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Elettra che parlava con gli occhi

 

Non si può ricordare la scrittrice Elettra Testi morta in questi giorni di giugno 2022 senza nominare il suo molto amato Giacomo Leopardi:
La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza“ (Zibaldone di pensieri).

Negli ultimi anni della sua vita Elettra Testi ha avuto tante malattie ed ha sicuramente sopportato tanto dolore. Gli ultimi ricordi di lei sono tristi. Era triste vederla anziana, camminare lentamente, profondamente piegata dal peso degli anni, il volto segnato dal dolore. Ma nonostante la sua grande fragilità, Elettra non ha mai perso la sua sottile ironia e la gentilezza verso gli altri. Con gli anni, la sua voce si è abbassata, confusa, difficile da capire. Però Elettra continuava a parlare parlare con gli occhi. Fino all’ultimo è stata per tanti una maestra indimenticabile.

Passo dopo passo la sua generazione, la generazione della grande stagione avviata negli anni Sessanta, scende dal palco della cultura urbana di Ferrara. Oggi su questo palco c’è un’altra generazione, forse più libera, più capace di parlare al mondo attraverso i nuovi media, ma spesso pcocltail per iù noiosa, più più dipendente dal mercato e dal consumo, meno creativa.

Per la movida di via Carlo Mayr, forse ‘Leopardi’ è solo il nome di un nuovo cocktail per un aperitivo serale. Anche Elettra amava la vita, era piena di sentimento, coltivava il buon gusto, ma li accompagnava sempre con l’amore per la cultura, la letteratura, la musica classica.
Chissà, ora che sta dall’altra parte, potrà incontrare finalmente Paolina Leopardi, su cui Elettra aveva scritto un libro bellissimo.

La nuova Cortina di ferro
la Nato si allarga contro il “Regno di mezzo”

Il vertice NATO in Spagna ha raggiunto tutti gli obiettivi americani per l’attuazione del new order europeo. L’alleanza militare atlantica stava perdendo significato dopo la caduta del muro di Berlino e qualche Paese aveva avanzato l’idea di poterla sostituire con qualcosa di diverso, tipo una forza di intervento europea. Il pericolo di una simile evoluzione sarebbe stata la perdita di presenza e quindi di potere da parte di quelli che ci avevano salvato da Hitler e dal nazismo. Pericolo rientrato.

In Spagna si è riaffermata la missione difensiva della NATO grazie al rinvenimento di un nemico che la storia aveva già allontanato verso Est di qualche migliaio di chilometri. Si è creata una nuova cortina di ferro che include i confini finlandesi che, con la Svezia, vanno a rinforzare quella che qualche analista ha chiamato la “NATO Baltica”, con il conseguente accerchiamento di Kaliningrad, e ad aumentare le tensioni nei mari freddi del nord Europa.

In Polonia sarà inaugurata una nuova base militare permanente USA, la prima in un paese ex Patto di Varsavia, a sottolineare l’importanza crescente di questo Paese che sta prendendo la guida dell’Est contro l’invasore russo allontanando dalla prima linea Germania, Italia e Francia.

Svezia e Finlandia sono state invitate nella NATO grazie al fatto che Erdogan ha tolto il veto dopo aver ottenuto da loro, come lui stesso ha precisato, “quello che voleva”, cioè che i curdi siano definitivamente considerati terroristi e quindi uno stop alla tolleranza nei loro confronti da parte dei paesi nordici. Insomma, oppositori e dissidenti curdi saranno i primi a pagare a caro prezzo gli accordi per la nuova NATO. Ma la Turchia ha ottenuto anche altro, nuovi armamenti dagli USA come gli F16, di rientrare nel programma F35 e di poter anche liberamente comprare missili dalla Russia. Tutto questo fa di Erdogan un grande negoziatore, rafforza l’idea di una presenza nell’Alleanza Atlantica strumentale agli interessi nazionali e ne accresce l’importanza come potenza e interlocutore privilegiato degli USA, anche a discapito del ruolo che dovrebbe ricoprire l’Italia nel Mediterraneo e nei Balcani.

L’Italia non ha mai saputo ritagliarsi nessun ruolo oltre all’essere pronta ad intervenire a chiamata dove, come e quando le viene chiesto. Questo fa di noi esclusivamente un fedele gregario. Siamo il Paese che subisce più di tutti le pressioni delle sanzioni contro la Russia, ma invece di pretendere qualcosa in cambio o tutelare in primis i nostri interessi strategici ed economici, come hanno fatto la Turchia e l’Ungheria, oppure bilanciando meglio dichiarazioni di prassi e acquisti di gas seguendo l’esempio della Germania, accettiamo e mettiamo in atto pedissequamente; salvo poi andare in giro per il mondo cercando di rimediare altrove “il gas perduto” e chiedere interventi concertati dell’Europa unita.

Insomma, dei bravi scolaretti, decisamente poco furbi.

Se si guarda la nuova cartina europea si vede quanto siano diventati importanti, nell’ottica di difesa russa, i confini bielorusso e ucraino, ad oggi gli unici che la dividono da installazioni e basi americane o NATO. Con l’ingresso della Finlandia si concretizza quel senso di accerchiamento che ha sempre caratterizzato l’immaginario russo. Le grandi potenze nella storia, e l’impero romano insegna, avevano sempre degli stati cuscinetto che contribuivano a rendere i loro sonni più tranquilli. Oggi abbiamo creato dei blocchi pericolosamente confinanti con una trincea moderna fatta di battaglioni rotazionali e aerei in grado di trasportare armi nucleari tattiche per attacchi veloci ad alta intensità.

In ogni caso sembra che nessuno voglia fare davvero la guerra a Putin, stando alle dichiarazioni che si concentrano su difesa e deterrenza. Di conseguenza si capisce che l’intenzione è quella di approfittare della guerra in Ucraina, da molti vista come la conseguenza di una vera e propria provocazione da parte americana e inglese, per ottenere una serie di risultati strategici.

Gli Stati Uniti hanno un impero da difendere basato su una moneta che è moneta di riserva e che oramai è sostenuta più dalla potenza e presenza militare che dall’economia. Per mantenere lo status quo per qualche altro decennio e allontanare nel tempo il declino (la storia degli ultimi 500 anni insegna che fu lo stesso per il fiorino e l’Olanda, poi per la sterlina e la Gran Bretagna) hanno bisogno di aumentare il controllo sulla colonia più importante, l’Europa. Quindi devono aumentare la presenza militare e ribadire l’influenza che cominciava ad essere messa in dubbio, e per farlo stanno utilizzando le ragioni e le paure dei paesi dell’Est. Per compattare un’alleanza militare serve trovare un nemico, una minaccia oppure rinvigorire un vecchio nemico che in questo caso è lì, pronto al bisogno e allo scopo. Nel nuovo concetto strategico della NATO si legge che la Russia è “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza dei suoi Paesi membri” e che la Cina è “una sfida sistemica”, non tanto sul piano militare, quanto su quello tecnologico.

Quindi la vera strategia prevede che la Russia debba indebolirsi consumandosi dietro a questa guerra per indebolire, di conseguenza, il potenziale asse sino-russo. Una volta sistemato questo fronte, si potrà tornare a occuparsi a pieno titolo della sola Cina, la vera sfida all’impero dominante. Zhongguo, “il paese di mezzo”, come la chiamano i cinesi. 

Marmolada

 

MARMOLADA
non è l’inferno di ghiaccio
Ma è il ghiaccio che va all’inferno
Di calore
Un fulmine di gelo
Che strascina
Vite
Rocce
Soccorsi
Dramma
Che urla bianco
Di terrore
Poi sarà silenzio
Come sempre
Tenace
Stolida
Impotenza
Degli ominidi
Onnipotenti?

SAVE THE PARK
Un comitato per spostare i grandi eventi dal Parco Bassani

 

Sono passati solo 10 mesi da quando scrivevo della non opportunità a ospitare al Parco Giorgio Bassani il Comfort Festival (Bellezza, Musica e Cibo), patrocinato da Amministrazione e Teatro Comunale di Ferrara e che lì si è svolto il primo fine settimana di settembre, ma anche qualsiasi altro tipo di eventi di questo genere.

Nelle ultime settimane di questo caldo e secco giugno molte associazioni ambientaliste e animaliste ferraresi, assieme a tanti singoli cittadini, hanno dato vita al comitato Save The Park in seguito all’annuncio del concerto di Bruce Springsteen, tappa ferrarese del tour in programma per il 18 maggio del prossimo anno, prevista proprio al parco Bassani.

Il comitato si è dichiarato contrario all’utilizzo per il concerto della parte pubblica del parco Urbano, al fine di preservarne l’aspetto faunistico e paesaggistico e per gli aspetti logistici particolarmente problematici che ne deriverebbero. Gli aderenti al comitato propongono una scelta alternativa a quella iniziale, l’area a sud della città dove sorge l’Aereoclub Volovelistico Ferrarese.

E’ l’ambiente del Parco Giorgio Bassani a comportare aspetti problematici e a non essere, non solo a mio parere e come più volte argomentato, il luogo adatto a queste iniziative e a qualsiasi altro tipo di eventi come quelli organizzati negli ultimi anni.

Il Parco Urbano, si rammenta ancora una volta, nasce dall’idea, legata al Progetto Mura, di “sistemare a parco un’area comunale quale naturale sviluppo della grande Addizione Erculea che ha fatto della nostra la prima città moderna d’Europa”, e che Paolo Ravenna, allora presidente di Italia Nostra, nell’ottobre del 1978, nell’ambito del Symposium internazionale di architetti e urbanisti tenutosi a Ferrara, aveva battezzato come Addizione Verde. Si tratta di un’area di circa 13 Kmq posta tra le mura nord della città e il Po, in seguito sviluppata (in particolare da una serie di interventi tra il 1995 e il 2000) attraverso un progetto affidato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nell’ambito di una convenzione stipulata con il Comune di Ferrara[1]. Nel marzo del 1979 Giorgio Bassani plaudiva alla proposta che, all’epoca, poteva “apparire come una semplice, deliziosa utopia, di collegare il perimetro dell’antico Barco del Duca sino a contatto col Po“.

L’architetto Giulia Tettamanzi nella sua tesi di dottorato[2], scrive più recentemente che la pur saggia scelta di tutelare il territorio del Barco, non ha costituito una ragione sufficiente per assegnare al Parco Nord lo stesso successo culturale e sociale del Parco delle Mura, non evolvendo oltre la semplice tutela, subendo l’operazione di valorizzazione culturale e funzionale un rallentamento. Il nodo della questione – afferma Tettamanzi – rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace” l’area in questione “ai modelli di vita attuali”, e se un qualche sviluppo vi è stato, certamente non con la stessa determinazione e chiarezza di obiettivi, né con gli stessi risultati ottenuti nel restauro delle mura. E’ mancata una politica di valorizzazione capace di proporre una funzione sostenibile per il territorio, che dalle mura al Po oggi alterna campi coltivati a terreni incolti, campi da golf a zone grossolanamente attrezzate a parco urbano, aree con aspetto di naturalità, a un depuratore, a un ex inceneritore e, si può aggiungere, un campeggio comunale attualmente in disuso.

In un articolo del 2003[3] Stefano Lolli, oltre a descrivere questa situazione, ricordava come Bassani definisse la prospettiva di collegare le mura Nord e il Po una risposta morale ed estetica della città, e come chiedesse a Ferrara, alle sue associazioni culturali e alle istituzioni, non tanto coraggio, ma soprattutto idee chiare. Mentre si stava definendo il Progetto Mura, scrive Lolli, dal 1986 iniziò a prendere corpo la sistemazione a parco dell’area comunale di cento ettari che rappresentava il primo nucleo dell’Addizione Verde […] che è l’area ad uso pubblico limitrofa al Parco delle Mura e che oggi vede una destinazione e un utilizzo probabilmente non previsti nei progetti originari. In questa fascia sono insediate diverse “funzioni”: gli orti, il campo da golf (ampliato in questi ultimi anni verso nord), gli impianti natatori, anche questi di recente ricostruiti e ingranditi, il centro per il tiro con l’arco, il Centro Sportivo dell’Università, il campeggio, come detto oggi in stato di abbandono. Funzioni, afferma Tettamanzi, per le quali è mancato un progetto coordinatore che, soprattutto, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata2, e che ha portato, per quasi vent’anni, a un uso del Parco non compatibile rispetto alle finalità con cui era stato ideato, e che è “area di particolare interesse paesaggistico e ambientale”, come recita il Piano Paesistico Regionale.

Molte le considerazioni e le riflessioni che si potrebbero fare, ma non è l’obiettivo di questo scritto. Solo qualche riga può essere utile per citare le proposte più rilevanti rispetto al progetto originario che non sono state realizzate. In primo luogo la rinaturalizzazione dell’ex-discarica nei pressi della motorizzazione civile e relativa trasformazione a parco pubblico, poi la messa a dimora di alberi e vegetazione arbustiva molto più numerosa di quella attuale necessaria in quanto elemento capace di “contribuire ad abbattere i livelli di inquinamento dell’aria che incombono su Ferrara”, ma anche “la piantumazione di alberi da frutto al fine di dare all’area una valenza di orto o giardino, in sintonia con le radici storiche del Parco”, l’acquisizione, a nord dell’attuale spazio pubblico, tra via Canapa e via Gramicia, della fascia di terreno e dei fabbricati presenti, conosciuti come possessione Sant’Antonio, che avrebbe dovuto diventare, in seguito ad opportuna ristrutturazione, il Centro Servizi del Parco (con punto informazioni, ristorante agrituristico, noleggio biciclette, ecc.), dotato di personale (un direttore e due operatori) con funzioni di manutenzione e custodia, supportati da volontari quali guardie ecologiche e membri di associazioni ambientaliste e naturalistiche per la gestione delle strutture e delle attività tra cui la riconversione del terreno ad agricoltura biologica e rimboschimento. Infine la realizzazione, in diversi punti, di torrette di avvistamento della fauna e di osservazione del Parco. Un vero e proprio progetto orientato alla fruizione naturalistica del Parco!

Per finire credo che la costituzione di questo comitato sia una occasione importante per affrontare, assieme ad altre simili iniziative che hanno preso corpo più o meno di recente in varie parti del paese, la questione dell’impatto ambientale e sociale dei grandi eventi e del rapporto di questi con gli spazi naturali. Tema sempre più di attualità anche in relazione ai problemi sempre più stringenti e drammatici che tutti siamo chiamati ad affrontare e che sempre più interesseranno le vite nostre e delle generazioni future.

“Tra le cose che la società moderna ha danneggiato c’è sicuramente il pensiero. Sfortunatamente, una delle idee più danneggiate è quella di Natura. Come siamo arrivati a considerare quella che chiamiamo “Natura” come un semplice oggetto che sta lì da qualche parte? Dobbiamo per forza affidarci a teorie nuove e aggiornate, che poi ripropongono lo stesso concetto, solo in una versione più sofisticata e alla moda? Quando capisci che tutto è interconnesso, non puoi più aggrapparti all’idea di Natura intesa come oggetto solido e unitario: smette di essere una semplice presenza che se ne sta lì, fuori di te.”

Timothy Morton, Ecologia Oscura – Logica della coesistenza futura, LUISS University Press, Roma, 2021

 

[1]Ferrara, Progetto per un parco”, Cluva Università, 1982.

[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.

[3] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003.

IPER CONNESSI
Siamo in prigione, e lo smartphone è il nostro secondino.

