato il 112, il numero unico, che poi ci ha mandato dal 118, che ci ha messo in attesa.

Un signore prende l’iniziativa e richiama. Cominciano a fargli tremila domande.

La signora è vigile? Si. Sembra che respiri, ma ancora non risponde.

Parlatele, non la muovete e lasciatela com’è.

Qualcuno si spazientisce: “Ma dateve ‘na mossa e venite, invece de perde tempo a chiaccherà!”

Ma forse l’ambulanza è già partita, il centralinista fa il mestiere suo.

Attorno si è formato un capannello, la maggioranza, vecchi.

Un po’ perché è estate e i giovani sono al lavoro oppure coi figli al mare. Un po’ perché siamo diventati tutti vecchi e i vecchi sono morbosamente curiosi riguardo alle tragedie e alle situazioni che gli ricordano la morte.

Io che in genere, in queste situazioni, se non sono d’aiuto mi allontano, considerando il ruolo del curioso un po’ indecoroso e spesso d’impiccio (ho sempre odiato gli ingorghi autostradali causati dal rallentamento voyeuristico di chi vuole godersi la scena raccapricciante di un incidente mortale). Ma stavolta, con l’impegno del cronista, decido di restare fino alla fine.

Noto che le signore parlano, sposando la teoria del capogiro. Dicono che la balaustra del balcone è troppo bassa. I maschi tacciono.

Io mi soffermo sul dettaglio dei piedi senza scarpe e immagino che, vestita così, avrebbe dovuto averle indosso: a meno che non se ne sia liberata per scavalcare più agevolmente.

Saranno considerazioni da romanzo poliziesco, ma per me la signora non è caduta per sbaglio.

Intanto il tempo passa e l’ambulanza non arriva.

Un rivolo di sangue esce dalla testa della donna e comincio ad allarmarmi, pensando che non agire sia già una responsabilità.

Chiamo il 113, stavolta, coordinandomi con quelli più attivi.

Il tempo di attesa, in questi casi è sempre insopportabile. La gente comincia a protestare, anche se sono passati appena 10 minuti.

Nel frattempo è arrivata la figlia, una donna dall’aria stordita, che non sa cosa fare.

Resta a guardare la mamma spiaccicata sull’asfalto, ma non riesce a dire una parola.

Anche qui le mie fantasie, forse proiettive, sono che al suo posto, non mi sarei staccato da mia madre. Mi faccio un’idea, giudico: ma poi penso che non ne ho diritto. Che ne so io? Sono un solo un passante curioso.

Noto però che la gente collabora in modo molto pratico, le consigliano di andare a prendere i medicinali della signora e i documenti, nel caso che arrivi la polizia.

Per fortuna c’è un uomo giovane che sa il fatto suo e non smette di parlarle.

La signora caduta comincia a rispondere con dei gemiti.

In effetti c’è qualcosa di morboso in questa platea di gente coi capelli bianchi che guarda una coetanea agonizzare, senza poterla neanche toccare, carezzarla, farle coraggio. Guardo i piedi nudi nodosi accavallati, il vestitino che si sta bagnando di sudore e la macchia di sangue che si allarga sul marciapiede.

E quest’uomo giovane, l’unico, che le parla con dolcezza, per farla stare sveglia.

Ogni volta che mi è capitato di assistere a una situazione difficile, c’è sempre qualcuno che sa come si deve fare e lo fa con decisione e umanità.

Insomma, c’è un senso civico più diffuso di quello che ci si aspetta, o perlomeno, nei momenti estremi, c’è spesso una parte di noi che reagisce e aiuta a metterci in salvo.

Forse, soprattutto per come lo rappresentano i media, può sembrare che questo spirito di reazione non ce la faccia ad avere la meglio. Che siano tutti – gli altri – diventati insensibili e indifferenti.

Dopo 15 minuti arriva l’ambulanza e poi la polizia.

Gli infermieri (quasi tutte donne) riescono a rovesciare la donna, bloccarla con un collare, tamponare la ferita e caricarla. La signora è ancora viva.

Forse domani sapremo se ce l’ha fatta.

Sapremo se è stato un incidente, o una scelta, tristissima come la solitudine di chi non ha più ragioni per vivere.

Rimangono molti pensieri, fantasie cinematografiche o morbosi interrogativi da romanzo giallo (qualcuno l’ha spinta?).  Arrivano altri parenti, ma non le si avvicinano.

Ormai la donna è un corpo in terapia intensiva, in balia di mani – speriamo – esperte.

E mi vengono in mente altri anziani, illustri e meno illustri, che a un certo punto hanno scavalcato il balcone e sono finiti di sotto. Per levare il disturbo.

(Continua domani, 3 agosto) 

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

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L’OTTIMISMO DURA POCO

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Diario di un agosto popolare 2
Strani Stranieri

STRANI STRANIERI
Roma, 1 agosto 2019

La mia prima uscita è al bar di Mario, che è un cinese.

Dicono che i cinesi fanno i migliori caffè, anche se il bar non ha neanche un cornetto e ha quattro bottiglie in fila e un aspetto da periferia di paese.

Però il bar di Mario è il più frequentato dai vecchietti della zona.

Si siedono fuori, in estate, sulle sedie intrecciate di plastica e sorseggiano liquori scadenti o fumano sigarette.

E’ un luogo ideale per ascoltare gli umori del quartiere (Prenestino), anche se il target è molto definito: non si scende sotto i 50.

Stasera mi avvicino a un tavolo dove parlano ad alta voce.

C’è Adriano, un tipo abbronzatissimo coi capelli tinti e degli occhiali psichedelici, Porta una vistosa camicia rossa e degli shorts come fosse appena arrivato dalla spiaggia.

Adriano è un personaggio fisso del bar di Mario, lo trovo quasi tutti i giorni.

Al tavolo sono in tre: un signore pelato che viene dal Marocco e un altro che ha la funzione di ascoltare e star zitto.

Adriano parla con una voce da bibitaro, rivolgendosi solo a quello muto e gli risponde sempre il marocchino, che però lui non guarda mai.

Non c’è traccia di razzismo: i tre sono a loro agio allo stesso tavolo, come vecchi amici, ma non posso non notare la triangolazione degli sguardi.

Forse è una questione di identità di gruppo: Adriano può convivere con Omar, ma appartiene comunque a un’altra tribù: chissà se può fidarsi. Del muto, invece, sì.

A un certo punto il marocchino dice: “Non si può andare avanti così: i miei vicini italiani guadagnano 400 euro di pensione, sono io che devo aiutarli, perché dove vivo io sono l’unico che lavora, non mi posso lamentare. Del resto uno ha una panza così (e mostra una ciambella), come vuoi che cerchi lavoro? Certe persone hanno finito, non puoi chiedergli di andare a lavorare. E il Governo che fa?”

Adriano gli dà ragione, ma, dice, “non si può dare sempre colpa al Governo, che certo ha le sue pecche, ma me pare che tutti stanno a aspettà che lo Stato gli dia i soldi per vivere. E come fa lo Stato a pagare tutti?”

“Si, d’accordo”, dice Omar ”ma una povertà così non si è mai vista. E lo dico io che vengo dal Marocco: non parlo per me che sto bene, lavoro, sto in cantiere. Ma gli italiani non ne possono più”.

Adriano, continuando a parlare col terzo, comincia a parlare della guerra. Dice che “allora sì che c’era la miseria, e menomale che poi so’ arrivati gli americani…”

Poi mi arriva una telefonata e mi perdo il passaggio, ma quando riascolto stanno parlando di Monte Cassino. “C’eravamo anche noi, a Monte Cassino” dice Omar. “Era meglio che non ci foste” dice Adriano, alludendo, credo, agli stupri delle donne. Il marocchino ridacchia e a me, che tifavo per lui, corre un brivido nella schiena.

Il machismo tra maschi dà la stura ai lati peggiori. Ma Omar aggiunge, come fosse uno storico, “certo che anche prima della guerra qui le cose andavano male, però oggi il mondo ha più soldi e dovrebbero distribuirli meglio”,

Adriano non sembra convinto, però lo ascolta e lo saluta, dicendo: “’Namo che qui, quann’eroregazzino, so’ cascate le bombe, nun se dovemo lamenta’ troppo!”. E inforca un motorino, sgommando via, energico e ottimista.

Questa conversazione mi è sembrato un buon inizio. Naturalmente non ha alcun valore sociologico, ma mi ha presentato qualcosa di inatteso.

Il paese, a quanto sembra, sta parlando solo di stranieri. Respingerli, accoglierli, buonismo, cattivismo. Forse la realtà è più complessa e gli stranieri, che sono già fra noi da almeno vent’anni, cominciano a porsi problemi da italiani.

Certo che ci dobbiamo preoccupare per i rigurgiti razzisti e la deriva che sta prendendo il paese grazie alle esternazioni di Salvini.

Ma forse è anche pericoloso semplificare, come faceva un tizio in piscina che protestava incazzato: “E’ che viviamo in paese di stronzi: in banca da me sono diventati di botto tutti fascisti e continuano a dare la colpa al PD!”.

Sarà. Ma forse anche questo, creare una frattura crescente tra “noi” e “gli stronzi”, sta mandando a quel paese la famosa coesione sociale.

Che, senza rinunciare al conflitto di classe e alla battaglia per un mondo più giusto, è una delle cose più importanti da tenere stretta.

(Continua domani, 2 agosto) 

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ConCreta

Passeggio per Comacchio, in un dopocena leggermente ventilato dopo assaggi leggeri e delicati di piatti di pesce di tradizione locale. Era parecchi anni che non passavo da qui e sono piacevolmente sorpresa dalla rinascita e dalla bellezza di questa curata cittadina di mare.

Ammiro gli scorci fra i canali, una piccola Venezia, ci sono tanti bar e ristoranti qua e là con persone sorridenti, finalmente. Superato l’ennesimo ponticello, vedo un negozio di ceramiche artigianali, è chiuso purtroppo la sera, ma la vetrina mi attira. È molto colorata, allegra e vivace, se pur piccola, una statuina di una coppia abbracciata persa in un bacio eterno mi piace davvero moltissimo. Il ti amo del vestito scritto in tutte le lingue è davvero originale, le braccia sono un tutt’uno, così come il contatto delle labbra. Tempo un paio di giorni e sarà mia.

Scoprirò una realtà molto interessante di cui oggi vi vorrei parlare: ConCreta, un piccolo laboratorio artigianale per la lavorazione della ceramica in cui prendono forma le idee di tante creazioni in ceramica, pezzi unici. C’è anche tanto territorio nelle creazioni: i Trepponti di Comacchio, il Delta, i fenicotteri rosa, la delicata signora che legge (versioni bellissime sia in azzurro che rosso). Ma non solo.

Oggetti per la casa, vasi, bomboniere, gadget per le festività, targhe, monili, statuette, tutto realizzato e dipinto a mano. Lo spazio per la personalizzazione è un forte incentivo a chiedere di realizzare un’opera d’arte (perché di questo si tratta) che possa impreziosire la propria casa fin dal benvenuto sull’uscio. Ogni piccola imperfezione rende quell’oggetto prescelto unico, un regalo vero per chi si ama. Pensato ad hoc.

