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August Landmesser rifiutava il saluto ad Hitler per amore della famiglia

13 giugno 1936
August Landmesser rifiutava il saluto ad Hitler per amore della moglie e delle figlie

August Landmesser, operaio navale ad Amburgo, padre e marito, antinazista ed unico tra centinaia e centinaia di persone a rifiutare il saluto ad Adolf Hitler.
Era questo stesso giorno, il 13 giugno del 1936, e il Fuhrer era arrivato all’arsenale di Amburgo per l’inaugurazione della nave Horst Wessel. Al suo passaggio furono centinaia le braccia che si alzarono al cielo: operai, impiegati, dirigenti e proprietari, tutti a salutare il Fuhrer. Tutti tranne Landmasser. Sguardo deciso e braccia incrociate. Un semplice gesto immortalato in una foto che rese celebre la storia dell’antinazismo di August per amore della famiglia.

Landmesser fu membro del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori dal 1931 al 1935. Come molti fu costretto a iscriversi al partito solo per riuscire a trovare un lavoro. Non condivise mai le idee che stavano alla base del terzo reich, ma le necessità soggettive lo spinsero a dover fare quel gesto di cui tanto si pentì.
Quando August si innamorò di Irma sapeva benissimo che era ebrea. Consapevole di star violando le neo-approvate Leggi di Norimberga – le leggi che postulavano la superiorità della razza ariana – nel 1935 il giovane operaio si sposò con Irma Eckler.
Il matrimonio non venne ovviamente riconosciuto dalle autorità di Amurgo e le due figlie, Ingrid (1935) e Irene (1937), non poterono adottare il cognome del padre proprio a causa delle leggi raziali. Pochi mesi dopo la nascita della secondogenita, August cercò di portare la famiglia in Danimarca. Quando però la famiglia arrivò il confine, la Gestapo li bloccò e invitò August ad abbandonare l’ebrea e le due figlie per non avere alcun tipo di problema.
August però l’amava davvero e non ebbe paura delle conseguenze, scelse di non abbandonare la propria famiglia.

Nel 1938 la Eckler fu arrestata dalla Gestapo e internata nel campo di concentramento di Fuhlsbüttel ad Amburgo. Spostata nei campi femminili di Oranienburg e Ravensbrück, fu assassinata il 28 aprile del 1942 nell’istituto sanitario di Bernburg dai medici nazisti a causa della presunta malattia mentale della quale soffriva. August venne inizialmente arrestato e incarcerato insieme alla moglie. Fu scarcerato il 19 gennaio 1941 e assegnato ai lavori forzati presso la società Püst, in un’azienda aeronautica e casa motociclistica tedesca.

Negli anni successivi cominciarono le sconfitte dell’esercito nazista al fronte. Nel 1944, proprio a causa della penuria di uomini alle armi, Landmesser, nonostante i precedenti penali, fu arruolato nella Wehrmacht e assegnato a un battaglione di disciplina, il 19º Battaglione penale di fanteria della famigerata Strafdivision 999. Dopo pochi mesi al fronte August venne prima dichiarato disperso in Croazia durante operazioni militari, e solo successivamente risultò morto in un scontro a fuoco, ma il corpo mai ritrovato.
Le bambine nel frattempo vennero divise: Ingrid fu affidata alla nonna paterna, mentre Irene fu condotta dapprima in un orfanotrofio poi assegnata a dei parenti.

Quella foto, scatta quel 13 giugno del ’36, divenne la foto di un pezzo di storia. August Landmesser come molti fu costretto a vendere i propri ideali per provare a sopravvivere, per aspirare ad avere una casa, una famiglia e una parvenza di dignità. Proprio in quei momenti neri della storia, in cui le difficoltà si fanno più concrete e reali, i gesti come quelli di Landmesser che si ribellò al regime per amore sono capaci di riscrivere la storia.

Ogni lunedì, per non perdere la memoria, seguite la rubrica di Filippo Mellara Lo stesso giorno. Tutte le precedenti uscite [Qui]

Un accendino come nuovo

 

In realtà è un’immagine che richiama un video. L’immagine è quella di un accendino con la fiamma viva; il video è quello di un profilo di Instagram di psicologia. Si è già trattato sulle pagine di questo giornale del bonus psicologia, e che dopo la pandemia molte persone hanno avuto bisogno di un sostegno che alleggerisse le paure accumulate. Ecco, il video inizia con un accendino che si spegne. Viene tuffato in un contenitore di vetro e sommerso di acqua: tristezza, solitudine, ansia, isolamento. Quando ne esce fuori tutte le difficoltà che lo hanno spento, non gli permettono più di accendersi. L’acqua è entrata a fondo nel suo meccanismo: l’anima, l’autostima, la volontà, il cuore… sommersi.

Poi la soluzione. Per accendere una persona basta che si attorni di persone che sappiano accenderla. E così la fiamma di un accendino si avvicina al gas di quello spento e lo ri-accende. Combustione spicciola per molti, filosofia sociale per altri. Non bisogna dimenticare che chi è in difficoltà viene spesso allontanato, come se non bastasse, ancora di più. Sempre più spesso si cancella una persona e non solo da un profilo facebook. Spento definitivamente l’essere umano; per ignoranza, paura. Poi la semplicità di un accendino spento che vuole (e sottolineo vuole) farsi accendere, basta che non si isoli troppo. Basta che la solitudine non diventi routine, camuffandola per riflessione. Ma a ognuno i suoi tempi. E comunque sappiate che le fiammelle sono ovunque, preziose, silenziose, devi saperle accogliere e custodire.

PRESTO DI MATTINA
Il battito in ogni cosa

Chi sei tu?

«Chi è lo Spirito santo?» Non mi pare questa la giusta domanda da porre a Pentecoste. Sa troppo di ‘catechismo’, di dogmatica, finendo per indurre a una risposta impersonale, magari impeccabile, ma da manuale di teologia, che non quieta l’attesa di chi interroga né riesce veramente a dischiudere il segreto nascosto nel nome. Fatalmente, chi la pone si fermerà a metà strada, senza arrivare al cuore e sentirne il battito. La strada è un’altra.

A Pentecoste, al compiersi della Pasqua e al venire dello Spirito, una più congegnale domanda potrebbe essere: «Chi sei?», senza dimenticare di ripetere con ardente desiderio: «Chi sei tu per me?».

Solo quest’ultimo interrogativo rivela l’esperienza, come diceva Isacco il Siro (VII secolo) [Qui], senza accontentarsi di una risposta fors’anche erudita e ornata di bellezza, ma impersonale. Non è raro che si pongano domande prive di un contatto con la realtà. Ecco perché un interrogativo che suscita e proviene dall’esperienza è un tesoro in cui possiamo confidare.

In questa audace e ad un tempo confidente domanda: «Chi sei tu per me e chi sono io per te?» solo chi è amato e a sua volta ri-ama giungerà a conoscerne la risposta. Nel tu per tu della relazione, di una libertà che ad un tempo si fa accogliente e si affida all’altro, può venire alla luce la parola, il nome sempre conosciuto e nominato sempre in modo nuovo di colui che Riccardo di San Vittore [Qui] chiamava il «condilectus, amor debitus et donum», un amore condiviso che si riceve (debitus) e che si dona a sua volta oltre sé stesso.

«Con-dilectus» esprime la gratuità dell’accoglienza, il darsi di una comunione reciproca di un amore a due, quella del Padre e del Figlio. Lo Spirito è sì il luogo vivente del loro amore, dove entrambi dimorano; ma questo luogo è reso permanentemente aperto dallo Spirito santo.

È costui infatti amore in uscita, che non trattiene gelosamente ciò che riceve. È passione di amore che non resta passivo, ma diviene a sua volta azione di amore che permanentemente fluisce, sorgente che zampilla in ogni dove, anche dentro di noi: «l’acqua che io gli darò – dice Gesù alla samaritana riferendosi allo Spirito – diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).

Il tutto a dimostrazione che la perfezione dell’amore non è esclusiva, ma inclusiva. Estasi di amore è lo Spirito, irruenza, dolcemente fluente, fuoco di amore, mite ardore di amore, che a Pentecoste mette sottosopra il cuore, e sparpaglia gli araldi del vangelo riunendo i linguaggi degli uomini, sino a renderli consonanti gli uni gli altri al loro messaggio, concordi come fratelli: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 103, 30).

Lo Spirito è così tanto libero amore da lasciare anche in dono la libertà di nominarlo in molti modi, in moltissime lingue. Tutti infatti lo conosceremo, dal più piccolo al più grande, nel modo in cui anche noi saremo da lui conosciuti.

Ad ispirarmi questi pensieri è stato un inno di Pentecoste scritto nella sua ultima esperienza di questa festa da Edith Stein [Qui], Teresa Benedetta della Croce carmelitana, prima di essere deporta ad Auschwitz. È Edith a domandarsi: «Chi sei?».

«Chi sei, dolce Luce/ che ricolmi il mio essere/ e rischiari/ l’oscurità del mio cuore. Inafferrabile, inconcepibile e incontenibile in un nome» e tuttavia «più vicino a me/ di me stessa/ e più intimo/ del mio stesso intimo. Eppur nessun ti tocca/ o ti comprende/ e d’ogni nome infrangi le catene. Mi conduci per mano/ come una madre/ e non mi abbandoni,/ altrimenti non saprei muovere/ più nemmeno un passo./ Tu sei lo spazio/ che circonda/ il mio essere/ e lo prende con sé».

 

Sussurri e battiti d’amore

«Ogni sussurro/ e battito d’amore,
ogni sussurro che acconsenta amore».
(G. Ungaretti [Qui])

Lo Spirito è il battito in ogni cosa, pietra o albero o sabbia o acqua che sia, in ogni vivente e in ogni parola soffio di vita. È «murmure tra gli ulivi saraceni». Un “murmure di mare” è la nostalgia di amore, che risveglia nel poeta il ricordo di lei, dell’amata, e in me – «come l’acqua delle fontane di san Pietro, murmure liturgico» – la «Dulcis Jesu memoria, vera cordis gaudia», affinché il Cristo continui ad essere anche per me dimora e cammino, e il suo vangelo sia giogo dolce e carico leggero.

Eco di Dio in ogni cosa è il suo Spirito: «Eco d’una voce chiusa nella mente/ che risale dal tempo; ed anche questo/ lamento assiduo di gabbiani: forse/ d’uccelli delle torri, che l’aprile/ sospinge verso la pianura. Già/ m’eri vicina tu con quella voce;/ ed io vorrei che pure a te venisse,/ ora, di me un’eco di memoria,/ come quel buio murmure di mare» (S. Quasimodo [Qui], Tutte le poesie, 101; 585; 141).

A Pentecoste lo Spirito santo sta proprio nel buio della notte come luce promessa. Come l’aurora, affioramento di luce, è già una promessa presente; già una preghiera esaudita: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre. Lo manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 16-26). Preghiera che continua a compiersi nel tempo: lo Spirito stesso prega con insistenza in noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26).

Lo Spirito, come l’aurora, è il battito del germinare della luce, chiarore che crea un varco nell’oscurità, battito del riposo nella fatica, tocco di rugiada nella calura, conforto di prossimità nel pianto.

 

Sulla soglia della decisione

Paraclito/Ad-vocatus = colui che è chiamato a sé, che è in-vocato per sostenerti nell’ora della decisione, confortarti nell’ora della prova. Tutta la vita – cristiana diceva san Serafino di Sarov [Qui] – è con-seguire lo Spirito santo, divenirne discepoli. Da lui viene il dono del consiglio, del discernimento spirituale, come pure del discernimento comunitario che è esercizio di sinodalità. È lo Spirito che guida al pensiero di Cristo, che è generativo del con-senso della fede dei battezzati nella comunità cristiana: sinfonia dei differenti battiti dei credenti.

Paolo ricorda ai Corinti che: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio.

Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 9-16).

Pentecoste continua ad essere così il tempo della decisione. Lo Spirito santo ci attende sulla soglia, quella della decisione della libertà: abita in essa, per farci fazione, dalla parte del vangelo, consorti suoi. La soglia della decisione è anche il luogo dell’indecisione: luogo certamente comune dell’incredulità e della fede. È la soglia presso la quale egli ci attende.

È don Primo Mazzolari a dirci che lo Spirito ci fa essere «con la volontà e il cuore di fazione per il Regno del Padre. Troppa gente ha fretta di smobilitarci dai nostri ideali e dai nostri ricordi, per nuovamente intrupparci dietro interessi, che non sono neanche interessi: troppa gente ha premura di renderci gravosa la libertà così faticosamente guadagnata per disporci al baratto. Ancora una volta la nostra libertà cristiana per un piatto di lenticchie!» (Il Compagno Cristo, 42).

E in un’omelia, lo stesso Mazzolari ricorda le tentazioni del cristiano: «La Parola di Dio l’ho dentro di me, non la posso più rifiutare e adattare ai miei gusti, imborghesirla. Nel ‘lontano’ la ricerca è un istinto naturale; nel credente è istinto e grazia.

C’è poi il confronto continuo fra ciò che mi splende nella visione e nel desiderio e ciò che riesco a fissare. Penso in eternità e avanzo lentamente nel tempo. Ho ricevuto tanto e di tanto devo rispondere: anche davanti agli uomini. Sono creato testimonio davanti agli uomini. Dipende da me se Cristo sarà accolto o giudicato nella mia luce o nella mia tenebra. Sono di fazione per Lui fino all’ultimo respiro» (Domenica prima di Quaresima Mt c. IV, v. 1 –11).

L’espressione iniziale del capitolo 2 degli Atti degli Apostoli: «mentre il giorno di Pentecoste stava per compiersi», quello “stare per compiersi” esprime il venire a maturazione della decisione degli apostoli, intuito dello Spirito e sua grazia, che a Pentecoste li farà testimoni del vangelo.

La stessa locuzione la troviamo anche nel vangelo di Luca al cap. 9, che narra il momento in cui Gesù manifesta la sua decisione di andare a Gerusalemme annunciando così la sua prossima passione: «Mentre stavano per compiersi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù indurì la sua faccia e partì direttamente verso Gerusalemme».

È l’inizio del grande viaggio e lo Spirito, urge in lui e lo sospinge a salire con i suoi verso Gerusalemme, sapendo che là lo attenderà la croce; quella decisione lo porterà a raggiungere tutti e a dare compimento all’amore: «quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me», ad abbracciare tutti, anche i nemici e nel luogo del suo innalzamento, da quel legno pure lui dai chiodi trafitto, colpo su colpo battuti, battito di un cuore morente e dopo aver preso l’aceto, reclinando il capo, avrebbe alla fine reso su tutti lo Spirito.

Lo Spiritus Principalis o Pneuma hegemonikon è l’energia di amore sorgiva che il Padre ha dato al Figlio e che questi ha rimesso nelle sue mani e donato anche a noi. È colui che conosce l’ordito dell’amore, l’ordo amoris, perché ne è il principio, la tessitura che regge e intreccia l’insieme dei fili di ogni amore fino al loro compiersi. È principalis, che inizia sempre, regge e guida ogni cammino, attacco e arrivo ad ogni movimento, filo dopo filo, battito dopo battito in ogni cosa, in ogni vita che acconsenta amore.

Spiritu principali confirma me (Salmo 50 [51], 14)

Tu esci
come da ferita del legno,
lavacro battesimale.
Tu sgorghi
come da cuore trafitto,
acqua e sangue,
vita nascente
da compiuta morte,
sigillo di un amore risorto.
Goccia a goccia dapprima,
fiume che travolge poi,
inondazione feconda
per l’arida fede
e per gli Undici,
sementi disperse
dal battito della paura.
Tu, primo battito
di un cuore di Chiesa
su cui accordarci
sempre di nuovo
perché si sia
cuore indiviso.

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Cover: Roma, p.zza San Pietro, fontana lato nord – Foto Wikimedia Commons

 

 

 

Una gemma del passato
…un racconto

Una gemma del passato
Un racconto di Carlo Tassi

Bizzarra, carnale, gelosa, infedele, pazza. Questo era Sara.
Eppure l’amavo, l’amavo come non avevo amato nessun’altra. Senza sapere il perché.
L’inizio della vita. L’inizio dell’avventura. Le feste, le sere disperate, in riva al mare d’estate.
Camminare per le strade sconosciute del lido, la notte. La solitudine, in cerca di lei che se ne fotte. La voglia di fuggire e di morire. Poi ancora la voglia di riprovare. No, non può finire.
Ed eccola di nuovo davanti a me, sempre bella, sempre stronza, e piangeva. Esatto, piangeva di nuovo, ed ero fregato. Conoscevo il suo gioco, ma ero fregato. Sempre.
Quanto fossi debole non era un mistero per nessuno. Io e Sara, io lo zerbino e lei la regina. Schiavo del suo sesso e dei suoi capricci.