 

Esco di casa, finalmente parto, prendo un treno dopo mesi di clausura forzata. Siamo ancora tutti mascherati, qualche colpo di tosse o soffiatura di naso che ancora insospettiscono e fanno girare istintivamente dall’altra parte. Mi accomodo, ho cercato, come sempre, una carrozza poco frequentata e un posto isolato, a costo immancabilmente più elevato, ma serve a poco, tutto pieno. Pieno di esseri umani vocianti e trafelati, carichi come somari, con tutto il rispetto per i somari, con valigie di una grandezza esasperata e spropositata. Mi domando sempre cosa mai si porteranno, e perché, forse stanno via mesi. Sarà che, da anni ormai, viaggio con bagagli leggeri, memore di tempi passati dove quei fardelli pesanti erano divenuti un incubo, pesi fatti di cose inutili e che sistematicamente restavano inutilizzate e chiuse nelle valigie.

Viaggiare leggeri credo che sia il lusso maggiore che ci si possa permettere, la fortuna è di chi ha la capacità di essere selettivo e indovinarci.

Dicevo, mi siedo e mi guardo intorno. Stesso spettacolo delle metropolitane, dei bus, dei parchi, dei giardini e, ahimè, spesso anche dei musei. Tutti chini sull’oggetto del desiderio, su quel telefonino attira-persona, o come lo chiamo io su quell’odioso e antipatico device, che ormai è una vera barriera a ogni scambio umano fatto di attenzione e ascolto. Nessun libro in vista. Rarissimi esemplari di bipedi ormai li sfogliano. Giornali tanto meno. Solo schermi. Non parliamo di bambini e ragazzini. Idem.

Tutti connessi, a mostrare quello che si mangia e si beve, a quanto si è felici e glamour, a come è bello il mare o la montagna, quella mania di presenza che ci allontana dal vero presente. Succede anche al ristorante, quegli schermi illuminati campeggiano sui tavoli, sempre a sbirciare, anche quando si parla, non esiste più un dialogo che non sia interrotto da un bip di WhatsApp, di un sms o di un e-mail urgente che necessita attenzione immediata, perché senza di noi il mondo non si salva o non va avanti. Tutti indispensabili. Diritto alla disconnessione? Siamo noi a non volerlo, a non esserne capaci.

Li odio, ammetto, li odio terribilmente, odio i telefonini e coloro che vi stanno sempre incollati. Appiccicati come la carta moschicida. Con lo sguardo perso e fisso di chi non vede quanto succede accanto.

È una presenza che diventa assenza, disattenzione verso colui che ti sta parlando che non viene puntualmente ascoltato, lo si capisce dalle risposte vaghe che si ricevono. A volte non sono da meno, e, allora, mi fermo.

Se avete visto il documentario su Netflix The Social Dilemma (se non lo avete fatto, ve lo consiglio) concorderete sul tipo di allarme e di controllo sulla e della nostra attenzione e delle sue motivazioni spesso commerciali, ma ciascuno di noi dovrebbe essere capace di fermarsi. Il cervello lo abbiamo, serve anche a quello, a farlo funzionare.

Basta onnipresenza, sempre e continua, alziamo gli occhi. Sempre di più leggo di persone che si prendono una pausa dai social network, non è semplice soprattutto per chi li utilizza per lavoro, ma va fatto. Bravi.

Stacchiamo gli occhi dal basso di uno schermo, guardiamo negli occhi la persona che ci sta di fronte, rivolgiamo lo sguardo al cielo per vederne le nubi o fuori da un finestrino del treno per cogliere la bellezza di alberi e prati.

Guardiamo intensamente il colore del mare e dei fiori, non importa se non li fotografiamo con un apparecchio di ultima generazione, la memoria farà il suo lavoro, quelle sensazioni resteranno per sempre nostre. Fermarsi a fotografare spesso fa perdere l’attimo, un attimo che si può fermare solo nella nostra mente. Perché la memoria e le sue sensazioni sono la sola vera ricchezza di ogni essere umano. Una sensazione che con gli anni si trasforma in un ricordo che diventa sempre più emozionante. Non è il posto che fa la differenza ma quel sentire che negli anni muta e spesso rincuora e conforta.

Guardiamoci intorno, allora, alziamo quella benedetta testa, cerchiamo i colori che nessuno schermo può darci, accarezziamo il nostro cane per sentirlo più vicino, allunghiamo la mano per sfiorare il capo di un genitore, di un nipote o di un nostro caro. Quella mano che è sempre sulla tastiera sia utilizzata per sfiorare, accarezzare, disegnare, dipingere, suonare, coltivare un orto, raccogliere un fiore, cucinare una verdura, ricamare, unirsi in preghiera per un salutare mudra di yoga.

Disconnettiamoci dalla finzione e ricolleghiamoci alla realtà. Su gli occhi, allora, via dagli schermi, sguardo dritto al cielo! Non è poi così difficile.

Addio ad Elettra Testi, maestra di stile e scrittura.

 

Sono rimasta folgorata per la prima volta dalla scrittura di Elettra Testi quando ho letto i suoi resoconti, brillanti ironici e ariosi, sul settimanale “Ferrara e Ferrara”. Erano gli ultimi mesi degli anni Novanta e io, che ero una cultrice della prosa brillante e appuntita con quello sguardo sempre un po’ inaspettato e personale di Natalia Aspesi e Alberto Arbasino, ho ritrovato nella scrittura di Elettra Testi ciò che più amo: lo sguardo personale e originale, la capacità di filtrare il mondo e la realtà che ci circonda con quell’autoironia e attenzione che rendono esemplari e degni di nota e di gustoso ascolto e lettura anche i dettagli apparentemente più piccoli dell’esistenza.

Ho pensato che una prosa del genere avrebbe meritato e coinvolto una platea molto più ampia di quella a cui era rivolta. Poi quello stile è stato per me uno dei primi stimoli a sperimentare una scrittura diversa da quella imperante fino ad allora nei quotidiani dove ho imparato il mestiere, che sembrava dovesse essere sempre un tutt’uno con il distacco e una forma di oggettività che lascia l’autore invisibile, dietro le quinte dei fatti e degli accadimenti.

Elettra, per me, è stata un punto di riferimento e uno stimolo a uscire dall’anonimato, a raccontare il mondo anche attraverso il filtro dell’esperienza e delle sensazioni personali. Un incoraggiamento che non ho mai avuto l’occasione di rivelarle e che non  è da meno di quello di Gian Pietro Testa, suo compagno di una vita e mio caro e prezioso maestro della scuola di giornalismo.

Di lei ricordo sempre anche quell’attenzione solidale, femminile ed emancipata, ma attenta e sensibile. “Lavorare è importante”, ci teneva a ricordarmi quando, da neo mamma, la incontravo passeggiando con la carrozzina per le strade di Ferrara. Ci ho pensato spesso, alle sue indicazioni, domandandomi come avrei potuto continuare a conciliare la mia vita e il mio mestiere, che in quel momento era legato alla redazione della Gazzetta di Mantova, quasi cugina ferrarese, ma separata da un tratto lungo e faticoso di strada e di orari lavorativi proibitivi. “Il lavoro consente di fare le proprie scelte con libertà, senza quello non avrei potuto seguire la passione e vivere la vita che ho”, mi diceva.

Grazie per il sostegno e la condivisione determinante, così come per un’indicazione di stile che ha anticipato in maniera intelligente e acuta il tempo dei blogger e della comunicazione social.

Ad Elettra verrà dato l’addio sabato 2 luglio 2022, con partenza alle 15.15 dalla camera mortuaria e il trasferimento successivo in Certosa. Io non ci sarò, ahimè. In quello stesso giorno a poche ore di distanza sarò a Torino per la laurea del bambino che allora scarrozzavo tra via Carlo Mayr e via Scienze e che mi ha permesso di incontrarla poi sempre più spesso in questa sua città dove lei ha lasciato il segno. Il mio abbraccio si allungherà, enorme e stretto, a lei, a Gian Pietro e ad Enrico Testa, formidabile famiglia scrivente e pensante fuori da ogni conformismo.

 

Post scriptum
La grande scrittrice Elettra collaborava a questo quotidiano fin dalla sua fondazione, era impossibile non volerle bene e non esserle amico.  Al suo compagno di vita Gian Pietro, (per noi di ferraraitalia  e per ogni giornalista ferrarese con “la schiena dritta”) un punto di riferimento, un maestro di ironia e irriverenza e un papà affettuoso e accudente, a suo figlio Enrico Testa, va il nostro  cordoglio e la nostra vicinanza.
Francesco Monini e la redazione di ferraraitalia /periscopio

Teresa Batista stanca di guerra

 

“La disgrazia è una pianta dal legno resistente; a ficcarne un germoglio nella terra non c’è bisogno di occuparsene, cresce da sola, frondeggia, ne son piene le strade. Nel cortile dei poveri, poi, la disgrazia nasce in quantità, ma il popolino che abbia razza e coraggio sufficienti a far fronte a tanta disgrazia continua a vivere lo stesso.”
Teresa Batista, una mulatta bellissima e appassionata, è una di quelle creature che con la disgrazia ci è nata e per lei la pianta è fiorita molto presto. Ha sempre vissuto con il peso del suo fardello senza dare mai importanza alla disgrazia. Per lei contava l’allegria, “pianta capricciosa, difficile da coltivare, che fa poca ombra, che dura poco e che richiede terreno concimato, né secco né umido, né esposto ai venti.”
Le era difficile piangere, testarda come un mulo, audace, temprata dalla vita fin da bambina, “cuore di burro” solo per chi amava totalmente. Questo è il ritratto di Teresa nelle pagine di “Teresa Batista Cansada de Guerra”, “Teresa Batista stanca di guerra”, il memorabile romanzo dello scrittore brasiliano Jorge Amado (1912-2001), pubblicato nel 1972. Orfana di entrambi i genitori, ancora ragazzina tredicenne era stata venduta dalla zia al temibile Capitano Justiniano Duarte da Rosa, diventandone la sua schiava sessuale. Dopo numerosi tentativi di ribellione e fuga da quella vita insostenibile pervasa da una costante paura, Teresa si innamorò del giovane Daniel, sfidando le ire del Capitano che finì con l’uccidere. Salvata dalla prigione dal fazendero Emiliano Guendes, passò a un nuovo capitolo della sua vita diventando la mantenuta del suo salvatore, il quale la istruisce e le offre l’occasione di riconsiderare la vita in un’ottica diversa.

L’epilogo di questo legame tra i due coincide con la morte dell’uomo e Teresa, alla ricerca del filo conduttore della propria esistenza lasciata fino allora in balìa degli eventi, decide di seguire il medico Oto Espinheira nel sertão, la zona del nord est del Brasile dove le condizioni climatiche proibitive alternano siccità a inondazioni improvvise. Ma la guerra di Teresa Batista non è ancora terminata e la “disgrazia” questa volta ha il volto del vaiolo. Un’epidemia rapida e devastante: “Fosse, casse da morto, pianto e lutto. Più tardi i tempi si restringono; non c’è più spazio per il pianto e la preghiera.” E in quei giorni di vaiolo nero, uno strano e sparuto battaglione di prostitute di quei luoghi, capeggiate da Teresa, si sparpagliarono per la città di Buquim e le campagne circostanti a somministrare il vaccino, lavare gli indumenti degli appestati e gli ammalati con il permanganato, scavarono fosse e seppellirono la gente. Soccorsero i contagiati cacciati dalle fazendas, in cerca di un lazzaretto, che morivano spesso in cammino.
Finita l’epidemia, Teresa Batista decide di esibirsi come sambista in un cabaret di Salvador de Bahia e in seguito diventa prostituta per “non essere costretta a simulare affetto al protettore di turno”.

La sua vita però non è destinata a concludersi in un bordello e l’occasione per darle una nuova traiettoria arriva con l’ordine della corrotta Amministrazione locale di traslocare le case di tolleranza dal centro alle periferie, in fatiscenti e malsane costruzioni di proprietà di un politico ingordo di guadagno e consenso popolare. ”Tutto il meretricio deve sloggiare dal centro e andare a installarsi nella Città Bassa ai piedi della montagna.” imponeva l’ordinanza. “Chi godrà delle buone grazie della polizia avrà facilitazioni e vantaggi, ma guai a quelli che fanno parte della lista nera!”

La donna non esita ad organizzare uno sciopero tra le prostitute, che ha il sapore di una vera e propria rivolta, e sui giornali compaiono titoli come: VIOLENTO CONFLITTO NEL MERETRICIO; IL TRASLOCO DELLA “ZONA” SI INIZIA A LEGNATE; I CAMION DELLA POLIZIA FANNO IL TRASLOCO DELLE PROSTITUTE A RUA DO BACALHAU, con tanto di fotografie. Un provvidenziale incendio di vaste proporzioni, di origini sconosciute (!), che divora nelle fiamme i vecchi casoni designati dalla polizia come nuova residenza delle prostitute cacciate da rua Barroquinha, riporta tutta la vicenda a ragionevoli soluzioni. E mentre Teresa Batista, una volta ritrovata un’apparente normalità, incontra inaspettatamente il suo primo e vero amore, Januario Gereba, sparito nel nulla e creduto morto, tutto sembra rientrare in una nuova e più giusta dimensione, un nuovo inizio, perché la guerra di Teresa Batista è definitivamente conclusa.

Illustrazione di Erika Kuhn

Chissà quante altre donne, Anna, Caterina, Nunzia, Irene, Giorgia, Piera, Olga… stanno combattendo la loro guerra, armata, personale, familiare, sociale, e sono stanche di guerra. Le loro storie magari non avranno i colori di eterno carnevale che Jorge Amado riserva alle donne del suo libro, come in una ballata travolgente, condita di elementi fantastici e realistici mescolati insieme, ma saranno sicuramente storie degne di una rispettosa attenzione, storie che meritano un epilogo che rende giustizia e colloca tutte le tessere al loro posto, lontano dalla guerra.

 

Cover: illustrazione di Erika Kuhn 

 

Parole a capo
Grazia Fresu: “I luoghi” e altre poesie

La vita è come un paesaggio. Ci vivi in mezzo ma puoi descriverla solo da una certa distanza.
(Charles Lindbergh)

La gente strana

La gente strana
scavalca i cancelli senza aprirli
non si porta via niente
dai sentieri che percorre
dice una parola inaspettata
rompendo l’acqua dello stagno
gente che fa notte
per guardare la luna
ballare un tango
ricordare un amore
gente di percorsi impervi
di difficili scelte
di viaggi al confine del mondo
scalate nei cuori e nelle abitudini
segreti condivisi doni senza ragione
gente che si specchia nell’altro
che tende la mano senza pretese
che si pone domande libera arcobaleni
gente che conosce il mondo
eppure sogna imprevedibili futuri
gente che possiede il canto le storie
che legge in biblioteche senza fine
che parla con gli sconosciuti
gli scomparsi i vinti gli dei
gente strana che quando muore
lascia il suo profumo nel mondo.

I luoghi

Non so in che modo
si lascino i luoghi
di colpo come li lascia
il vento o lentamente
scivolando in un’altra veglia
un brivido sulla soglia dell’oblio
o un graffio permanente nell’anima
ma la mappa di tutti si annida
in angoli sconosciuti
che un giorno faranno male
o in fonti che mi disseteranno,
saranno deserti di dune blu
mari profetici e città di specchio
rive ponti strade di continenti
affacciati sulle traversate
che ho osato
e saranno volti e voci
indistinte metafore
del mio ostinato cercare.