Ma chi sono i preziosi e validi artisti? E qui la sorpresa più bella: persone con disabilità del CSO Dune di Sabbia con cui il laboratorio di ConCreta collabora. Dune di Sabbia è un Centro sociooccupazionale ubicato a Comacchio, che nel tempo diversificato le sue attività pensando progetti educativi per ciascuna delle persone con disabilità che lo frequentano, mirando al miglioramento della qualità della loro vita. Ospita persone adulte con disabilità intellettiva e/o fisica con autonomie espresse o potenziali, che possono essere incrementate o sviluppate attraverso percorsi personalizzati, incluse forme di apprendimento professionale in un contesto operativo protetto per molti aspetti simili agli ambienti di lavoro. Dune di sabbia crea la base, il punto di caduta su cui si formerà la duna successiva: un granello di sabbia alla volta… una nuova duna continua a crescere.

Dune di Sabbia e ConCreta sono gestiti da Girogirotondo, una Cooperativa sociale mista in ambiti A (servizi socioeducativi per l’infanzia, la famiglia, i giovani, le disabilità) e B (attività produttive e commerciali finalizzate all’integrazione sociale e all’inserimento professionale delle persone svantaggiate o in difficoltà), per coniugare l’aspetto lavorativo con quello del recupero sociale di persone svantaggiate, attraverso il lavoro come strumento idoneo al reinserimento nel normale tessuto sociale. Il tutto realizzato da un’equipe multidimensionale che progetta percorsi di crescita e inserimenti lavorativi per lo sviluppo del territorio e l’inclusione sociale di tutte le persone. Opera a Comacchio, Lagosanto, Codigoro, Mesola, Goro, Ostellato, Fiscaglia, Ferrara, Molinella e Tresigallo.

Sperimentare percorsi di crescita e inserimenti lavorativi come strumento idoneo all’inserimento (o al reinserimento) nel normale tessuto sociale è la sfida di questo laboratorio creativo. Nessuno escluso. Gli ingredienti? Il percorso dell’argilla grezza che diventa prezioso oggetto, la manualità operosa, l’ingegno, la fantasia, la creatività, la passione, l’entusiasmo, il fascino della decorazione a mano, la voglia di riscatto, la capacità di emergere. Il potere dell’arte e del colore.

ConCreta ha una sua pagina Facebook e Instagram

Punto vendita: Piazza Vincenzino Folegatti, 2, 44022 Comacchio

Telefono: 345 2692026 – Mail: info@concretacomacchio.it

 

Per certi versi
Cori di lavanda

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
 [Qui]

 

CORI DI LAVANDA

C’era un tempo
Che donava tempo
Un elastico orizzonte
Quasi
Illimitato
Volava
La vita
Il suo gesto acerbo
Spronava
Il puledro
desiderioOra il tempo
Si è fatto parco
La strada
accorciata
stretta
Con fiori di luce
Sale d’attesa
Lenta
Ora sei la distesa
Azzurra viola
Dei cori
Di  lavanda

Diario di un agosto popolare 1
Andare per strada e ascoltare la vita

 

Anche se è abbastanza evidente, premetto che questi miei diari estivi non hanno l’ambizione di essere né inchieste, che andrebbero minimamente documentate, né opere letterarie che andrebbero meditate e rilette, ma semplici note “un po’ colorite” per un benevolo pubblico di amici: lo dico perché m’imbarazza sempre l’atto del pubblicare. Ogni volta è un brivido premere il tasto invio e rischiare di aver sottovalutato le conseguenze emotive di un passaggio, magari innamorandomi di una battuta di spirito o di un aggettivo che suona bene.

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA
Roma, 31 luglio 2019

Avevo cominciato bene, da ragazzo, imparando che il modo migliore per rendersi conto di ciò che si sta vivendo, fosse leggere libri e ascoltare il popolo.

All’epoca non usavo questa parola, che era il nome dell’organo della DC, mi piaceva di più il proletariato o al limite, i poveri.

Andavo in giro per quartieri a me sconosciuti (vivevo a Porta Metronia e i miei erano insegnanti) e con la scusa di dare un volantino entravo nelle case popolari o nelle baracche o davanti alle fabbriche e ascoltavo le vite e i problemi delle persone che mi aprivano la porta, tornando a casa ubriaco di Sambuca e Amaro Cora.

Poi vennero i tragici anni di piombo e i patetici anni ’80 e cominciai a conoscere il mondo solo attraverso la televisione e i giornali.

Nelle case non entravo più, nessuno si fidava e i volantini erano finiti.

Alla tv non parlava più il popolo ma la gente.

Dopo la caduta del muro le cose sono andate anche peggio. Mi restava solo il cinema e farmi amici che non fossero della mia stessa classe sociale.

Guglielmi aveva inventato i reality di Rai 3 e si cominciava a conoscere la gente comune nelle aule dei tribunali, nelle caserme dei pompieri e tra chi aveva smarrito un parente.

Ma a me più che la gente, mi piacevano gli strani, quelli che, immaginando di essere – chissà perché – tra i normali, venivano chiamati i diversi, semplicemente perché trovandosi a disagio con le norme predominanti, insistevano, con fatica, ad essere come si sentivano.

Poi è arrivato il cambio di millennio e da allora abbiamo deciso di chiuderci in casa davanti a uno schermo e vedere il mondo da lì.

Ho sospirato da solo, vedendo cadere le Torri gemelle in diretta. Ho protestato da solo vedendo le bombe cadere su Baghdad. Ho persino guardato alla tv “C’è posta per te” e “il Grande Fratello” incrociando mondi sconosciuti ma probabilmente fasulli.

Oggi, alla fine degli anni ’10, quello che so del resto del mondo, passa per tre quarti da Facebook o dalle notizie online.

Frugo commenti su Facebook nelle pause della vita, nelle file alla posta, in sala d’aspetto per un esame di salute, a una fermata d’autobus e purtroppo prima di addormentarmi, al posto di un bel libro o di una salutare scopata.

È un mondo pieno di notizie che si rimbalzano, che ruota attorno a conflitti monocordi, battutacce – a volte persino divertenti, ma col secondo fine di creare facili schieramenti e compattare le identità in modo sempre più settario. .Anche se per fortuna ho amici intelligenti, a volte mi pare che da Facebook non se ne esca vivi.

Perciò gli sforzi dell’amico Daniele Vicari, che ammiro moltissimo anche per la sua capacità di coniugare l’onesta volontà di indignarsi e al coraggio di autocriticarsi, con la capacità di fare bene il suo lavoro di autore e regista, mi sembra una delle cose più lodevoli di queste conversazioni digitali.

Ha ragione Daniele: bisogna parlare nelle strade, davanti a un bancomat con la vecchietta e alle poste dove brontola la gente. Bisogna uscire dalla tastiera, capire cosa sta succedendo: e non solo alla sinistra, al mondo del cinema o ai diritti umani calpestati.

Ma anche al nostro vicino di casa, nella fila al CUP, o al mercato.

Non possiamo lasciare il campo al contagio mediatico di slogan e contro-slogan.

Io non ho mai avuto una gran passione per essere gregario. Anche nei gruppi a cui ho aderito sono sempre stato (credo in modo civile) poco allineato.

E mi sono sempre piaciute di più le persone vere, anche le più rozze, rispetto al modo in cui vengono rappresentate per sommi capi.

Dunque, per non fare troppe chiacchere qua, andrò adesso in giro, (anche se ho scelto un periodo sbagliato) e da domani, se ho ascoltato qualcosa di nuovo, e se a qualcuno interessa, ve lo racconterò, proprio così come lo avrò sentito.

Domani è il primo di agosto.

(1 Continua:  domani e per tutto il mese di agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

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L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Al Consiglio Comunale di Ferrara:
Firmare l’Appello per la proibizione delle Armi Nucleari

 

Mai come in questi ultimi tre anni Ferrara appare una città drammaticamente spaccata in due. Si tratta di qualcosa di diverso della salutare dialettica tra Maggioranza e Opposizione, ma di una contrapposizione radicale, addirittura preconcetta, che coinvolge tutto e tutti. Tutti i cittadini intendo. Sembra di essere tornati alla Ferrara del 1200 quando le famiglie Salinguerra Torelli e Adelardi si contendevano la città senza esclusione di colpi.

Questo scontro – giustissimo quando si tornerà a votare per il governo municipale – ha però occupato tutto lo spazio della politica, si è imposto nella società civile e perfino nel confronto interpersonale, facendo letteralmente sparire la capacità di dialogo e la ricerca della mediazione per il bene comune della città. La vicenda della migliore location per il concertone di Bruce Springsteen è solo l’ultimo episodio su cui era ed è possibile trovare una ragionevole mediazione e dove si sta scegliendo di non ascoltare il dissenso (sono già 25.000 le firme raccolte dalla petizione popolare SAVE THE PARK).

Ma davvero Ferrara e chi la rappresenta in Consiglio è condannata a scontrarsi su tutto? Su nessun tema, su nessun obbiettivo, su nessuna presa di posizione Ferrara può trovarsi dalla stessa parte? Questo quotidiano, sui temi nazionali come su quelli cittadini, non ha mai scelto la neutralità, ma non si rassegna neppure ad accodarsi agli Adelardi o ai Salinguerra.
Ci si può confrontare civilmente su tutto. E su qualcosa si può anche andare d’accordo. Ad esempio votare questo breve appello che ICAN (Campagna Internazionale per l’Eliminazione delle Armi), cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1917, ha proposto ai Consigli eletti delle città italiane, raccogliendone l’adesione.
Periscopio rilancia l’appello al Consiglio Comunale di Ferrara.

 

Al Signor Sindaco di Ferrara 
Ai Signori Consiglieri di Maggioranza
Ai Signori Consiglieri di Opposizione

Cities Appeal: l’Appello delle Città
a favore del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari 

L’anno scorso, e precisamente Il 22 gennaio 2021, è entrato in vigore del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari TPNW (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons).
ICAN, la Campagna Internazionale per l’Eliminazione delle Armi Nucleari, con i suoi partner italiani Rete Italiana Pace e Disarmo e Senzatomica ed insieme all’associazione Mayors for Peace, Sindaci per la Pace, presieduta dal Sindaco di Hiroshima, promuovono e raccolgono l’adesione degli Enti Locali italiani all’Appello che segue:

“La nostra Città esprime forte preoccupazione per la grave minaccia posta dalle armi nucleari alle comunità in ogni parte del mondo. Crediamo fermamente che i residenti nelle nostre città abbiano il diritto di vivere in un mondo libero da questa minaccia. Qualsiasi uso di armi nucleari, intenzionale o accidentale, avrebbe conseguenze catastrofiche, vastissime e durature per gli esseri umani e per l’ambiente. Noi quindi esprimiamo il nostro sostegno al Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari e ci appelliamo ai nostri governi nazionali affinché vi aderiscano”.

Al momento hanno sottoscritto l’Appello di ICAN le seguenti città italiane:

14 COMUNI con oltre 15.000 abitanti

Alba (TO)

Modena

Reggio Emilia

Brescia

Padova

Senigallia (AN)

Cervia (RA)

Palazzolo sull’Oglio (BS)

Thiene (VI)

Empoli (FI)

Ponsacco (PI)

Torino

Gussago (BS)

Pontedera (PI)

41 COMUNI con meno di 15.000 abitanti

Alfianello (BS)

Carbonera (TV)

Nave (BS)

Barghe (BS)

Casazza (BG)

Olgiate Comasco (CO)

Bientina (PI)

Castegnato (BS)

Ospitaletto (BS)

Borgo San Giacomo (BS)

Castelnuovo Cilento (SA)

Paciano (PG)

Borgosatollo (BS)

Cerveno (BS)

Padenghe sul Garda (BS)

Botticino (BS)

Cevo (BS)

Passirano (BS)

Bovezzo (BS)

Chianni (PI)

Roè Volciano (BS)

Braone (BS)

Collebeato (BS)

Roncadelle (BS)

Brione (BS)

Crespina Lorenzana (PI)

San Gervasio (BS)

Caino (BS)

Fauglia (PI)

Terricciola (PI)

Calcinaia (PI)

Fregona (TV)

Verolavecchia (BS)

Calvisano (BS)

Lajatico (PI)

Vicopisano (PI)

Capannoli (PI)

Malegno (BS)

Villachiara (BS)

Capo di Ponte (BS)

Muscoline (BS)

Cover: Parata militare con armi nucleari, foto Vatican New

Il giorno delle elezioni

Il giorno delle elezioni in casa mia è sempre stato vissuto nella sacralità di un rito laico. Un’aura di religiosità ammantava quel giorno, spesso con i miei genitori andavo pure io alla scuola Ercole Mosti sede del seggio, nella consapevolezza che i miei nonni e mia bisnonna anche avevano fatto quelle poche centinaia di metri per recarsi nella mia scuola a fare il loro dovere.