Ora la rivedo dietro il carrello della spesa, scomparsa una sera d’autunno e riapparsa dopo trent’anni di vita, mille volte sfiorata e mai incontrata.
Alta, magra, sciupata, bella come sempre, come non immaginavo più. Mi guarda e mi sorride col suo solito sorriso triste. Leggo il suo imbarazzo e lei legge il mio. Non saper cosa dire, il desiderio d’andar via e la voglia d’essere altrove, da soli, che lentamente sale. La voglia di lei, di riprendersi il tempo perduto. Pensieri scabrosi a stento repressi.
“Ciao che bello rivederti… come stai?”
“Bene grazie, e tu?”
“Non male… Ma che fai da queste parti? Credevo fossi andata ad abitare lontano…”
Parole forzate, sorrisi tirati. La magia dura un attimo, giusto il tempo di un sussulto nel petto, di un lampo d’eccitazione. Poi vince il disagio, il fastidio.
“Beh, allora ciao… vado che sono in ritardo…”
“Ciao, mi ha fatto piacere rivederti. Stammi bene…”
“Anche a me, ci si vede…”

Un ricordo. Era solo un ricordo prezioso, un’idea, una gemma che illuminava una traccia di passato.
Guai al mondo trasformarlo in materia. Quanta leggerezza perduta, un cristallo magico caduto in terra, infranto. E ora, nella testa solo i cocci del presente.
Ma si tratta d’aspettare, e Sara tornerà a splendere nel mio mondo di nostalgie… sempre che non la incontri di nuovo.

Me And Sarah Jane (Genesis, 1981)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

PER CERTI VERSI
Dipingere il dolore?

DIPINGERE IL DOLORE?

Qualcuno mi disse
Che le mie parole
Non vogliono
Dipingere il dolore
Che gli cambiano volto
Come alla tv
Il dolore
Forse non lo sanno
Non si può dipingere
Il dolore
È assoluto
Incolore
Illune
Non passa
Mai
Nemmeno
Dalle crune

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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PRESTO DI MATTINA
Padre Silvio

Il chicco di grano caduto in terra

Padre Silvio Turazzi, missionario ferrarese nativo di Stellata di Bondeno, ci ha lasciato giovedì 26 maggio, memoria di san Filippo Neri, il santo della semplicità e della gioia cristiana che, come lui, visse gioiosamente in mezzo ai poveri, ai piccoli, agli emarginati.

Quel giovedì era pure la solennità dell’Ascensione, che ricorre a rigore quaranta giorni esatti dopo la Pasqua. Canta l’inno del mattino: «È asceso il buon Pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel cenacolo. Scende il crisma profetico che consacra gli apostoli araldi del Vangelo».

Così dopo una vita in sedia a rotelle, ma pur sempre da araldo del vangelo, pure lui, rialzato dal suo Gesù, è asceso presso il Padre, non senza la promessa di restare tra noi con il suo spirito di “fratello universale”.

Sì, quella della spiritualità di Charles di Foucauld [Qui], fratello universale, fu una delle luci che ispirò il suo stile missionario. Fratel Charles era per lui «il missionario che ascoltava Dio, che parlava condividendo la vita dei poveri nello spirito di Gesù di Nazareth».

Per questo fu molto presente nella vita di padre Silvio, anche se sentiva importante – sono le sue parole − partecipare a tutta la vita della gente: «Con questa prospettiva mi sento di vivere ovunque. Qui capisco che i sacrifici sono tanti: insicurezza, malattia, disagi, incomprensioni sono di casa. Soltanto la fede, l’appoggio su Gesù rende possibile un discorso completo sull’uomo … siamo tutti così limitati!»

Negli ultimi giorni, come la stessa consapevolezza che ebbe Gesù della propria fine, padre Silvio era entrato nei suoi tre giorni santi, nella sua Pasqua, ricordando a coloro che gli erano vicini il senso del suo soffrire e del suo morire. Lo ha fatto pronunciando le stesse parole usate da Gesù prima della sua passione.

È Edda, missionaria saveriana, che lo accompagnò per una vita, a raccontarcelo: «Martedì era voluto uscire. E davanti a un campo di grano, aveva richiesto una spiga e tenendola tra le mani aveva sussurrato: “Se il seme di grano non cade per terra e non muore non porta frutto”». È questa sua vita eucaristica, come un seme gettato nella terra, la sua vivente eredità.

Padre Silvio era entrato nei missionari severiani di Parma nel 1967, già prete, dal Seminario di Ferrara, e dopo soli due anni, nel 1969, fu vittima di un incidente stradale che gli compromise l’uso delle gambe. Ciò non gli impedì di iniziare la sua missione tra i baraccati di Roma all’Acquedotto Felice e poi a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, dal 1976 al 1994; quindi a Vicomero in una piccola fraternità missionaria vicino a Parma.

«La missione è un profondo atto di amicizia tra gli uomini»

«Portavo come un seme, una speranza oscura, il desiderio forte di incidere sul cammino del popolo per realizzare il bene comune. Mi sono ritrovato piccolo e bisognoso di imparare a leggere e capire esperienze e risposte alla vita diverse da quelle che avevo sempre incontrato. L’idea della missione mi ha provocato e sostenuto in questo incontro.

Poiché ci si riconosce in un destino comune, si prova il bisogno di comunicare le notizie che portano gioia e colmare i vuoti che gli egoismi hanno creato. È missione annunciare Gesù, Parola e impegno di Dio per la pienezza degli uomini; è missione riconoscere che la sua presenza va oltre il visibile e oltre i segni importanti e liberatori che egli stesso ci ha lasciato.

Quello che conta è il quotidiano rimettersi in cammino perché Lui, che è venuto a dichiarare la liberazione dei poveri, ci trovi impegnati a costruire, con il suo aiuto, la famiglia umana».

Quella di padre Silvio è stata così sempre di più una missione intesa e intenta a costruire la fraternità tra gli uomini: «Un altro aspetto dell’essere fratello è il legame con i fratelli sofferenti − che porta alla solidarietà. Una solidarietà che cura le ferite e si fa carico degli squilibri che la provocano; quella virtù che “è ferma e costante determinazione di lavorare per il bene comune, di donarsi per il bene del prossimo, pronti nel senso evangelico del termine a ‘perdersi’ per l’altro invece di sfruttarlo, a ‘servirlo’ anziché opprimerlo”» (Sollicitudo rei socialis, 38).

È la scelta dei poveri. È la fraternità che diventa coraggio e si fa giustizia che illumina la vita sociale sulla proiezione della proposta di Cristo. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…. Ogni volta che l’avete fatto a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,31-46).

Ne parlo come prospettiva. La mia esperienza è povera, con tanti silenzi e compromessi. Quando l’ho vissuta mi sono trovato nel Vangelo. Ricordo la risposta spontanea al direttore della prigione che aveva proibito l’entrata ai sacerdoti bianchi: “Direttore, il sangue mio e quello dei detenuti ha lo stesso colore; perché non posso vederli?”. Mi fissò, poi rispose: “Ingla (entra)”».

 

La fraternità planetaria, la sua ostinazione

Aperti e protesi verso una giustizia, una solidarietà, una cultura e comunità planetarie. Padre Silvio vedeva nell’unità del pianeta un segno dei tempi: «È tempo che l’economia, il diritto, la politica, la cultura, abbiano riferimento all’unico uomo: l’uomo cittadino del mondo.

L’umanità è cosciente dell’avventura globale della sua storia come dei suoi rischi, non altrettanto da dove attingere la forza per “crescere” in quella cultura dell’altro, chiunque e dovunque esso sia, che permetterà l’incontro, la collaborazione, la gestione comune della vita.

E’ in questo contesto che la missione, e in particolare le missioni nei vari Paesi del mondo, è chiamata ad essere segno e strumento della diaconia della Chiesa per l’unità del mondo. Noi nuovi discepoli dell’unico Maestro, lentamente impariamo ad accogliere questa nuova ricchezza del regno, la chiamata a essere e diventare figli del Padre e aprirci alla fraternità.

La vita mi ha insegnato che non c’è situazione in cui non possiamo aprirci “al di più”, alla bellezza del Regno. Se poveri impariamo ad essere capaci di vedere chi soffre, a diventare solidali con loro; ne potremo accettare passivamente che l’altro sia escluso, calpestato, privato della propria dignità. Ogni scelta, ogni relazione, perché sia umana, deve tendere alla fraternità, il frutto maturo della pace».

Così un corpo e una parola di fraternità si ostinano a procedere tra immobilità e silenzi ostili e peggio indifferenti: «Dammi l’acqua/ dammi la mano/ dammi la tua parola/ che siamo, nello stesso mondo» (Chandra Candiani [Qui]).

Come il respiro in salita, il battito del cuore in affanno, ostinati anche se le gambe non camminano e le parole sussurrate del vangelo cadono nel vuoto. Ostinazione è il carattere di chi fronteggia l’immobilità, la chiusura, il dolore, è pure lo stile di chi abita il vangelo e la vita della gente come fosse la sua scuola, la sua casa, la sua terra, il suo campo.

È l’ostinazione – aratro che solca i campi dell’umano, semina e li fa fiorire e fruttificare – un ostinato amore che va fino in fondo costi quel che costi. «Tutto è questione di fedeltà – scriveva don Primo Mazzolarie l’ostinazione è una fedeltà innamorata» (Pensieri dalle lettere, Vicenza 1978,170).

In queste parole ritrovo al vivo lo sguardo e i tratti del volto di padre Silvio, la sua fede ostinata e sorridente: “una fedeltà innamorata”.

 

«Sul Golgota il Regno di Dio non è finito»

«Il mio ritorno a Goma con Paolo ed Edda è stato come entrare in un profondo pozzo, in un tunnel buio: è ancora guerra, continuano le sparizioni di persone gli spari nella notte.

E tuttavia si percepisce in mezzo a queste realtà di morte che la gente sente il bisogno di vita. Ha fame, sete, chiede luce. Per questo Gesù ha inviato i discepoli. Quando ci uniamo nell’eucaristia gli occhi sono fissi su Gesù, non c’è altro maestro. Si annuncia l’attualità della sua persona in mezzo a noi. Noi come chiesa non viviamo appena di ricordi, ma ricordando il Gesù presente viviamo il presente e ci apriamo al futuro.

Resta la profonda angoscia delle immagini molto tristi della guerra e del dopoguerra, restano gli interrogativi del perché tanto male, anche se si sa che i motivi della guerra nella regione dei grandi laghi sono da individuarsi in una volontà di profitto, di accaparramento e sfruttamento di risorse economiche.

Ho imparato che è nella preghiera che vanno cercate se non le risposte immediate almeno una luce ed un senso che ti confermano nella certezza che sul Golgota il Regno di Dio non è finito, ma dal Golgota si è sparso nel mondo.

Nella sofferenza degli uomini il Regno di Dio non è finito. Questo pensiero mi ha illuminato ed è stato come una liberazione dall’oppressione dell’angoscia e degli interrogativi su tanto male che ancora continua.

A Goma ho visto i segni della guerra e della fame, però ho visto anche i segni di una chiesa viva. Abbiamo sentito fatti di morte, stragi e sparizioni e abbiamo sentito fatti di bontà e di donazione della vita. Tanti episodi in cui i cristiani accolgono e nascondono chi è ricercato.

Ed allora il Regno di Dio non è finito. C’è una storia di vita che continua a scorrere. È il Regno che continua, tanti hanno dato la vita per salvare quelli dell’altra tribù.

Anche i missionari che sono restati sono un segno che il Regno di Dio non si è fermato. Sono restati condividendo l’insicurezza della gente e questo restare è stato sentito come il restare stesso di Gesù.

Quando andiamo oltre le nostre paure e i limiti, quando si continua a perdonare, a credere e a condividere, anche quando le situazioni sembrano difficili, allora il Regno di Dio è presente e vivo. Un cristiano si riconoscere da come fa la “spesa” e da come è capace di accogliere la diversità, anche quando fa paura.

Tornando a casa si è rafforzata ancora di più l’idea di tenere viva la comunione con la chiesa d’Africa e chiederei anche a voi di fare altrettanto. L’eucaristia è condivisione, da essa dobbiamo trarre la forza per vivere vangelo con coerenza e continuità, perché è il vangelo che ci offre uno sguardo nuovo.

L’ascolto della missione ci porti a rinnovarci nella fede: la missione è quel dono che fa crescere la fede perché la si dona. La fede è la presenza del Signore, è lui che ci orienta, e ci apre gli occhi.

Ho celebrato la messa di Pentecoste nella cattedrale di Goma. Ho riascoltato i canti nelle diverse lingue: mushi, kinande, kinyarwanda, kiswahili, kirega. Abbiamo ascoltato esperienze di vangelo vivo, di amicizia fino a rischiare e a donare la vita per quelli dell’altra etnia.

Ci hanno raccontato la storia di due giovani (hutu e tutsi) rimasti insieme in prigione, decisi a uscire di prigione insieme, o a morire insieme. Davvero il Regno di Dio non è finito. È visibile tutte le volte che la gente sa aiutarsi, perdonarsi, condividere il poco che ha e conservare, nonostante tutto, il germe della speranza.

È accaduto sulla croce di Gesù, continua oggi nella Regione dei Grandi Laghi tra la gente semplice, nella vita di ogni giorno. È una dimensione della storia che non appare, ma è nel tessuto della vita che continua. Prego questa sera perché siamo uniti e si crei un legame con tutta la gente della terra. Per la città di Goma che è affamata io chiedo al Signore una pioggia di fagioli».

(Riflessione di p. Silvio alla veglia missionaria nel 1997, Archivio Cedoc SFR).

 

Essere una parola viva: «brace ostinatamente tesa al fuoco»

«Mi rimaneva poco della forza del mio corpo, ma avrei voluto ugualmente donare il massimo. Essere una parola viva di Dio per gli altri, in particolare per i poveri che avevo incontrato».

Sei tu parola
la mia nuda guerra,
notturna disciplina,
è tuo
lo scatto che sa
la sobrietà
della strada più lunga,
sei tu la risposta
alla pressione del cielo,
al batticuore del silenzio,
il rifugio esposto sei tu,
nell’esilio dell’anima
che non verdeggia,
non fa foresta,
tu sonaglio
in paesaggio di sola neve.
Che tu veda la mia fame
già mi sfama,
ti consegno la mia balbuzie
perché tu la dica
polvere d’ossa e semina.
Tu secchio e deriva,
tu impastata di silenzio
come acqua e frana,
parola che modella l’anima,
la istruisce
a irriducibile tenerezza,
tu brace ostinatamente tesa
al fuoco, fa’ di me memoria.
Di quale amore ho sete?
Ti amo
anche quando non so di amarti.
Parola di silenzio.
Veglia sulla mia mutezza
come il sole sull’uva
perché diventi vino
e voce.
(Chandra Candiani)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

DIARIO IN PUBBLICO
Il ‘Paglio’ e le corse

 

Certamente! Ho visto una parte del ‘Paglio’ (dizione ferrarese) e sono rimasto affascinato dalla corsa delle asine – salvando il genere fluido, in quanto non ho capito se fossero solo femmine o anche maschietti – e sicuramente non otterrò perdono dai fans della manifestazione per il mio totale dissenso all’uso che degli animali viene fatto.

Guardo con curiosità il servizio proposto da Telestense e dal bravo commentatore Nicola Franceschini. Nella corsa delle asine il primo personaggio che si nota è il lunghissimo fantino Tremendo – così si fa chiamare – le cui gambe, a guisa di fenicottero, penzolavano a lato della bestiola che affannata correva, correva, inseguita da altri assatanati in groppa a dolcissimi animali spronati da robuste pacche sul sedere.

Potrei accettare il Palio se fosse danza, corsa, sventolio di drappi e non puntasse principalmente su corse di quel genere. Certo la vista dei nobili cavalli trattenuti e giranti su sé stessi per oltre un’ora di false partenze poteva procurare ansia, ma poi prevaleva la fierezza e la nobiltà dell’animale.

Quindi ricordandomi con un brivido di rifiuto le volte che assieme all’amico Andrea Emiliani [Qui] fummo giudici di un Palio a Siena e ad Assisi, o anche di quello ferrarese ripropongo, sicuramente attirandomi la furia dei contradaioli, che va bene il ‘Paglio’, ma senza queste corse degli animali.

Li si facciano sfilare nella loro bellezza e si applauda a cortei, corse di putti e putte, si introducano canti e danze, ma attenzione a non sfruttare le doti indotte di questi animali.

Questa manifestazione, il Palio, come altre italiane, risale a origini relativamente recenti, che ripropongono il revival dell’antico in gran voga all’inizio del secolo scorso.