Giochiamo con l’assenza

Giochiamo con l’assenza
i volti che non ci sono più
le voci ormai solo musica
d’alberi e conchiglie
le passeggiate sul lungotevere
all’ora delle ombre lunghe
sotto le arcate dei ponti
i teatri coi vecchi palcoscenici
dove cercare il senso
il nostro letto disfatto la mattina
che ancora gemeva di abbracci
tutti i bambini che mi fecero
maestra e madre forse dimentichi
forse inferociti oggi dalla vita
i libri che ho perso nell’oblio
i versi che non ho scritto
giochiamo con le profezie non avverate
i destini stravolti
le terre che non conosco
le lingue che non parlo
accantoniamo le presenze
che ci hanno illuso d’essere
giochiamo con l’assenza
questo stupore della mancanza e dell’ignoto
su cui si accende a tratti
la nostra fiaccola segreta.

I versi per te

I versi per te li impasto
con la farina del corpo
con l’acqua del sorriso,
vi metto l’olio dei miei umori
la dolcezza delle labbra
e il sale di ciò che conosco,
per questo guizzano nell’oceano
giocando con le sirene provocano
il serpente nell’Eden e tessono
reti di luna spirali di conchiglie
per catturarvi quel bacio mai dato
quel sospiro di sesso inquieto
che ancora non abitiamo.
E anche le mie parole come le tue
non vestono solo inchiostro
metafore e a volte rime segrete,
sofferte nell’eco
di una detestabile lontananza
sono un frullare d’ali che danza
trasparenze un vento d’isole e vele
una donna bruna sul respiro del mare
per ricamarti di lusinghe il cuore.

Una palla di terra e acqua

Ho retto secoli di devastazioni terremoti
guerre prigionie la violenza efferata
dei crudeli degli stolti dei deboli
galoppo di cavalli imbizzarriti
carri armati ciechi aerei uccelli di morte
ho retto la rottura degli specchi
delle promesse dei patti
i piatti spezzati della bilancia
la giustizia rinchiusa in un bordello
la dignità mandata in fondo a un pozzo
la bellezza esiliata nelle terre del sogno
la storia triturata in un delirio di notizie fasulle
ho sopportato una scuola vascello fantasma
per bambini senza padri
per padri senza responsabilità
tante grida tanti perché
cui non si vuole rispondere
ho sofferto famiglie senza bussola
alla deriva in un gioco senza limiti
ho sostituito la maschera al volto
imbottito il corpo di veleni
lo spirito di ottuse obiezioni
ho perso per strada gli scopi le intenzioni
l’empatia soffocando tra spire la ragione
ho perso gli uomini inabili spettatori del disastro.
Sono solo una  palla di terra acqua
e fuoco segreto nelle viscere
che gira senza senso nel cielo.

 

Grazia Fresu
Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo.  È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto di Sheherazade”, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al mio tempo” che ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; “Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; “L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo “Canto degli speroni rossi”, Ed. Edigrafema. Ha realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia. Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove”, con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società e con “La Macchina sognante”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Melenchon, la gauche n’est plus caviar

 

Una settimana fa si è svolto il secondo turno delle elezioni per l’ Assemblea legislativa in Francia. Giustamente si è detto che quell’esito elettorale segnala alcuni punti di forte novità nel panorama politico francese: 1 Macron perde la maggioranza assoluta e non potrà più governare da solo. 2 Viene avanti una forte affermazione della NUPES (Nuova Unione popolare, ecologica e sociale) guidata da Melenchon. 3 C’è una affermazione significativa della destra estrema di Le Pen.

Non tutti questi elementi possono, però, essere messi sullo stesso piano. A me pare che la novità di gran lunga più rilevante, dal punto di vista politico, sia la forte crescita della NUPES di Melenchon. Avanzo questo ragionamento anche perché, in modo che a me pare per nulla disinteressato, i nostri grandi media mainstream hanno presentato la vicenda elettorale francese come caratterizzata, in primo luogo, dalla sconfitta di Macron e, ancor più, dalla forte avanzata della destra.

Il raggruppamento elettorale di Macron Ensemble! ottiene il 38,6% dei voti e 245 seggi, ben al di sotto della maggioranza assoluta pari a 289 seggi, e, soprattutto, ne perde quasi un terzo rispetto a quelli che aveva nel 2017. Macron paga giustamente l’elitarismo sia delle sue politiche sia della sua immagine.

Il Rassemblement National di Marine Le Pen fa un grande balzo nei seggi assegnati (dagli 8 parlamentari del 2017 agli 89 di oggi), ma molto meno in termini percentuali (che continua a rimanere il dato più importante), passando dall’ 8,7% del 2017 al 17,3% di oggi. Un risultato che è il prodotto di due elementi: il sistema elettorale francese a doppio turno e l’inedito smottamento di voti centristi, dagli elettori di Macron a quelli degli eredi del gollismo di Les Republicaines, verso l’estrema destra.

Il sistema elettorale francese per le elezioni legislative funziona in termini tali che al secondo turno, quello che decide sull’elezione dei candidati ( a meno che al primo turno uno di essi superi il 50% dei voti), sono presenti quelli che al primo turno hanno superato le soglia del 12,5% e sostanzialmente si risolve in un pronunciamento tra il primo e secondo arrivato al primo turno. Ora, in questa tornata elettorale, per la prima volta, si è verificato che in numerosi collegi elettorali – circa 61- gli sfidanti erano rappresentanti di NUPES e della destra di Le Pen e, secondo quando ricostruito da Le Monde, solo “16 [candidati macronisti] hanno chiaramente fatto appello a votare per il loro ex-rivale di sinistra, e altri 16 a non votare il Rassemblement National”, mentre la maggioranza ha rifiutato di dare alcuna consegna ai propri elettori. Quello che è venuto meno, in buona sostanza, è stato il “fronte repubblicano” che ha funzionato fino al 2017, in base al quale, comunque, esisteva un argine e non si verificava un travaso di voti tra tutte le forze politiche centriste e di sinistra e l’estrema destra.

Anche alla luce di questa lettura, diventa evidente che il vero vincitore di questa tornata elettorale in Francia, è la NUPES di Melenchon.
Essa conquista 131 seggi rispetto ai meno dei 60 che le varie forze che hanno dato vita alla coalizione avevano nel 2017 e, soprattutto, in termini percentuali, triplica i propri consensi, passando da poco più del 10% di 5 anni fa al 31,6% di oggi.
Soprattutto, ciò che emerge, senza sottovalutare le difficoltà incontrate e che si ripresenteranno nel dar vita ad una vera e propria alleanza coesa, è che attorno a NUPES si è coagulato un reale blocco sociale nuovo, composto dai settori sociali più deboli, dalla classe operaia al nuovo lavoro povero e precario, e da un ceto intellettuale, soprattutto giovanile e urbano, che fa sì che NUPES si afferma sia nelle banlieue che nei centri urbani importanti, nella classe lavoratrice così come nelle nuove forme del lavoro intellettuale.

Probabilmente questo è ciò che più spaventa l’establishment nostrano e d’Oltralpe, che, per questa ragione, preferiscono costruire una narrazione per cui lo scontro si gioca tra europeisti e modernizzatori contro il populismo antieuropeo e retrogrado della destra (salvo poi cedergli voti) oppure provando a dipingere il nuovo corso della sinistra francese come una variante di questo stesso populismo. Il punto è che, invece, una sinistra che si pone obiettivi radicali di redistribuzione del reddito, lotta alla precarietà, riduzione dell’orario di lavoro, rilancio del ruolo pubblico e dello Stato sociale, a partire dalle pensioni, prefigurazione di un modello produttivo che incorpori una giusta transizione ecologica (vedi  [qui]  il programma di NUPES) viene percepito dalle classi economiche dominanti e dalla politica che le sostiene come una reale minaccia alla prosecuzione alle politiche neoliberiste che, in varie forme, hanno costruito negli ultimi decenni. Da qui la necessità di ridimensionare chi si fa portatore di tali istanze, ma anche la non confessata ammissione che è in campo un’opzione alternativa potenzialmente forte e capace di mettere in discussione quelle politiche.

Questa considerazione mi aiuta anche a tornare alle vicende nostrane. Infatti, anche nel nostro Paese, diventa sempre più evidente che l’intreccio tra ricorso alla guerra e le sue conseguenze, crisi economica e sociale, crisi energetica-ecologica e sanitaria (che non è finita) assume sempre più l’aspetto di una crisi sistemica, che penso emergerà con ancora più forza nei prossimi mesi e può, almeno potenzialmente, indebolire, se non mettere in seria difficoltà, l’impianto fondato sul mix di centralità del mercato e neoautoritarismo del governo Draghi.

Una possibile avvisaglia di questo l’abbiamo vista in quest’ultimo periodo di tempo nelle vicende del ddl concorrenza. Esso ha concluso il proprio iter di discussione al Senato e ora passa alla Camera dei Deputati: in questo passaggio, quel provvedimento, intriso di un’impostazione di forte privatizzazione di tutti i fondamentali servizi pubblici e di ritrazione del ruolo del pubblico, ha mantenuto le sue caratteristiche di fondo, ma almeno è stato bloccato per quanto riguarda l’intenzione di ostacolare la gestione pubblica dei servizi pubblici locali, dal servizio idrico a quello dei rifiuti e altri ancora.
Infatti, l’art.6, quello che sanciva appunto tale scelta, è uscito riformulato dalla discussione in Senato e ora non prevede più le norme regressive che imponevano che, se un Ente locale voleva affermare la gestione pubblica di tali servizi, doveva passare attraverso la definizione di una relazione anticipata che giustificava la bontà di quella scelta rispetto al mancato ricorso al mercato e trasmetterla all’ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, suggerendo, ovviamente, a quest’ultima di intervenire. Si è arrivati a quest’esito, ancora parziale e su cui occorrerà ancora vigilare, perché, nella voluta indifferenza dei grandi media, in realtà si è messo in campo un’efficace e importante iniziativa, promossa da numerose realtà e movimenti sociali, a partire dal Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua.

Essa si è alimentata di vari ingredienti, che, messi insieme, hanno prodotto quel risultato: una mobilitazione sociale diffusa, con giornate di manifestazioni territoriali e nazionali, il coinvolgimento degli Enti locali territoriali (sono stati più di 60 i Consigli comunali e regionali che hanno approvato ordini del giorno per lo stralcio o la modifica dell’art.6, tra cui quelli di Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e molti altri ancora), un’interlocuzione importante con le forze politiche più sensibili ai temi avanzati, dai gruppi parlamentari di LEU a quelli di ManifestA e Alternativa, da Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista al M5S, almeno in parte, che hanno fatto breccia anche in una certa “debolezza” del governo Draghi, interessato, alla fine, a presentare più un risultato di immagine che di sostanza all’UE.
Senza adesso menare trionfalismi, né illudersi che quanto prodotto sia una ricetta valida per tutte le battaglie da compiere, rimane il fatto che il governo ha dovuto fare marcia indietro su una questione di una certa rilevanza. In ogni caso, come recita il proverbio, “se una rondine non fa primavera”, cerchiamo, però, di lavorare perché effettivamente ci sia un cambio di stagione.

Cover: 2013, Jean-Luc Melenchon a Tolosa, giugno 2013  (Wikimedia Commons)

Intervista a Nicoletta Cosentino: le “Cuoche Combattenti” di Palermo.
Un progetto di cucina sociale per le donne vittime di violenza

Scritto da Alessia Rotolo – Italia che Cambia

Partendo dalla sua storia personale, Nicoletta Cosentino ha costruito percorsi di riscatto, di giustizia e di affermazione per tantissime donne. Sono le Cuoche Combattenti del suo progetto di cucina sociale, lanciato grazie al sostegno della rete antiviolenza e del microcredito di Banca Etica.

L’obiettivo del suo progetto è quello di favorire l’emancipazione economica delle donne vittime di violenza di genere. L’impresa sociale si muove nel concreto dando a queste la possibilità di allontanarsi da ambienti malsani e di porsi in un’ottica lavorativa attraverso il recupero, la produzione, la commercializzazione di ricette popolari tradizionali. Dal suo laboratorio artigianale nascono conserve e prodotti da forno, su tutti c’è l’etichetta antiviolenza e cioè dei messaggi che possano arrivare alle mani e al cuore di donne che stanno subendo violenza domestica.

«L’idea che avevo era realizzare qualcosa di forte, che arrivasse in casa di tante donne con un messaggio che le colpisse perché percepissero che sono vittime – spiega Nicoletta Cosentino –, poiché molte purtroppo non se ne accorgono. Io adesso so che voglio combattere la violenza sulle donne».

«Dopo la separazione io stessa ho fatto un percorso su me stessa che mi ha reso consapevole di quello che ho vissuto e di quello che vivono tante altre donne. Sempre grazie al Centro Le Onde Onlus ho svolto un tirocinio formativo in un laboratorio dolciario, dove ho riscoperto la mia passione per la cucina e mi sono innamorata del mestiere della produzione».

Nicoletta aveva voglia di proseguire quel cammino sulle proprie gambe e così ha cominciato la ricerca di finanziamenti che l’aiutassero nella fase di start up. Partecipa a un corso sull’imprenditorialità dove le insegnano a stilare un business plan e a tenere la contabilità, poi grazie a Banca Etica riesce ad accedere a un finanziamento di microcredito e da qui spicca il volo verso la libertà e l’autonomia, aiutando e accogliendo donne in tirocinio formativo che come lei hanno fatto un percorso al centro antiviolenza.

«A settembre 2017 ho cominciato la prima produzione a casa mia, da sola», continua Nicoletta. «La salsa di pomodoro pensavo di farla solo per casa mia e invece si è magicamente trasformata nella salsa di Cuoche combattenti. Nel 2019 ho aperto il laboratorio. L’etichetta antiviolenza è rivolta alle donne per smascherare gli abusi e rinsaldare l’autostima. Sono diversi i messaggi, tra i miei preferiti c’è “chi ti ama, ama anche i tuoi difetti” perché credo sia profondamente vero. Poi amo molto il nostro motto che è “mai più paura, mai più in silenzio, non siamo vittime ma combattenti”».

«Di solito purtroppo quando si parla di violenza domestica si pensa alla violenza fisica e alle botte, invece spesso è invisibile, ti rende fortemente insicura, senza autostima; avviene quando l’altro non fa altro che denigrarti, non necessariamente con insulti verbalmente violenti ma in modo subdolo con una sottile ironia che minimizza il tuo valore, la tua intelligenza e il tuo impegno».

“Volevo realizzare qualcosa di forte,
che arrivasse in casa di tante donne con un messaggio
che le colpisse perché percepissero che sono vittime.”

Questo lentamente sgretola l’autostima delle donne: «Entrati in questo circolo poi c’è la violenza economica, perché si porta la donna a non lavorare più, e poi c’è l’isolamento da parte dell’abusante, che ti allontana dai familiari e dagli amici. Quando sei dentro queste dinamiche non è facile percepirlo».

«Esistono diversi tipi e diversi gradi di violenza – aggiunge –, io avevo difficoltà a separarmi ma non mi vedevo come vittima perché ho avuto sempre un carattere forte. Quello che consiglio sempre alle donne vittime di violenza è senz’altro di denunciare sì, ma di farlo con il supporto di un centro antiviolenza, perché così si denuncia nel modo giusto».

Le denunce fatte di impulso infatti spesso vengono ritirare, invece il centro antiviolenza ti aiuta ad avere un piano, a pensare e capire. «Quando ho messo piede al centro antiviolenza ho raccontato la mia vita e, per la prima volta, mi sono percepita come vittima; da lì ho cominciato a combattere».