I cartelli elettorali e i simboli io li conoscevo tutti, forse già dalla quarta elementare sapevo esattamente chi fossero i segretari dei partiti di tutto l’arco costituzionale, Craxi, De Mita, Zanone, Spadolini, Pannella, Almirante, Capanna, Magri. E poi c’era il nostro segretario, la gigantesca figura che ci rappresentava, nel rigore della sua timidezza, con la forza della sua pacatezza, nell’indissolubile vigore della forza dei Comunisti Italiani, Enrico Berlinguer. Non è per nulla facile far capire a chi non c’era cosa significava per una famiglia di Comunisti avere l’orgoglio di recarsi alle urne, in una città Bulgara come Ferrara alla fine degli anni ’70 e nei primissimi ’80.

La macchina della sezione “Chiarioni” da qualche settimana girava per le strade della borgata a richiamare alle urne i compagni, ma non ce n’era bisogno. Era un po’ come il primo di maggio e il 25 aprile quando mi svegliavo con le lacrime agli occhi per la musica che veniva diffusa sempre dalla medesima 127 del partito, con Bandiera Rossa, Bella Ciao e Fischia il vento sparate a 120 dB(A).

Le elezioni erano generalmente in primavera, l’aria nuova pre estiva, l’avvicinarsi della fine della scuola, le giornate lunghe e un pallone preannunciavano il vento del cambiamento. La rivalsa, tramite le urne, della nostra solidarietà di classe, il martello per demolire i muri del privilegio, la falce per estirpare le frange della reazione che in quegli anni chiamati di piombo ammorbavano l’aria di una democrazia incompiuta e incompleta. Le sezioni oliavano i morsetti dei tubi Innocenti in preparazione delle mille feste de L’Unità che si sarebbero succedute nel corso della bella stagione. I volontari, i compagni, a servire agli stands, a montare palchi, a verniciare tensostrutture, a collegare i morsetti degli alto parlanti.

Un mondo di solidarietà e partecipazione, un mondo dove quasi un ferrarese su due era un comunista. Una parola che ora fa paura, è passata da motivo di orgoglio a sostantivo da sussurrare in piccole e omertose riunioni, dove pare ancora esistano dinosauri mai estinti.

Bandiera rossa, come canzone e come oggetto di per sé, non rappresenta più il mio popolo, è sbriciolata e sbrindellata in pulviscolo impalpabile, quasi come il talco.

Il giorno delle elezioni, si salutava il presidente di seggio, compagno pure lui, si prendeva la matita copiativa, si scostava la tenda dietro la quale c’era il banchetto e si marcava a forza, calcando due o tre volte il primo simbolo in alto a sinistra. Senza dubbi, senza titubanze, con la mano che tremava per l’emozione, con il cuore pieno dell’orgoglio che quel simbolo rappresentava. Gli altri non erano come noi, è un dato di fatto, non ditemi che non è vero. Gli altri partiti avevano dei sostenitori, noi eravamo Comunisti, tutti attivisti nel loro piccolo, tutti più informati degli altri, tutti più preparati degli altri e non dite che non era così. La povera gente aveva dei portavoce, aveva dei rappresentanti, che stavano in sezione in Via Foro Boario, nella segreteria di Via Porta Mare e a Roma. Lì ci stavano i migliori, i più preparati, l’avanguardia del quarto stato.

Mi bastava sentire due parole dette a Tribuna Politica per capire se chi parlava era dei nostri o meno, forse concentrandomi sarei riuscito a individuare un Comunista alla TV anche solo dall’abbigliamento, la cravatta un poco allentata, la camicia sbottonata sui polsi, piccole cose, ma grandi differenze.

Da bambino i dibattiti in TV, ma soprattutto la predetta Tribuna erano programmi che tutta la mia famiglia, io bambino compreso, ascoltava come fosse la messa domenicale del Papa. Mi ricordo i salti sul divano e la sequela di bestemmie di mio padre agli interventi degli avversari, contrapposti ai rafforzativi e agli assensi quando parlavamo noi.

Noi, capite? Un pronome personale estinto, evaporato nella mediocrità dell’oggi, nell’appiattimento di tutte le idee, nell’evaporazione delle ideologie, parola bellissima divenuta il latte di suocera del Diavolo.

Alle venti della domenica o alle tredici del lunedì chiudevano le urne e lì si rimaneva incollati al televisore fino a tarda notte. Io ricordo che non riuscivo a prendere sonno, molto oltre la mezzanotte mi alzavo e vedevo mio papà e fino a una certa ora anche mia mamma, incollati al televisore a tubo catodico, a guardare le percentuali, ad ascoltare i commenti, nell’attesa del giorno dopo dove su almeno cinque quotidiani si confrontavano i numeri.

L’Emilia Bulgara era sempre una garanzia, assieme a Toscana e Umbria, regioni in cui notoriamente si vinceva a mani basse e a pugno chiuso. Alla volta del mercoledì si rideva guardando i risultati delle frazioni e della provincia andando sempre a ricercare il dato di Filo d’Argenta, dove le percentuali del partito raggiungevano il plebiscito e dove, la leggenda narra, aveva la tessera del Pci pure il parroco.

E non saprei dire una data precisa in cui tutto questo è evaporato, dove un popolo ha smesso di essere tale. Dopo la morte di Enrico vincemmo le Europee, e con le lacrime agli occhi ci abbracciammo in casa, il trentatre e rotti per cento, sopra la Dc, un sogno pieno di tristezza e che ci lasciò col magone per giorni. Il giorno dopo lessi l’editoriale di Giorgio Bocca su La Repubblica e lo odiai, per anni non riuscii più a leggere nulla che provenisse dalla sua macchina da scrivere. Il motivo? Disse che la vittoria era gonfiata dal lutto avuto nel giugno dell’84. Era vero, ma io non ero pronto ad accettarlo.

Dicevo, quando ci estinguemmo? Dopo la Bolognina? Dopo la morte di mio padre? Dopo l’abbandono della falce e del martello ai piedi della quercia? Dopo la nascita del Partito Democratico? Non lo so, credo che l’analisi abbisogni di un esercito di sociologi bravi.

Io mi sono perso.

Sono talmente perso che il mio essere Comunista dalle elementari mi porta a lasciarmi andare nel mare della mancata rappresentanza, con la speranza assurda e impossibile che poco prima di affogare una mano mi acchiappi per la collottola e mi tragga in salvo su una barca piena di compagni. Nel mare scosso della desolazione e della reazione mi conduca molto oltre le colonne d’Ercole, verso la speranza dell’approdo ad un mondo migliore.

Dove noi esistiamo ancora.

Attenti alla Statista

 

Giorgia Meloni e il suo partito sono in questo momento sugli scudi. Fratelli d’Italia (conserva la fiamma ma si annette Goffredo Mameli e ha adottato l’inno nazionale) è stimato attorno al 25%, quattro o cinque punti sopra il PD di Letta e quasi dieci punti sopra la Lega che, grazie al suo leader, ha sbagliato tutte le ultime mosse.
Le elezioni di fine settembre sono ancora lontane, e la maggioranza degli italiani non sa ancora chi voterà – e se andrà a votare – ma il dato è comunque storico. Per la prima volta in 75 anni di storia repubblicana il partito di estrema destra diventa il “primo partito”. Giorgio Almirante sarebbe contento.

Molti, anche del Centrosinistra, minimizzano, lo ritengono un fenomeno passeggero, perché la politica in Italia è come la porta girevole del Grand Hotel, entra uno ed esce un altro: Berlusconi, Monti, Renzi, Conte… E poi, Giorgia è cambiata, non urla più come una coatta di Tor della Monaca, e ha scritto (o si è fatta scrivere) una bella autobiografia. E soprattutto è una donna, finalmente una donna, la prima, l’unica donna in una balbettante politica da appannaggio da sempre dei maschi.

La metamorfosi è compiuta, ora Giorgia è una statista. Ha smorzato i toni, senza rinunciare ai suoi sacri valori. Sembra la carta carbone (la carta carbone è nera) della sua grande amica Marine Le Pen. Con la differenza che in Francia c’è il presidenzialismo e Marine arriva prima al primo turno e perde regolarmente al secondo. In Italia invece, se come probabile a settembre vince il Centrodestra, Giorgia può diventare Presidente del Consiglio. Matteo Salvini è troppo depresso per opporsi.

Sulla fiamma sono sempre diffidente, ma la nuova Giorgia sembrava convinta e convincente. Poi ho letto il suo programma elettorale, IL MOVIMENTO DEI PATRIOTI IN 15 PRIORITÀE’ già il titolo mi ha precipitato nella macchina del tempo. E dopo i patrioti, tra una promessa e l’altra, ecco che salta fuori la gloriosa fiamma con le sue parole ammuffite e puzzolenti, tutto il vecchio repertorio fascista e neofascista. Lo sapevo io, la vecchia bestia non muore mai.

“Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita. […] PRIMA L’ITALIA E PRIMA GLI ITALIANI […] una Legge che dica che la difesa è sempre legittima  […] Controllo delle frontiere e blocco navale con rimpatrio immediato a seguito di accordi con gli Stati del nord Africa. Espulsione dei clandestini e stop al business dell’accoglienza […] TUTELA DELLA NOSTRA IDENTITÀ DAL PROCESSO DI ISLAMIZZAZIONE […] Albo degli imam e obbligo di sermoni in italiano. Nessun cedimento a chi vorrebbe eliminare i simboli della nostra tradizione cristiana, vietare il presepe o rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici. Tetto al numero massimo di alunni stranieri per classe […] Cura dei più bisognosi con pasto caldo e dormitorio per tutti ma stop al racket dei mendicanti […] Per una Gioventù nazionale protagonista delle sorti dell’Italia.”
(Tratto da IL MOVIMENTO DEI PATRIOTI IN 15 PRIORITÀ)

In Copertina: Giorgia Meloni interviene al CPAC (Conservative Political Action), Orlando, California, 24-27 febbraio 2022 (foto Wikimedia Commons) 

TERZO TEMPO
Gli “ambasciatori” della Deutsche Telekom

Negli ultimi quindici anni le partnership commerciali delle società di calcio hanno acquisito sempre più visibilità grazie all’aumento esponenziale degli spazi a loro dedicati, sia all’interno che all’esterno degli stadi. Il costante processo di internazionalizzazione di questo sport ha fatto sì che a un aumento degli sponsor sia corrisposto un aumento degli spazi pubblicitari, poiché quello sulle divise da gioco non è più sufficiente. Insomma, il calcio abbraccia qualsiasi settore merceologico, e le sponsorizzazioni che non hanno punti di contatto con lo sport o con gli atleti si affidano a delle campagne di marketing piuttosto originali: è il caso dell’azienda di telecomunicazioni Deutsche Telekom, partner commerciale del Bayern Monaco dal 2002.