Sicuramente il Palio s’innesta nella grande categoria culturale dei ‘falsi’ d’epoca, che vanno dal rinnovamento delle città in stile neorinascimentale o neogotico, nel costume, perfino nel cibo che trova nelle bibbie culinarie del Rinascimento la perfezione.

Allora si sfili solennemente addobbati con improbabili e sontuosi mantelli d’epoca, si danzi, si ricrei un mondo e un tempo, ma gli animali non siano costretti a correre in quel modo. Bum! Così mi mangerò il credito dei miei 25 lettori.

D’altronde il tempo passa e la Ferrara del Palio si adorna di nuove luci e nuovi colori. Mi si racconta – ancora non l’ho vista – della nuova illuminazione del Castello, ottenuta attraverso l’uso di una sofisticata tecnica.

Ovviamente la Ferrara dei social si spacca in pro e in contro e autorevolissime voci si alzano per indignarsi o lodare. Ecco allora che nel film della vita salgono alla memoria ovviamente proustiana, naturalmente involontaria, i momenti scanditi dall’illuminazione del Castello, dal tempo in cui si era appena conclusa la Seconda guerra mondiale e dal buio ad incerte luci si intravvedevano le torri e il rosso del cotto.

Poi i violenti bagliori degli incendi, da me sempre deprecati nella stagione ‘napoletana’ dei botti e dei filamenti di lucei nel livido cielo padano, infine ora, le tecniche gelide del cambio di luce, mentre la costruzione rimane lì, indifferente e bellissima ai trucchi e alle mode.

Non mi si creda un laudator temporis acti e mi scuso di tradurre ‘un lodatore del tempo passato’, ma l’ossessione dei luoghi diventa per deformazione personale quella del tempo. Altre volte rievocando una mia mitologia personale ricordavo quanto alcuni luoghi evocano, termine non più in uso, stati d’animo e anche azioni: perfino l’amore o l’ostilità.

Città o luoghi appena visti o contemplati si rifanno all’unica vera realtà: quella dell’immaginazione e dell’arte.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

TERZO TEMPO
Le finali non si giocano, si vincono

Di indizi per fare una prova ne abbiamo a sufficienza, ben più di tre: il Real Madrid, in quella coppa lì, ha qualcosa che gli altri club non hanno. Non sto parlando di denaro, né di potere o di trofei in bacheca: mi riferisco a quel rapporto speciale con le gare più importanti di Champions League.

Le tre rimonte consecutive al Santiago Bernabeu e la finale di sabato sera si aggiungono a una lista di giocate o vittorie entusiasmanti già piuttosto cospicua – su due piedi, a me vengono in mente Redondo nel 2000, Zidane nel 2002, Sergio Ramos nel 2014 e Bale nel 2018. Per non parlare, poi, dei provvidenziali e metafisici gol di Benzema nell’ultima fase a eliminazione diretta, nonché alle parate di Courtois contro il Liverpool.

Insomma, non è un caso se già da qualche anno si parla di “mistica del Real Madrid”. D’altronde, se diamo un’occhiata alla definizione della parola “mistica” suggerita dalla Treccani, è difficile non essere d’accordo.

“Un forte senso della totalità in cui il soggetto si realizza superando distinzioni, limitazioni e contrapposizioni; una forma di rapporto conoscitivo, non logico ma intuitivo; una presenza di momenti esemplari spesso accompagnati da fenomeni psicosomatici (estasi, raptus, ecc.) e uno stato finale sentito come liberazione da ogni limite empirico.”

Al fischio finale, l’espressione di gran parte dei giocatori del Real Madrid era un misto di allegria, stanchezza e soddisfazione per aver fatto il proprio lavoro, non di incredulità. Sì, perché quello è il loro lavoro: esaltarsi nei momenti decisivi e vincere. Basti pensare che sono passati più di quarant’anni dall’ultima volta che i blancos hanno perso una finale di Champions League; per non parlare poi dell’attuale record delle squadre spagnole: dal 2000 in avanti, in 17 finali europee, hanno sempre battuto il loro avversario.

Insomma, per quanto possa suonare un po’ retorico e posticcio, il concetto di club culture nel calcio può incidere eccome sull’attitudine e sulle sorti di una squadra. Il Real Madrid di Carlo Ancelotti lo ha dimostrato ancora una volta, e l’ha fatto con una continuità che ha dell’incredibile: dagli ottavi con il PSG alla finale con il Liverpool, rendendo ancor più leggendario il suo 14º successo in Champions League.

Parole a capo
Matteo Piergigli: Alcune poesie da “La densità del vuoto”

“La memoria si blocca. Ma è ancora lì tutta intera. Anche le cose più dimenticate si ripresentano, ma quando vogliono loro.”
(Elias Canetti)

L’odore d’un dopobarba
economico, sfiora la memoria.
Rivedo mio padre la mattina,
lo specchio, la schiuma, il rasoio.
L’immagine svanisce schiacciata
dal peso dei ricordi. Resta
solo un odore, di te.

*

Frugando tra i rifiuti nel giardino
riscopro brandelli di passato
avvolti in stracci intrisi d’olio.
Amori esausti, occhi prosciugati
da vite diventate inutili. Bocche
affamate da un gelo senza scampo.
Il compostaggio degli uomini
non finisce mai.

*

Una fotografia ingiallita.
Madre e figlio cullati
in un abbraccio. La donna
ninna serena l’incertezza.
Ora il figlio culla un ricordo
cementato dentro il cuore.
Solo l’amore non scade

*

Di randagi ulula la sera
cupo cielo di memorie
nel tempo che non torna
un monolocale di vita
– chiudo fuori il mondo
mi abbandono
in polvere finissima
d’una nuda metà

*

Osservo le crepe
dell’intonaco scrostato
e cerco il senso delle cose rotte
che il tempo ricompone

– la luce inonda la stanza
io e te coscia contro coscia
acqua che nell’acqua si confonde

Matteo Piergigli (1973) è nato a Chiaravalle (An). Nel 2015 pubblica Ritagli (Casa Editrice Kimerik), nel 2016 la raccolta Notos a cinque mani (Aletti Editore) e Ritagli 2 (Arduino Sacco Editore).
Nel 2016 e 2017 partecipa a due ritiri poetici della  Samuele Editore e Laboratori Poesia. Sempre nel 2017 viene inserito nell’antologia Laboratori di poesia – testi 2017 con altri otto autori (Samuele Editore). Nel 2019 pubblica La densità del vuoto (Samuele Editore).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VITE DI CARTA /
Piaghe e lustrini

dell'amore e di altri demoniDall’ultimo libro che ho letto insieme al gruppo poggese che fa capo alla Biblioteca Comunale, Dell’amore e di altri demoni di Gabriel Garcia Marquez [Qui], mi è rimasta impressa un’immagine. Sullo sfondo della storia narrata c’è il Settecento in Colombia ai tempi della Inquisizione spagnola, nonché dello schiavismo e di altre piaghe sociali come povertà, ignoranza e superstizione.

L’immagine che ho trattenuto è quella della protagonista, la bellissima Sierva Maria de Todos los Angeles, che viene ritenuta malata di rabbia in seguito al morso di un cane e poi vittima del demonio. Sul suo corpo, accanto alle collane luccicanti donatele nell’infanzia dagli schiavi negri a cui l’hanno lasciata i genitori, si aggiungono le piaghe inflitte dalle monache, alle quali il padre la affida nella adolescenza. Soprattutto la badessa la ritiene una creatura di Satana e non le risparmia alcun tipo di vessazione. Sul suo corpo martoriato dagli esorcismi continuano intanto a far bella mostra le inseparabili collane, fino all’ultimo istante di vita.

La coppia di parole che mi è rimasta in testa, “piaghe e lustrini”, riprende d’altra parte lo stesso ossimoro, celeberrimo, che Manzoni [Qui] usa quando definisce il Seicento in Italia come un secolo “superbo e cencioso” e lo mette come sfondo vivo del suo romanzo storico.

i promessi sposiCe ne dà prova nei capitoli iniziali dei Promessi sposi, nel momento in cui ci introduce insieme a Renzo in cerca di giustizia nello studio del dottor Azzeccagarbugli. Lo spazio è quello di uno “stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi”. L’avvocato, da parte sua, quando accoglie Renzo è “coperto d’una toga ormai consunta”, che usa come veste da camera, avvolto dal disfacimento di mobili e oggetti.

La prima descrizione d’interno del romanzo, con i segni di un illustre passato e le prove di una inesorabile decadenza, offre un quadro simbolico del secolo XVII nel Milanese, al tempo del Governatorato degli Spagnoli. Il quadro rimanda poi al tempo in cui Manzoni scrive, la prima metà del secolo XIX, quando il Regno Lombardo Veneto era sotto il dominio degli Austriaci, e fermiamoci qui, altrimenti rischiamo di allargare il pessimismo del nostro autore a tutta quanta la Storia.

Esco dalla letteratura per entrare nella vita quotidiana con altri ossimori che di questi tempi mi hanno colpita. Un incontro di mercoledì al mercato del mio paese.

Non ci siamo viste durante i mesi dell’inverno e ora i nostri discorsi cadono come pietre su disturbi e malattie. La mia interlocutrice non è nemmeno delle più impegnative, nel senso che si profonde in descrizioni meticolose e non trascura di impreziosire la sua esposizione con qualche termine medico. Tuttavia. Contrariamente a quanto mi succede in casi come questo, mi lascia parlare un po’. Dico a mia volta i disturbi che mi affliggono e sono riassuntiva il più possibile (“tienila corta” è l’imperativo categorico che mi ripeto ogni volta). Non solo: non punta nemmeno al rialzo, cercando di dimostrare che i suoi malanni sono peggiori dei miei. Un sacco di gente ci tiene a risultare vincitrice nella gravità delle malattie, deve essere la aspirazione a vincere comunque in qualcosa.

Ma riprendo a ricostruire l’incontro, manca la parte finale. Arrivata a nominare il cortisone che ha dovuto assumere per non ricordo più quanti giorni, la mia interlocutrice scosta le collane che porta al collo e allarga la scollatura del suo abito leggero, così che io possa vedere sotto i lustrini la pelle maculata da foruncoli di varie gradazioni di un robusto rosso violaceo. Le piaghe, appunto.

Speriamo di rivederci presto, e con questo auspicio che è puro suono, ci lasciamo.

Una telefonata alla parente lontana. È una delle tante intercorse tra noi nelle ultime settimane. Da queste conversazioni lei fa uscire il rapporto affettuoso e insieme tormentato col marito, compagno di vita da mezzo secolo che ora è preda di una fissazione tragicomica.

È malato solo lui, si sente perseguitato dalla sorte malevola e interrompe solo per una sera il quotidiano piagnisteo, quando la sua squadra del cuore porta finalmente a casa lo scudetto. Una vistosa bandiera rossonera sventola allora sul balcone di casa.

Poi la vela si abbassa e torna la bonaccia del lunedì. Conosco tutti i dettagli, perché lo sfogo che mi investe al telefono è di quelli seri, di quelli che intrattengono l’ascoltatore “lunghettamente anzi che no” (è sempre il Manzoni a prestarmi le parole: lo dice di Renzo che alla fine delle sue peripezie amava raccontare “la sua storia molto per minuto… (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più di una volta)”.

Nello spazio di ogni giorno ci muoviamo tutti noi, marchiati dal medesimo stigma. Ognuno con la propria particolarissima reazione al contrasto insanabile che si porta addosso. Possono essere più o meno vistosi i lustrini, più o meno gravi le piaghe. Vengono dalla salute incerta, da dolori sentimentali, dalla incertezza del vivere e basta.

Rientro nella letteratura per raggiungere l’ossimoro estremo, quello di un uomo che porta nel proprio nome il dualismo tra l’essere vivo e l’essere morto. Racconta la sua storia il capolavoro di Pirandello [Qui], Il fu Mattia Pascal.

il fu mattia pascalStoria nota, in cui il protagonista per un caso fortuito ha potuto rinunciare alla sua vita matrimoniale tribolata per darsi un nome e una identità nuovi. Impossibilitato a condurre anche questa seconda vita lontano dalle convenzioni sociali, si ritrova a far visita alla propria tomba, dove giacciono i resti di uno sconosciuto col nome Mattia Pascal. E lui? Giunto alla sua terza identità, deve mettere il fu davanti al nome che portava al tempo della prima.

Perché rifarsi a un caso letterario dopo avere attinto dalle vicende reali di ogni giorno? Perché una storia simile a quella nata dalla fantasia di Pirandello si è verificata qualche anno dopo l’uscita del romanzo; fa fede l’articolo uscito sul Corriere della Sera del 27 marzo 1920, dal titolo L’omaggio di un vivo alla propria tomba, che racconta come Ambrogio Casati fosse stato dato per morto, mentre in realtà si trovava in carcere e come avesse appreso solo dopo la scarcerazione che la moglie era passata a nuove nozze. La somiglianza più straordinaria col romanzo è nel finale: come Mattia Pascal anche il Casati, portando dei fiori e un lumino votivo, ha fatto visita alla propria tomba.

Nota bibliografica:

  • Gabriel Garcia Marquez, Dell’amore e di altri demoni, Arnoldo Mondadori, 1994
  • Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Principato, 1988 (prima edizione nel 1840 presso gli editori Guglielmini e Radaelli)

Nota editoriale:

  • Il fu Mattia Pascal esce in prima pubblicazione nel 1904; nella edizione del 1921 presso Bemporad è corredato dalla Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in cui l’autore riporta l’articolo dal Corriere della Sera a cui ho fatto riferimento nel mio articolo

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Sabbia nelle scarpe
…un racconto

Sabbia nelle scarpe
Un racconto di Carlo Tassi

Nel mio cammino quotidiano, imprigionato nel suo tracciato, mi distraggo e libero il pensiero.
Mi fermo e riparto di nuovo. Sono in ritardo ma non m’importa.
Prendo tempo, mi nascondo e guardo fuori: il mondo corre all’indietro mentre resto immobile e osservo.
Illusione, distrazione, evasione. Giocare a mosca cieca, poi capire dove andare.

Martina dove sei? Ti ho lasciata in giardino che giocavi al malato e l’infermiera. Genitori distratti e la voglia di vedere ciò che ancora non riuscivi a capire.
Adele dove sei? Sei passata come un treno. Solo uno sguardo è bastato per cuocermi a puntino. Un’estate a fuoco lento, a ribollire nel vederti ballare.
Roberta dove sei? Il mio premio: baciarti una sola volta alla festa del tuo compleanno e soltanto questo. Eppure quanto tempo i miei pensieri ti hanno scrutata.
Bella dove sei? Piccola regina di cuori. Viso di perla e chioma corvina. Sfuggente e misteriosa sempre, tranne una vigilia di ferragosto regalata per scommessa.
Claudia dove sei? Cinque anni tra inferno e paradiso. Sublime coi tuoi vent’anni la prima volta a far l’amore. Selvaggia, romantica, lunatica. Dannatamente esperta… forse troppo.

Voci, colori, odori, sapori. Idee, impressioni, le passate stagioni…

Come sabbia nelle scarpe.
Restano briciole, rimasugli di vita sbiadita.
Brillano dentro gli occhi e pungono i miei passi. Vivono ancora, nonostante tutto.
Schegge di felicità, amori acerbi, istanti perfetti, restituiti a pezzetti al mio girovagare.
Sabbia nelle scarpe, soltanto sabbia e niente più.

Sand In My Shoes (Dido, 2003)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

“L’educazione di Giulia”
Il primo romanzo di Vittorio Sandri

Vittorio Sandri è un ferrarese doc.. Come tanti ha trovato lavoro, casa e affetti all’estero. E come tanti (meglio dire Tutti) ha conservato per Ferrara un amore inestirpabile. E proprio nella città estense, Vittorio Sandri, collaboratore di questo giornale, presenta in pubblico la sua opera prima. Al Libraccio, lunedì 30 aprile, ore 18.00.