Italia che Cambia
“Italia che Cambia” è una testata giornalistica. Vogliamo creare strumenti che mettano insieme tutti gli attori silenziosi di quell’Italia che esiste ma che attualmente è invisibile dall’esterno, perché ignorata dai mass media. Vogliamo raccontare e rappresentare quei milioni di cittadini fino ad oggi esclusi dai circuiti informativi, offrendogli allo stesso tempo una serie di servizi fondamentali alla valorizzazione e alla messa in rete delle loro azioni. www.italiachecambia.org

STORIE DI VIAGGI, DI ISOLE E DI SOGNI
Un appuntamento alla Bibliopop da non perdere

 A cura della Biblioteca Popolare Giardino


Se
amate il mare, se avete ancora un sogno da spendere, se credete che la fantasia aiuti a vivere nella realtà… se vi piacciono le storie, sempre a patto che l’autore sia bravo a raccontarle… se nel fuoco di questa estate di guerra cercate la pace, un po’ di acqua, un vento nuovo che gonfi le vele… ecco un incontro che non potete assolutamente perdervi !

La Biblioteca Popolare Giardino vi invita alla presentazione di un libro affascinante
«Le Isole Dei Sogni Impossibili»
 dello scrittore e giornalista veneziano
 Riccardo Bottazzo 
dialogherà con l’autore Sergio Levrino

Vi aspettiamo
Venerdì 1 luglio 2022  ore 21.00 
Presso la Sala Polivalente di Vle.Cavour 189 (piano terra del Grattacielo) Ferrara

L’isola che c’è, quella che c’è stata, quella che non c’è più, quella che ci sarebbe: tante sono le isole che si intrecciano in questo libro.

.“Molto spesso sono giochi che sfuggono di mano, alcune volte tentativi di rendere concrete le utopie (libertarie, pacifiste o egualitarie), altre volte approdi di uomini in fuga da demoni antichi che, non di rado, riescono a raggiungerli. Sta di fatto che quasi tutte le storie di isole conquistate terminano con una sconfitta, eroica o farsesca.
Del resto, come scrive Riccardo Bottazzo, “l’isola è immersa dal mare e nel mare, prima o poi, tornerà a inabissarsi”.
Ma poiché “l’acqua non divide ma unisce le isole”… questa unione marina è alla base di quello che lui ha fatto in  Le isole dei sogni impossibili  (Il Frangente, 2022), una raccolta ricchissima di storie di circa cinquanta isole, grandi e piccole, immaginarie e reali, abitate o abbandonate, che hanno come comune denominatore il tentativo umano di dominarle per crearci un nuovo mondo”
Tratto da: Joshua Evangelista, “Le isole dei sogni impossibili”, pubblicato da Frontiere News del 22.06.

 

L’autore
Riccardo Bottazzo è
nato a Venezia, dove si ostina a risiedere, è giornalista professionista. La sua formazione scientifica lo ha portato a occuparsi di tematiche ambientali e a viaggiare in tutto il mondo per raccontare su quotidiani italiani e stranieri le battaglie, per lo più sconosciute, in difesa della propria terra da parte di popoli come i Waorani dell’Amazzonia equadoregna, gli Himba della Namibia e i Mapuche della Patagonia. Ha scritto reportage dalle zone di guerra, dall’Iraq, dalla Palestina, dalla valle della Bekaa, tra il Libano e la Siria. È stato osservatore ONU nelle prime elezioni libere dopo la guerra civile a El Salvador. Viaggiare per lui è uscire di casa e raccogliere storie, anche quelle che non tutti vogliono raccontare e che tanti preferiscono non ascoltare. Ma la sua grande passione rimane il mare e per vederlo sorridere basta infilarlo in una barca o portarlo su un’isola. È velista e istruttore subacqueo federale e ha svolto diverse ricerche archeologiche nella laguna.

Il Libro
Riccardo Bottazzo, Le isole dei sogni impossibili, illustrazioni di Roberto Bottazzo, Verona, Il Frangente, 2022.
Il libro è disponibile in tutte le librerie d’Italia o acquistabile sulle librerie on line e sul sito dell’editore ll Frangente. Naturalmente – questo è il consiglio della Biblioteca Popolare Giardino – la cosa migliore è comprarlo direttamente la sera della presentazione con la firma autografa dell’autore.

Cover: disegno a colori di Roberto Bottazzo realizzato per illustrare il volume.

Pianta il libro … e nasce un albero!
Provare per credere.


Due azioni in una
(il detto popolare direbbe “prendere due piccioni con una fava”), leggere e piantare semi, due azioni che fanno crescere ed evolvere, insieme, a braccetto, come due amici di sempre. Le iniziative si moltiplicano, ma una, in particolare, ha fatto partire l’onda. Quelle onde benefiche salutari e che tanto ci servono, quelle ondate di idee fresche. Quando si parla di alberi, boschi, semi, piante, fiori, foglie e foreste (e orti e giardini), poi la mia immaginazione, curiosità ed entusiasmo volano, non hanno più freni. Sono verde di animo.

 

 

Vincitore di vari premi, viene dall’Argentina un delizioso libro per bambini fino ai 12 anni che si pianta come un albero, ideato da Pequeno Editor. Il titolo originale è Mi papá estuvo en la selva (in italiano è Mio papà è stato nella foresta, edito da Mondadori, nel 2018).

 

 

 

 

 

 

 

Il racconto riguarda un vero e proprio viaggio nella giungla ecuadoriana. Avventuroso e avvolgente, coinvolgente. Una di quelle avventure che tutti vorremo vivere. Questa casa editrice innovativa sostiene che tutto ciò che leggiamo fa parte della nostra biblioteca mentale e di ciò che siamo come persone. I libri che leggiamo si radicano in noi e ci trasformano, ci fanno crescere e cambiare. Il libro allora diventa come un albero che viene piantato e che si sviluppa insieme a noi. In particolare, questo libro speciale è stato progettato per incoraggiare i bambini alla lettura e al rispetto dell’ambiente. Le copie di questo libro, innocente e simpatico, sono state realizzate con carta riciclata e inchiostri biodegradabili. Nella bella e accattivante copertina sono stati inseriti dei semi di alberi che potranno dare origine a nuove piante quando i libri verranno piantati. Crescono gli alberi come crescono i bambini. Una bella e ricca, oltre che originale, analogia.

Gli autori sono Anne Decis, illustratrice francese classe 1969 (grande anno, il mese di luglio in cui Anne è nata poi…), e Gusti, illustratore-viaggiatore argentino classe 1963, che si sono occupati delle immagini e del racconto. Due anime curiose e creative.

Tra i semi nella copertina del libro vi sono quelli di jacaranda, un albero fiorito, dalle foglie pinnate, tipico delle regioni tropicali e subtropicali del Centro-Sud America, Sud Africa e dei Caraibi, che può raggiungere anche i 30 metri di altezza.

“Un giorno mio papà mi ha raccontato di essere stato in una foresta che è la madre di tutte le foreste…”, la storia è narrata da Théo e parla di un vero viaggio nella foresta amazzonica. Un pretesto per parlare della distruzione ambientale, della diversità culturale e del rispetto verso tutti gli esseri viventi. Le illustrazioni, insieme alle foto autentiche e alla scrittura realizzata a mano, contribuiscono a ricreare il diario di un bambino che vive in città, pieno di fatti interessanti, avventure ed emozioni.

Come piantare la carta che può dar vita a bellissimi fiori? Basta stenderla in un vaso o in un giardino sul terriccio, coprirla con circa 3 centimetri di terra, darle ogni giorno un po’ di acqua e dopo circa una settimana germineranno le prime piante. Il momento migliore per piantare all’aperto è da marzo a novembre. All’interno la carta può essere piantata in vaso tutto l’anno.


Controllare sempre che ci siano sufficiente luce, calore e acqua. E il gioco (da ragazzi) è fatto.
Siete curiosi? Guardate questo bel video…

 

Anne Decis, Gusti, Mio papà è stato nella foresta, Milano, Mondadori/Splen, 2018

Diario in pubblico
Le scarpe di nozze

 

Da 53 anni, nel giorno più lungo dell’anno, compio la tradizionale ri-scoperta delle scarpe di nozze e le spolvero, le lucido perché emblema fisico di una lunga felicità.

Sono di un marchio famoso conosciuto in tutto il mondo e che aveva sede proprio qui a Ferrara. Noi ragazzi sapevamo che nel momento che si calzavano quelle scarpe s’entrava nella maturità. A maggior ragione erano state scelte per far parte del mio vestito ‘nuziale’.

Sfogliando l’album delle foto scattate in quel giorno da un bravissimo artista mio amico che indugiava sul velo di mia moglie, sulle mises delle amiche, sui volti noti e sui parenti, le scarpe mai venivano inquadrate, ma si presero la loro pesante vendetta.

Il tempo minacciava acqua a catinelle e freddo intenso. Fu necessario prenotare perciò in due posti: un giardino in un palazzo storico del centro o il salone di un albergo.

Vinse il sole e, dopo il rito religioso, ci si avviò a gruppi, poiché c’erano quasi 300 persone nel giardino dove, tra chiacchere, brindisi e discorsetti falsamente semplici degli amici intellettuali, si procedette al taglio della torta e infine alla distribuzione dei confetti.

Così raggiante di felicità chi scrive queste note s’avvia baldanzoso al centro della pista ed ecco hop-là! la capricciosa calzatura si prende la sua vendetta ed io rovinosamente crollo a terra, ma con un ultimo, eroico tentativo sollevo il cesto dei confetti sopra la testa, salvandolo da una distribuzione non conveniente delle dolci mandorle.

Scoppia un lungo applauso ed io, ormai novello Cyrano de Bergerac, “al fin della licenza io tocco”, cioè ricomincio a dispensar confetti.

Appena a casa, mentre ci si rivestiva per partire, scaglio al grido di ‘maledette!’ le scarpe in un angolo e mi rifugio in quelle bicolori, che lo zio generale mi aveva regalato come segno di massima eleganza.

E cominciarono 53 anni (+7 di fidanzamento) di amore, amicizia, rispetto, connivenza e, se posso usare una parola terribilmente pericolosa, di felicità con la mia Doda.

Ieri sotto la canicola, alla ricerca delle rose rosse di rito pensavo, attraverso l’uso della proustiana memoria involontaria, quale tremendo e affascinante strumento sia quello del ricordo, arma a doppio taglio, che solo la ‘direzione’ che il protagonista deve e può dare – la massima tra i doni che come sapevano gli antichi e il mio adorato Cesare Pavese – t’avvicina al destino degli dèi.

Così rispolvero le scarpe, allungo una carezza alla vestaglia di seta, che ancora posseggo e uso, riguardo la cravatta, ovviamente fiorentina, e ripongo con cura il fazzoletto di seta grigia appartenuto a una ava di mia moglie e che abbiamo prestato ai nipoti quando si sono sposati.

Ritorno poi alle letture consuete: Goliarda Sapienza [Qui], di cui sto elaborando un saggetto, il librone di Umberto Eco [Qui] sugli scritti sull’arte, i saggi di de Fallois su Proust.

Poi mi rilasso a leggere articoli profondi e briosi di Francesco Merlo [Qui] ( straordinario e veritiero il racconto della spaccatura tra i 5s) della ‘unica’ Natalia Aspesi [Qui] e dall’iconico MS (Michele Serra [Qui]).

E poi chi si perde le demenziali cantate dei canzonettisti di moda sulle tv generaliste e oltre?

Dichiaro poi pubblicamente – anche se questo giudizio nella mia ahimè città conta nulla o poco – che sono contrario all’uso del parco Bassani al concertone del boss dei boss della musica leggera. Ovviamente per le mie sbagliate o meno scelte ambientaliste.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Aborto, la Corte Suprema USA annulla la sentenza Roe v. Vade.
Un giorno triste nella storia del paese

 

Questo è il commento diffuso da Tarah Demant, di Amnesty International Usa, alla notizia che la Corte Suprema ha annullato la sentenza Roe v. Wade:

“Oggi è un giorno triste nella storia degli Usa. La Corte Suprema ha annullato il diritto di abortire. Milioni di persone che resteranno incinte non potranno prendere decisioni profondamente personali riguardanti il loro corpo, il loro futuro e il benessere dei loro familiari”.

“Le persone saranno costrette a partorire o a cercare di abortire in modo insicuro. Ecco il risultato di decenni di campagne per controllare il corpo delle donne e delle ragazze. Ed ecco aprirsi la strada per una criminalizzazione senza precedenti, a livello di leggi statali, dell’aborto”.

“A prescindere da quanto possa dire la Corte Suprema, l’aborto resta un diritto umano e gli stati idi ogni parte del mondo sono obbligati a rispettarlo. Una vasta maggioranza degli americani e delle americane la pensa allo stesso modo e dissente dalla sentenza”.

Amnesty International 

La voce favolosa di Leopardi

 

Della voce (e non solo) si fa spesso un uso sguaiato, come se il pensiero, la riflessione non dovessero precederla e accompagnarla. Ecco dunque che vale riflettere con una velocissima scheda sul modo nel quale voce e vocalità appaiono e si manifestano nel nostro più grande autore moderno, nato e scomparso nella seconda metà di un lontano mese di giugno.

Chi si stupisse perché la parola voce appare nelle migliaia di pagine dello Zibaldone soprattutto nel senso di rimando lessicografico, voce da dizionario per studiare l’etimologia delle parole e ricostruirne il senso, mostrerebbe di non conoscere la complessa figura di Leopardi. Che era capace di unire la passione per il sapere, il rigore della ricerca filologica, a una dispiegata vocazione al canto.
Sarà nella sua opera poetica che dovremo muoverci per trovare un’altra voce che niente ha a che fare con un lemma: una voce che corrisponde all’intonazione, al timbro proprio ad esseri amati e scomparsi, o che modula nella notte canti che nel silenzio diventano subito di malinconia e abbandono.

Giacomo Leopardi – autografo di A Silvia

 

Dalla voce collettiva che nella canzone All’Italia consentiva di serbare memoria dei caduti alle Termopili, da quella della libertà che risuona in Sopra il monumento di Dante, da quella antica degli avi dell’Angelo Mai, si arriva presto alle voci “care al cuore” del Primo amore (più tardi di Consalvo), soprattutto alle voci di Silvia, di Nerina.
Non poter vedere gli occhi, non potere udire la voce che una volta risuonava nelle stanze di Recanati (dunque del mondo): è così che Leopardi parla dell’interruzione dei rapporti e dell’esperienza del morire. La voce del tempo (quella che ridesta il finito nell’Infinito) porta via la vita, e con quella ogni possibilità di dar senso al cosmo.

E dunque il poeta non potrà che levare alta la voce (così anche nelle Operette morali, nel Dialogo della Natura e di un Islandese) per accusare l’arcana forza generatrice e chiederle ragione dell’assurdità e crudeltà dell’esistenza.

Sarà una voce, la sua, che, nata dal “dolor mio nel sentire”, sarà capace di distinguere il canto delle erbe nel mattino, di riconoscere le voci (Leopardi nello Zibaldone aveva riflettuto sugli organi della fonazione e sulle tonalità), distaccandole dal silenzio assordante, dall’indifferenza opposta dalla Natura. E così la sua voce, ora vibrata, ora sommessa, ma sempre ferma e decisa, continua ripetere, mai stanca di denunciare.

Mentre l’altra voce, il suono della poesia, offre parole, ritmo, perfino paradossale e solidale consolazione, in liriche che trovano senso e ragione nel vagheggiamento del perduto e in un’ininterrotta invettiva.

Per altro la voce della sua poesia non doveva discostarsi troppo dalla voce reale, se ci arrischiamo a stabilire un rapporto tra la vocalità che emerge dai versi e il suono vivo percepito da chi ebbe modo di ascoltarlo.