Sta di fatto che, in occasione delle partite di campionato disputate all’Allianz Arena di Monaco di Baviera, la stessa Deutsche Telekom dà la possibilità a 58 persone di assistere gratuitamente all’incontro dalle primissime file della tribuna est – quella più esposta alle riprese televisive – al fine di formare un logo “umano” della stessa azienda. È a tutti gli effetti un modo alternativo per poter assistere a una partita del Bayern, le cui gare, specialmente nelle ultime stagioni, sono andate sold out ben prima dell’inizio del campionato.

Tuttavia, soltanto gli impiegati e i tirocinanti della Deutsche Telekom possono occupare quei posti, e per farlo devono inviare la propria richiesta all’azienda. Un’estrazione stabilirà chi, di volta in volta, farà parte dei 58 brand ambassadors, i quali non devono far altro che godersi l’esperienza: vengono accompagnati in bus allo stadio, ricevono un poncho e un cappello bianco a testa e assistono alla partita dai settori 124 e 125. L’unico accorgimento richiestogli, stando al portavoce René Bresgen, sarebbe quello di non abbandonare il proprio posto durante lo svolgimento della gara.

SUOLE DI VENTO /
Good morning Vietnam!
Diario di viaggio: 24 giugno-8 luglio 2022

L’ARRIVO

Scrivevo ormai molti anni fa in una mia poesia: “ Mi piace la geografia/che si fa coi piedi” ed è arrivato questo viaggio in Vietnam a portarmi con i piedi sopra una terra odorosa che ricopre le ferite delle sue tante guerre con una vegetazione rigogliosa e piena di colori.

All’arrivo, sul taxi che ci conduceva dall’aeroporto verso Hanoi città mi hanno colpita i palmizi e gli oleandri, e una miriade di altri arbusti rigogliosi sia carichi di fiori che solamente gonfi di fogliame verde brillante. Sono ovunque, chiazzano le zone di periferia con i palazzoni costruiti negli ultimi vent’anni e nella parte più centrale della città sono parchi attorno a laghetti, oppure lunghi viali con alberi ad alto fusto, come nel quartiere francese.

Il verde più familiare, però, è stato quello che ricopre i rilievi del Vietnam centrale: quello in cui sono ambientati tanti film girati sulla guerra tra Vietnam e USA finita nel 1975, il verde inestricabile in cui si nascondevano i Vietcong [Qui]. Con la stessa familiarità mi muoverei nel Grand Canyon in Arizona, se portassi là i miei piedi, per averci visto ambientate un milione di scene nei film western che ho visto da bambina.

Ora metto il sonoro e risento i rumori di motorette e clacson. Hanoi ha oltre nove milioni di abitanti e sei milioni di scooter che sfrecciano dalle prime ore del mattino, indifferenti ai colori dei semafori.

La sola regola per tutti, anche per gli automobilisti che pure si stanno facendo numerosi, è avvisare col clacson che si sta arrivando e poi andare avanti a oltranza. Evitare i pedoni che usano inutilmente le strisce pedonali. Evitare gli scontri. Ogni altra norma della circolazione stradale non ha importanza. Ho attraversato le strade tenendomi per mano a mio marito e agli amici, come non facevo da quando ero molto piccola e stavo aggrappata ai miei genitori.

Ora mi chiedo qual è stato il momento più bello e mi rispondo: la gita in barca sul delta del Fiume Rosso. Si scivola sopra una piccola barca di forma allungata alla scoperta di Tam Coc, il fiume delle tre grotte, fra montagne ricche di vegetazione, anfratti e spelonche e alte rocce calcaree.

barca fiume vietnam

In un silenzio che la voce della conduttrice interrompe solo per dire in un inglese stentato cosa va osservato alla nostra destra e a sinistra. Ci sono alcune capre issate tra le rocce. Lassù sulla cima aguzza una pagoda e una torre.

Il traffico caotico di Hanoi è a sole due ore di strada, siamo nella provincia di Ninh Binh e abbiamo incontrato solo piccoli villaggi venendo qui, in mezzo a una mare di risaie.

Ma diamo ai ricordi, pur selettivi, un ritmo da diario di viaggio e dividiamo in tre brevi periodi la permanenza nel Paese.

SEI GIORNI A HUE NEL CENTRO DEL VIETNAM

Dopo la prima notte ad Hanoi e il volo interno durato solo un’ora ci aspettano sei notti all’Hotel Saigon Morin nella antica e vaporosa Hue. Sei giorni ci fanno già sentire residenti del luogo, abitiamo nel bell’albergo in stile coloniale che ci contagia i suoi riti e piccole abitudini.

Ho frequentato soprattutto il giardino, vero luogo di relax, a partire dalla buona colazione del mattino: si trovano perfino croissant e pane da tostare, marmellata e riccioli di burro, mentre intorno dilagano le verdure calde e gli altri piatti ricchi di spezie della cucina vietnamita.

Intorno c’è la città: siamo davanti al bel Fiume dei Profumi, oltre il quale si possono intravvedere la mura della Cittadella Imperiale; alle nostre spalle la parte moderna con i suoi edifici poderosi e dalle ambizioni occidentali.

Cartelloni e insegne pubblicitarie, traffico e commercio di ogni cosa in prestigiosi punti vendita e molti grandi magazzini. Basta svoltare in una stradina laterale o uscire appena dalle larghe vie centrali per incontrare case piccole affacciate alle strade e botteghe, botteghe, botteghe.

Piccole attività familiari, con la famiglia seduta sul marciapiedi a fare la sua giornata. Poco vestiti gli uomini, le donne invece sono coperte fino agli occhi da pantaloni, maglie a manica lunga, cappello e una sorta di passamontagna che copre il volto.

Se sfrecciano sul loro scooter hanno addosso anche grosse paia di occhiali da sole. Ho visto vecchine alte un metro e poco più vendere cibo appena cucinato su fornelletti minuscoli, sedute su sedioline di plastica dai colori vivaci, come quelle che arredano le nostre scuole materne.

Ho visto donne e fanciulle vendere ogni tipo di merce al mercato di Dong Ba, rincorrendo i turisti e offrendo loro con suoni ripetuti e incomprensibili i loro vestiti, o i fiori o le pietanze fumanti appena cucinate. Con un sole a picco sui cappelli a cono, con nugoli di mosche attorno, a loro agio con i 38 gradi e l’umidità al 91 per cento.

gastronomia vietnamita

Ho provato a uscire dall’albergo e a prendere la direzione del centro, a piedi, ma ho resistito poco a causa del caldo. Sono arrivata fino alla Chiesa di Notre Dame per scoprire che è una costruzione enorme ma non bella e colorata di azzurro, il colore di altre chiese cattoliche in questo Paese. Dentro, un’atmosfera più raccolta e silenziosa; fuori un mondo di rumori e odori, tra le grida dei bambini che a frotte trascorrono la loro giornata all’aperto.

DAL PRIMO LUGLIO IN MOVIMENTO ATTORNO A HUE

Ora il mezzo di trasporto più idoneo è il pullmino, vera oasi di fresco al rientro dalle visite ai monumenti e ai luoghi di interesse, dove un angelo travestito da autista ha pronte per noi sei nuove bottigliette di acqua fredda.

A cento chilometri a nord di Hue visitiamo la zona demilitarizzata, che corrisponde al diciassettesimo parallelo, una fascia carica di storia che si estende con l’ampiezza di cinque miglia per un centinaio di chilometri da ovest a est.

Sono scesa nelle grotte di Vinh Moc, percorrendo una piccola parte dei tunnel dove si rifugiava la popolazione per scampare ai bombardamenti USA. Ho memoria sicura del piccolo anfratto chiamato pomposamente sala parto, dove durante il conflitto tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud sono nati 17 bambini – se ben ricordo – e sono sopravvissuti.

Il 2 luglio corriamo invece verso sud: ci sono almeno due località deliziose da conoscere. Il villaggio di Cam Thanh, detto anche villaggio del cocco, dove pranziamo su una terrazza affacciata a un piccolo fiume, assistiamo al passaggio incessante di piccole imbarcazioni rotonde cariche di turisti coreani e facciamo ciao ciao anche noi, incessantemente.

La presenza di Mai Thuong, la nostra deliziosa guida, salva il nostro pranzo dalle spezie troppo abbondanti e soprattutto da aglio e cipolla, per cui il mio ricordo è di un mangiare sano e saporito. Pieno di allegria.

A Hoi An, dove arriviamo nel pomeriggio, troviamo un paese davvero pieno di turisti. La sera, seduti sul terrazzo di un ristorante nella città vecchia attraversata da canali, ammiriamo le mille lanterne che fanno luce ai nostri piatti, che accompagnano strade e stradette del centro e si riflettono nell’acqua raddoppiandosi.

lanterne fiume vietnam

La storia di questa zona è ancora una volta troppo piena di invasioni straniere e di influssi culturali eterogenei. Cerco di stare attenta, ma a un certo punto non ascolto più: un Paese così diverso e carico di storia è un osso duro anche per la mia proverbiale curiosità.

Il giorno dopo rimango incantata dal massaggio podalico che ci fanno tre giovani ragazze chiamate da Mai, il pomeriggio vado anche a farmi la manicure nel loro negozio.

Tutto qui costa molto meno che in Italia, per lo meno costa la metà, e mi lascio cullare da queste coccole esperte. Uscendo trovo il vicolo ad aspettarmi e le povere case che eruttano bambini sui marciapiedi e li lasciano scalzi a giocare nella mota del fiumiciattolo che taglia le file delle case.

GLI ULTIMI TRE GIORNI DI NUOVO AD HANOI

Dalla vastità della metropoli in cui siamo tornati oggi 3 luglio ci salva Thung, la guida che abbiamo prenotato perché ci accompagni con l’immancabile pullmino nei luoghi nevralgici della città.

Il nostro hotel si trova già in un quartiere che va visitato, il quartiere medievale delle 36 strade occupate da artigiani dei più diversi mestieri, dai calzolai ai lavoratori della seta. Dunque oggi rimaniamo in zona.

Thung, che vuol dire ginepro, ci conquista subito: è innamorato dell’Italia dove ha vissuto a lungo dividendosi tra Palermo e Venezia. A Ca’ Foscari è stato lettore della lingua vietnamita per gli studenti italiani che hanno scelto le lingue asiatiche nel loro corso di studi. Ha dato al suo figlio primogenito il nome Ramo che si anagramma in Roma e in Amor, in onore del nostro Paese.

Tuttavia Thung ama profondamente il suo, un paese che almeno da trent’anni si mantiene neutrale in campo internazionale, mentre in politica interna invoca la stabilità come primo obiettivo della Repubblica Socialista a partito unico che è stata proclamata nel 1976. E’ lui a condurci nel secondo di questi ultimi tre giorni sul delta del Fiume Rosso e ci accompagna nella gita più bella tra fiume e montagne.

L’ultimo giorno ci porta a visitare l’immensa area del Mausoleo di Ho Chi Min [Qui]: a causa di lavori di restauro non possiamo entrare a vedere il corpo del grande politico, patriota e rivoluzionario vietnamita che nel 1945 condusse il paese verso l’indipendenza e fu poi presidente della Repubblica Democratica del Vietnam del Nord fino alla morte avvenuta nel 1969.

mausoleo ho chi min

Thung ci accompagna a visitare il parco attorno al mausoleo dove si trovano le case abitate dall’eroe nazionale e ce ne parla con ammirazione devota.