“L’educazione di Giulia” è un romanzo che scorre agevole alla lettura, ma che contiene due piste narrative sfalsate nel tempo.
Per seguire questi due sentieri (il presente di un uomo arrivato e il suo passato di ragazzo sulla linea d’ombra della maturità) l’autore si serve abilmente di alcune interessanti scelte lessicali, stilistiche e compositive. Il meccanismo funziona alla perfezione. Ai capitoli centrati sul professionista affermato (dirigente di banca, una bella casa, una bella moglie, due bei bambini) scritti in terza persona (in corsivo nel libro) e in cui il protagonista ci è presentato semplicemente come l’uomo, si alternano i capitoli del ricordo di trent’anni prima: e qui la narrazione è in presa diretta e in prima persona. Chi legge si trova così coinvolto in un tempo capovolto: Il passato del ragazzo diventa molto più presente, vivo, reale, contemporaneo del presente ufficiale e dichiarato dell’uomo maturo.
Su cosa riflette l’uomo arrivato, che nodo deve sciogliere del suo passato, che buco deve riempire? L’incontro “fatale” con Giulia, una storia iniziata e interrotta senza una ragionevole ragione, un quasi-amore che si è perso per strada e non ha avuto un compimento.
il romanzo lascia al lettore decidere se quel salto temporale si potrà chiudere, se i fili di quella antica storia potranno ricongiungersi. Non sappiamo cosa possa accadere nell’incontro dell’ex ragazzo Marco (ora uomo) con l’ex ragazza Giulia (ora donna). Vittorio Sandri non ce lo dice. Non gli interessa raccontarci una più o meno lieta fine. Scriva il lettore il finale, se ne sente il bisogno.
A noi, andando avanti nella lettura, è parso che “L’educazione di Giulia” non sia solo, o principalmente, la storia di un amore mancato e poi caparbiamente ricercato nel buco della memoria. Al centro del romanzo c’è qualcosa di più grande, una riflessione sul tempo che corre senza curarsi troppo di noi, sulla vita di ognuno (del protagonista, dell’autore, dei lettori) che “è andata in un certo modo ma poteva andare in tutt’altro modo”.
Perché ci è concesso vivere una e una sola vita, prendere una strada a non un’altra. E spesso, mentre viviamo, non ci accorgiamo di fare quella piccola o grande scelta che condizionerà il nostro futuro. Il nostro, però, non è un destino da perdenti. Al caso che sembra governare il mondo, Al tempo che fugge e non è disposto ad aspettarci, possiamo sempre opporre la memoria. Tenere in noi tutte le nostre vite, quella reale e le altre cento che potevamo vivere.

Vittorio Sandri, L’educazione di Giulia, Ferrara, Faust Edizioni, 2022

PER CERTI VERSI
C’era una volta l’autostop

C’ERA UNA VOLTA L’AUTOSTOP

C’era una volta
L’autostop
Perdevo la corriera
Oddio la scuola
Autostop
Non sapevamo
Come andare
Al mare
Che fare quindi
Autostop
Una volta
Persino
Autostrada
Autostop
Si parlava
Veniva fuori la vita
Di chi guidava
Di tutti
Autostop
Era tardi
Giù dai monti
Senza treni
Né bus
Ma era normale
Allora autostop
Era molto importante
Avere una amica
Diventava più facile
Coi camionisti
Autostop

Fino a quando
Si tolse l’auto
Rimase lo stop

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Nati con la camicia

Una storia, quella dei due giovani, Emiliano e Francesco, che attinge alle radici di quel lontano 31 dicembre 1950, il giorno della loro nascita.
Lo scrittore trentino Roberto Corradini ne scrive le vicende nel suo recente romanzo “Nati con la camicia”, collocandole e rendendole vive in molti avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni ’50, ’60,’70 e via via, fino ad arrivare alla nostra epoca.
Ci si ritrova a leggere pagine piene di un’Italia che cambia, una società che sperimenta, gioisce e soffre di trasformazioni che la segneranno profondamente e anche i nomi non sono scelti a caso: dalla casa di ringhiera in Via della Pace, dove i protagonisti nascono e muovono i primi passi, che ricorda una guerra devastante appena lasciata alle spalle, si passa a Via del Progresso, il nuovo condominio in cui traslocheranno nell’adolescenza.
I due ragazzi crescono e percorrono insieme un tratto di vita, accompagnati dalle loro famiglie, gli amici, i personaggi caratteristici che compaiono e scompaiono entrando ed uscendo dalle pagine del romanzo, scandendo il tempo che passa e con esso lo scorrere della storia del nostro Paese.
I ricordi affiorano e portano alla luce stili di vita, abitudini, consuetudini ed eventi che hanno lasciato il segno: semplici esperienze di vita familiare e sociale che descrivono i rapporti interpersonali, le feste, i luoghi di aggregazione, i divertimenti, la scuola, la ricostruzione, l’economia che decollava dopo gli eventi bellici.
Ma anche i grandi avvenimenti che hanno segnato un’epoca nuova: i primi viaggi nello spazio, le trasmissioni popolari in televisione, i miti del cinema e della musica come Marylin Monroe ed Elvis Presley prima, Brigitte Bardot e i gruppi rock poi, l’elezione di papa Giovanni XXIII e la riforma della liturgia nel mondo cattolico, la legge Merlin del 1958 che chiudeva definitivamente le case di tolleranza.

Un romanzo che non sconosce rallentamenti o pause, che snocciola rapidamente eventi incisivi destinati a modificare la realtà italiana. Arriva il boom economico, gli elettrodomestici agevolano la vita e diventano lo status di un’Italia che corre, il ciclismo con Bartali e Coppi, il calcio e gli stadi pieni, la Fiat 1100, le vacanze di massa, i cambiamenti culturali, il benessere diffuso e il PIL che cresce, anche se, come sottolinea Francesco, “il PIL misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Non manca nemmeno la narrazione degli avvicendamenti politici, le sfide dei grandi partiti, l’instabilità, l’eversione, le relazioni internazionali e la guerra del Vietnam. I due amici fraterni si dividono e imboccano strade diverse: è la vita. Ci sono i viaggi nel mondo, l’Africa, le professioni da seguire, le famiglie da far crescere, ma ci si lascia e poi ci si ritrova, è il destino dei grandi legami.

Le storie di Emiliano e Francesco diventano lo scenario più ampio che ci permette di camminare attraverso il tempo senza sterili e piagnucolose nostalgie da ‘a m’arcord’ ma con un sorriso di tenerezza, perché noi lettori possiamo permetterci la libertà di amare quel passato da spettatori ormai lontani.

L’ape furibonda
in ricordo di Alda Merini

 

In ricordo di una grande poetessa, Alda Merini. E del suo amore per la Natura e il mondo.

Sono una piccola ape furibonda. Mi piace cambiare di colore. Mi piace di cambiare di misura.

Perché amo gli animali?

Perché amo gli animali?

Perché io sono uno di loro.

Perché io sono la cifra indecifrabile dell’erba,

il panico del cervo che scappa,

sono il tuo oceano grande

e sono il più piccolo degli insetti.

E conosco tutte le tue creature:

sono perfette

in questo amore che corre sulla terra

per arrivare a te.

Mare e Terra

Mare

che io domino col pensiero

mi hai nascosto mille bugie

e tante verità

un giorno d’aprile

è esplosa un’onda

che avrei voluto baciare

come un animale

fugge davanti al fuoco

io sono fuggito da te.

Ho lasciato il mare per la terra

e la terra per il mare,

ho lasciato il mare per la terra

e la terra per il mare

e ho sbagliato tutto

perché non esistono

né ombre né luci

ma solo il nostro breve pensiero

ma solo il nostro bisogno d’amore.

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera

ma non sapevo che nascere folle,

aprire le zolle

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe,

sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera.

Album: Una piccola ape furibonda – Giovanni Nuti canta Alda Merini

Sito ufficiale

Foto in evidenza: Marco Trovò

DIARIO IN PUBBLICO
Volgarità, nel tuo nome tutto è possibile

 

Un famoso cantante, sempre con cappello calzato, gorgheggia ormai in ogni spazio televisivo la sua canzone che invoca la felicità. Nella mia proustiana memoria involontaria si fissa un ritornello disperato, che il sonno scandisce e restituisce al mattino sulla musica della canzone: “Volgarità, volgarità per favore stammi lontano…”.

Poi, mentre la giornata passa laboriosamente, tra la preparazione all’intervento che ho tenuto in apertura al grande convegno canoviano a Bassano nel bicentenario della morte dello scultore, e la faticosa prosecuzione di un saggio su Marcel Proust [Qui], le incursioni sulle opere di scrittori/ci contemporanei, apro la tv e nuoto fin quasi allo sfinimento nel mare assurdo della volgarità tra vestiti incredibili, personaggi assurdi e, ancor più grave, tra petulanti ‘osservatori’, sempre quelli, che dopo i consigli pandemici, ci affogano di terrificanti note sulla guerra e sulle ‘ragioni’ della guerra.

Inquietante lo sguardo vuoto di un ‘professore’ dai capelli rossastri, che annuncia la necessità di sottostare alle pretese russe. Tra semi-nascosti – o esibiti – scarabocchi incisi sulla pelle i cosiddetti ‘esperti’ pontificano, mentre un simpatico conduttore esibisce una camicia viola in spregio alle antiche superstizioni su quel colore.

Gorgheggia, avvolta nei suoi pezzi unici, una bella – un tempo – conduttrice [Qui] di un programma nel segno e nel nome di un famoso film felliniano. Nello stesso canale un’altra conduttrice dalla voce roca si sbraccia a contenere l’infinito eloquio di commentatori sulla via del declino soprattutto mentale, mentre altri, indispettiti dell’attesa, abbandonano la postazione con un singolare coup de theatre.

Allora chiedo rifugio ad un programma semi-didattico [Qui] che porta nell’immaginario al trionfo sanguinario della ghigliottina. Invano! La mia deplorevole insipienza sportiva rende inutile ogni tentativo di conquistare anche se virtualmente l’agognato premio.

Rimane la risorsa ormai quasi esaurita dei film, ma nella rivisitazione si scoprono momenti dimenticati, oppure che si pongono in modo diverso nel percorso della vita.

Tra il caldo che avanza e la banalità delle proposte culturali ferraresi, unico rifugio ovviamente la libreria dove, avvolto nel manto regale dei libri, spando da gran signore il danè per rimpolpare i filoni dell’acqua sapienziale, che rifluiranno nel corso segreto del fiume della memoria.

Ma la curiosità non si spegne e allora sorrido alle volgarità in ‘Ferara’, sottolineate da un bravo giornalista dallo spirito molto indipendente e mi rifiuto di commentare quei cortei falso-rinascimentali che invadono le vie della città. Essere un vecchio petulante a volte ha i suoi vantaggi.

Fra poco mi toccherà l’ultimo atto. Il recupero dei volumi dove ho studiato nel tempo universitario e le collane, un tempo considerate imbarazzanti dalla mia isterica volontà di perfezione, della grigia BUR, che ora appare invece strumento importante di conoscenza.

E ancora qui, pensando al destino della mia faticosamente conquistata cultura, perché non accendere un bel fuoco sull’aia e bruciare note, quaderni, libri di quel tempo? Ma non sarebbe un atto di stampo nazistico e la vetta della volgarità?

Per ora c’è ancora un breve tempo per pensarci.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

GLI SPARI SOPRA
Berlinguer è mio

Secondo il National Geographic il luogo ove si crea il vento è sito precisamente davanti al mio box ufficio, precisamente nel lembo nord dell’accantieramento tra il furgone della mensa e il container Morteo del refettorio. In estate il mio loculo ha la porta spalancata sul piazzale, la finestrella dietro la mia testa aperta e il clima acceso oltre la porta del mio collega, lo so che Draghi mi annovera tra i motivi della guerra in Ucraina, ma la nostra è un ricerca continua del benessere termico. Chiaro, nulla ho da lamentarmi rispetto ai colleghi che si ustionano tra le lamiere ed i grigliati d’impianto. Ma l’origine del vento è tre metri oltre la mia scrivania. Piccoli e simpatici twister arrovellano polvere e sabbia e me la sbattono in faccia ad ogni piè sospinto, iconici piumini dei pioppi svolazzano come farfalle cavolaie verso di me, la tastiera è insabbiata come un giocatore di beach volley, il cicchettìo dei piedi sembra una pasta allo scoglio con le vongole non lavate. Sulla plastica opaca della scrivania, assieme a carte sedimentate, penne rotte, calendario da tavolo arrotolato a causa degli sbalzi termici, un filtro polivalente per semi maschera scaduto, due bottigliette d’acqua aperte, un marsupio da nerds, il telefono cinese in carica, un paio di occhiali antinfortunistici scuri graffiati, il mouse traccia linee sulla sabbia come quando da piccoli si faceva la pista per le biglie coi ciclisti dentro.

Mi va la polvere in un occhio, ma è il phon che soffia a sei spanne da me, sull’asfalto rovente; svolazzano i fogli appesi con nastro da pacchi ai pannelli sandwich del bunker.

Attenzione prova poli acustici! Gracchiano gli altoparlanti del sistema Matra, utili solo quando le emergenze sono simulate. Oltre le mura della fabbrica, una vibrofinitrice suona il clacson ritmicamente ogni trenta secondi per far muovere il camion che contiene l’asfalto triturato, mentre un gradevole aroma di catrame salvifica l’aria.

Tra un piano per uno spazio confinato e un altro, un consiglio per occhiali bifocali antinfortunistici e un preventivo per guanti in gomma, penso a Berlinguer. Fra qualche giorno saranno cento anni dalla nascita e trentotto dalla sua morte, su quel maledetto palco, sforzandosi di terminare un discorso, premonitore, moderno, … andate casa per casa. A fare che? A parlare con le persone, con il nostro popolo, con il nostro mondo. Quello stesso mondo che oramai è estinto, evaporato, che non ha lasciato né eredità e tantomeno eredi. La deriva delle tue idee Enrico non ha lasciato nessun limo, dopo la tua scomparsa, repentina, ingiusta, che ci ha colto impreparati, non è nato nulla, ma è morto tutto.

Si riempiono la bocca di te, tutti, ti citano, raccontano della tua modernità, altri addirittura pensano che il tuo riformismo (positivo) sia stato troppo titubante. Ma cosa vogliono da noi? Perché non smettono di ciarlare, interpretare, togliere e aggiungere al tuo pensiero? Che ne sanno di te, che ne sanno di noi? Dice si, ci sono pure quelli che ti hanno conosciuto, che ti hanno amato e ora sono lontani da te anni luce, ora sarebbero tuoi avversari politici, ma si nascondono dietro allo scorrere del tempo. Dicono orgogliosi che non ci sono più le ideologie, che il mondo non è più diviso in blocchi, che non esistono sistemi antitetici e alternativi, esiste solo la democrazia e la dittatura.

Appunto.

Il mondo ora ha un solo padrone e tanti nemici, il capitalismo è percolato ovunque, in Russia, in Cina, dappertutto. L’imperialismo crea guerre, invade, stermina, bombarda, distrugge, nessuna traccia della tua terza via. Come possono parlare di te senza rendersi conto che ora, loro, sono contro di te.

Tutti.

I partiti sono agglomerati di potere fine a se stesso, lo dicesti tu e questo sono, la corruzione, la politica come mestiere da professionisti dell’accordo sotto banco, pure questo si è avverato nelle tue visioni di quaranta anni fa. Con che faccia continuamente ti portano ad esempio, loro che si vergognano di ciò che erano, loro che non sono coerenti con i propri ideali di gioventù.

La polvere soffia dentro al grigiume del box, una foglia di pioppo fuori zona mi sfarfalla sfacciata in ufficio. Ma la mia mente è lontana da qui, pensa a piazzale San Giovanni e a quei milioni di persone in lacrime e col pugno chiuso. Quanti di loro saranno ancora al mondo? Quanti non si vergogneranno di ciò che erano? Quanti saranno ottusamente ancora come allora?

Credo pochi. La volontà dei padroni di estinguere la sinistra, la loro rappresentanza, è oramai compiuta da anni, ma fra pochi giorni tutti ti celebreranno. Nessuna differenza di celebrazione fra ex compagni, ex fascisti, ex democristiani, ex socialisti, ex di ex. Secoli indietro rispetto al tuo pensiero, ma convinti di essere i tuoi eredi, addirittura ti annoverano quale fondatore morale di partiti e movimenti che tu riterresti a giusta ragione antitetici al tuo pensiero.

Quanto sono noioso.

“Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. Lo siamo con originalità e peculiarità, distinguendoci da tutti gli altri partiti comunisti: ma comunisti siamo, comunisti restiamo. Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo.” Queste parole non saranno lo slogan delle celebrazioni, queste non saranno citate dai democristiani-liberisti che rappresentano l’italico stivale, al limite, se qualche vetero (come me) le riporterà alla luce, un coro uniforme e monosillabico ricorderà che Berlinguer è morto nel 1984, il mondo è cambiato, il mondo è andato avanti.

No cari miei, il mondo è tornato indietro, fatevene una ragione e smettetela di celebrare la vostra antitesi.

Berlinguer è mio. E di pochi altri.

 

Vite di carta /
L’irresistibile fascino del bancario
(specie se scrive romanzi)

 

Che sia questo il motivo del mio gradimento? Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini mi sta piacendo, sono a circa cinquanta pagine dalla fine e mi ritrovo piena di curiosità; trovo con piacere il momento per dedicarmi alla lettura e intanto ripasso velocemente il dove ero rimasta.