Racconta De Sanctis, che lo aveva incontrato alla scuola di Basilio Puoti, che Leopardi “parlava gentile e modesto”. L’amico Ranieri ricorda che la sua voce, quando era ormai prossimo alla morte, era “fioca”, eppure pronta a disputar “dolcemente”.
Il fatto è che Leopardi aveva cercato, attraverso una voce diventata poesia, la durata di un io che solo nella scrittura della voce poteva trovare modo di continuare ad esistere. Un grido di protesta e pietà, una voce che, giunta fino a noi, dopo l’invettiva, prima del suo scioglimento, ancora rompe il silenzio (l’assenza di voce) dimostrando che è possibile la fusione di bellezza e verità.

VITE DI CARTA /
Vado in Vietnam e mi porto una Rosa

 

Vado in Vietnam tra pochi giorni e mi porto un viatico piccolo piccolo fatto soprattutto di parole. Parto con la decisione a rinunciare alle mie amate abitudini per due settimane, a sovvertire orari e attività. A non incominciare la giornata con l’adorato caffelatte.

E in cambio? Avrò la conoscenza di un altro luogo di questo pianeta, almeno in qualche sua parte. Parto armata di curiosità e di un po’ di parole.

Oggi navigando in Internet ho guardato l’alfabeto della lingua vietnamita, in attesa di sentire i suoni dei parlanti una volta arrivata a Hue, la città a cui è diretto il nostro gruppetto di sei amici. Il nostro è un viaggio a scopo benefico, andiamo alla inaugurazione della nuova ala di un orfanatrofio gestito dalle suore cattoliche dell’Ordine della Santa Croce in quella bella e antica città.

introduzione alla linguistica teoricaHo anche ripreso in mano il manuale di linguistica generale su cui ho studiato all’Università, il famigerato manuale di linguistica teorica di John Lyons [Qui], per scoprire che la lingua vietnamita più ancora di quella cinese è una lingua agglutinante, vale a dire che le sue parole sono per lo più invariabili. Dovrò scoprire quale relazione intrattengono con le cose.

Per ora ho scoperto che il sistema di scrittura è basato sulla lingua latina e che vi sono segni aggiuntivi per dare i toni di ogni parola o per creare suoni in più. Allora non posso vantarmi di conoscere nemmeno quelle tre o quattro parole apprese finora perché potrei pronunciarle malamente: sono il nome di donna Huong, che significa ‘Rosa’; la strada in cui alloggeremo di passaggio ad Hanoi, la celebre Hang Gai o strada della seta; alcune belle località del Vietnam centrale tra cui Hoi An, dove la –o reca sotto e sopra i segni diacritici di cui parlavo prima: come si pronuncerà?

Come d’abitudine prima di ogni viaggio ho consultato una guida turistica e ora mi ballano nella mente immagini e nomi che aspettano di diventare esperienza. Pronuncio a voce alta le località che interessano il nostro itinerario, ma sono di nuovo incerta, forse non ho emesso i fonemi giusti.

Tuttavia mi fido della Letteratura come fonte di conoscenza e nel dirlo faccio contenta Michela Murgia, che anni fa al Festivaletteratura a Mantova ha bene argomentato questo suo invito rivolto al pubblico e in me ha trovato una porta aperta.

quando le montagne cantanoMi fido delle storie raccontate nei libri e ritengo di avere cominciato a entrare nell’universo della storia vietnamita con la lettura di Quando le montagne cantano, l’opera prima della giornalista e poetessa Nguyen Phan Que Mai [Qui], uscita in Italia nel 2021, che ricostruisce la storia del Novecento vietnamita attraverso le vicende di una famiglia e delle sue figure femminili.

Ero al liceo nei primi anni Settanta durante la guerra per antonomasia, la guerra del Vietnam, che tanti reportage e articoli e film hanno raccontato dal punto di vista degli USA e un po’ meno da quello vietnamita. Cosa che fa questo bel romanzo, in cui la nonna Dieu Lan e la nipote Huong affrontano con forza interiore guerre e verità una più difficile dell’altra sui destini individuali e sulla storia del loro paese.

Il-nuovo-libro-Garzanti-della-geografia-volume-treHo rispolverato anche un vecchio manuale di Geografia che risale all’inizio della mia carriera alle scuole medie e ci ho ritrovato delle comode schede dedicate alla cultura religiosa del paese e un approfondimento sul periodo coloniale francese, durato dalla fine dell’Ottocento al 1954.

Ma voglio ritornare al nome Rosa, cioè Huong, che fa da filo conduttore in questa carrellata di pensieri. Deve essere un nome di donna abbastanza diffuso pure in Vietnam, difatti porta questo nome anche la guida che nei primi giorni di luglio ci farà visitare la Cittadella di Hue e ci accompagnerà verso sud a Danang e dintorni.

E siccome non c’è il due senza il tre, Rosa è il nome di una delle due protagoniste del libro scritto a quattro mani da Pif [Qui] e da Marco Lillo[Qui] che è uscito nel maggio 2021. Ho appena finito di leggerlo e l’ho appoggiato sui due volumi vietnamiti, la guida turistica Mondadori e il romanzo in cui le montagne cantano. Alla fine, pur nella loro diversità, li lega strettamente uno all’altro un nome odoroso di donna.

io possoLe sorelle Savina e Maria Rosa Pilliu sono, come recita il sottotitolo, Due donne sole contro la mafia e sono le protagoniste di Io posso, uscito presso Feltrinelli, che racconta la storia trentennale della loro resistenza ai soprusi subiti dalla mafia.

Due sorelle coraggiose che a Palermo negli anni novanta del secolo scorso hanno subito un grave danno alla loro casa a causa della costruzione abusiva di un vicino palazzo di nove piani e che fino ad ora non hanno ancora ricevuto un equo indennizzo dalla giustizia italiana. Di più: quello stesso stato che non le ha mai riconosciute come vittime di mafia ha di recente chiesto loro il pagamento delle tasse sulla somma loro dovuta come risarcimento, che però non è mai arrivato.

“Se Kafka conoscesse questa storia direbbe che è troppo”, è il commento di Pif.

Aggiunge Marco Lillo: “Nel palazzo tirato su a danno della casa delle Pilliu hanno abitato i pezzi grossi della vecchia e della nuova mafia, per esempio c’è stato Giovanni Brusca, colui che ha schiacciato il telecomando nell’attentato di Capaci”.

E loro intanto, le due sorelle, imperterrite a dire no in tutti questi anni: non vendiamo la nostra proprietà al costruttore colluso con la mafia, non lasciamo il nostro negozio né la nostra città.

Anche di un libro-inchiesta come questo, il cui taglio giornalistico nulla toglie al racconto dei fatti e sa essere venato di ironia e di anche di emotività, mi fido.E mi piace che il ricavato delle vendite sia destinato a coprire quei 22 mila e 842 euro di tasse che gravano sulle sorelle.

La motivazione è spiegata molto bene dai due autori nella penultima pagina del libro: “In fondo abbiamo pensato che lo Stato non è solo la prefettura che ha detto no alla loro richiesta di risarcimento. Non è solo quel giudice amministrativo che ha dato ragione a Pietro Lo Sicco nel 1995. Non è nemmeno quell’assessore che ha concesso la licenza a un costruttore sapendo che non ne aveva diritto. Lo Stato alla fine siamo noi. Noi che scriviamo questo libro e voi che lo state leggendo”.

Nota bibliografica:

  • Nguyen Pan Que Mai, Quando le montagne cantano, Editrice Nord, 2020 (traduzione di Francesca Toticchi)
  • Pif, Marco Lillo, Io posso. Due donne sole contro la mafia, Feltrinelli, 2021
  • John Lyons, Introduzione alla linguistica teorica, Laterza, 1975
  • AAVV, Il nuovo libro Garzanti della geografia, vol.3, 1980

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Fischi, fiaschi, palpiti e calessi

Fischi, fiaschi, palpiti e calessi

Vero, i due oggetti non si assomigliano per niente. Con uno si fischia, nell’altro ci metti il vino. Ma insomma, almeno i fiaschi, rispetto ai fischi, hanno solo una vocale in più. Può succedere di “prendere fischi per fiaschi”. Infatti accade spesso, quasi tutti i giorni.
Ma qui La cosa è molto più grave. Inspiegabile.
Com’è possibile scambiare il più alto e celebrato dei sentimenti, come può succedere di imbattersi (in quel dì fatale) nell’Amore (la maiuscola è d’obbligo) per poi scoprire che “quella cosa meravigliosa”, sospesa  tre metri sopra il cielo, non era altro che un calesse: una carrozza, un carretto, un biroccio, chiamatelo come vi pare.

Il film è del 1971, non è il più bello tra quelli interpretati dalla nostra ultima maschera comica, il grandissimo Massimo Troisi, ma da trent’anni “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” è diventato un modo di dire colloquiale. Una massima. Un proverbio. L’esatto riassunto di ogni amore andato in fumo.
Ma tutto questo solo dopo (dopo la delusione amorosa, intendo), quando uno (o una, o tutti e due) apre improvvisamente gli occhi e si accorge dell’incredibile abbaglio di cui è stato vittima. Vittima colpevole, occorre aggiungere, perché dal primissimo istante, da quando il suo sguardo si è posato sull’oggetto/soggetto amoroso, avrebbe potuto, dovuto vedere che in verità di tutt’altro si trattava, un calesse, appunto.

L’amore sarebbe proverbialmente cieco? No, la scusa non regge. E’ cieco?

Analizziamo. Il calesse si può toccare con le mani, l’amore invece sta lassù, su una nuvola confusa.  Due oggetti senza alcun punto di contatto: con un colore, un odore, una forma, e corporatura e voce che più diverse non si può. Un palpito del cuore e una carrozzella sono due cose avulse.

Ma è proprio per questa alterità assoluta, lo scambio/abbaglio tra un amore e un calesse ci dice tantissimo sull’epifenomeno amoroso, il quale, com’è noto, occupa una cubatura libraria pari all’ottanta per cento del totale della letteratura mondiale (buona e cattiva), senza peraltro che nessun autore, per quanto grande, sia riuscito a raggiungere e a proporre una spiegazione definitiva del fenomeno stesso. Spiegazione che sarebbe utile ai lettori. E utile massime agli amanti, che invece continuano a cadere nel tranello, ad accorgersi con doloroso e puntuale ritardo che ciò che li aveva folgorati, ciò per cui avevano palpitato, adorato, idealizzato, santificato – che magari li aveva disgraziatamente spinte/i  a scrivere e dedicargli/le una poesia – non era niente di più o di meno di una carrozza. Cavallo compreso.

Pensavo fosse amore… invece era un calesse
(Film con Massimo Troisi e Francesca Neri, 1971)

Carestia: la battaglia del grano tra Europa e Nazioni Unite

 

da german-foreign-policy.com

L’UE sta bloccando gli sforzi delle Nazioni Unite per portare il grano ucraino sul mercato mondiale attraverso la Bielorussia. Intanto la Russia e la Turchia stanno aprendo la strada alle esportazioni di grano ucraino.

L’UE si oppone agli sforzi delle Nazioni Unite per scongiurare la crisi mondiale della fame, sia in termini di guerra che di sanzioni. Si tratta del piano di trasferire le enormi riserve di grano dell’Ucraina attraverso la Bielorussia nei porti dei paesi baltici e di spedirle da lì. Il piano, sostenuto dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, è considerato l’unica alternativa sensata al recente blocco del trasporto del grano attraverso il Mar Nero. Tuttavia, l’UE non è disposta a creare le condizioni per il successo del piano e a revocare le sanzioni contro le esportazioni bielorusse di fertilizzanti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è favorevole alla revoca di queste sanzioni per garantire l’approvvigionamento globale di fertilizzanti. In una mossa anche simbolicamente significativa, Bruxelles ha inasprito le sue sanzioni contro i produttori di fertilizzanti bielorussi venerdì. C’è d’altra parte il tentativo delle Nazioni Unite di avviare l’esportazione di grano ucraino attraverso il Mar Nero. La Russia e la Turchia prevedono le prime consegne ucraine da Odessa.

Il duplice approccio delle Nazioni Unite

La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno compiuto progressi tangibili nel tentativo di evitare la crisi della fame a livello mondiale, una minaccia sia a causa della guerra in Ucraina che delle sanzioni occidentali. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che l’obiettivo è quello di “reintegrare la produzione alimentare ucraina” e “i prodotti alimentari e fertilizzanti prodotti dalla Russia e dalla Bielorussia” nei mercati mondiali.[1]

In effetti, entrambi sono necessari per garantire l’approvvigionamento alimentare globale. Prima della guerra l’Ucraina ha fornito circa il 10% delle esportazioni globali di frumento e orzo e circa il 16% delle esportazioni mondiali di mais; la Russia, a sua volta, è il principale esportatore di grano, mentre la Russia e la Bielorussia insieme hanno fornito circa il 40% delle esportazioni globali di sali di potassio necessari per la produzione di fertilizzanti. Senza fertilizzanti, il prossimo raccolto non sarà sufficiente per fornire abbastanza cibo al mondo. L’approccio seguito dalle Nazioni Unite dall’inizio della guerra in Ucraina di consentire le esportazioni ucraine oltre a quelle russe e bielorusse, ha le sue ragioni.

Soluzione in vista

Una soluzione si profila attualmente per l’esportazione di frumento dall’Ucraina, che tradizionalmente si svolge per oltre il 95% attraverso il Mar Nero. In questo momento ci sono diversi ostacoli. Da un lato, i porti ucraini sono occupati dalla Russia o bloccati dalla Marina russa. In secondo luogo, per prevenire gli attacchi russi dal mare, la marina ucraina ha minato le acque costiere. La scorsa settimana, dopo i colloqui a Mosca, la segretaria generale dell’UNCTAD Rebeca Grynspan e poi il coordinatore delle Nazioni Unite per gli aiuti d’emergenza Martin Griffiths hanno dichiarato che i colloqui sono stati “costruttivi” e sperano in una soluzione. È noto che il presidente russo Vladimir Putin ha accettato in linea di principio di porre fine al blocco dei porti. La Turchia, a sua volta, si assumerà il compito di rimuovere le mine navali ucraine e di condurre in sicurezza le navi cariche di grano attraverso il Mar Nero.[2]

Dopo intensi negoziati bilaterali alla fine di maggio, gli osservatori sperano in una svolta nei colloqui del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu con il suo omologo russo Sergei Lavrov ad Ankara. Secondo quanto riportato dai media russi e turchi, un successo è imminente.

L’effetto di dispersione delle sanzioni

Tuttavia, non è ancora chiaro come garantire la seconda parte dell’approccio delle Nazioni Unite, cioè le esportazioni russe e bielorusse di cereali e fertilizzanti. Sia l’UE che gli Stati Uniti si nascondono dietro l’affermazione che non hanno introdotto sanzioni alla Russia per questi prodotti. Questo è vero, ma nasconde che, da un lato, le sanzioni transatlantiche contro i sali di potassio provenienti dalla Bielorussia persistono e, dall’altro, le esportazioni russe sono enormemente complicate da misure punitive che colpiscono i trasporti e il settore finanziario. Inoltre, il timore di un’ulteriore estensione delle misure di embargo dell’Occidente ha un impatto negativo su qualsiasi commercio. Questo effetto di dispersione delle sanzioni è ben noto dai precedenti regimi sanzionatori; non di rado ha persino impedito aiuti umanitari (ha riferito german-foreign-policy.com [3]).