Quando ci spostiamo in un’altra zona di Hanoi e visitiamo il Tempio della Letteratura mi accosto alla grande statua dedicata a un famoso insegnante; mi piace vedere la somiglianza tra il viso magro e allungato che ho davanti e quello di Ho Chi Min che ho visto su mille insegne in tutta la città.

Soprattutto è bello avere conferma da Thung che in Vietnam, oggi come anticamente, viene riconosciuta una grande importanza all’istruzione.

IL RITORNO

Il giorno della partenza desidero troppo tornare in Italia, voglio ritrovare le mie abitudini e lasciare questo clima impossibile che ci ha fiaccati. Prendo l’ultimo acquazzone e ritrovo sulla strada verso l’aeroporto le strade larghe e la vegetazione ai lati, anche se ora sono sagome scure squassate dalla pioggia.

Tuttavia quando metto piede in aeroporto mi sorprende la nostalgia dei dodici giorni trascorsi qui. Cucio tra loro flash di immagini e suoni, che mi pulsano un po’ ovunque e realizzo quanto siano preziosi, quanto io li abbia voluti e assaporati.

E’ arrivata in tempo, mentre i miei piedi poggiano ancora sulla terra d’Asia, la pienezza del concepire ciò che mi è accaduto.

Nel mondo

Mi piace la geografia
che si fa coi piedi
con le ruote, sui treni
fino ad andare lontano.
La geografia delle facce
della gente, di case da poveri
e di cortili.
Si sta coi tramonti
negli occhi, a sbarlocchiare le insegne
e salutare i vecchi.
O sul mare guardando in fondo
con occhi ciechi pieni del blu.

(Roberta Barbieri, 20.11.1982)

Foto: gli scatti presenti nel testo sono dell’autrice

Per leggere tutti gli articoli di Roberta Barbieri clicca sul suo nome

#CasamuseoRemoBrindisi
a due passi dalle spiagge del lido di Spina

 

Libero orientamento di pittura in apertura con tutti i liberi orientamenti dello spirito: cartello in entrata alla casa Museo Remo Brindisi del Lido di Spina, nel Comune di Comacchio. Non ci passavo da decenni e ne ho un vago e lontano ricordo.

Gino Marotta, Alberi, 1971, foto Tommaso Sandri

Si respira questo libero orientamento, il movimento che avvolge gli alberi, le spirali di alcune opere e delle scale dell’edificio è quasi vorticoso. Arte cinetica pura. Tra pineta e spiaggia.

Siamo entrati in un edificio bianco, caratterizzato da un grande cilindro centrale che collega e compenetra i piani e gli spazi di studio ed espositivi, da una preziosa scala elicoidale e da grandi pareti a specchio, realizzato su progetto della designer italiana Fernanda (Vanda) Vigo tra il 1971 e il 1973.

Gino Marotta, Alberi, 1971 focus, foto Tommaso Sandri

Nato come casa estiva e museo insieme del grande artista Remo Brindisi, l’intento era quello di farne un vero manifesto dell’integrazione delle arti (architettura, scultura, pittura, design), dell’integrazione tra arte e vita e di un approccio libero e democratico all’arte.

Casa Remo Brindisi studio, foto Tommaso Sandri

Qui sono raccolte opere dello stesso Brindisi ma anche circa duemila esemplari di altri importanti artisti documentando molte delle principali correnti artistiche del Novecento a livello internazionale, con un particolare accento sulla Milano degli anni ’50-’70.

Mario Ceroli, Duca di Mantova 1971, foto Tommaso Sandri

La collezione del museo accoglie opere di Carmelo Cappello, Arturo Martini, Alberto Savinio, Mario Sironi, Felice Carena, Tullio Crali, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Filippo De Pisis. E ancora esponenti di importanti correnti quali lo Spazialismo e il Movimento Nucleare (Gino Marotta, Lucio Fontana, Roberto Crippa, Gianni Dova, Enrico Baj), del Movimento internazionale Zero e del Gruppo Azimuth, dell’arte cinetica e programmata (da Nanda Vigo a Piero Manzoni e Agostino Bonalumi), Nouveau Réalisme e Pop (tra cui Arman, Mario Schifano, Andy Warhol), e poi astrattisti, informali, esistenzialisti. Tra i maestri del design, oltre a Nanda Vigo, vi sono opere e arredi originali di Bruno Munari, Achille Castiglioni, Pio Manzù, Vico Magistretti, Giò Colombo.

Carmelo Cappello, Spirale, 1971-1973, foto Tommaso Sandri
Casa Remo Brindisi opere Mengozzi e Ceroli, foto Tommaso Sandri

Ma chi era Remo Brindisi? Devo documentarmi, ammetto, non lo conosco tanto.

Nato a Roma il 25 aprile 1918, l’artista, di origine abruzzesi, studia a Penne, in provincia di Pescara, prima alle scuole elementari e poi presso la Scuola d’arte Mario dei Fiori, in cui il padre Fedele insegna scultura in legno. Dopo una breve permanenza a L’Aquila, parte per Roma, per frequentare i corsi del Centro Sperimentale di Scenografia, per i quali aveva vinto una borsa di studio, e le lezioni alla Scuola Libera di nudo dell’Accademia di Belle Arti.

Remo Brindisi, foto dal web

Nello stesso anno, grazie ad un’altra borsa di studio, si stabilisce a Urbino ed entra nel corso quinquennale dell’Istituto Superiore d’Arte per l’illustrazione del Libro. Terminati gli studi, nel 1940, si trasferisce a Firenze dove allestisce la sua prima mostra personale presso la Galleria Santa Trinità, il cui catalogo viene presentato da Eugenio Montale.

Scoppia intanto la Seconda Guerra Mondiale e la chiamata alle armi non gli viene risparmiata. Fatto prigioniero dai tedeschi, riesce a fuggire e a rifugiarsi in clandestinità a Venezia fino al giorno della Liberazione. Qui entra in contatto con il celebre gallerista Carlo Caldazzo, che gli organizza un’intensa e importate attività espositiva. In questo periodo Brindisi vive insieme a Marcello Mastroianni e frequenta personaggi come il poeta Diego Valeri, lo scultore Marcello Mascherini, il pittore Filippo De Pisis e la scrittrice-poetessa Milena Milani. I rapporti con Caldazzo lo portano e trasferirsi stabilmente a Milano per esporre nella galleria “Il Naviglio”. La pittura di Brindisi evolve in questo periodo, orientandosi verso un’impronta cubista, si avvicina poi alla corrente del Realismo, che abbandonerà nel 1955. Tra il 1956 e il 1961 le opere di Brindisi affrontano importanti tematiche sociali attraverso nuove modalità espressive definite “Nuova Figurazione”, i cui temi principali sono quelli del Fascismo e della Resistenza, manifestando un orrore e un’angoscia ancora vivi e sempre indelebilmente presenti nella mente e nell’anima.

Agli inizi degli anni ’60 si avvicina all’espressionismo astratto americano e, per questo, parte per New York dove presenta una sua prima mostra nel 1961, alla quale ne seguono altre a Boston e Washington. Nel 1963, chiamato a Lido degli Estensi per presiedere una giuria, visita il vicino Lido di Spina, che si propone subito alla sua mente come ambiente ideale per la realizzazione dell’ambizioso progetto che vi (ri)presentiamo oggi e che 10 anni dopo vedrà la luce: la costruzione di una struttura che avrebbe ospitato la sua collezione artistica, rendendola accessibile a tutti, e costituito la residenza estiva della sua famiglia.

Remo Brindisi litografie a colori 1970-1980, foto Tommaso Sandri

Nel 1972, viene nominato Presidente della Triennale di Milano e Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Macerata; tra il 1973 e il 1983, realizza circa cento mostre personali; di questo periodo è anche il dipinto di 20 metri commissionatogli dalla RAI per la celebrazione del Giorno della pace. A ciò si aggiunge una produzione come scenografo e incisore, all’interno della quale si ricorda il lavoro realizzato nel 1974 all’Arena di Verona.

La varietà dei suoi interessi non lo distoglie dai temi sociali e politici, come l’assassinio dell’amico Aldo Moro, al quale dedica una serie di grandi opere.

Fervore, irrequietezza, discontinuità, dinamismo artistico e nomadismo caratterizzano la vita di Brindisi sino alla fine, all’approdo definitivo che trova a Lido di Spina dove rimarrà sino al 25 luglio del 1996, giorno della sua morte.

Giardino, foto Tommaso Sandri

Alla fine della mia visita chiacchiero con la studentessa alla cassa e il custode della casa museo, un entusiasta ragazzo brasiliano approdato in Italia per studiare all’Accademia di Belle Arti di Bologna e che qui a Spina vive quasi tutto l’anno. Sono necessarie molte opere di manutenzione e il giardino soffre. Un appello al Comune di Comacchio allora, perché qualche risorsa ed attenzione in più siano dedicate a questo spazio ricco ed entusiasmante. Programmazione cinematografica nel giardino inclusa (molto poco curata e attenzionata).

Giardino, foto Tommaso Sandri

Per un’intervista a Remo Brindisi 

Pagina Facebook della Casa Museo Remo Brindisi 

Oggi, per volontà testamentaria dello stesso Brindisi, l’intera raccolta e la Casa Museo sono di proprietà del Comune di Comacchio. L’allestimento, a cura dell’Assessorato alla Cultura, prevede che le opere siano esposte a rotazione.

Casa Museo Remo Brindisi – Via Nicolò Pisano n. 51, Lido di Spina

Casa Remo Brindisi entrata, foto Tommaso Sandri

Orari di Apertura: aprile e maggio, settembre e ottobre: venerdì, sabato e domenica dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 17.30

Giugno, luglio e agosto: Da martedì a domenica apertura serale dalle ore 19 alle 23

Tutte le foto che illustrano l’articolo sono di Tommaso Sandri. In copertina: Interno della Casa museo Remo Brindisi.

Sul ponte non sventola bandiera bianca
Quanto ci costa la guerra in Ucraina

 

Ci sono molti costi che Italia e italiani sono chiamati a sostenere per il conflitto iniziato il 24 febbraio tra Russia e Ucraina, strettamente legati al sostegno che il governo Draghi ha assicurato a quest’ultima seguendo l’esempio di quasi tutti gli altri paesi europei, oltre che le richieste statunitensi.

I costi sono sostanzialmente di tre tipi: quelli legati alle sanzioni, quelli per gli aiuti militari e per i profughi, quelli eventuali per l’ingresso nell’UE e per la ricostruzione dell’Ucraina.

Le sanzioni scatenate dal tentativo di isolamento della Russia hanno provocato una diminuzione nelle quantità di gas e petrolio importato e contemporaneamente un aumento dei prezzi. L’aumento dei prezzi delle materie prime ha fatto da volano per l’aumento di tutti i beni correlati a vario titolo, dalla benzina alla pompa, ai trasporti, ai generi alimentari fino alle vacanze. Questo aumento dei costi, si badi bene, da importazione, ha causato un aumento dell’inflazione come non si vedeva da decenni. Di conseguenza, a parità di salario siamo tutti più poveri.

Giusto per aprire una parentesi ma rimanendo in tema, l’inflazione sarà combattuta con l’aumento dei tassi da parte delle banche centrali, il che farà aumentare il costo del denaro e quindi dei nostri mutui. E’ stato calcolato che già il primo aumento dei tassi deciso il 21 luglio dalla BCE di 0,50 punti porterà su un mutuo già contratto a tasso variabile di 200.000 euro un aumento di 60 euro al mese. Aumenti che dovranno essere sopportati anche da coloro che accenderanno nuovi mutui a tasso fisso.