Possibile? Il protagonista è un bancario, il dottor Marco Malucelli. Ha circa quarant’anni, è sposato con Francesca e insieme hanno un bambino, Matteo, di quattro anni. Non c’è nulla che mi riguardi e mi accomuni a lui, non la professione, né tanto meno l’età e la composizione della famiglia. In più, la sua è una lingua con una forte coloritura di genere, è un uomo che si esprime e utilizza i gerghi che gli sono propri, senza rinunciare a un pizzico di turpiloquio, se si può ancora chiamare così.
Mi rifugio nelle parti in cui Marco racconta come passa le giornate in ufficio e a quel punto fa ricorso al linguaggio bancario. E’ bravo: sento che potrei capirci qualcosa se le rileggessi un certo numero di volte.

Leggo con attenzione i resoconti delle trasmissioni radiofoniche che un paio di sere alla settimana tiene insieme all’amico Augusto e qui mi sento coinvolta, vagamente complice: le pagine sono dedicate a una passione, finalmente! Oltre, però, non vado perché non conosco il pop anglosassone, genere che i due amano alla follia e non so riconoscere un disco che uno. Un gruppo sì, solo gli Abba.

Eppure affronto le ultime cinquanta pagine con interesse. Nel punto in cui mi trovo la vita quotidiana di Marco e famiglia ha registrato un vistoso miglioramento: dopo un paio di errori commessi sul lavoro e dopo le conseguenze nefaste che questi hanno comportato sul bilancio famigliare e sulla sua autostima, Marco ha tentato di dare una svolta al destino. Come? Meglio non svelarlo, oppure meglio dire solo qualcosa, altrimenti non si comprendono alcuni dei motivi per cui il libro mi è piaciuto fino in fondo. Diciamo che insieme a Francesca ha messo in atto ‘un po’ di ricatto’ che ha fruttato un mucchio di soldi, ora fermi in una banca accuratamente scelta per non destare sospetti.

Questo romanzo ha un ottimo ritmo narrativo, un ritmo brioso, adatto ai trenta-quarant’anni (ecco uno dei motivi per cui mi diverte leggerlo): ergo non possiamo essere arrivati al traguardo della storia. Può succedere molto altro nelle cinquanta pagine che restano e infatti succede. Succede che la polizia indaga sulla truffa compiuta da un amico d’infanzia di Marco ai danni di numerose Assicurazioni e gli fa domande in proposito. La sua banca ha il truffatore tra i propri clienti. E’ una vertigine per Marco essere interrogato, si sente braccato, messo allo scoperto: è la truffa in cui ha messo il naso anche lui per ricavarne il suo gruzzolo!

Succede anche che, dopo essersi ripreso a fatica da questo episodio angoscioso, accetta di condurre una seconda trasmissione radiofonica assieme al fedele Augusto, trovando momenti di evasione che lo ritemprano. Dai due viene inserito in scaletta un quiz letterario che invita gli ascoltatori a riconoscere il titolo di un libro e il suo autore ascoltando l’incipit. In questo caso ne capisco qualcosa di più e allora trovo che i libri proposti sera dopo sera sono di grande qualità e rivelano la “genuina passione per la letteratura” del personaggio Marco e del suo autore (ecco un altro motivo di gradimento).

Poi la situazione precipita. Quando Marco legge un incipit che non esiste in letteratura, un inizio di romanzo formulato da lui in cui allude alla truffa alle Assicurazioni, solo chi ne è l’artefice è in grado di chiamare in radio e di dare la risposta giusta. Ora questo ascoltatore è al telefono e sfida Marco, dice il luogo e il momento in cui devono incontrarsi. La posta è altissima, la tensione narrativa al massimo. Sono arrivata all’ultima pagina e mi sento guardinga: è quando uno dei due vince che si conclude la storia? Per fortuna sì e no. Se ci si riferisce alla avventura in cui Marco ha voluto infilarsi, improvvisandosi truffatore, tutto è andato in fumo. Ha voluto uscire dal proprio calibro, dal suo lavoro nella filiale della banca, ma alla fine è rimasto schiacciato da ingranaggi più grandi di lui. E’ un bravo ragazzo, Marco. Lo svela nelle pagine in cui cerca di manipolare e azzerare il senso di colpa per il ricatto, che lui chiama “provvigione”, ma nel profondo sa che ciò che ha fatto legittimo non è.

Non è finita, invece, se si leggono con attenzione le poche righe rimaste: non è un finale consolatorio e non è esplicito. Le parole di cui è fatto sono allusive e sfumano in sensazioni uditive e visive indefinite, come in una dissolvenza da film. Da lì potrebbe cominciare un secondo romanzo, un sequel perfettamente agganciabile alle ultime righe. È anche un finale inquietante, perché come dicevo non consola e non redime il protagonista. Per questo mi ha convinta. Questo romanzo ha il pregio di essere scritto da uno di noi, con la lingua che ci esprime  e con la parabola di vita che realisticamente ci tocca in sorte. E’ un motivo che pesa parecchio sul mio gradimento, potrei definirlo l’aspetto più contemporaneo della scrittura di Nicola Cavallini.

Infine c’è il vissuto. L’io narrante riproduce con molta esattezza l’atmosfera della sua infanzia  e dell’adolescenza. Come lui l’ho vissuta in una piccola comunità, la mia di paese, la sua di quartiere. Riporto le parole che parlano della pubertà e le sottoscrivo pienamente: “La mia pubertà è legata al mito delle giornate di sole trascorse, con gli amici, a giocare a ping pong. Giornate interminabili, dall’alba al tramonto, nella calura trasudante dai muri di pietra e dal cortile, nell’aria un odore di acne, dai balconi un profumo di panni stesi, le nostre opportunità ancora intatte, un immenso crocevia di strade ancora vergini, inesplorate”. In un’altra bella pagina che voglio riportare è ritratta la fase dopo i vent’anni, che Marco chiama “il periodo dei matrimoni degli amici” e poi li ricorda alla Muccino, alla maniera del film L’ultimo bacio di recente ritrasmesso in tv. E’ la fase in cui le scelte fatte per lavoro e famiglia ci dànno consistenza e ci imbrigliano.

Quando la storia ha inizio il nostro bancario lo troviamo lì, nel suo ufficio, qualche anno dopo il suo matrimonio con Francesca. Appare stressato per le cattive relazioni in filiale, è oppresso dalle difficoltà economiche e si sente in gabbia.

Il suo forte sono i rapporti con i clienti. Dice di sé in una delle pagine iniziali: “…essermi conquistato una credibilità sia come consulente che come assistente alle tesine mi riempie di orgoglio. Alcuni clienti…mi fanno l’occhiolino con aria complice, sperando che, prima o poi, passi loro una di quelle esclusive che so io”. Bella soddisfazione, espressa con una lieve nota di onnipotenza, ma la pagina non finisce così: con una virata linguistica, che attinge al cinismo del giovane Holden, la voce narrante lavora su di sé per sottrazione, mette a nudo il proprio errore, l’aver sbagliato il suo primo investimento in borsa. “Io penso di essere un idiota ma, sapete, in giro è pieno di gente troppo severa con se stessa”.

Nell’articolo faccio riferimento alle seguenti opere:
– Nicola Cavallini, Con la testa fra le mani, Giraldi Editore, 2006
– D.Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, 1961
– Muccino, L’ultimo bacio, film, Italia, 2001

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

La Finlandia dice addio alla neutralità che poteva fare scuola

 

Sembra cosa fatta, Svezia e Finlandia sono già dentro la Nato, effetto boomerang per la Russia. Non ci saranno avamposti occidentali ai confini della linea rossa meridionale ma altri 1.340 km di confine al Nord si armeranno.

Una possibilità di cui avevo già scritto e che porterebbe alla militarizzazione del Baltico in difesa dell’avamposto russo di Kaliningrad e che, in fondo, darebbe ragione alle paure di accerchiamento di Putin nonché alle convinzioni dei pacifisti più puri, ovvero che alla guerra e alle provocazioni sappiamo rispondere solo con più guerra e altrettante provocazioni.

A confermare l’attitudine alla belligeranza degli anglosassoni, è di questi giorni un trattato che impegna la Gran Bretagna ad intervenire, nel caso di attacchi preventivi della Russia, a difesa di Svezia e Finlandia nel periodo di vacanza necessario al disbrigo delle pratiche per l’accettazione della candidatura (tempi mai certi, potrebbero volerci anche anni). Un impegno più politico che militare, ma intanto si tiene alta la tensione e si definisce l’impossibilità di un dialogo o il mantenimento di una neutralità invocata spesso a modello e che sta miseramente volgendo alla sua fine.

I fatti atroci dell’Ucraina dovrebbero segnare una svolta nella storia dei rapporti con l’Oriente e mentre una parte dell’opinione pubblica europea avrebbe pure voglia di imparare qualcosa, un’altra parte, Stati Uniti e Gran Bretagna, soffia sul fuoco e lo ravviva facendo leva sui sentimenti di parte dell’Europa dell’Est. Del resto il peso di Usa e GB è preponderante, sono quelli che la Nato l’hanno effettivamente creata e la dirigono, coprendo i ruoli chiavi del comando militare.

In ogni caso, che la Finlandia e la Svezia entrino davvero a far parte dell’alleanza atlantica non è scontato come viene fatto sembrare dai titoli, e questo è dovuto al fatto che nonostante tutto esistono delle regole che la stessa organizzazione si è data. Una di queste, fondamentale, dice che può diventare membro della Nato “qualsiasi altro Stato europeo in condizione di soddisfare i principi di questo trattato e di contribuire alla sicurezza dell’area nord-atlantica”.

Ed è ovvio che l’ingresso in particolare della Finlandia non contribuirebbe alla sicurezza europea, anzi. A ben guardare ne complicherebbe l’esistenza sancendo un ulteriore allontanamento dalla Russia, un paese che è bene ricordare basa la sua economia su una grande ricchezza di materie prime e non semplicemente sul potere della moneta, concetti che dovremmo imparare ad affrontare, validi anche per altri paesi come la Cina. Materie prime di cui abbiamo bisogno e che potrebbero essere il tramite per un dialogo molto più aperto di quello a cui la contrapposizione militare ci costringe oggi.

Sempre dal sito della Nato si legge che la sicurezza nella nostra vita quotidiana è fondamentale per il nostro benessere. Scopo della Nato è garantire la libertà e la sicurezza dei Paesi membri attraverso mezzi politici e militari. POLITICA – La Nato promuove i valori democratici e consente ai membri di consultarsi e collaborare in materia di difesa e sicurezza per risolvere i problemi, creare fiducia e, nel lungo termine, prevenire i conflittiMILITARE – La Nato si impegna a risolvere pacificamente le controversie. In caso di fallimento degli sforzi diplomatici, ha il potere militare di intraprendere operazioni di gestione delle crisi. Tali operazioni devono essere condotte in base alla clausola di difesa collettiva presente nel trattato fondativo della Nato – Articolo 5 del Trattato di Washington o dietro mandato delle Nazioni Unite, da soli o in collaborazione con altre organizzazioni internazionali.

 Insomma alla base degli sforzi della Nato ci sarebbero i valori democratici, la volontà di prevenire i conflitti e di risolvere le controversie. Solo in ultimo difendersi se attaccati e dopo aver esperito tutti i tentativi rivolti a mantenere la pace. Esattamente ciò che non è stato fatto in Ucraina dove si sono tenuti accesi i fuochi del conflitto dal 2014 o, andando ancora più indietro, dai primi anni ’90 del passato secolo. Si sono portate basi militari e armamenti nei Paesi liberati dal giogo sovietico che si sono trasformati in rampe di lancio per i missili puntati verso Mosca. Si è alzata la posta ben sapendo a cosa questo avrebbe portato (sono note le dichiarazioni di Clinton e dello stesso Biden in merito) e si è scelto di tenere alta la tensione invece di provare a includere un paese costretto a risorgere in un processo di integrazione europeo, quanto meno in un avvicinamento strategico.

La caduta del muro doveva segnare la fine della Guerra Fredda e di conseguenza anche la fine dell’Alleanza Atlantica, arma di difesa contro l’Unione Sovietica. Invece la Nato si è reinventata un dopo e gli interventi nei Balcani ne hanno fatto una forza d’attacco contro tutti i nemici della democrazia (occidentale) fino al disastro dell’Afghanistan. Il dopo ha visto l’ingresso, in un’alleanza militare che doveva aver perso la sua ragione d’esistere, di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, e poi di Albania e Croazia, che hanno aderito ad aprile 2009. Il Montenegro è diventato membro dell’Alleanza nel giugno 2017. La Repubblica della Macedonia del Nord è entrata a far parte della Nato nel marzo 2020. Attualmente la Nato conta 30 paesi e la Bosnia ed Erzegovina partecipano al Piano d’azione per l’adesione (Map) che è un programma Nato di consulenza, assistenza e supporto pratico adattato alle esigenze individuali dei paesi che desiderano aderire all’Alleanza. Lo stesso programma che dovrebbero seguire i nuovi candidati dell’Europa del Nord.

Per l’ingresso dovranno comunque votare tutti i partecipanti, un esito non scontato sulla carta ma che, vista l’influenza di Stati Uniti e Gran Bretagna (che hanno già deciso), potrebbe invece esserlo. Ci sarà da vedere cosa ne pensa davvero la Francia, che è l’unico paese europeo ad avere qualche peso strategico, oppure se la Germania riuscirà a far valere la sua forza industriale e i suoi interessi commerciali che guardano ad Est. Ci sono poi gli interessi energetici dell’Ungheria che è sempre più contraria ad un embargo totale di gas e petrolio verso la Russia e le riluttanze della Turchia che accusa i paesi nordici di essere troppo teneri con i terroristi del Pkk.

Nella sezione del sito Nato “Allargamento e articolo 10” c’è scritto: Il processo di allargamento in corso della Nato non rappresenta una minaccia per nessun paese. È volto a promuovere la stabilità e la cooperazione, a costruire un’Europa intera e libera, unita nella pace, nella democrazia e nei valori comuni.

Il ghiaccio scotta, lucida follia, la guerra è pace. La fantasia di Orwell oppure la realtà dei giganti che ci governano?

LO STESSO GIORNO: scoppia la ribellione Rosariazo contro la dittatura militare.

23 maggio 1969: scoppia la ribellione Rosariazo contro la dittatura militare. 

Entro la fine degli anni ’40, l’industrializzazione guidata dalla sostituzione delle importazioni stava raggiungendo i suoi limiti. Le concessioni per la classe operaia e la sua forza istituzionalizzata limitavano il tasso di sfruttamento e ostacolavano i profitti. L’apparato statale necessario al clientelismo peronista, con il suo esercito di impiegati impiegati nei sindacati, negli ospedali, nelle scuole, ecc., costituiva un onere crescente per la realizzazione del plusvalore a livello nazionale. L’arcaico commercio agricolo dell’Argentina, i cui profitti costituivano ancora la principale fonte di finanziamento per lo Stato, e che erano sfidati dalla concorrenza dei paesi occidentali più avanzati, iniziò a imporre limiti sempre più pressanti al sistema peronista. Per cercare di sopravvivere, Pedron doveva cercare investimenti esteri e soprattutto doveva disciplinare la classe operaia. I compromessi che Pedron cercava non piacquero alla classe alto borghese del paese. Nel settembre 1955 un colpo di stato militare sostituì Peron, giocando populisticamente anche sulla delusione dell’opinione pubblica per gli accordi con la Standard Oil (accordi con gli USA per lo sfruttamento del petrolio fonti in Patagonia).
Lo scopo del nuovo governo militare era innanzitutto quello di ridefinire gli equilibri di potere tra datori di lavoro e lavoratori, poiché, secondo la federazione dei datori di lavoro dell’industria metallurgica, i luoghi di lavoro erano “come un esercito in cui le truppe danno gli ordini e non i generali”.

C’è stata una forte risposta dei lavoratori di base alle nuove misure economiche. Tra il 1955 e il 1959 circa quattro milioni di giornate lavorative furono perse ogni anno a causa degli scioperi. Nel 1959 i giorni persi per scioperi salirono a dieci milioni. I lavoratori non hanno esitato a considerare occupazioni, sabotaggi e uso di esplosivi. Nonostante la lotta nel ’60 furono introdotti il lavoro a cottimo, e imposte nuove accelerazioni.

La tensione sociale era altissima, ma il movimento ebbe un rallentamento. Anni di battaglie, anche violente, ma nessuna conquista ancora. In mezzo a quella crescente tensione sociale però, una lotta studentesca travolse il paese nel 1966. Un nuovo regime militare prese il potere lo stesso anno e distrusse il movimento, ma non riuscì a fermare il processo di politicizzazione nelle università che era iniziato con esso. La radicalizzazione degli studenti e il loro coinvolgimento nelle lotte operaie sarebbero stati infatti un elemento importante nelle successive vicende insurrezionali del 1969.
Come successe in molte zone del mondo, quelli furono anni di alleanza tra studenti e operai, tra idealisti e realisti. Diversamente da le altre lotte, in Argentina i moti rivoluzionari di quegli anni furono sia lotta di classe, ma anche lotta contro un regime militare politico.