Come riportato, Washington è ora pronta a contrastare l’effetto di dispersione delle sanzioni sulle esportazioni russe di cereali e sali di potassio. A tal fine, si potrebbe rilasciare alle aziende interessate una sorta di certificato di sicurezza, ha detto Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite.

Piano baltico bielorusso di Guterres

Gli sforzi delle Nazioni Unite sono attualmente sabotati soprattutto dall’Unione Europea. Ciò riguarda in particolare la possibilità di esportare le scorte di grano ucraino non solo attraverso il Mar Nero, ma anche via terra. È vero che la Germania sta attualmente lavorando per organizzare l’esportazione di cereali ucraini per ferrovia attraverso la Polonia e la Germania; il trasporto è pianificato, ad esempio, attraverso i porti tedeschi o italiani (ha riferito german-foreign-policy.com [5]).

Il fatto che i binari nell’ex Unione Sovietica hanno uno scartamento diverso da quelli dell’Europa occidentale, crea però notevoli problemi perché al confine ucraino-polacco le merci devono essere trasferite su altri treni. Ciò richiede così tanto tempo che, secondo gli esperti, solo una piccola parte delle scorte ucraine può essere spostata in tempo. Un’alternativa praticabile è il trasporto dei cereali attraverso la Bielorussia in uno dei porti del Baltico, in particolare a Klaipėda, in Lituania. In questo modo, due terzi delle oltre 20 milioni di tonnellate di cereali attualmente immagazzinate in Ucraina potrebbero essere resi disponibili. Il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres è favorevole.

“Categoricamente escluso”

Le sanzioni dell’UE contro la Bielorussia si oppongono al progetto. Minsk è disposta a organizzare il trasporto del grano attraverso il suo territorio, ma in cambio chiede che una parte delle sue esportazioni sanzionate venga riammessa attraverso porti come quello di Klaipėda. Ciò è abbastanza in linea con il piano delle Nazioni Unite di rendere nuovamente possibili le esportazioni di sali di potassio dalla Bielorussia per garantire l’approvvigionamento alimentare globale. Tuttavia, ora l’UE si oppone: “sia gli Stati membri che la Commissione escludono categoricamente la revoca o anche solo l’allentamento delle sanzioni contro la Bielorussia”, è stato riferito la scorsa settimana [6].

Negli ultimi tre mesi, Bruxelles ha cercato di attirare Minsk con offerte finanziarie per distogliere l’attenzione da Mosca; è “sorprendente” che, dopo le sanzioni del 9 marzo, l’UE abbia inizialmente imposto ulteriori sanzioni solo contro la Russia, ma non contro la Bielorussia. Tuttavia, il governo bielorusso non ha tenuto conto delle avances dell’UE e ha chiarito che i tentativi di creare un cuneo tra loro e la Russia sono destinati a fallire.

Le priorità dell’UE

L’UE ha quindi tratto le dovute conseguenze e venerdì ha imposto nuove sanzioni alla Bielorussia. Queste sono dirette concretamente contro la società Belaruskali, il più grande produttore di sali di potassio del paese, contro il capo della società, Ivan Golowaty, e contro la società di esportazione Belarusian Potash Co., che gestisce le esportazioni di Belaruskali verso i paesi stranieri. L’imposizione di sanzioni contro le aziende i cui prodotti Guterres cerca di rendere nuovamente disponibili per scongiurare una crisi globale della fame è un affronto diretto alle Nazioni Unite. Dimostra che per l’UE l’indebolimento degli Stati avversari è chiaramente prioritario rispetto alla prevenzione di una crisi della fame.

Per saperne di più: La carestia I e la La Carestia II.

NOTE:

[1] Sharon Marris: World hunger at ‘new high’, UN warns, with enough grain to feed millions stuck in Ukraine. sky.com 19/05/2022.

[2] William Mauldin, Jared Malsin, Evan Gershkovich: Black Sea Grain Talks Gain Steam as Russia, Turkey Eye Cooperation. wsj.com 01.06.2022.

[3] Vedere a questo proposito, la svolta dell’Iran verso est e la fame è fatta (II).

[4] William Mauldin, Jared Malsin, Evan Gershkovich: Black Sea Grain Talks Gain Steam as Russia, Turkey Eye Cooperation. wsj.com 01.06.2022.

[5] Vedere La carestia.

[6] Thomas Gutschker, Friedrich Schmidt, Reinhard Veser: Buhlen um Lukashenko. Frankfurter Allgemeine Zeitung 03.06.2022.

[7] Bielorussia: EU adopts new round of restrictive measures over internal repression. consilium.europa.eu 03.06.2022.

Traduzione dal tedesco di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid.

L’articolo originale può essere letto qui

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com
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Caporetto non è in Italia. Lo sapevate?

Oggi infatti Caporetto è in Slovenia e si chiama Kobarid. Perché allora sono morti tanti soldati italiani a Caporetto? E’ scivoloso e ingannevole il discorso sui confini nazionali ed è bene tenerne conto anche quando si ragiona sui “confini dell’Ucraina” per cui si combatte una guerra terribile.
Avete studiato a scuola la “disfatta di Caporetto”?
Nel 1917 vi fu una delle più pesanti sconfitte italiane della prima guerra mondiale, con conseguente rovinosa ritirata.
Alla fine della guerra l’Italia tuttavia l’occupò nuovamente nel 1918. Il “censimento etnico” italiano del 1921 riportava che, tra i 6224 abitanti di allora, 98 erano italiani. 

Praticamente sono morti migliaia di soldati italiani (si pensi solo alla disfatta di Caporetto) per una località dove gli “italiani” erano meno del 2 per cento.

Ma D’Annunzio scriveva: “Dio segnò i confini dell’Italia”.

Dopo la seconda guerra mondiale il Dio di D’Annunzio si era già dimenticato dei “sacri confini”: Caporetto è oggi in Slovenia. E si chiama Kobarid.

Su un totale di 4472 abitanti, 4237 sono sloveni, 33 macedoni, 24 serbi, 23 serbo-croati, 18 croati, 10 albanesi e 9 bosniaci (1). Nessun italiano. Solo lo 0,2% conosce la lingua italiana.

E’ bene saperlo che i confini sono qualcosa di scivoloso e ingannevole, riflettiamoci quando si mandano oggi armi per difendere i “sacri confini” dell’Ucraina.

Le informazioni qui utilizzate sono tratte da https://it.wikipedia.org/wiki/Caporetto

Articolo pubblicato su peacelink

Pace: cosa possiamo imparare dai popoli indigeni?

 

di Markus Schombel
tratto da pressenza

Qualche tempo fa ho visto un video in cui una persona indigena rifletteva su questo tema. Diceva che spesso gli viene chiesto cosa possiamo fare per rispondere alle sfide di oggi. In risposta, riunì un gruppo di indigeni che deliberarono. La loro conclusione unanime è stata: “Chiedi al tuo cuore”. Chiedete al vostro cuore, da lì viene la risposta.

Oggi si potrebbe forse ancora distinguere tra indigeni adattati o civilizzati e indigeni originari o liberi. In realtà ci sono stati così tante migrazioni tra i popoli in passato che nessuno può dire chi sia sempre stato indigeno da qualche parte. I Gaudiya Vaishnava, ad esempio, affermano che gli Arya sono sempre stati di casa nei luoghi sacri dell’India. Secondo la storiografia occidentale, tempo fa in India vivevano i Dravidi che in un secondo momento furono soppiantati dagli Indo-Ariani provenienti dalla Persia, che si appropriarono della cultura vedica.

Dipende anche se lo guardiamo dall’esterno, fisicamente, o dal punto di vista della coscienza e dello stato d’animo. Anche a Tenerife, prima degli spagnoli, c’erano i Guanci, un popolo berbero. Nessuno sa perché siano arrivati lì o chi ci vivesse prima. In Sud America, i portoghesi e gli spagnoli si sono mescolati con gli Inca, i Maya e gli Aztechi.

Il vero punto è lo stato d’animo interiore e la connessione con la natura e l’assoluto. Finora la nostra civiltà ha seguito la strada della distruzione di tutto ciò che era indigeno, per poi lamentarsi di ciò che avremmo potuto imparare. È quello che è successo in America, in Africa e in Australia. Credo che ancora oggi si parli di pensiero postcoloniale. Stiamo ormai cercando luoghi vitali e risorse nello spazio mentre non abbiamo ancora rinunciato a questo pensiero coloniale e probabilmente continueremmo a comportarci allo stesso modo, sempre e ovunque. Così trascuriamo e distruggiamo l’essenziale, sognando già i corpi macchina.

Sarà quindi difficile trovare e interpellare dei popoli indigeni veramente originali e liberi. O sono popoli non contattati che si ammalano e muoiono al solo incontro con noi. Oppure hanno deciso così consapevolmente di opporsi alla nostra civiltà che si sono volontariamente ritirati o addirittura estinti. In Australia, ad esempio, si dice che ci fosse un popolo che viveva nudo sulle fredde e rocciose isole della Tasmania. Sono stati i primi a estinguersi con l’arrivo dei colonialisti. Ci sono storie di persone che hanno lasciato volontariamente la terra in pace nel momento giusto e quando le circostanze erano diventate troppo avverse.

La ricerca dell’indigeno è quindi la ricerca di noi stessi, del nostro essere e della nostra connessione, del nostro senso di ciò che sta succedendo. Tutti i cambiamenti iniziano con una scelta chiara: adattarsi, resistere o morire. Senza questa decisione non si può parlare di libertà e di pace. Ciò si riflette anche nella domanda di Socrate su cosa sia più importante: una lunga vita o una buona vita. Anche il Signor Schäuble (ex-presidente del Bundestag tedesco, N.d.T.) ha affrontato la questione chiedendo cosa sia la dignità umana: preservare ogni vita il più a lungo possibile o vivere e morire nel modo più autodeterminato possibile.

Se vogliamo migliorare qualcosa, è la consapevolezza di questo. Perdere la paura della morte, distruzione, sofferenza e miseria. Finché questo eserciterà un fascino troppo forte su di noi, continueremo a giocare con il fuoco e a bruciarci gravemente. Poi cerchiamo colpevoli e capri espiatori come Putin o i non vaccinati e ci sentiamo ancora nel giusto. Nella misura in cui rinunciamo a questo comportamento avverso e illogico, arriverà la pace.

(Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. Revisione di Filomena Santoro)

In copertina: Foto di Oficina de plantas nativas Fulni-ô com Xumaya Xya

Le storie di Costanza /
Giugno 1959 – Foscolo e le fragole

 

E’ giugno e fa molto caldo. Il tasso di umidità è alle stelle e le mosche e le zanzare se lo godono. Alle mosche piace molto questa umidità che ristagna nell’aria e rende fosca l’alba.  Il cielo è opaco e, col suo torpore, rallenta il risveglio delle case e delle attività. E’ l’ambiente naturale degli insetti. Loro vivono qui da molto più tempo degli uomini.
Noi umani abbiamo potuto insediarci in queste terre dopo che furono bonificate (1200 d.c.) dai monaci Benedettini e trasformate in zone agricole molto fertili, anche se perennemente umide.

La scuola è quasi finita e io devo studiare per la maturità che inizierà fra due settimane. Ci aspettano sia lo scritto che l’orale di tutte le materie di quest’ultimo anno di superiori.  La commissione è composta da professori esterni alla scuola, nominati dal provveditorato. Della stessa commissione fa anche parte un professore della mia scuola, il “membro interno” che è il docente di latino. Un bravo professore anche se burbero e molto severo. Si chiama Silvio Buner.
Sa a memoria tutti gli orari dei traghetti che attraversano la Manica e tutti i nomi degli attori che animeranno i vari spettacoli in cartellone al teatro Vivarelli. Usa tutto questo suo sapere didascalico per far colpo sugli studenti e per spaventarli con la sua autorevolezza un po’ bacchettona. Buner è anche un tipo solitario, abita da solo, studia da solo e passeggia nei giardini di Vergania come se fosse un illuminista del ‘700.
Non ha moglie e non ha figli. Va a trovare una sua vecchia zia alla casa di riposo tutti i sabati e le porta un sacchetto di biscotti. Lo so, perché la mamma di una mia compagna di scuola lavora come infermiera in quella stessa casa di riposo e lo vede arrivare tutti i sabati alla stessa ora. Mi chiedo se non sappia a memoria tutti i nomi dei vecchi che vivono in quel posto, tutte le loro date di nascita. Lui è il nostro “protettore” agli esami, colui che deve lavorare perché i nostri voti siano buoni. Data la sua autorevolezza è una garanzia in questo senso, fatta eccezione per i ragazzi che lui considera “asini” perché invece di aiutarli, farà il contrario.

Una volta è arrivato a scuola con un segno sulla faccia che sembrava un morso. Ovviamente non ha detto a nessuno cosa gli fosse successo, ha raccontato all’insegnante di pedagogia di essere inciampato sulle scale. Il professore cammina dritto come un bastone e muove la testa come un periscopio, non ci sembra molto probabile che sia inciampato. Un mio compagno ha detto che deve aver litigato con una donna focosa, ovviamente abbiamo riso tutti e così facendo, abbiamo rischiato una punizione esemplare. Se ci avesse sentito ci avrebbe costretto a studiare a memoria tutto l’inferno di Dante, o qualcosa del genere. Cosa gli sia davvero successo è un mistero e intanto lui ha continuato a spiegare i verbi irregolari con quella macchia sulla faccia come se non fosse sua, come se avesse appicciato per sbaglio un pezzo di carta rossa sulla guancia. Un incidente colorato che non ha portato alcuna incrinatura nelle sue abituali modalità di comportarsi, che non ha scatenato nessun imbarazzo apparente.

Gli orali degli esami saranno divisi in due momenti di interrogazione: uno per le materie ad indirizzo letterario ed uno per quelle scientifiche. Praticamente due orali in successione che preoccupano un po’ tutti: il presidente della commissione perché deve controllare che proceda tutto per il meglio, gli insegnanti perché devono interrogare e giudicare, il membro interno che si sente in dovere di “difendere” il suo operato e quello dei suoi colleghi (trovando il modo di far parlare il più possibile i ragazzi in maniera coerente e colta), gli studenti che devono rispondere (almeno) sufficientemente, per non rischiare di buttare alle ortiche un intero anno di scuola.
E poi ci sono i genitori in apprensione, i nonni e gli zii tifosi, i fidanzati e le fidanzate esclusi temporaneamente dalla vita dei loro innamorati a causa di forza maggiore, i fratelli come il mio che vorrebbe giocare a scacchi ma devono aspettare. Il nostro cane Toti disturba mentre studio, ulula se ripeto ad alta voce e in maniera cantilenante il De Bello Gallico. Un cane a cui non piace il Latino è proprio il nostro, non ci sono dubbi.
Gli scritti inizieranno il 2 Luglio e sono italiano, latino, matematica e disegno. Penso che andrò ad assistere agli orali dei compagni di classe che saranno interrogati prima di me, così mi faccio un’idea di cosa chiedono i professori e di quali sono le loro preferenze. La lettera del cognome con cui iniziare la chiamata all’orale viene estratta a sorte. Ad esempio, se viene estratta la B i primi ad essere interrogati sono: Baroni, Berettini e Bollani mentre se viene estratta la G, io che mi chiamo Ghepardi sono la seconda, prima di me c’è solo Galimberti e per finire la “G” tocca a Gobbi. Gobbi è comunque contento, ne ha sicuramente almeno due prima di lui da ascoltare e correre ai ripari, per quel che potrà fare in un giorno. Se viene estratta la “I” io sono la penultima, se viene estratta la “F” sono la terza. Per me c’è una bella differenza tra l’estrazione della “I” e l’estrazione della “F”, un numero molto diverso di miei compagni da poter ascoltare.