Federconsumatori ha calcolato che il costo aggiuntivo medio in campo energetico e alimentare sarà di 1.228 euro a famiglia. La Cgia di Mestre calcola invece che il calo del Pil per il 2022 sarà di circa 24 miliardi e questo si tradurrà in una perdita media per ciascuna famiglia italiana di 929 euro.

Di fatto ci sono aumenti nel costo della vita che possiamo calcolare anche senza l’aiuto delle associazioni di consumatori, visto la loro incidenza sulla nostra vita quotidiana. La benzina a luglio 2021 costava mediamente 1,650 euro contro i 2 euro di oggi, le bollette del gas sono quasi raddoppiate sia per famiglie che imprese, prenotare una vacanza costa tra il 15 e il 20% in più come costa notevolmente di più fare la spesa al supermercato.

Ci sono poi i costi affrontati, e che stiamo continuando ad affrontare e pianificare, per il sostegno ai profughi ucraini e per gli armamenti. Si intendono sia le spese per le armi che inviamo direttamente sul posto, sia le spese per il mantenimento dei nostri militari in prima linea ai confini del “nemico” russo.

Draghi aveva dichiarato ad aprile che l’Italia aveva speso per gli aiuti umanitari 610 milioni di euro, di cui 110 inviati direttamente a Kiev. Il sole24ore aggiornava il 10 maggio la cifra a 990 milioni di euro, siamo a luglio ed è facile presumere che abbiamo superato il miliardo. Per la cronaca, Il fatto quotidiano denunciava il 30 giugno che lo Stato non aveva ancora assolto i suoi doveri nei confronti dell’80% dei privati che avevano aderito all’appello e avevano accolto cittadini ucraini.

L’invio di armamenti viene invece effettuato attraverso il nuovo strumento European Peace Facility (EPF) al quale l’Italia partecipa seconda la sua quota UE, ovvero il 12,5%. Lo stanziamento iniziale per il finanziamento dell’operazione di sostegno bellico all’Ucraina era di un miliardo, ma dovrebbe arrivare a un miliardo e mezzo. Per l’Italia il contributo impegnato è di 125 milioni, che arriverebbe a 187,5 milioni di euro se verrà deliberata l’ulteriore tranche ipotizzata.

Con questo strumento si supportano anche altri paesi nei quali sono in corso conflitti. Nel corso del 2021 sono stati spesi quasi 259 milioni di euro per forniture militari e supporto militare di vario genere a Paesi africani (85 milioni alla Somalia, 44 milioni al Mozambico, 35 milioni al G5 Sahel, 24 milioni al Mali e 10 milioni a Camerun, Chad, Niger e Nigeria), alla Georgia (12,75 milioni), alla Bosnia (10 milioni), alla Moldova (7 milioni) e all’Ucraina (31 milioni in ospedali da campo, sminamento, logistica e cyber-difesa). L’Italia ha fatto la sua parte sempre per il 12,5%.

Nell’ambito delle spese militari per il “contenimento” della Russia rientrano anche altri 78 milioni di euro necessari per mantenere in Romania un massimo di 12 caccia militari (inizialmente erano 4, attualmente sono 8) e 260 uomini, in Lettonia più di 200 alpini della Brigata Taurinense con decine di carri armati ruotati Centauro e cingolati da neve nell’ambito della missione NATO ‘Baltic Guardian’. Ci sono poi da conteggiare circa 200 marinai sulla fregata Fremm ‘Carlo Margottini’ e sul cacciamine Viareggio necessarie alla missione della forza navale permanente della NATO, cui la Marina Militare attualmente partecipa per le operazioni di contrasto nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale.

Ai costi cui stiamo già partecipando attivamente si potrebbero aggiungere quelli di un eventuale ingresso dell’Ucraina nell’UE. Come si sa l’Italia, insieme a Germania e Francia, è uno dei Paesi che rimette all’Unione più di quanto riceve. E’ un contributore netto, come si dice. Questo è dovuto principalmente all’ingresso dei paesi dell’Est come Polonia, Ungheria e Romania e a cui si aggiungerà, eventualmente, l’Ucraina che già prima della guerra era uno dei paesi più poveri d’Europa e che quindi sarebbe ovviamente un nuovo percettore netto di contributi italiani via Unione Europea.

A questo si aggiungerebbero i costi della ricostruzione. Sono costi davvero ipotetici, ma si consideri che a Lugano, in Svizzera, è andata in scena la “conferenza per la ripresa dell’Ucraina” dove il presidente Zelensky ha presentato un piano decennale per la ricostruzione da 750 miliardi di euro. Certo le bombe cadono ancora, ed è difficile immaginare quanto possa essere realistico un piano del genere. Tuttavia già molti nostri politici si sono fatti avanti, dichiarando che ovviamente l’Italia sarà in prima linea nella ricostruzione.

SUPERBONUS E SUPERCAZZOLE
Una ricerca di Nomisma smentisce Draghi

 

Sono recentemente apparsi su queste colonne due interventi – a firma di Francesco Monini [Vedi qui] e di Nicola Cavallini [Qui] – che a conclusione dell’esperienza del Governo Draghi ne tracciano un consuntivo alquanto problematico, molto molto diverso da quello prevalente sul cosiddetto mainstream.

L’obiettivo del presente intervento è quello di corroborare le perplessità espresse nei citati articoli, attraverso l’analisi di un aspetto specifico citato in entrambi: la gestione che l’Esecutivo ha attuato del cosiddetto Superbonus 110%, misura introdotta dal secondo governo Conte il 19 maggio 2020. L’analisi che segue si giova dei risultati di un’interessante ricerca sugli effetti ottenuti dalla misura in questione, condotta da Nomisma e riferita dal Corriere della Sera il 14 luglio [leggi Qui]

Corriere e Nomisma non sono esattamente due centrali grilline, ma sintetizzando al massimo i risultati esposti si arguisce quanto segue:

  1. la misura è stata finora finanziata per 38,7 miliardi di euro (compresi i deplorevoli abusi che ne hanno dirottati, secondo gli ultimi dati, 5.8) ma, se si considerano i maggiori introiti fiscali derivanti dal valore economico generato, il costo netto per le casse dello Stato scende a soli 811 milioni di euro;
  2. si può dunque ragionevolmente dedurre che se le azioni amministrative di prevenzione e di repressione delle truffe fossero state maggiormente efficaci, la misura avrebbe addirittura prodotto un attivo, oltre che un ulteriore miglioramento di tutti gli indici che seguono;
  3. la misura ha generato un valore economico di 124,8 miliardi di euro, pari al 7,5% del PIL: viene da chiedersi come starebbe oggi la nostra economia, senza questa robusta iniezione di risorse;
  4. la misura ha prodotto maggiore occupazione per 643.000 unità;
  5. dal punto di vista ambientale, la misura ha consentito – soltanto grazie alle opere realizzate fino a oggi – un abbattimento delle emissioni di CO2 pari a 242.000 tonnellate, con un risparmio medio annuo in bolletta di 500 euro a unità immobiliare.

Insomma, sintetizzando ulteriormente, il superbonus avrebbe prodotto praticamente a costo zero – e anzi, potenzialmente, con un attivo per le casse dello Stato – un notevole incremento di PIL, una significativa ripresa dell’occupazione e un beneficio ambientale e per la bilancia commerciale di rilevanti dimensioni.

Se così fosse, non si tratterebbe, in tempi di recessione e di crisi energetica, della misura anticiclica perfetta?

Naturalmente, ogni ricerca può cadere nell’errore e i dati finora riferiti potrebbero essere smentiti.

Probabilmente, il Governo Draghi, poi dimissionario, ne aveva di diversi, visto che ha condotto una lotta senza quartiere contro la misura ereditata dal precedente (vedi ad esempio [Qui]).

Nel caso, sarebbe bene che condividesse tali dati con gli italiani, dato che le ragioni finora addotte a sostegno dell’ostilità (vedi l’intervento di Draghi a Strasburgo il 4 maggio scorso) hanno a che fare con aspetti certamente deplorevoli – l’aumento dei costi e le truffe – ma non connaturati all’orizzonte di politica economica del provvedimento. Piuttosto, legati a manchevolezze nella predisposizione e nell’attuazione di forme di controllo.

Le truffe e gli abusi, infatti, si combattono attraverso azioni di contrasto mirate. A chi verrebbe in mente di chiudere gli ospedali perché vi si verificano delle malversazioni? O di eliminare le pensioni d’invalidità perché una certa parte di esse sono fasulle?

Non si butta via il bambino con l’acqua sporca, si dice. E, soprattutto, non si getta il bambino conservando l’acqua sporca, come sembra commentasse Federico Caffè quando, più di quarant’anni fa, si vollero separare i destini del Tesoro e della Banca d’Italia, in modo tale che il collocamento dei titoli di Stato non potesse automaticamente contare su un prestatore di ultima istanza, con l’intento dichiarato di frenare la spesa pubblica e di arginare di conseguenza la corruzione ad essa connessa.

Come sia andata, è noto. Proprio come temeva Caffè, il bambino della crescita economica è progressivamente finito nello scarico, mentre l’acqua sporca della corruzione dilaga sempre più nel Paese.

Così, se i risultati della ricerca di Nomisma fossero attendibili, la metafora di Federico Caffè – del quale Mario Draghi, prima di rinnegarne l’insegnamento, era ritenuto l’allievo più brillante – risulterebbe quanto mai attuale.

Allora, un dubbio appare lecito: non sarà che le ragioni reali dell’ostilità radicale di Draghi e amici verso il superbonus sono esattamente quelle per le quali esso potrebbe essere stato uno dei migliori atti di governo da quarant’anni a questa parte?

La ragione ultima dei benefici economici apparentemente indotti dal provvedimento è, infatti, abbastanza semplice: la cessione del credito costituisce una cospicua immissione di strumenti di pagamento ‘freschi’ nel tessuto economico, creazione di moneta (sotto la forma di moneta fiscale) destinata a dare ossigeno al mondo produttivo e ai lavoratori.

Si tratta, chiaramente, di un’eresia contro il vangelo neoliberista. Di un peccato assolutamente mortale secondo i Comandamenti della BCE.

Non è così? L’ostracismo draghiano verso il superbonus non è stato ideologico e strumentale, ma si basava su ragioni di merito?
Chiuso il loro mandato, Draghi e i suoi ministri avrebbero il dovere di chiarirle, con qualche argomento un po’ più consistente di quello, demagogico e populista come pochi, delle truffe e degli abusi (che certamente qualcuno avrebbe dovuto prevenire e reprimere). Dopo quarant’anni di acque sporche, sa tanto di supercazzola.