Il nuovo governo militare, guidato dal generale Ongania, si presentò inizialmente come ideologicamente corporativo e il suo colpo di stato fu accolto favorevolmente dalla maggior parte dei sindacati. Gli studenti cercarono di mettere in guardia su ciò che sarebbe successo dopo, ma la loro voce fu repressa nella violenza.  Ma nel 1967 le politiche economiche del governo si spostano verso la liberalizzazione e la razionalizzazione, adottando politiche antinflazionistiche che portano al crollo delle imprese non competitive, riducendo le barriere all’ingresso di capitali stranieri, e tagliando i poteri e le risorse dei sindacati.

Dal 1968 gli operai insorsero di nuovo in un crescendo di scioperi culminati con grandi eventi insurrezionali nel 1969, il Cordobazo. La tensione nella città industriale di Cordoba si è sviluppata principalmente attorno alle questioni dell’abolizione della settimana lavorativa di cinque giorni e dell’istituzione delle quitas zonales, regioni in cui i padroni potevano pagare meno del salario concordato a livello nazionale, che comprendeva la regione di Cordova .

Questo stesso giorno, il 23 Maggio 1969, il più grande sciopero di questi anni scoppiò a Rosario, nella regione di Cordoba. Uno sciopero che era prima di tutto guerra alla dittatura militare, guerra a alla violenza e brutalità della polizia militare, e anche lotta di classe. Il paese fu sequestrato e difeso sulle barricate dalla polizia, che uccise molti militanti.
Sebbene le insurrezioni furono violentemente represse con la violenza, lo Stato dovette ripristinare la contrattazione collettiva con i sindacati e moderare le loro nuove politiche economiche. Furono le prime conquiste in un paese che prima non ne aveva.

La lotta in Argentina non si ferma, e da allora non è si è mai fermata. Numerose sono state le conquiste, ma ancora numerose sono le tutele che mancano. Questo Paese, questi lavoratori e studenti, sono l’esempio che la lotta paga, e che non bisogna indietreggiare mai.

Gli ultimi cinque minuti
…un racconto

Gli ultimi cinque minuti
Un racconto di Carlo Tassi

Scendo in cantina in cerca di conforto,
rovisto tra le cose messe da parte.
Forse troverò un po’ di miele,
un dolce rimpianto, per rivivere l’incanto.
Ma non basta… dura poco, fine del gioco!

Torno su.
Un cielo nero sopra la testa,
una strada infinita quanto il cammino.
Solo ricordi spenti.
Nessuna voglia, nessun domani,
niente.

Pensieri sfatti, corpi sfatti,
facce gonfie, occhi chiusi.
Ogni giorno un presente da dimenticare.
Monotonia, claustrofobia,
aria malata, il respiro fugge via.

Benvenute malattie!
Gli anticorpi son scaduti,
diritti e doveri decaduti.

Il vuoto s’allarga, mi sfiora tagliente, silente.
La carne è putrefatta, maleodorante.
La piaga affiora, il bruciore è ardente.
Vermi nella mente.

Giro le dita attorno la ruota,
sono dato per spacciato.
Lo so, lo sono stato e lo sarò.

Solo promesse, sempre le stesse.
Quotidiane come il pane.
Bugie, ipocrisie, false terapie.
Se rinasco, mi dispiace, non ci casco.

Questa vita m’appartiene?
E se magari vita non fosse?
S’accettano scommesse!

Esco fuori, cerco colore.
Raccolgo sassi e conto i passi.
Sfuggo al dolore ma ritrovo rancore.

La gente guarda tutto
e non vede niente.
Denti finti, cariati, turati,
sorrisi dipinti, mascherati.
L’aria è saccente, l’alito pesante.

Pioggia acida nel cervello.
Apro l’ombrello, stringo il cappio al collo.
Questo mondo non m’appartiene.
Solo avvoltoi, sciacalli e iene.

Come un salto senza rete,
niente più fame né sete.
Finisce l’inganno totale,
dalla nascita al funerale.
Poco male.

Sarà la storia che mi compete,
e mia soltanto l’eterna quiete.

Riot (Ruby Amanfu, 2019)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

PRESTO DI MATTINA
La Chiesa, un popolo ospitale

Istruzioni per un popolo ospitale

«Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Così inizia nel documento conciliare Lumen gentium il capitolo che presenta la chiesa come popolo di Dio.

Del resto, fu proprio al concilio Vaticano II che la Chiesa si è sentita nuovamente chiamata ad annunciare l’ospitalità di Dio offerta a tutti, e a porsi al servizio di questo dono per comunicarlo a tutte le genti.

Così la comunità dei credenti in Cristo, di coloro che guardano con fede a lui, ha riscoperto il suo essere un popolo messianico, nel senso di inviato agli altri popoli, affinché mediante il servizio al vangelo e ai poveri, ogni uomo e ogni donna abbiano parte a quella stessa santità ospitale di Dio manifestatasi nella storia, nell’esistenza singolare, nelle parole e nelle azioni di Gesù di Nazareth:

«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8).

In forza della dignità e della libertà dei figli di Dio nel cuore dei quali dimora lo Spirito santo, istruita nella pratica del comandamento nuovo quello di amarsi in reciprocità gli uni gli altri come lo stesso Cristo ci ha amati, la chiesa è posta come segno e strumento del Regno promesso, germinazione e inizio «dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» e «pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).

Resi così consapevoli che ogni cambiamento comincia da se stessi «i cristiani, ricordando le parole del Signore: “in questo conosceranno tutti che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo. Aderendo fedelmente al Vangelo beneficiando della sua forza, sono uniti con tutti coloro che amano e praticano la giustizia», (Gaudium et spes, 93).

Nel suo libro Come Gesù voleva la sua comunità. La chiesa quale dovrebbe essere (Milano 1987), il teologo tedesco Gerhard Lohfink [Qui] è persuaso che occorra offrire un’immagine ‘altra’ delle nostre comunità cristiane, più somigliante a quelle delle origini, parrocchie comprese, per arginare la deriva dell’individualismo religioso che, nel secolo scorso, ha segnato anche la teologia e la spiritualità cristiane.

Relegando la vita di fede all’ambito privato, come una pratica non pubblica destinata al singolo, alla sua interiorità, una parte della teologia liberale ha limitato la stessa comprensione della chiesa come società sino a spiritualizzarla. Definendola come una “societas in cordibus” la rendeva invisibile, insignificante per il dissolversi dei suoi legami sociali.

Gesù desiderava invece che proprio tra la gente del suo popolo, dalla sua famiglia risplendesse la buon notizia del suo Vangelo: un popolo, una famiglia dei discepoli come sale e luce del mondo: «non si accende una lampada per metterla sotto un secchio, ma piuttosto per metterla in alto, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa».

Da questa comunità riconciliata, da questo “piccolo gregge” doveva scaturire il fascino della libertà − “non vi chiamo più servi ma amici” − e risuonare l’annuncio della parola di riconciliazione e del dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi».

In questi difficili passaggi d’epoca occorre pertanto recuperare il volto originario della chiesa che non si esprime solamente nel legame individuale con Dio ma si edifica attraverso rapporti interpersonali. Un intero popolo è chiamato a tessere, intrecciare la stessa socialità umana oltreché ecclesiale, a farsi servo del vangelo tra la gente.

Lo stile sinodale, che tende a realizzare un insieme di popolo in cammino attraverso relazioni di reciprocità, è chiamato a edificare la comunione praticando una prassi di solidarietà, che è poi lo stile con cui Gesù ha manifestato e reso presente la prossimità di Dio, quella che i vangeli sinottici e Gesù stesso chiamano il Regno di Dio e la sua giustizia.

Nel battesimo al Giordano, Gesù mettendosi in fila con tutta la gente, mescolandosi con i peccatori, ha voluto mostrarsi solidale con loro. Ma ancor più lo ha fatto lasciandosi abbracciare dalla croce, così da sperimentare umilmente il sofferto cammino di tutta l’umanità fin dentro la morte.

Ma è in tutta la sua esistenza terrena che egli si è fatto solidale alla condizione della gente povera, vulnerabile, sfruttata, emarginata, oppressa dalle ingiustizie, rivelando così una misteriosa ma reale solidarietà del Padre con il suo popolo, e attraverso questo, con tutti i popoli.

Così l’intenzione di Gesù − secondo Lohfink − fu quella di rivolgersi non solo alle persone ma a tutto l’Israele disperso, nel suo insieme. Egli desiderava convocare e trasformare il popolo di Dio lacerato e malato in una società riconciliata, segno di un futuro di umanità e di popoli riconciliati alla fine dei tempi.

Questo stile e prassi solidale fu così ispirazione per le comunità cristiane delle origini, di cui un testo emblematico lo troviamo nella Lettera di Paolo ai Galati (3, 28) nella quale si ricorda la reciprocità solidale tra giudei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne che caratterizzava quella collettività:

«Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa».

La stessa sinodalità non può allora prescindere ma dovrà esprimersi attraverso relazioni di reciprocità solidale.

«Allēlōn», le molteplici variazioni della reciprocità

«Allēlōn», l’un l’altro, nella forma plurale «allēlous», gli uni gli altri. È stato Lohfink che ha declinato attraverso questa formulazione linguistica il concetto di solidarietà come reciprocità, ricercando tutte le sue ricorrenze negli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto in Paolo e Giovanni.

Allēlōn lo troviamo citato infatti con grande profusione: più di 90 volte, e una cinquantina di esse si presentano come la forma stessa dell’amore reciproco e del servizio di un amore vicendevole.

Pronome e avverbio di reciprocità, allēlōn passa quasi non visto − non lo si trova neppure nel Grande Lessico greco del NT. È come un seme minuto, sperduto e sparpagliato tra le grandi parole del vangelo, così simile a quel granellino di senape della parabola evangelica. Semente da cui tuttavia può nascere, crescere e ramificarsi sulla terra l’albero della santità ospitale di Gesù, e attuarsi nella chiesa una trasformazione della mentalità cristiana, della coscienza credente e delle pratiche pastorali nelle nostre comunità cristiane.

L’allēlous è pronunciato proprio da Gesù durante la lavanda dei piedi ai discepoli nell’ultima cena: un dire attraverso un fare gli uni agli altri. Come una consegna fu pure quella del comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».

Questo pronome, “gli uni gli altri”, capace di unire le diversità, dice la forma ecclesiale per vivere la sinodalità pur nella differenza tra persone e tra chiese. È forma significativa e pregnante, sia nell’ecclesiologia paolina come in quella giovannea, tanto che il nostro autore ha scritto che con tutti i versetti contenenti questa forma linguistica si potrebbe scrivere un’ecclesiologia di comunione e − aggiungo io − sinodale, anzi ecumenica ed interreligiosa.

Poiché credere è l’attitudine a praticare l’alterità ed è per questa “buona pratica” di reciprocità nel servizio vicendevole che la fede vive come amicizia e amore e la speranza evangelica diventa contagiosa, anzi attraente per quelli che ancora non la conoscono.

La fede nel cuore è l’altro nel cuore: e proprio per essere tale − ricorda Lohfink − che è capace di far sorgere un mondo nuovo: «Quando nasce veramente dalla fede, la Chiesa ha proprio la forma del mondo: non serve ad un popolo, è un popolo. Non richiede la giustizia, ma vive la giustizia. Non lotta per la libertà, è luogo di libertà». L’ecumene è allora il nostro mondo, luogo per edificare la solidarietà evangelica, ecclesiale tra noi e con le persone.

L’allēlōn ci fa dunque comprendere che la chiesa vive della regola fondamentale dell’accoglienza ospitale di Dio, la cui origine scaturisce dalla reciprocità di amore del Padre e del Figlio, dall’amore dell’uno per l’altro, che è lo Spirito, viene noi la grazia di quella reciprocità che fa nuove tutte le cose.

Per chiedere i cieli nuovi e la terra nuova può giovare allora lo stile e la pratica di un litania, come fosse un ininterrotto koan giapponese destinato a risvegliare la natura più profonda e reale del nostro vivere ecclesiale e sociale.

Obiettivo è quella profondità dove abita la grazia da cui scaturisce la reciprocità evangelica, il luogo dove si dà l’incontro con il maestro interiore, che al discepolo mormora spirando in lui il suo Spirito: allēlōn:

condividere la fede gli uni con gli altri (Rm 1,12),
gareggiare nello stimarsi a vicenda (Rm 12,10)
avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (Rm 12,16)
accogliersi gli uni gli altri (Rm 15,7)
correggersi l’un l’altro (Rm 15,14)
salutarsi gli uni gli altri con il bacio della pace (Rm 16,16)
aspettarsi gli uni gli altri (1Cor 11 ,33)
aver cura gli uni degli altri (1Cor 12,25)
essere al servizio gli uni degli altri nell’amore (Gal 5,13)
portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2)
confortarsi a vicenda (1Ts 5,11)
edificarsi gli uni gli altri (1Ts 5,11)
vivere in pace gli uni con gli altri (1Ts 5,13)
cercare il bene gli uni degli altri (1Ts 5,15)
sopportarsi a vicenda (Ef 4,2)
essere benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri (Ef 4,32)
essere sottomessi gli uni agli altri (Ef 5,21)
perdonarsi a vicenda (Col 3,13)
confessare i peccati gli uni agli altri (Gc 5,16)
pregare gli uni per gli altri (Gc 5,16)
amarsi intensamente gli uni gli altri (1Pt 1,22)
praticare l’ospitalità gli uni verso gli altri (1 Pt 4,9)
rivestirsi di umiltà gli uni verso gli altri (1 Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (l Gv 1,7)
prestare attenzione gli uni agli altri (Eb 10,24),
praticare l’ospitalità in maniera vicendevole (1Pt 4,9),
rivestirsi di umiltà l’un l’altro (1Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (1Gv 1,7).

E da una poesia le istruzioni per abbracciarsi

L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro

(Chandra Livia Candiani [Qui], La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, Torino 2014, 11)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
Maggio 1959 – Il pozzo di metano

 

Siamo in Maggio. Fra due mesi inizio la maturità. Mi devo mettere a studiare di più, fra poco questa lunga fatica sarà finita. Non dovrò più fare tutta quella strada in bicicletta ogni giorno per andare a prendere il treno che mi porta a scuola e, soprattutto, potrò cominciare a lavorare e a guadagnare un po’ di soldi che, a casa mia, servono per mandare alle scuole superiori mio fratello Giovanni.
L’inverno che ha chiuso il 1958 e aperto il 1959 è stato molto freddo, ma adesso siamo in maggio, la primavera è arrivata con tutto il suo splendore e, qui in campagna, ci guarda con i suoi fiori e i suoi cieli azzurri e sembra ci voglia dire: “Vedete quanto sono bella?”.

Adesso sono seduta sul gradino che, da una delle uscite di casa, porta direttamente sotto la pergola di uva fragola del cortile. Sotto la pergola ci sono due sedie sdraio coloro verde militare e un tavolo di legno rivestito con una tovaglia plasticata a quadri bianchi e blu. La tovaglia è necessaria perché, soprattutto quando l’uva è matura, perde i chicchi marci che cadono e si depositano su tutto ciò che sta sotto. Mia madre si alza alle sei di mattina e, per prima cosa, pulisce il tavolo sotto la pergola oltre a dare un po’ di latte a Toti.  Le due sedie verdi hanno gli scheletri di ferro, li abbiamo comprati al mercato, mentre le sedute di stoffa le ha cucita mia madre Adelina. Ogni tanto si fa nella tela qualche strappo che rammendiamo con del filo robusto, le cuciture devono essere spesse e doppie, altrimenti non riescono a sorreggere tutto il nostro peso. Quel peso si deposita a volte abbastanza violentemente, soprattutto quando siamo stanchi, e non desideriamo altro che sederci sulle sdraio e guardare verso l’alto. Tra i rami e le foglie della pergola si vede il cielo che cambia colore e rasserena con la sua presenza.
Sotto la pergola si sta benissimo, mi piace molto leggere là sotto, così come mi piace parlare con Giovanni e mangiare il gelato.

Nel cortile davanti alla pergola c’è l’erba. Adesso è bella alta, una piccola savana. Mio fratello gioca con i suoi amici e con Toti in mezzo all’erba. Corrono e ridono e a volte li si vede emergere da quella superfice ondeggiante come dei giovani delfini che saltano e si rituffano subito dopo, sguazzando liberi in quel mare di erba. Nel mare verde di quei bambini c’è molto di quello che siamo e che dovremmo essere. C’è la voglia di vivere, il divertimento, lo stupore, tante aspettative. Sono questi sentimenti che danno forza propulsiva la mondo, che lo proiettano in avanti, verso un procedere sicuro e speranzoso per ciò che verrà, verso il loro futuro e quello di tutti.