Giuseppina si chiama di cognome Cavalcanti, quindi i nostri orali non saranno lo stesso giorno. Così io posso accompagnare lei quando è il suo turno e viceversa. Giusi ha assoldato sua nonna che deve pregare tutti i giorni perché esca la lettera “D”, così comincia gli orali D’Antoni e lei è l’ultima. Sua nonna non voleva pregare per una cosa del genere, ma quando ha visto sua nipote piangere si è impietosita ed è andata a comprare tante candeline quante sono i giorni che ci separano dagli orali. Se andiamo avanti così, esce davvero la “D” e io sono tra le prime. Ho provato a dire alla prozia Ciadin di pregare perchè uscisse la “I”, ma lei mi ha detto che non si prega per cose del genere, che la nonna di Giuseppina è matta e che, anche se dovesse uscire la “G”, me la caverei comunque benissimo. Così la situazione è impari, Giuseppina ha la nonna che prega per lei e io nessuno … mi hanno detto tutti che devo studiare e cercare di fare bella figura e che, se avrò studiato tanto, i Santi saranno contenti per me quanto lo saranno loro.

Umberto Del Re mi ha detto che a lui non importa che lettera esce, vuole solo cavarsela e prendersi il diploma, suo padre gli ha promesso che se è promosso gli compera il motorino e lui è molto affascinato da questa idea. Quel ragazzo mi piace molto. E’ bello, molto bravo in ginnastica e dipinge benissimo. Quando disegniamo alla lavagna, il professore lo mette sempre nella postazione migliore e, finita l’ora, cancella tutte le lavagne tranne la sua. Così i disegni di Umberto continuano a fare bella mostra di loro in un cimitero di lavagne nere. Gli altri professori, che ormai lo sanno, ogni tanto passano in aula di disegno a vedere cosa ha dipinto Del Re. Se lui disegna un tulipano, sembra un bel tulipano appena raccolto in un campo. Se io disegno un tulipano sembra un crisantemo o una margherita o un ranuncolo, non si capisce bene. In compenso Del Re non è bravissimo in matematica, credo che consideri quella materia noiosa, mentre io, in quella, sono particolarmente brava. Simili non siamo proprio, però a me piace lui perché ha gli occhi nocciola, è gentile, parla bene ed è, a modo suo, anche buffo. Mi ha detto che abita in un paese che si chiama Pontalba. Sono andata a vedere sulla cartina dove sia questo paese. E’ in provincia di Trescia a circa 40 km da qui. Non l’ho mai visto. Lo zio Erminio, che vende la stoffa e va in giro a fare i mercati, mi ha detto che lui va a Pontalba tutti i venerdì e che è un bel paese, pieno di vegetazione perché a Pontalba passa un fiume che si chiama Lungone.

Guardo il mio libro di Italiano aperto su “A Zacinto” di Foscolo. Questo autore sicuramente me lo chiederanno.
Né più mai toccherò le sacre sponde/ ove il mio corpo fanciulletto giacque/ Zacinto mia, che te specchi nell’onde/ del greco mar da cui vergine nacque/ Venere …”
Il componimento è dedicato all’isola del mar Ionio (Zacinto, più nota come Zante) dove Foscolo nacque, ed affronta il tema dell’esilio. Povero Foscolo che vita sofferta, l’esilio è una vera disgrazia.

Chiudo il libro e penso che berrò un bicchiere d’acqua poi andrò nell’orto a raccogliere qualche fragola, le lavo con l’acqua del pozzo e poi me le mangio. Le cose davvero belle della vita sono queste: l’acqua fresca, le fragole del mio orto, la mia mamma, mio fratello che vuole giocare a scacchi e non capisce che io devo studiare. Non posso certo dirgli che sono alle prese con un povero signor Foscolo che è finito in esilio e che ormai è morto da moltissimo tempo, non apprezzerebbe.

Chiudo il libro, è leggero, di carta quasi trasparente e un po’ ingiallita, l’ho comprato di seconda mano perché a casa mia non ci si può permettere di acquistare libri nuovi. Mi sorprendo a pensare che sia meglio così, che i componimenti di Foscolo stiano molto meglio in quel vecchio libro di carte usate e scurite dal tempo, piuttosto che in un anonimo libro nuovo con tanto di figure posticce e colorate in maniera discutibile. Anche i libri devono essere adatti a quello che ospitano. Un libro che racconta di vecchie storie è bellissimo usato, non ci sono stonature, tutto fluisce secondo un tempo già passato e immortalato così. I libri sono preziosi nella misura in cui è prezioso quello che contengono. I contenuti e la materia su cui si depositano formano un tutt’uno imprescindibile che arricchisce di senso ogni pagina, ogni momento di lettura. Quando qualcuno entra in quel mondo e in quella dimensione un po’ vecchia che sa un po’ di muffa, si regala una poesia eterna e senza arroganza. Senza artificio, così come è sempre stata.

Lascio il libro, mi avvio verso l’orto e le fragole. Chissà se a Umberto piacciono. Lui non è un libro e, per fortuna, non ha il fascino di ciò che è già stato e non tornerà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

LO STESSO GIORNO
la corritrice olimpica Samia muore su un barcone a Lampedusa

20 giugno 2012
Giornata in memoria di Samia, la corritrice olimpica morta su un barcone a Lampedusa

Nella piccola cameretta condivisa con i fratelli, Samia aveva appeso il giornale sul quale apparve Mo Farah celebre mezzofondista britannico di origine somala.
Samia Yusuf Omar nasce nel 1991 a Mogadiscio, capitale della Somalia. Con la madre fruttivendola e orfana di padre, Samia e i fratelli cominciano a lavorare fin da piccola. Cresce nella Somalia martoriata dalla guerra civile, dal fondamentalismo, dal totale disinteresse della comunità internazionale e dalla dilagante povertà.

Samia non è come tutti gli altri ragazzi della sua età. Sin da piccola è dominata dalla passione e l’attitudine per la corsa. Vince tutte le gare per dilettanti somale, così inizia a partecipare a gare per professionisti, supportata dal centro olimpico somalo.

Il talento della giovane ragazza non ci mette molto ad emergere. Dopo aver dominato le competizioni Somale, si qualifica per i giochi olimpici di Pechino 2008.
Ha solo diciassette anni quando corre i 200 metri alle Olimpiadi, la più giovane in pista nella sua categoria. Con un tempo di 32”16 è ultima in assoluto in tutte le batterie, ma questo a Samia non interessa, l’importante è essere su quella pista.

Samia ha realizzato il suo sogno. Allenandosi tra scuola e lavoro, su piste sterrate e senza le classiche scarpe da corsa è riuscita ad arrivare alla massima competizione al mondo, tutto grazie la sua forza di volontà.
Il pubblico l’ha amata e sostenuta. Divenne, durante quei giochi olimpici, un esempio per tutto il mondo. Celebrata da tutti i giornali e le tv come la donna forte, capace di farcela da sola contro il mondo intero solo grazie alla propria forza.

Samia torna in patria fiera di se stessa, convinta che la volta successiva, a Londra, farà sicuramente meglio. La ragazza simbolo torna piena di speranza nella sua patria violentata prima colonialismo italiano, poi dalla feroce dittatura di Siad Barre e infine dal caos lasciato alla caduta di questo nel ’91.
Torna ad allenarsi per le strade squassate dai colpi di mortaio, con addosso abiti scuri e pesanti, che le coprono il volto, cosi che gli uomini appartenenti alle milizie al-Shabaab non si accorgano di lei.
Sono pochi in patria quelli che conoscono la sua identità di atleta olimpica, ancora meno quelli che hanno avuto il privilegio di vederla in tv.

Samia non si ferma, continua a correre per altri tre anni, sempre alla ricerca di un allenatore per Londra. Ma in Somalia è praticamente impossibile trovare qualcuno disposto a correre il rischio di venire condannato per aver preparato una donna ai giochi Olimpici.
Samia si appella con un tentativo disperato alla comunità internazionale. Quelle conoscenze fatte a Pechino tre anni prima le permettono di contattare giornali e televisioni senza farsi notare dal regime militare. Quelli stessi giornali che avevano amato la storia dell’eroina Somala, sembrano però essersi dimenticati completamente di lei, nessuno fa niente affinché la ragazza venga aiutata.

Per questo Samia decide di fare il grande passo: decide di lasciare il Mogadiscio e di raggiungere l’Europa.
Come tanti altri connazionali, come tanti uomini e donne africane, Samia sarà una clandestina una volta arrivata in Europa, e dovrà convivere con la dura accoglienza che l’aspetta. Non importa che lei abbia corso a Pechino alle Olimpiadi, non importa che sia la donna più veloce della Somalia, anche lei dovrà affrontare il deserto e il mare per cercare una vita dignitosa.
Samia attraversa Etiopia e Sudan su uno di quei camion stipati di persone, vede persone cadere e morire tra le dune del deserto. Arrivata in Libia ha dovuto subire le torture e le violenze di chi è prigioniero dei mercanti di uomini, attendendo il giorno in cui finalmente riuscirà a partire.

Riesce alla fine a salire su un barcone diretto verso le nostre coste, a Lampedusa. A largo della costa Italiana, la fatiscente imbarcazione comincia a cedere, tutte le persone ammassate lì sopra finiscono in mare, compresa Samia. Il 2 aprile 2012, a largo delle coste Italiane, Samia muore annegata insieme ad altri 10 uomini. 

Non capita spesso che tra chi cerca di attraversare il Mediterraneo ci sia un’atleta olimpica. Per questo la storia fu raccontata più volte, anche da televisioni e giornali locali. Su quel barcone Samia però non era l’unica a correre per sopravvivere. Mentre lei correva verso Londra, altri correvano verso familiari che li aspettavano, verso un lavoro, verso una vita diversa e più dignitosa, verso la speranza.
Tra le vie di Mogadiscio questo stesso giorno, il 20 giugno 2012, scesero donne e bambini, lavoratori e poveretti, per ricordare nella Giornata dei Rifugiati Samia, la corritrice olimpica. Pochi anni prima era il simbolo della forza delle donne, adesso invece è diventata un monito contro la propaganda occidentale che descrive i profughi che attraversano il mare come delinquenti e stupratori, come falsi bisognosi che rubare il lavoro agli italiani brava gente, e che sicuramente hanno tutti cattive intenzioni. 

«Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro paese.»
(Samia Yusuf Omar, 2008)

TERZO TEMPO
This is (black) England

Se dovessimo riassumere il significato della parola “nazione” in un’unica frase, potremmo dire che è il sentimento di appartenenza a un determinato contesto socio-culturale. Tuttavia, quell’ambiente in cui ci rispecchiamo non è rigido o immutabile, bensì fluido: si evolve col passare del tempo e delle generazioni, e il suo fascino non ha limiti territoriali.

Di conseguenza, l’aggettivo “nazionale” indica qualcosa che può unire, accogliere e – perché no – innovare. Una nazionale di calcio, ad esempio, fa tutto ciò senza necessariamente rispecchiare l’attualità sociale e politica del paese di appartenenza. È il caso della multietnica Inghilterra di Gareth Southgate, ben lontana dall’incarnare le linee guida degli ultimi governi, specialmente in materia d’immigrazione. A mettere in evidenza tale distanza ci ha pensato il Migration Museum di Londra con la campagna Football Moves People, avviata all’inizio di Euro 2020 e finalizzata a dimostrare, tramite il calcio, la progressiva mutevolezza dell’identità nazionale britannica.

Durante l’ultimo Europeo, infatti, campeggiavano lungo le strade della capitale alcune rivisitazioni dell’undici titolare di Southgate, cancellando i nomi di coloro che sono figli o nipoti di immigrati. Il risultato? Di quegli undici ne rimanevano tre o quattro, non di più. Anche i giocatori attualmente più rappresentativi e prolifici della Nazionale inglese non avrebbero fatto parte di quel gruppo: il padre di Kane è originario di Galway, in Irlanda, e si è trasferito a Londra molti anni fa; Sterling è figlio di genitori giamaicani, e assieme alla madre è emigrato a Londra all’età di cinque anni.

Non è una novità nel calcio europeo – basti pensare alla Francia del ’98 o al Belgio degli ultimi anni – ma nel caso dell’Inghilterra del 2021 il tema dell’immigrazione assume un significato più profondo, sia per ciò che è successo con Brexit che per l’attivismo di alcuni dei suoi protagonisti, tra cui spiccano il già citato Sterling e Marcus Rashford. A tal proposito, in un recente articolo su The Player’s Tribune Gareth Southgate dice che “è loro compito continuare a interagire con il pubblico su temi quali uguaglianza, inclusività e ingiustizia razziale, usando il potere delle loro voci per creare tavoli di discussione, aumentare la consapevolezza sociale ed educare”.

Sta di fatto che tra i 26 giocatori a disposizione dello stesso Southgate c’era una maggiore percentuale di non bianchi rispetto all’intero paese – dove, ad esempio, i neri sono il 3% della popolazione. Non è un caso, quindi, che l’adesione incondizionata dei calciatori inglesi al movimento Black Lives Matter abbia ricevuto qualche critica dal pubblico e da alcuni esponenti del governo britannico. Lo stesso governo che ha cercato a più riprese di trarre vantaggio dall’entusiasmo collettivo attorno alla Nazionale, non curandosi di un fatto piuttosto evidente: se l’attuale sistema di immigrazione fosse entrato in vigore trenta o quarant’anni fa, gran parte di quei giocatori non avrebbe indossato la maglia dell’Inghilterra.

Per certi versi
Ode al granoturco

ODI DIVERGENTI
1
Una spiga
È un prodigio
Di Armonia
Di luce
Economia
Fare tacere la fame
Altro prodigio
Anche la mosca
Che trasforma
La cacca in energia vitale
Lo scarabeo con lei
È un prodigio
Ma la mosca
Da vicino
È un mostro
E
Tortura
Non sempre
Sono anche belli
I prodigi
Della natura
Una spiga
È un prodigio
Di Armonia
Di luce
Economia
Fare tacere la fame
Altro prodigio
Anche la mosca
Che trasforma
La cacca in energia vitale
Lo scarabeo con lei
È un prodigio
Ma la mosca
Da vicino
È un mostro
E
Tortura
Non sempre
Sono anche belli
I prodigi
Della natura

PRESTO DI MATTINA
L’attesa

 

Il venire della parola come il travaglio di una grazia

«Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: la forza appartiene a Dio, tua Signore è la grazia» (Sal 62,12). Forza creatrice della parola, da un lato, e il suo manifestarsi e attuarsi come dono di grazia, dall’altro, sono una sola cosa in Dio. In lui corrispondono infatti il dire e il fare, l’inizio e il suo compimento. Grazia e fedeltà nell’amore sono un’unica parola giunta a noi per mezzo del Figlio direbbe Giovanni.

Per noi l’unica parola è udita come fossero due: grazia e travaglio, chiamata e sequela, così è per noi il venire di questa Parola come pure delle nostre stesse parole: gratuità di un dono e travaglio del loro venire alla luce.

 

In quell’unica parola, due

Ne udiamo una prima, che dice: «Effonde il mio cuore liete parole. La mia lingua è stilo di scriba veloce. Sulle tue labbra è diffusa la grazia» (Sal 44, 2).

La seconda incalza: «Sappiamo che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando».