La Russia di Dibba e le scimmiette bianche


Antonio Indelli, giovanissimo e talentuoso storico, inizia oggi la sua collaborazione a
periscopio. Devo dire che, quando ci incontriamo, de visu o da remoto, 8 volte su 10 non ci troviamo d’accordo. Anche per questo tengo particolarmente ad avere la sua voce nel coro polifonico di questo quotidiano. Siamo d’accordo, ad esempio, sulla condanna a Putin e al suo regime, mentre litighiamo sulla Nato e le sue scelte espansionistiche (che lui difende e io trovo sbagliate e pericolose), sull’invio di armi all’Ucraina (lui favorevole, io contrario) e in generale sul giudizio sulla genesi e gli sviluppi della guerra in Donbass.  Nel caso presente, nel mirino di Indelli c’è il tour ‘giornalistico’ (si fa per dire) in Russia di Alessandro Di Battista, il quale Dibba (così il suo popolo ama chiamarlo) esce letteralmente sbriciolato dalla documentata analisi e dall’ironia di Indelli. Ho controllato, su Facebook Dibba ha superato 1,5 milioni di followers; spesso sposa cause nobilissime, ma la sua ignoranza unita a un tot di mala fede (complice Travaglio e il suo il Fatto quotidiano) gli fanno dire una montagna di castronerie. Giusto quindi ‘castigarlo’. Anche se ad Antonio, tanto per litigare, contesterò che “sparare su Dibba é come sparare sulla Croce Rossa”. Buona lettura.
Effe Emme

I noti dispacci dalla Russia di Alessandro Di Battista c’entrano con le trappole per turisti cinesi?
Per capire ciò che intendo è necessario introdurre il concetto di “white monkey” (scimmietta bianca). Si tratta di una pratica di marketing diffusa in Cina da decenni, che prevede l’ingaggio di un ‘bianco’ a fini pubblicitari.
Una sua declinazione comune consiste nell’invitare un influencer occidentale (la ‘white monkey’, preferibilmente un blogger di viaggi) per un tour indimenticabile in una particolare località, secondo una tabella di marcia serratissima che prevede attività ricreative (balletti, sport bizzarri, visite a lunapark…), gastronomiche e culturali (tra cui la partecipazione a conversazioni e cene con i locali, meglio se con minoranze dai costumi pittoreschi, tutti ovviamente istruiti a dovere). L’influencer di turno paga poco o nulla (anzi, spesso è pagato a sua volta): tutto ciò che deve fare è rispettare la tabella di marcia, fare quello che gli è detto e sprizzare da tutti i social felicità e stupore di fronte alle meraviglie locali.

Il gioco è il seguente: da una parte, attirare il ricco turismo occidentale e promuovere all’estero la propria immagine, dall’altra attirare il turismo interno, che considera di particolare prestigio ciò che è gradito ai ‘bianchi’” (i ‘neri’ invece sono spesso sgraditi in Cina).

La formula ha avuto un successo tale da attirare l’attenzione del governo cinese, che prontamente ha deciso di farla sua. In particolare nello Xinjiang, pittoresca patria degli Uyghuri. Ivi si è recato sotto la ferrea sorveglianza degli agenti in borghese un profluvio di influencer occidentali che, visitando sempre gli stessi luoghi turistici secondo le medesime tappe e con annessa la stessa cena presso la medesima ridente famigliola locale, dimostravano al loro seguito adorante come i ristoranti fossero sempre aperti, le persone felici e il governo cinese non vi stesse assolutamente attuando un genocidio.
Ovviamente, le prove schiaccianti che testimoniavano e testimoniano ben altro (raccolte in buona parte da eroici attivisti cinesi con ovvi e notevoli rischi personali) erano tacciate di essere “falsità sinofobe dell’Occidente ignorante e cattivo”.

Per quanto tale iniziativa a dir poco grottesca non sembri aver sortito gli effetti sperati sui governi occidentali, ciò non ha impedito a Bashar al-Assad di importarla in Siria, come documentato da un recente report di Al-Jazeera che vi invito a vedere.

Veniamo dunque al nostro Dibba. Il quale, come è noto, da ormai un mese gira la Russia cercando di mostrarci ‘l’altra parte’ (#laltraparte).
Concretamente, posta su instagram, su tiktok, twitter e  facebook, su youtube ci comunica le sue impressioni (il suo ‘diario’) e risponde ai commenti (con occasionale uscita sulla politica italiana), mentre invia i suoi reportage al Fatto Quotidiano e raccoglie materiale per i documentari che saranno pubblicato su TVLoft, di proprietà del Fatto medesimo.

il risultato è quello che ci aspetteremmo da Di Battista, improvvisatissimo reporter allo sbaraglio: banalità per turisti e luoghi comuni sulla politica russa, che dimostrano gravissime lacune nell’ambito (si veda il commento a un suo video da parte di Marta Ottaviani, che invece la Russia la conosce sul serio).
Si badi, ciò non significa che non sappia nulla di Russia, ma che l’immagine che l’appassionato Di Battista ne ha è mitica, fortemente parziale e superficiale. Dibba non sarà putiniano, ma è sicuramente estremamente filorusso. È per l’allontanamento e la condanna dall’America (e perché no, l’Europa) e la comprensione e la vicinanza alla Russia. Sostiene che Putin strangoli l’opposizione, ma che sia ciò che la stragrande maggioranza dei russi vuole (sulla base del fatto che “pochissimi gli dicono il contrario”; non spiega poi come mai allora strangoli l’opposizione), poiché ha risollevato, riequilibrato e reso forte il paese dopo il caos dell’era Eltsin (vecchio cavallo di battaglia del regime, non serviva andare in Russia per sentire queste cose; ovviamente Dibba non mette minimamente in discussione tale narrazione, né a dire il vero la grandissima parte della narrazione del regime russo, presunto colpo di Stato in Ucraina compreso).

Tralasciamo la validità dei giudizi sulle “sanzioni che non funzionano” (smentito dagli stessi organi ufficiali del Cremlino) e sullo “sfondamento in Donbass” (arenatosi di lì a breve). Non stupisce che ripeta senza riportare un solo dato “quel che sente in giro”, senza dire cosa dicano gli organi di propaganda russi o  come e perché tali opinioni si siano formate, o dare adeguato conto del contesto al di là di basilari notazioni storiche (perlopiù manualistiche).
Gli intervistati, di nessuno dei quali è riportato il cognome, non sono verificabili, e non paiono pressoché mai contraddire il quadro già pensato e più volte espresso da Dibba, che trascrive di solito poche frasi isolate per intervista. Gli elementi da cui trae le conclusioni non possono che essere impressionistici. Così le sanzioni non funzionano perché le burrate autarchiche vanno a gonfie vele mentre la Russia commercia coi fantomatici BRICS , e dove invece funzionano alimentano il patriottismo (non riporta ovviamente la fonte, né come fosse la situazione prima della guerra, né cosa ne pensino gli oppositori a Putin più in vista e seguiti). Degli ucraini si insiste sulla percezione che li vede come nazisti che bombardano e hanno compiuto atrocità che sono alla base della guerra perché i profughi che gli han lasciato intervistare glielo han detto.

Non fa mai una domanda scomoda. Nulla sulla corruzione dilagante o sul processo a Navalny. Nulla sulla chiusura dei giornali. Nulla sui campi di filtrazione, eredità della guerra Cecena, attraverso i quali passano gli Ucraini che vengono deportati in massa in Siberia. Nulla sui bombardamenti dei civili e la distruzione delle città. Nulla sulle perdite e sui coscritti, mandati a morire in condizioni disumane malgrado il governo russo affermasse di non averne mandati affatto. Nulla sulla Wagner, palese eppure illegale, o sui crimini di guerra. Chiede (e a quanto pare, talvolta ripete) ai suoi interlocutori solo le cose che già sosteneva e si sostengono diffusamente in Italia, e che dunque non si capisce perché sia dovuto andare in Russia per riscoprirle, tanto più dato che già l’agenzia TASS (di fatto fonte quantomeno secondaria del Nostro) dice più o meno le stesse cose.

Le fonti riportate esplicitamente con coerente cherry picking, del resto, sono perlopiù giornali della stampa generalista (con ovvio plauso al Fatto Quotidiano e a Travaglio, il ché dovrebbe farci riflettere), Barbero, e almeno in un caso il Papa, di chiara risonanza presso il pubblico italiano.

Più interessanti sono le informazioni accidentali. Un esempio è quando si reca in gita in un campo profughi presso Belgorod, ove è seguito da vicino dal responsabile del campo “che sembra un militare più che un operatore sociale”, il quale tenta insistentemente di fargli il lavaggio del cervello sulla giustizia della ben nota ”Operazione Speciale” contro il nazismo ucraino. Si tratta di un raro caso di dissenso da parte del Nostro, che tuttavia è incapace di riconoscere le palesi falsità espresse dal suo interlocutore sulla mancata presenza di militari a Belgorod (centro logistico importantissimo per le offensive su Kharkiv e nel Donbass) o di commentare l’identificazione dei nazisti con gli europei.

La scimmietta bianca Dibba ci racconta dalla Russia cose che sono già diffuse in lungo e in largo nei media italiani, impegnato a dare conferma alle proprie opinioni, piuttosto che a riportare qualcosa di nuovo. Sorgono allora diverse domande. Chi organizza il viaggio di Alessandro Di Battista? Chi gli fa da guida e da interprete? Chi è di preciso la gente che incontra e lo ospita? Chi è che viaggia con lui e che talvolta compare nelle foto? Chi gestisce e inoltra i contatti?

Nonostante tutto ciò che condivide sui social, del viaggio di Dibba sappiamo in realtà assai meno di quanto vorremmo.
Nulla di grave per un privato cittadino, ma Di Battista è un personaggio pubblico che esercita influenza nella politica italiana, tanto più in questo momento e ancor più con l’enorme visibilità che questi “dispacci” gli danno.

In conclusione, è Alessandro Di Battista la white monkey più amata d’Italia?
Ciascuno lo giudichi in cuor suo. Se anche lo fosse, credo che sarebbe una white monkey straordinariamente sincera e “innocente”. Dibba riporta palate di propaganda russa perché ci crede, non perché ne tragga un diretto vantaggio (indirettamente sì, vista la recente visibilità), e voglio credere che si sforzi di essere distaccato, ma le sue simpatie e convinzioni glielo rendano manifestamente impossibile.
Non desidero infierire oltre su un uomo che probabilmente non si rende conto di quello che fa davvero, in fin dei conti è una vittima della disinformazione anche lui, e va detto che comunque risulta simpatico per il suo temperamento sornione, ironico e travolgente (cosa che però lo rende potenzialmente assai pericoloso).
Di certo Di Battista non riceve supporto e sovraesposizione dai russi, ma dal Fatto Quotidiano, il cui direttore ha deciso promuovere i post di Dibbaloqui in ogni modo possibile dando ad essi la dignità di “notizia”, nel tentativo forse di eterodirigere qualcosa della fumosa e rissosa ex entità politica che sostiene e difende a spada tratta (e di far due soldi dopo i minimi storici toccati dal suo giornale). Così Marco Travaglio procede con testardaggine su una via discendente segnata da traduzioni dall’inglese volutamente sbagliate, telefonate inventate, distorsioni e opposizioni per partito preso e promozione di propagandisti impresentabili. È solo naturale che in molti già l’abbiano abbandonato, esattamente come accaduto al suo coccolato protegé, il professor avvocato Giuseppe Conte.

Jeff Bezos: il nuovo dottor Stranamore

 

Evitare la morte è una cosa su cui devi lavorare. Se gli esseri viventi non lavorano attivamente per impedirlo, alla fine si fonderebbero con l’ambiente circostante e cesserebbero di esistere come esseri autonomi. Questo è quello che succede quando muoiono“.

Questa dichiarazione agli azionisti Amazon racchiude, in mirabile sintesi, la filosofia del superuomo postmoderno che l’ha rilasciata: Jeff Bezos da Albuquerque. La cronaca di questo progetto la potete leggere su diverse testate (per tutte, una: QUI). In sostanza, il patron di Amazon metterà un sacco di soldi dentro la società Altos Labs, che lavora sulla “riprogrammazione biologica”, ovvero la possibilità di rigenerare le cellule umane fino a rendere il medesimo essere umano non più umano, ma immortale.