Verso sera vado spesso al bar Del Cigno. Ci incontriamo là con i miei amici, fumiamo qualche sigaretta, beviamo qualche Crodino e parliamo di tutto. Di politica locale, di accidenti della popolazione di Cremantello, del Parroco, del medico condotto e della maestra. Quando mi siedo sulle sedie di ferro dei tavolini esterni del bar, tengo una gamba accavallata sopra l’altra, mi sembra di essere più affascinante così. A volte a forza di tenere le gambe a quel modo, mi viene un po’ di mal di schiena, ma faccio finta di nulla perché mi piacciono le mie gambe messe a quel modo.

L’argomento di cui parliamo tutti in queste ultime settimane è l’incendio del pozzo di Casalrossano.
Un anno fa a Casalrossano è stato trovato un giacimento di metano e la SNAM e l’AGIP hanno costruito dei pozzi per estrarlo. Da allora Cremantello è pieno di operai che si sono trasferiti qui perché lavorano al prelevamento dell’idrocarburo. Prima sono arrivati loro e poi, col trascorrere del tempo, sono arrivate le loro famiglie. In classe con mio fratello Giovanni c’è una bambina che si chiama Marisa, è la figlia di un ingegnere della SNAM. Marisa è bionda, ha gli occhi nocciola e ripete sempre: “Ciccia, ciccia” il nome della sua bambola.
Un mese fa siamo stati svegliati di notte da un rumore continuo e forte, sembrava ci fosse una portaerei in transito sopra la nostra testa. Straniti, siamo usciti di casa. Erano le undici e trenta di sera, ma il cielo era illuminato come se fosse mezzogiorno, si era incendiato un pozzo. Le mogli degli operai della SNAM erano già per strada in camicie da notte e sembravano disperate.  Abbiamo capito subito che era successo qualcosa di grave. I nostri vicini di casa sono andati a Casalrossano a vedere cosa stesse succedendo e, nel tornare, Mento Viglioli si è fermato a dirci che si era incendiato il pozzo numero tre. Miracolosamente non c’erano né morti né feriti.

E’ cominciato così un periodo della nostra vita davvero strano.  La luce è stata per tre settimane fortissima di giorno quanto di notte, a mezza notte si potevano friggere uova da mangiare all’aperto e i bambini potevano giocare a rincorrersi, c’era lo stesso chiarore del mattino. Quella strana luce dai riflessi verdastri era di una potenza e di una forza impressionante. Faceva addirittura più caldo. Ritrovarsi improvvisamente senza notte è stata una novità che ha destabilizzato tutti. Sono aumentati i casi di insonnia e molte persone hanno avuto sempre fame. La moglie di Mento strappava il prezzemolo dall’orto e lo masticava per farsi passare l’appetito, diceva che non voleva ingrassare. La verdura è maturata in fretta e i fiori sono sbocciati tutti insieme. La prozia Ciadin ha detto che bisognava ringraziare i Santi per quella incredibile fioritura, mentre lo zio Rigoberto ha detto che tutto quel caldo ricordava ai Santi l’inferno e che non erano loro da ringraziare per i fiori di maggio, ma la SNAM. Ciadin ha confidato a mia madre che lo zio non capisce niente e lo zio ha confidato a mia madre che quella “pretona” di Ciadin è stupida.

La gente è venuta da tutta Italia per veder il fuoco che ardeva dal pozzo. La via principale di Cremantello è diventata trafficatissima al punto che è stata divisa in due corsie: una che andava al pozzo e una che tonava, senza possibilità di fare una inversione di marcia. Oltre alle macchine è transitata gente in bicicletta, motorino, pattini, tutti sono andati a vedere l’incendio.

I giorni sono passati e nessuno sapeva più come fare per spegnere quell’incredibile fuoco che usciva dalla bocca di uno dei pozzi come lo sbuffo di un drago arrabbiato. E’ arrivato un esperto dagli Stati Uniti, ha studiato per una settimana la situazione e poi ha deciso di provare a soffocare il fuoco. Nel giorno fissato per lo spegnimento, è stata evacuata la popolazione che abita nella parte di Cremantello più vicina a Casalrossano e ai pozzi. Anche nell’altra metà del paese nessuno è potuto rimanere in casa, la polizia locale ha diffuso l’ordine di stare nei cortili. I tecnici avevano paura che il soffocamento della fiamma potesse provocare un terremoto. Si è creata così molta ansia intorno all’evento. Finalmente è arrivato il giorno deciso per lo spegnimento, mia madre e mio fratello sono andati nel cortile e io e i miei cugini siamo andati in bicicletta a Tirecco, al centro di igiene mentale dove è ricoverata una nostra parente. Siamo stati un po’ con là con Maurina che mangiava soddisfatta le caramelle che le avevamo portato (infischiandosene della nostra presenza), abbiamo mangiato un gelato e poi abbiamo ripreso le nostre biciclette e siamo tornati indietro. Quando siamo arrivati all’inizio del paese, il fuoco c’era ancora, non erano ancora riusciti a spegnerlo. La luce era la stessa di quando eravamo partiti. Cominciavamo tutti ad avere nostalgia di quella bella frescura che arriva verso sera e di quel cielo un po’ azzurro e un po’ blu che precede l’arrivo della notte e la saluta. Eramo vicini con le nostre biciclette alle prime case del paese, quando si è sentito uno strano rumore, una specie di “uffff” come se si fosse spenta una enorme candela e il fuoco è sparito. Siamo scesi dalle biciclette e ci siamo coricati per terra, ma ormai era inutile, il fuoco non c’era più. La stessa cosa hanno fatto mia mamma e Giovanni che erano seduti in cortile sotto la pianta di pere. Quando hanno sentito il sibilo si sono buttati in mezzo all’erba a pancia in giù e quando hanno riaperto gli occhi il fuoco non c’era più. L’erba era di nuovo di un bel verde e il cielo era tornato azzurro.

Quella vicenda avrebbe potuto essere una tragedia e invece non è successo nulla. I tecnici americani hanno fatto un lavoro eccellente, hanno spento il fuoco salvaguardando l’incolumità di tutti. L’ingegnere che ha progettato il soffocamento del fuoco è chiamato “Gamba di legno” perché ha una gamba sola, l’altra è una protesi. Ha perso una gamba nello spegnimento di un altro pozzo ardente.
La prozia Ciadin ha detto che bisogna ringraziare i Santi e, questa volta, lo zio Riogoberto ha detto che ha ragione.

L’8 maggio del 1959 viene festeggiata per la prima volta in Italia la “festa della mamma”, dopo che l’anno prima Raul Zaccari ne aveva proposto in Senato l’istituzione (approvata con normativa di legge dopo un anno di dibattiti).
Il 17 maggio Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria di Cuba.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

Cover: Pozzo di  metano presso Taglio di Po. Dal gruppo Polesine in Facebook – scatto di Vinicio Zanardi

Armi nucleari: in Commissione Esteri alla Camera passa Risoluzione per il disarmo globale

da: Rete Italiana Pace e Disarmo

Senzatomica e Rete Pace Disarmo: “Passo positivo, ora l’Italia partecipi alla Conferenza di Vienna”.

“Siamo soddisfatti di questo storico risultato a favore dell’impegno dell’Italia per il disarmo nucleare”. Senzatomica e Rete italiana Pace e Disarmo esprimono soddisfazione per il voto di oggi in Commissione Esteri alla Camera che esprime indicazioni per il Governo affinché si attivi in percorsi concreti di disarmo nucleare e di avvicinamento ai contenuti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW). Nella risoluzione si sottolinea come le armi nucleari costituiscano ancora oggi una grave minaccia per l’umanità come sia quindi fondamentale continuare gli sforzi per la loro riduzione con l’obiettivo di una definitiva eliminazione.

Con il documento a prima firma Laura Boldrini (ma sottoscritto anche dai Deputati Delrio, De Micheli, Fassino, La Marca, Palazzotto, Quartapelle Procopio, Ehm, Migliore, Emiliozzi), il Parlamento fornisce al Governo sollecitazioni chiare e indicazioni realizzabili per perseguire percorsi concreti di disarmo nucleare globale e definitivo: un obiettivo che tutti i recenti esecutivi italiani hanno confermato come prioritario.

Dopo un dibattito di alcune settimane, è stato approvato un testo che non solo richiama in via generale il disarmo nucleare, ma indica al Governo come poterlo realizzare nel quadro del percorso individuato dal Trattato TPNW, scaturito dalla “Iniziativa Umanitaria” della società civile internazionale. Anche se l’Italia finora ha deciso, come tutti gli alleati NATO, di rimanere al di fuori del percorso che sta coinvolgendo decine di Paesi del mondo è importante che ci sia un avvicinamento ai contenuti pratici e concreti proposti dal Trattato e un confronto con tutti gli Stati che stanno mettendo il disarmo nucleare al centro della propria azione politica.

L’Italia può e deve mettere in campo la parte migliore delle proprie risorse per costruire il disarmo nucleare, come sottolineato nella parte dispositiva della Risoluzione, che impegna il Governo “a continuare a valutare, in questo contesto, compatibilmente con l’obiettivo delineato, con gli obblighi assunti in sede di Alleanza atlantica e con l’orientamento degli altri Alleati, possibili azioni di avvicinamento ai contenuti del Trattato TPNW, in particolare per quanto riguarda azioni di «Assistenza alle vittime e risanamento ambientale», considerando la grande tradizione umanitaria dell’Italia e come previsto dall’articolo VI dello stesso Trattato”.

“Finché ci saranno le armi nucleari, ci sarà sempre il rischio che vengano utilizzate – afferma Daniele Santi, Presidente di Senzatomica – Le dichiarazioni della governance russa relativamente alla guerra in Ucraina hanno mostrato in maniera inequivocabile il vero volto della deterrenza nucleare quale strumento di ricatto che pone l’umanità sull’orlo della catastrofe. L’unica via per prevenire il loro uso è la loro eliminazione totale e per realizzare questo esiste oggi uno strumento: il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW). Mai come ora è necessario perseguire una politica che punti al disarmo nucleare e alla distensione dei conflitti tra le superpotenze. Al mondo esistono quasi 13mila testate nucleari, 40 delle quali sul territorio italiano. Siamo arrivati a un punto cruciale nelle iniziative per abolire le armi nucleari, uno scopo tanto agognato da molte generazioni in tutto il mondo a partire dagli hibakusha, le vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Il TPNW è indispensabile per proteggere la pace dell’umanità nel suo complesso”.

“Solo ricordandoci della nostra umanità e decidendo un percorso serio e concreto di disarmo nucleare globale il mondo potrà smettere di basare un’effimera idea di sicurezza sulla possibilità di distruggere in pochi minuti intere città e milioni di persone” sottolinea Lisa Clark, responsabile per il disarmo nucleare di Rete Italiana Pace e Disarmo e coordinatrice di Mayors for Peace in Italia.

L’occasione per raggiungere questo risultato è rappresentata dalla Prima Conferenza degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW) che si svolgerà a Vienna dal 21 al 23 giugno prossimo. La campagna “Italia, ripensaci” sostenuta da Senzatomica e Rete italiana Pace e Disarmo (organizzazioni italiane partner di ICAN la campagna internazionale per la proibizione delle armi nucleari vincitrice del premio Nobel nel 2017) chiede al Governo una decisione in tal senso facendo eco a quanto votato dalla Commissione Esteri della Camera, che impegna l’esecutivo a “considerare, in consultazione con gli Alleati, l’ipotesi di partecipare come «Paese osservatore» alla Prima Riunione degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW) (…) tenendo conto della partecipazione dei Governi di Paesi NATO, come la Norvegia e la Germania”.

Rete Italiana Pace e Disarmo
La Rete Italiana Pace e Disarmo nasce il 21 settembre 2020 dalla unificazione di due organismi storici del movimento pacifista e disarmista italiano: la Rete della Pace (fondata nel 2014) e la Rete Italiana Disarmo (fondata nel 2004). Entrambe le reti hanno potuto contare fin dalla loro fondazione sul sostegno di decine di associazioni, organizzazioni, sindacati, movimenti della società civile italiana. Lo scopo è quello di creare insieme la pace a partire dall’unione delle nostre forze, degli obiettivi comuni, per rafforzare e far crescere il lavoro collettivo per la pace ed il disarmo.

Biblioteca Popolare Giardino
INIZIATIVE MAGGIO 2022

Biblioteca Popolare Giardino

INIZIATIVE MAGGIO 2022

Quando qui sarà tornato il mare
Storie dal clima che ci attende
Venerdì 27 maggio 2022 ore 21
Parco Coletta (giardini del grattacielo)

Wu Ming 1 dialoga con il Collettivo Moira dal Sito *

L’iniziativa è inserita nella rassegna “Festa della legalità 2022

*collettivo di scrittura coordinato da Wu Ming 1, nato da un laboratorio narrativo sul cambiamento climatico, condotto presso la biblioteca comunale di Ostellato, nel basso ferrarese, che ne ha curato e promosso l’iniziativa

Passeggiata letteraria
sabato 28 maggio 2022 ore 10,30

Alla scoperta del centro storico di Ferrara, accompagnati dallo scrittore Giuliano Gallini sulle orme della protagonista del suo romanzo “Storia di Anna“.

Ritrovo presso la sede della Biblioteca Popolare Giardino in viale Cavour, 183 Ferrara (piano terra del grattacielo) alle ore 10,30.

Per informazioni e prenotazione (obbligatoria)
tel. 3485807780 – 3423250382
Partecipazione a offerta libera, la passeggiata termina con un brindisi presso la biblioteca.

Appello di MIR Italia: l’entrata nella Nato di Finlandia e Svezia è un pericolo per la pace in Europa

Cari amici della Finlandia e della Svezia,

Ogni giorno è giorno di guerra in diverse aree del pianeta e non si prevede un vicino cambiamento, essendo dominante negli Stati una logica di guerra, di contrapposizione e di inimicizia. Prova ne è la crescente spesa militare collegata alla produzione e alla vendita di armi.

La terribile guerra in Ucraina, anziché attenuarsi, sta crescendo con il diretto coinvolgimento degli Stati dell’Alleanza Atlantica, fino a rischiare un conflitto mondiale con armi nucleari.
Gli sviluppi dell’aggressione della Russia in Ucraina hanno spinto i governi svedese e finlandese ad avanzare la richiesta di adesione alla Nato. Comprendiamo la preoccupazione e la paura di poter essere un obiettivo per una possibile azione di guerra.

Consideriamo la scelta di aderire alla NATO come pericolosa per la pace in Europa, innanzitutto perché accresce la contrapposizione militare nella regione e rafforza un’alleanza per la guerra, anziché sollecitare una de-escalation e un cambio di registro che privilegi alleanze e dialoghi per la pace.
L’Europa è stata dilaniata dalle guerre mondiali e l’Unione Europea nasceva con il proposito di creare un “unione” per costruire la pace e sostenere e salvaguardare la convivenza tra i popoli.
Rafforzare le alleanze militari significa dare alla forza delle armi il predominio nei rapporti tra gli stati.
Dobbiamo lavorare per la pace, con alleanze per la pace.

Venendo a mancare la neutralità di Finlandia e Svezia, ciò potrebbe provocare una reazione della Russia in un contesto che vede un sempre maggior allargamento di un’alleanza militare nata in funzione anti-russa. L’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, rafforzerebbe l’Alleanza che già raggruppa 30 Paesi.

L’Italia è membro della NATO e questo comporta, tra l’altro, la presenza di basi militari con personale di altri paesi sul nostro territorio e l’utilizzo di queste basi per interventi in aree di guerra in cui noi, come italiani non siamo direttamente coinvolti e non vogliamo essere coinvolti. Di continuo riceviamo pressioni per aumentare la spesa militare e osservare gli obblighi che derivano da questo tipo di trattato. E’ un impegno militarista. “L’Italia ripudia la guerra quale strumento per la risoluzione dei conflitti tra gli stati”; questo è quanto recita l’articolo 11 della nostra Costituzione ed è quello che a gran voce ripetiamo sempre, anche ogni volta che purtroppo droni e missioni militari partono dalle basi sul nostro territorio. In aggiunta, l’Italia, che tramite ben 2 referendum ha rifiutato il nucleare, si trova suo malgrado ad ospitare circa 70 testate nucleari altrui in queste basi.

Noi in Italia non ci sentiamo più sicuri, anzi, ci sentiamo sempre pienamente coinvolti ogni volta che un velivolo militare decolla dalle basi di Sigonella o Aviano o Ghedi, per citarne solo alcune.
In tutta Europa, compresa l’Italia, organizzazioni della società civile si mobilitano per chiedere ai propri governi di uscire dalla NATO, di abbandonare uno schieramento militare che divide il mondo e che molto spesso è un asservimento a potenze straniere.

Occorre fermare questa folle escalation militare, insistendo per dei negoziati di pace, per la mediazione e per il dialogo. La nonviolenza è il nostro faro e la storia insegna che è possibile una trasformazione nonviolenta dei conflitti, affinché sugli interessi e le logiche nazionalistiche, prevalgano le ragioni della pace e della vita dei popoli coinvolti.

Occorrono nuovi gesti di pace, di apertura al dialogo.
Più armi non rendono il mondo più sicuro, bensì più vicino a facili inneschi mortali.

La vostra storia di neutralità è importante; serve rafforzare una “neutralità attiva” che contribuisca alla de-escalation e alla mediazione e che rafforzi il multilateralismo, per cambiare rotta dall’attuale rovinosa strada in cui prevale la logica della violenza.

Il nostro appello, amici finlandesi e svedesi, è che la guerra cessi, che i vostri popoli non siano coinvolti e le vite siano risparmiate e che si possa insieme, tutti insieme, collaborare per “costruire la pace”, con strumenti di pace, altrimenti non sarà mai pace.

Perché noi “popoli delle Nazioni Unite siamo decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” ma anche e soprattutto ora, adesso, la generazione presente.
Continuiamo insieme a lavorare per la pace e a sollecitare i nostri governi ad un reale impegno costruttivo per la pace, all’insegna del multilateralismo, sostenendo anche la piena implementazione dei fini delle Nazioni Unite, “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

In fratellanza con tutti voi.

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Il M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione), branca italiana dell’IFOR (International Fellowship Of Reconciliation), è un movimento ecumenico per la pace, trapiantato in Italia nel 1952 grazie a esponenti valdesi e quaccheri, al quale hanno presto aderito persone di religione cattolica e di varie fedi religiose e laiche. I membri del MIR, sull’esempio di tanti maestri e testimoni di pace, si impegnano a praticare la nonviolenza attiva come stile di vita e come via alla pace: quindi nonviolenza, come amore, nelle relazioni con il prossimo e nei confronti della Terra sulla quale viviamo. Il MIR è tra i fondatori della Rete Italiana Pace e Disarmo e collabora con tante organizzazioni nella campagne per il disarmo, per la riduzione delle spese militari, per la riconciliazione e la pace nella giustizia nei paesi in guerra e dominati da regimi oppressivi, per l’accoglienza dei profughi, per l’educazione alla pace, per l’obiezione di coscienza al servizio militare e al lavoro militare, per la difesa civile non armata, per il controllo del commercio delle armi. La sede centrale del MIR è a Torino, via Garibaldi 13 e ha sedi locali in una decina di città italiane. Per contatti: segreteria@miritalia.org, www.miritalia.org, www.facebook.com/MIR.Italia/

La Serra Moresca di Villa Torlonia: la riscoperta

 

Tempo di primavera, di rinascita, di tepore, di voglia di aria e di respiro, di riapertura alla Bellezza, quella che aiuta nei tempi bui, quella che cura, protegge e salva. Così c’è chi decide per una passeggiata domenicale in un parco cittadino, chi per un museo, anche di un piccolo borgo poco abitato, chi per il mare, chi per la montagna, chi per la collina.

Io aspettavo questo momento dall’8 dicembre, quando, dopo un lungo periodo di complesso restauro condotto dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, il complesso della Serra Moresca a Villa Torlonia, nella mia amata Roma, ha riaperto al pubblico.

Ora ci sono, finalmente. Non c’è il sole che mi aspettavo per vedere i bellissimi riflessi delle vetrate (quasi da caleidoscopio, quelli dell’infanzia dorata e spensierata), ma mi accontento. Non è stato facile trovare i biglietti per entrare. Nel fine settimana è arduo, più semplice in giornata lavorativa. Basta sapere attendere. Ma entro, eccomi, entro.

Storia, natura e suggestioni lontane e degne dei sogni e delle fiabe più delicate, dialogano nel complesso della Serra e Torre Moresca, la cui architettura è ispirata all’Alhambra di Granada. Il complesso, con annessa Grotta artificiale, è stato progettato intorno al 1839, dall’architetto veneto Giuseppe Jappelli, chiamato a Roma dal Principe Alessandro Torlonia, e concluso, con le decorazioni di Giacomo Caneva, nel 1841.

Il primo progetto portava la dicitura “fabbrica entro cui trovasi e la grotta e l’Armeria e il Ninfeo, e la Pagoda indiana”, ma poi Jappelli scelse lo stile moresco per la realizzazione della serra, forse influenzato dal libro illustrato di James Canavah Murphy, The Arabian Antiquities of Spain,  pubblicato a Londra nel 1816, una copia del quale si trova nella Biblioteca vaticana e che lo stesso Jappelli stesso aveva consigliato a Caneva. La motivazione di tale scelta va ricercata nella volontà di Jappelli di riproporre a Villa Torlonia, come per i giardini del Regno Lombardo-Veneto, un motivo del periodo di Ludovico Ariosto.

La Serra vera e propria è uno stupefacente padiglione da giardino con una struttura in peperino e un largo uso del ferro, della ghisa e di splendide vetrate policrome.

Jappelli era a conoscenza dell’innovativo uso della ghisa, che aveva già sperimentato nella Villa Treves a Padova, e seguiva con attenzione l’introduzione di nuove tecnologie, come dimostrano vari suoi studi e progetti per costruzioni da adibire a serra. A Villa Treves aveva inserito gran parte degli elementi considerati costitutivi del giardino all’inglese: la grotta, la rovina gotica, il mausoleo romano, il tempio, l’eremo, il padiglione turco. Non tutti, ma buona parte di questi elementi – mescolati ad altri derivanti dalle suggestioni ariostesche richiamate più volte nel progetto di Jappelli – li ritroviamo anche a Villa Torlonia: il campo dei tornei, la capanna svizzera, il lago, la grotta, gli edifici moreschi.

Questa Serra era destinata ad accogliere piante esotiche e rare ma anche eventi spettacolari, come testimoniato dalla presenza di un vano seminascosto, interno alla grande sala, destinato all’orchestra. La Torre era invece riservata a incontri più intimi, per pochi partecipanti, invitati dal Principe Torlonia nella sontuosa sala da pranzo dell’ultimo piano, caratterizzato da ampie finestre con intelaiature in ghisa e vetri colorati e da pareti riccamente decorate da stucchi policromi. La sala aveva al centro un divano che, mediante l’azione di un meccanismo, poteva sollevarsi verso il soffitto, mentre dal piano sottostante saliva un tavolo imbandito che doveva sorprendere e impressionare gli ospiti del Principe.

Tra la Torre e la Serra, Jappelli aveva poi costruito una Grotta artificiale, retta da strutture in legno e stucco, oggi non più esistenti, con laghetti e percorsi in legno sospesi – solo in parte conservati – pensata come il luogo della Ninfa (“Nymphae Loci”) e quindi un luogo naturale e ricco di acque, che doveva destare meraviglia e stupore a chi l’attraversasse.

Tra il 2007 e il 2013, si è realizzata una prima e importante fase del recupero degli edifici. Il complesso era in condizioni di fortissimo abbandono e degrado (l’avevo scoperto, una prima volta, nel 2012 ed ero rimasta molto rattristata…), dovuto anche a numerosi di atti vandalici oltre che alla tromba d’aria del 2008 che l’aveva fortemente danneggiato: le coperture della Serra crollate, i vetri policromi in gran parte perduti, come perduti erano tutti gli arredi.

Il recupero condotto dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali è stato mirato al ripristino, il più fedele possibile, dell’assetto originario delle diverse parti del complesso, effettuato sulla scorta di documenti e immagini d’epoca e sull’analisi di quanto si era conservato. Il restauro ha interessato sia le strutture degli edifici che i molteplici apparati decorativi preesistenti, per riportare l’intero complesso al suo originario splendore.

La documentazione utilizzata per ricostruire l’aspetto degli spazi è costituita da fotografie e incisioni storiche, oltre che dalla testimonianza di Giuseppe Checchetelli, che descrive un paesaggio “arido” costituito da Palme, Agavi e Aloe, attorno alla coloratissima Serra, e una grotta artificiale, ricca di acque e percorsi sopraelevati in legno; due paesaggi e spazi totalmente diversi, secco e solare il primo, umido e ombreggiato il secondo.

Assecondando queste precise impostazioni storiche, il progetto ha previsto, nello spazio interno della Serra, il ripristino della fontana esistente e l’inserimento dell’attrezzatura tecnica necessaria per ospitare il pubblico e allestire una raccolta di Palme, Agavi, Ananas e Aloe, scelte fra le specie che erano già state introdotte nel nostro paese nel secolo XIX, cioè all’epoca di Jappelli. Le piante inserite sono disposte al centro dello spazio e davanti alla parete in muratura, in vasconi di ferro color corten (una tonalità che varia da un arancio iniziale a una colorazione bruno-rossastra che muta in base a condizioni climatiche ed esposizione agli agenti atmosferici), fornite di ruote, per poter essere spostati in caso di mostre, convegni o altro tipo di eventi. Un luogo magico dove incontrarsi.

L’accoglienza del pubblico è gestita nell’emiciclo d’ingresso, arredato con mobili disegnati ad hoc e realizzati in ferro, in consonanza con la struttura dell’edificio; particolare attenzione è stata posta all’illuminazione degli spazi. Nello spazio esterno antistante alla Serra è stata impiantata una piccola collezione di Palme, Agavi e Aloe con una illuminazione scenografica dedicata, realizzato l’adeguamento della scala esistente in pietra di tufo – che conduce al primo piano in cui si realizzeranno dei laboratori – ma soprattutto è stata inserita una nuova pavimentazione che rende lo spazio esterno più facilmente utilizzabile per eventi e attività integrative. Alla vallecola, “Nymphae Loci”, è stata restituita l’atmosfera originaria della grotta che la copriva, ripristinando e arricchendo i rivoli d’acqua che alimentano i due laghetti esistenti e inserendo nel secondo alcune ninfee, piante ossigenanti e fiori di loto.

Usciamo piano piano … in silenzio.

L’aridità e il sole del deserto occhieggiano al verde delle oasi e della vegetazione ombrosa e umida, oltre che agli anfratti boscosi abitati dalle Ninfe. Un paesaggio degno di una fiaba.

 

Articolo pubblicato su Wall Street International Magazine

Fotografie di Simonetta Sandri

Vite di carta /
La coincidenza di chiamarsi Marcovaldo

Vite di carta. La coincidenza di chiamarsi Marcovaldo

Come sono arrivata alle avventure di Marcovaldo è davvero frutto del caso, più esattamente una somma di piccole casualità. Sabato scorso ero al funerale triste e tenero di un compagno delle scuole elementari, Emilio Marco. Emilio era il nome che lui dava di sé, ma a noi bambini della classe piaceva di più il secondo. Non so dire per gli altri, personalmente trovavo Emilio un nome da vecchio e lo evitavo con decisione. Le scelte che si fanno da bambini sono spesso definitive e per tutto il resto della vita restano indenni da qualunque ripensamento.

Solo oltre cinquant’anni dopo, quando ho letto i suoi due nomi e il cognome sul necrologio esposto in piazza al mio paese ho pensato che non c’era più Emilio. Sarà che ora siamo vecchi anche noi per i bambini delle elementari e questo ora è il nome giusto, fatto sta che come Emilio l’ho lasciato andare, ma il nome Marco è rimasto. L’ho ritrovato nel protagonista del romanzo che sto leggendo, Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini, un libro uscito nel 2006 in cui Marco, appunto, è un giovane uomo incastrato nei problemi dei quarant’anni, vivo che più non si potrebbe. Si dibatte fra il lavoro e i ruoli dentro la famiglia, fra le passioni che ha dovuto lasciare e la voglia di dare forma al proprio destino.

Al giovane Marco vorrei dare spazio in questa rubrica in uno dei prossimi articoli. Ora seguo la traccia che il caso mi ha disegnato: un altro Marco nonché Valdo è venuto dritto dritto dalla narrativa  degli anni Sessanta, nei panni di un tizio che era vicino a me stamattina al supermercato, uno che ormai arrivato alla cassa si è fermato bruscamente ed è tornato indietro, sterzando a fatica per invertire il senso di marcia, visto il carico che aveva accumulato nel suo “cestino di ferro con le ruote”. Ho pensato: chissà se va anche lui a disfarsi di tutte le mercanzie che ha comprato. Lo so che potevo pensare a una dimenticanza, a un ultimo barattolo da comprare, invece ho ripensato a Marcovaldo al supermarket, il  penultimo racconto dei cinque riservati all’inverno che formano la raccolta Marcovaldo di Italo Calvino, uscita presso Einaudi nel 1963.

Come si sa nel testo si alternano cinque gruppi di racconti dedicati alle stagioni, secondo la scansione ciclica primavera-estate-autunno-inverno. Marcovaldo e la sua famiglia devono districarsi nella non facile vita della grande città in cui vivono: lui immigrato dal sud insieme alla moglie, mentre i loro bambini sono nati lì. Sono una famiglia povera, che vive dello stipendio del papà manovale e i figli non hanno mai visto un bosco, pensano di poter cacciare i piccioni che fanno il nido sul terrazzo condominiale, regalano al figlio di un ricco industriale dei fiammiferi, un tirasassi e un martello, credendo che sia povero e via dicendo. Sono ingenui e sensibili come il loro papà.

A questa raccolta di racconti ho girato intorno molte volte nel corso della mia carriera di insegnante. Li ho letti e riletti insieme ai ragazzi, cogliendo di volta in volta elementi diversi nella tessitura dei testi. Oggi, però, niente lezione sullo straniamento con cui Marcovaldo guarda alla rumorosa città industriale negli anni del boom economico italiano, niente riferimenti alla canzone di Adriano Celentano Il ragazzo della Via Gluck, con la sua difesa del verde e della natura contro il cemento e l’aria ammorbata della metropoli. In una quinta ricordo che avevamo anche formulato l’ipotesi di un Calvino precursore della letteratura postmoderna in Italia, proprio a partire da questi racconti, ironici e con tratti surreali, ma già così malinconici, tutti costruiti sulla sconfitta, a cui va incontro un ‘eroe’ come il nostro manovale ogni volta che affronta la complessità di un mondo per lui non decifrabile.

Oggi penso al carrello di Marcovaldo, semplicemente. Nel freddo dell’inverno 1963 un contadino,  immigrato come lui dalle campagne del sud, trova nel carrello della spesa traboccante di cibi un autentico oggetto del desiderio. Lo si trova dentro al labirinto dei piaceri del supermarket, disponibile all’ingresso con la sua bocca vorace che chiede di essere riempita con ogni bendidio. Sono le sei di sera e la “folla consumatrice”, che per il resto della giornata ha prodotto beni di consumo, si riversa nei supermercati, facendo a gomitate per fare acquisti.

Marcovaldo è a passeggio con la moglie Domitilla e i suoi quattro bambini: a che fare? Calvino dice che “essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese”. Non stasera, però. Stasera entrano tutti e sei, ognuno prende un carrello, poi avanzano “in processione” tra gli scaffali pieni di roba. Non si tocca nulla, dice il pater familias, è proibito. Ma chi può resistere a simili tentazioni? I bambini vedono le altre signore riempire di barattoli i loro carrelli e di getto si tuffano a mettere scatole e scatolette nei loro. Di nascosto anche Marcovaldo si prende il lusso di riempire il suo: va a zig zag tra le corsie dell’edenico labirinto e afferra datteri, salsa piccante e spaghetti. E’ purtroppo vero che la cassiera lo attende, laggiù alla cassa, ma intanto anche uno come lui, a cui lo stipendio tra “rate e debiti scorreva via appena percepito” nel risucchio della famiglia numerosa , “poteva per almeno un quarto d’ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo”.

Non finisce bene questa avventura trasgressiva e straniata sulle quattro ruote di un carrello. Ho già svelato che i nostri ‘eroi’ devono disfarsi dell’insidioso carico di merci che hanno accumulato, perciò approfittano di una apertura lasciata nel muro dai manovali del cantiere che lavora all’ampliamento del supermarket. Escono nel buio e procedono sobbalzando… Il racconto finisce mentre loro lassù “sul castello d’assi d’un’impalcatura, all’altezza delle case di sette piani” scaricano il loro bottino dentro le “fauci di ferro” di una gru, quando la sua enorme ganascia raggiunge il bordo dell’impalcatura. Surreale. E anche simbolico: tutte le bocche sono state riempite, quella del carrello e ora quella di una macchina, tranne le loro.

 

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