Il CEO di Altos Labs è stato il direttore del National Cancer Institute degli Stati Uniti. Bezos sta reclutando inoltre, pagando loro ingaggi stratosferici, il miglior manager farmaceutico (Barron, dalla Glaxo), il miglior biochimico (Juan Carlos Belmonte), il premio Nobel per la Medicina 2012 (Yamanaka, scopritore delle cellule staminali “pluripotenti indotte”). E’ singolare il fatto che tutti questi scienziati abbiano un età che va dai 57 ai 60 anni. Bezos stesso è nato nel 1964. Verrebbe da pensare che stiano lavorando anzitutto per loro stessi, esattamente come Bezos. Tuttavia sarebbe semplicistico ridurre questo progetto al tentativo di trasformare una plurima crisi di mezza età in un elisir di lunga vita (se possibile, eterna). Perchè loro stanno invece lavorando per l’Uomo. Non ogni uomo, beninteso. Da questo punto di vista non c’è niente di rivoluzionario: gli eventuali benefici di questo faraonico sforzo saranno privati e riservati ai pochi che se li potranno permettere. Però l’idea che sta dietro a questo gigantesco laboratorio è racchiusa in quelle tre frasi.

Evitare la morte è una cosa su cui devi lavorare“. Non rinviare la morte, non curare la malattia, non migliorare la qualità della vita. No. Evitare la morte. Del resto, se l’obiettivo fosse meno ambizioso avremmo a che fare con quanto la scienza medica e biologica tentano di fare da sempre, cioè allungare la vita media del genere umano e se possibile renderne più piacevole (o meno sgradevole) la parte conclusiva. Qui si punta dichiaratamente a fare in modo che vi sia un’unica specie vivente che supera la natura, che la cambia, anzi, che oltrepassa le sue leggi e crea una propria natura, immortale per sè e gli altri eletti. Il fine sembra essere quello di poter diventare (chi potrà permetterselo) delle meduse immortali, l’unico organismo vivente avente una tale capacità di rigenerazione cellulare da essere considerato una vera e propria macchina del tempo, una concretizzazione dell’eterno ritorno: da medusa a polipo e così via per sempre, senza mai morire.

Se gli esseri viventi non lavorano attivamente per impedirlo, alla fine si fonderebbero con l’ambiente circostante e cesserebbero di esistere come esseri autonomi. Questo è quello che succede quando muoiono“. Capite qual è considerata la disdetta più grande, l’epilogo più disdicevole? Fondersi con l’ambiente circostante. Non c’è solo il rifiuto del “polvere sei e polvere ritornerai” della Genesi. C’è il sogno di porsi al di sopra della sola infinità filosoficamente concepibile, la sostanza, la divinità di Spinoza, il Deus sive Natura, unica realtà eterna ed infinita. Torniamo ad un antropomorfismo religioso, nel quale però non è Dio ad avere forma di uomo, ma è il Superuomo ad essere Dio, perchè quello che vale per l’universo non vale per lui. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, il postulato di Lavoisier che fonda la legge di conservazione della massa, implica che dopo la trasformazione ciò che risulta dalla stessa non è l’individualità di prima. Invece no: Bezos vuole essere lo stesso di sempre, per sempre. Lui, e nessun altro. Lui non vuole diventare parte di un albero, di un seme, della terra, del mare. Non so nemmeno come pensi di esser stato concepito. Siamo oltre l’avidità, la smania di potere. Siamo alla trasformazione antropologica dell’imprenditore di successo in Superuomo.

La “cessazione dell’esistenza come essere autonomo” è l’altro orrore da superare, per Bezos e i suoi scienziati. E’ straordinario come voglia pervenire attraverso la ricerca scientifica all’estrema realizzazione, una realizzazione hardcore, dell’antropocene. Non gli basta più essere l’uomo più ricco del mondo, non gli basta più piegare la natura (anche la natura umana) ai propri interessi economici, non gli basta più avere tanti soldi da potersi comprare un’isola, un continente, un pianeta, per farci quel cazzo che gli pare. A questo tipo di uomo, tutto questo non basta più, perché, sfortunatamente, tutto questo presto o tardi finirà. E’ il concetto di finitezza che non può accettare. Tutto questo non può finire, e non finirà. Costi quel che costi, agli altri, compreso l’universo (non parliamo dei poveri topi da laboratorio).

Siamo al cospetto di un gigantesco disturbo narcisistico della personalità, che si autoalimenta del suo stesso successo. Mentre però un megalomane fallito è pericoloso per sè, un megalomane di successo è pericoloso per gli altri. Una manica di megalomani di successo apre prospettive che definire fantascientifiche è ottimista e riduttivo, a meno che non ci abituiamo all’idea che le nostre utopie saranno distopie, e iniziamo ad amarle, nostro malgrado. Un po’ come nel sottotitolo de Il dottor Stranamore di Kubrick: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.

FANTASMI /
Animula vagula blandula

Animula vagula blandula*
confessione di un daimon

“Quando tutte le anime si erano scelte la vita secondo ciò che era loro toccato, si presentarono a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagna il daimon che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto. E prima di tutto il daimon conduceva l’anima da Cloto: sotto la sua mano e al volgere del suo fuso, il destino prescelto viene ratificato. Dopo Cloto il daimon conduceva l’anima alla filatura di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino. Di lì, senza voltarsi, l’anima passava davanti al trono di Necessità.”
[Platone, Repubblica, X, 620 d-e]

cendere o salire – non saprei dire, dipende dai punti di vista, o dalla vostra filosofia, ma io di queste cose non mi sono mai curato, per me non c’è alcuna differenza tra scendere e salire – salire o scendere mi è sembrato un lampo, una frazione di tempo, o neppure questo, il tempo non sono riuscito ad avvertirlo. Per me il tempo non passa, non esiste, perché io vengo prima del tempo, e durante e dopo il tempo. Io sono prima ancora di nascere e dopo ogni vostra morte. Io sono in eterno. Devo solo svolgere il mio incarico, assolvere il mio compito: quando me lo ordinano io scendo (o salgo) là dove mi è stato indicato. Faccio il mio dovere, ma non è neppure un dovere, questa parola non ha nessun significato per me, né mi diverto a farlo, perché neppure il piacere io conosco. Salgo (o scendo) seguendo la mia natura, perché è questo che da sempre la natura ha apparecchiato per me, ciò che il supremo essere ha disposto.

Platone nella Repubblica parla bene di me, il daimon, o se volete, il genio, l’ispirazione, il soffio che guida ogni destino verso il suo compimento. Come tutte le entità a voi invisibili mi sono guadagnato molti nomi, qualcuno mi ha voluto anche con due ali sulle spalle e mi ha chiamato angelo. Platone non si discute, è tutto vero, o almeno verosimile quello che di me lui dice. Ma dimentica tanto altro. Dimentica l’ansia e la fatica del mio eterno lavoro, e la noia e il buio dell’attesa, la breve ebrezza di un trionfo e il masticare amaro di una sconfitta. Io, il daimon, devo accompagnare, devo suggerire; e interrogare, istillare dubbi, infondere coraggio. Devo orientare l’anima del corpo che mi ospita verso il bersaglio già scritto dal principio. Già scritto, ma che occorre riconoscere, incarnare, compiere. E non è cosa semplice, nient’affatto, è una faticaccia come direste voi.

Ricordo – sì, anche io ho questa cosa che voi chiamate memoria, che è in ogni essere e che lo distingue dal non essere – ricordo che ero in fila con gli altri. Una fila lunghissima sapete, come a voi capita andando a vedere una mostra di un pittore eccelso. Ero in fila e aspettavo, aspettavo di essere chiamato. Se la mia natura assomigliasse alla vostra – ma proprio questo devo fare, fingere di essere come voi, come posso altrimenti spiegare, raccontare, farmi capire? – immaginatemi dentro questa fila senza termine e senza principio, lassù, in alto, come su un ponte sopra tutte le città del mondo. Immaginatemi in una qualche forma e sostanza, anche se io non aderisco a nessuna forma, o a tutte, e contengo tutte le sostanze e le possibilità. Pensate voi a darmi una forma e una materia, un volto se volete. E datemi un corpo, un sentimento. Immaginatemi mentre aspetto, aspetto per un tempo infinito, e parlo sottovoce con i miei vicini, e cerco di guardare là in fondo dove inizia la fila – non c’è un inizio ma voi dovete immaginarlo – dove Lachesi sta seduta nel suo scranno. La prima delle tre Moire finalmente mi guarda. E io fremo e prego e spero di essere chiamato.

Dopo – non so dare una durata a quel dopo – quando è arrivato il mio turno ho provato un’emozione fortissima (anche se siete voi a immaginare questa emozione). Mi succede sempre così quando è l’ora di partire, di scendere o salire fino alla mia meta. Ecco, finalmente sono in cima, il primo della fila, e davanti a me, posso quasi toccarla, in cima alla fila opposta, la prima dell’infinita fila che fronteggia la mia, sta la predestinata. Così ho guardato quella piccola anima, quell’animuccia leggera e spaurita, proprio lei avrei dovuto accompagnare passo passo, dentro un corpo e dentro la vita.

Questa è una confessione: voglio, devo essere sincero: mi aspettavo qualche cosa di meglio, di più grande, di meraviglioso.  Invece, da un’anima così male in arnese, anche con tutto il mio impegno, con tutta la mia fede, con tutta la mia esperienza non avrei potuto ricavare granché. Se anche le anime sono infinite perché a me doveva capitarne una di scarto? Ma già Cloto, la seconda sorella, filava il suo fuso, scorrendo tutta la vita terrena. e Atropo conduceva la minuscola anima alla filatura per deciderne il termine e rendere irreversibile la trama del suo destino. Ecco, ora il daimon e la sua anima gemella sono finalmente sposi. A me spetterà condurre quell’anima al compimento del destino scritto per lei.

Ecco, sentite questo grido acuto? Non conosco i sentimenti, non so se sia un urlo di dolore oppure la gioia, la sorpresa di venire al mondo. Per questo bambino è la prima volta, mentre per me non c’è e non c’è mai stata una prima volta. Io sono dal principio, da prima del principio. Io conosco tutto e questo piccolo non conosce nulla. Lui è nuovo e ignorante, io sono antico e sapiente. Eppure non credete che io parta avvantaggiato. E’ sempre la stessa lotta che combatto. E mentre salgo, mentre scendo dentro questo bambino, mentre saluto con un cenno d’intesa la sua animuccia tremante, in questo momento sento una cosa a cui io non so dare un nome, ma che voi chiamate paura e tenerezza. Non so ancora se riuscirò nell’impresa, sono un semplice daimon, ma prometto, giuro: come un soldato fedele, come una mamma premurosa, come un artigiano innamorato del suo mestiere, come un amico fraterno, come un amante appassionato, lo prometto e lo giuro. Scorterò questa animuccia durante i suoi giorni, vigilerò sul suo sonno e sui suoi sogni, sarò accanto a lei, senza distrarmi, nella buona e nella cattiva sorte, per orientare la sua freccia nel centro esatto del bersaglio.

* Animula vagula blandula (Animuccia tenera e smarrita) è il primo verso di una breve lirica dell’imperatore Publio Elio Traiano Adriano. Adriano si prepara a congedarsi dalla sua anima e si rivolge ad essa salutandola, quasi come fosse sulla soglia che separa la vita dalla morte e si apprestasse a separarsi da una cara compagna. Gli splendidi bersi sono anche nel capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”

Un’altra nota: questo mio breve racconto, dettato da un ricordo di Platone, è anche figlio della lettura di alcuni libri di James Hillman, e in particolare a “Il codice dell’anima” edito in Italia da Adelphi.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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