L’attesa del venire delle cose, l’attesa laboriosa di poter dare inizio, di principiare qualcosa, l’attesa stessa della parola che principia ogni scrittura, è attesa materna di gestazione, attesa fiduciosa davanti alla pagina bianca: attesa dell’aurora. Si sta in un travaglio che è dono e in una grazia che è imprevedibile seppur sperata; insperata giungerà preso o tardi: se tarda attendila fiducioso.

È come il sentire due note: una grave l’altra dolce. Due trombe, direbbe Agostino, che suonano in modo diverso, ma è un unico spirito che vi soffia dentro l’aria. Due parole: la grazia, della parola che verrà alla luce e il travaglio della lettura prima e della scrittura a seguire. L’attesa del venire delle cose come della parola è attesa del mutamento, di quell’ora che non si conosce ma che porta la gioia del nuovo.

È l’ora della grazia, del suo sorprenderti, direbbe Mazzolari: «Ci sono le ore di Dio: saperle attendere, vuol dire disporre i nostri cuori alla sua grazia. Il silenzio e la preghiera preparano le sue strade. Il soffrire non conta: conta il credere, lo sperare l’amare» (Pensieri dalle lettere, 173).

Le parole e le cose del mattino, quando accadono, sono intuite ma inesprimibili. Si potrebbero chiamare stato di grazia, qualcosa che giunge a te da altrove, come l’estro del poeta; qualcosa dentro te di incontenibile che preme.

L’etimologia della parola “estro” suggerisce qualcosa che ti punge, ti gonfia, ma persino che t’incinta e che spinge e trapassa come l’impeto al rompersi delle acque, quando viene alla luce una nuova vita, come l’oscuro e travagliato grembo della notte che non può più trattenere l’irresistibile venire dell’aurora.

La parola, come la vita, perché nasca e viva nella scrittura, necessita tempo, occorre inseguirne le tracce come un bracconiere; se sei ancora cieco di fronte al miracolo della parola nascente, devi continuare a cercarne le orme, come a tentoni nel divenire delle cose quotidiane, nelle relazioni non disattese né schivate, e all’improvviso, quando meno te l’aspetti, la scorgerai venirti incontro e ti metterai al suo sevizio come una levatrice prima e una nutrice poi, con la scrittura farai conoscere pure a lei un mondo nuovo.

 

“O homem cordial”

Può sembrare una banalità questo detto, ma quando un brasiliano dice “o homem cordial” (Sérgio Buarque de Holanda [Qui]) dice una cosa profondissima. La semplicità del comportamento, la capacità di accogliere, l’ospitalità, la generosità che dà tutto, e queste sono tutte virtù dei poveri in tutti i continenti.

Così desidero introdurre i testi poetici di Enzo Demarchi più di un amico fraterno, un vero fratello. Anche lui homem cordial, perché divenuto uomo della Parola di Dio nelle parole e nelle cose degli uomini, incarnata nei loro vissuti e storie.

Parola che sola «conosce tutta la gioia e tutto il dolore del Mondo, in attesa di una “Gloria” senza misura… Tutto è Voce Tua, Tuo Gesto, Tua Avventura. Il Mondo intiero è la continua Novità di Te nell’umiltà del tempo presente, in attesa della Gloria che sta per scoppiare. Tu mi dai una gioia sconfinata che vuole superare ogni argine del mio povero cuore; ma mi dai un dolore sconfinato, perché tutti e tutto essendo del Cristo, e vivendo Lui in me, ogni sofferenza dell’Uomo, ogni sofferenza della Terra è mia!».

Se le cose stanno così allora più delle mie le sue parole sapranno dire come da una parola se ne odano due, al pari della parola rivolta a noi da Dio sentita come travaglio e grazia.

 

L’inseguimento

Inseguimento, d’una parola che non c’è –
Attesa spasimante, assoluta – d’un eco, nel deserto –
E poi … un grido informe – mi fa soffrire:
la carne si scopre ai flagelli.
Che dolore per dire una parola! – Ricerca, affanno,
turbine – Vano protendersi, implorare, rincorrere –
Come un amante disperato – cerco parole nel buio dell’anima –
come nel crepuscolo mattinale, – dita misteriose
traggono miracolosamente – dal caos della notte – cose nuove.

Un volto d’uomo

Volto dell’uomo! – Fermati, apriti – Linee viventi,
segni dell’abisso! – Schiudete torrenti di comunione; – non
trattenete l’ondeggiare – che già vi preme, vi tende – come dighe
elastiche – Volto dell’uomo! – I tuoi occhi errano a volte, –
come naufraghi nell’oceano – A volte corrono per mano – come
fidanzati allegri. – O s’arrestano come bambini –
stupefatti da nuovi misteri.-

Momento di grazia: l’accorgersi dell’altro

Nei momenti di grazia, m’accorgo di come sono
cieco di fronte al miracolo della vita.
Ecco un uomo che lavora e si ricorda del
Lavoro di Dio nella sua creazione.
Ecco un uomo che progetta nella mente e
fatica col corpo e ringrazia il Verbo
che s’è fatto carne.
Ecco un uomo che ha sbagliato, ed ha
conservato il cuore buono, pieno di fiducia.
Ecco un uomo che sa chi è Dio, un uomo che crede
e si confessa umile e semplice come un bambino

Cose del mattino

O cose del mattino, io voglio stare con voi
e partecipare al vostro canto di lode.
Instancabili voi siete a risorgere
e il vostro aspetto è sempre antico e sempre nuovo.
Io passo come un pellegrino pieno di desiderio
che ha smarrito la via.
E voi continuate ad essere della terra
mentre già vi bagnate d’eterno.
Grande è il vostro mistero, cose del mattino!
Una mano invisibile, una grazia silenziosa
vi ha modellate nella notte
ed ora state commosse a ringraziare
quel lungo amore notturno
quell’abbraccio possente e tenero
che vi lascia per tutto il giorno
con incantato sguardo di sogno.
O cose del mattino,
dite al mio cuore la dolce avventura
la celeste origine, sussuratemi il vostro nome.
Una casa che luccica al sole – sotto la tenda azzurra
del cielo – è un miracolo grande – per la mia anima –
C’è un dono in quella casa immobile – nel cielo tranquillo –
c’è un dono che mani invisibili – offrono con infinito –
delicato pudore.- Perché quella casa – sgorga dai puri
abissi – della creazione – senza motivo. Così, per me!

La sua aspirazione: la Parola nella profondità del reale

«Ho questa ambizione: – diventare un uomo di poche parole, anche di più nessuna parola, se è necessario, perché tutta la mia vita appartenga alla Parola, ed io sia sempre, limpidamente, tranquillamente, profondamente l’espressione di chi vive in me (vorrei persino dare un consiglio a tutti i… predicatori: di non preparare più parole, ma di verificare la “profondità reale” della parola).– riconquistare lo sguardo dei fanciulli sulla creazione.
O Signore! Che io viva sempre di quegli istanti. Strani, pieni di dolore, ma segnati del Tuo Sigillo, della Tua Presenza! (Che è grazia)».

L’ora della grazia

Perché chiamar sentieri
Le scie del destino?
Chiunque cammini, avanza
Come Gesù, sul mare.
Amo Gesù, che ha detto:
Passeran cielo e terra, resterà la mia parola”.
Qual fu tale parola?
Amor? Perdono? Carità?
No: quella parola fu,
Quella parola: “Vegliate!
Poiché non conoscete l’ora
In cui vi si dovrà destare;
Ben vigili dormir dovete:
Vegliate dunque!”.

(Antonio Machado [Qui])
(I testi dal Quaderno XI, 1960, presso il Cedoc SFR)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

 

Parole a capo
Sara Ferraglia: “Telegiornale” e altre poesie

“La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri.”
(Hannah Arendt)

Telegiornale

Chiudi la porta, fallo tu soldato
Lì dentro tutto quello che ho lasciato
nel nulla svanirà oltre la soglia
e poi dovrò avvisare anche mia figlia,
lasciarle detto dove mi hai portato
Chiudi la porta, fallo tu soldato
Sul marciapiede c’è un fagotto rosso,
rosso di sangue, lei l’aveva addosso
È in tela di cotone, quadrettato
e giace nella strada abbandonato
accanto a lei, che è un corpo freddo e morto
Pietosamente le han coperto il volto
C’è questa disumana narrazione
che si ripete ad ogni nuova guerra
ed ha diverso peso l’emozione
quando non è la mia ma la tua terra
Misuri a fotogrammi l’empatia
guardando un viso in fotografia
Deciderà per te il telegiornale
per chi soffrire e quanto stare male?
Deciderà il racconto degli inviati
chi saranno i sommersi e chi i salvati?

Li ricordate i bambini di Kabul?

Li ricordate i bambini di Kabul?
Laggiù a Kabul i piedi dei bambini
indossano calzini per la corsa
Piedi veloci, piedi piccolini
mappati con la strada che han percorso
Laggiù a Kabul le mani dei bambini,
le dita chiuse a pugno strette e dure,
trattengono frammenti di destini
esplosi in onde nere di paura
E gli occhi dei bambini di Kabul
li ricordate ora che ne tace
ogni giornale? Non ne parlan più…
– Ormai sono lontani, son laggiù –
Ma c’era in ogni sguardo una domanda,
la fretta di raggiungere un futuro
sfuggito in volo dall’aeroporto,
voglia di un letto caldo e più sicuro
e il loro sguardo a noi era rivolto
Qualcuno li ricorda i bimbi di Kabul?

Interrogatorio

Sì maresciallo, ho sfondato la porta.
No, non è vero, non ho mano esperta.
Non ho rubato, non ho fatto danni,
(ho solo steso e asciugato i miei panni)
Sì, lo so bene. Non è casa mia.
(quella è un ricordo, è ormai fantasia)
Pioveva forte, la notte era scura.
Nella campagna una casa sicura…
Mi è apparsa vecchia, deserta e sola.
Come una nenia che ti consola
piangeva pioggia dalla grondaia.
Sì maresciallo, ho percorso l’aia
fino all’abbraccio con le sue mura.
La legge dice che è pena sicura,
che è violazione di proprietà.
Lei, maresciallo, che ha la mia età,
ha mai provato in un giorno soltanto
a perdere tutto, tranne il suo pianto?
Non sto chiedendo la sua compassione
ma di cercare dentro quel nome
che sta scrivendo sulla tastiera
l’uomo che sono. È la mia preghiera.

Sara Ferraglia  è stata finalista e vincitrice di numerosi premi nazionali fra cui: Premio speciale 28^ edizione Premio Ossi di seppia (SV), 2^ classificata Premio Giovanni Bertacchi ( TO ),  più volte vincitrice nelle varie edizione del Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga ( LU). Sue opere sono presenti in diverse antologie poetiche e sono raccolte nel blog Saràpoesia.blogspot.com
A Sara piace “la contaminazione” fra le diverse forme artistiche e le sue poesie sono state spesso affiancate a fotografie in mostre di grande successo. Molte sue poesie sono state inserite in vari spettacoli teatrali, il più recente dei quali, è “Le donne che conosco”, per la regia di Sabina Borelli e le musiche di Elisa Sandrini, composte sui testi stessi delle opere poetiche.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VITE DI CARTA /
Nel guazzabuglio, i libri

 

Sperimento il caos miscellaneo che la vita mi presenta ogni giorno. Da un osservatorio con i suoi privilegi, quello di giornate più lente ora che sono in pensione, colgo le storie che vorticano all’intorno.

Una diversa dall’altra, le situazioni non solo mie, ma di parenti, amici, conoscenti. Senza parlare delle notizie che vengono da tv e internet. Voglio definirlo guazzabuglio, anche se mi veniva  bene chiamarlo minestrone davanti agli studenti, quando si facevano complessi i quadri culturali da studiare e c’era bisogno di un po’ di ironia prima di rimboccarsi le maniche.

Vediamo un po’. La sensazione più viva viene dall’ultima esperienza di ieri: la permanenza al pronto soccorso in tarda serata-notte. Ho alzato poche volte lo sguardo attorno, più che altro ho parlato fitto con mia nipote, sdraiata senza comodità sul suo lettino provvisorio, in attesa di essere visitata da qualcosa come dieci ore.

Però l’ho alzato. Sono anche andata in giro un paio di volte tra le salette di attesa, tra i lettini tutti uguali con sopra persone tutte diverse. Se la postura dice qualcosa, mi sono sembrate una più tramortita dell’altra; alcune con la fissità che prelude al sonno. Credo si stessero difendendo non tanto dal loro male, quanto dall’attesa imperscrutabile in cui erano piombati da ore.

Ho avuto una forte impressione di scollamento: non esisteva alcuna continuità tra gli astanti, il personale medico e infermieristico che appariva e scompariva e lo spazio, l’arredo, i monitor con l’elenco dei codici di accesso. P104 e colore azzurro, e sotto molte altre P con tre cifre a formare una lista asettica e non decifrabile ai non addetti.

A quale di questi codici poteva corrispondere la suora di media età, silenziosa e supina, che mi aveva guardato appena mentre le passavo accanto. O la signora seduta sul lettino, che consultava il contenuto della borsetta e l’immancabile display del cellulare. Ogni tanto, un frammento di contiguità. Quando un’infermiera usciva dal proprio ambulatorio per chiamare a gran voce un nome. Meglio ancora se si chinava su qualcuno per bisbigliare frasi meno formali, magari aggiungendo un sorriso.

Un altro quadro molto vivace che ho in testa è riferito alla festa della scorsa domenica: festa a casa di parenti, nel prato intorno alla bella casetta e sotto i gazebo approntati per l’occasione. Dei veri forni riempiti di tavole imbandite di ogni ben di Dio, per celebrare la prima comunione del rampollo di casa. Il caldo rappreso sotto i tendoni ha reso agli invitati un delizioso colorito, credo di essere diventata paonazza alla seconda deliziosa ora di conversazione e cibo.

Deliziosi anche i momenti di incontro con i parenti che vedo ogni qualche anno, momenti pieni di riassunti sui rispettivi vissuti. A colpi di tagli e colori di capelli profondamente mutati, ricoveri in ospedale e successive riabilitazioni, crescita incontrollata dei nipoti, diventati alti a dismisura nel giro di qualche mese. Eccetera. Sono tornata a casa dopo tre ore e mi sentivo ben pasciuta, in tutti i sensi.

Ancora. Le presentazioni di libri a cui ho preso parte negli ultimi giorni. I libri come il mondo che è tondo spaziano a trecentosessanta gradi per varietà di contenuti e di modi espressivi. Lo dicono a mo’ di esempio i due titoli che vado a riportare.

quando qui sarà tornato il mareIl primo è Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende ed è stato scritto a più mani durante un laboratorio su cambiamento climatico e scrittura collettiva condotto da Wu Ming 1 [Qui] nel basso ferrarese.

Il nome del collettivo, Moira Dal Sito, non è che l’anagramma di Mario Soldati, lo scrittore che frequentò a lungo la zona del delta del Po e al quale è intitolata la biblioteca comunale di Ostellato, dove si è tenuto il laboratorio nel biennio 2018-2019.

Ho ascoltato la presentazione del lavoro presso la Biblioteca Giardino, sere fa, divenendo consapevole della seguente previsione: l’Adriatico che si alza, che vuole spingersi nell’entroterra, potrebbe nei prossimi decenni arrivare a coprire di acqua la provincia di Ferrara, fino a pochi chilometri dalla città.

Come recita il risvolto di copertina, “lo scopo era immaginare il mondo sommerso di fine secolo e ambientarvi storie create con vari metodi. Ne è nata l’epopea di un mondo ancora e sempre in bilico, tra fatalismi e ritorni all’utopia, miti antichi e sogni di futuro”.

Il mondo in bilico, appunto. Come nelle sale e salette del pronto soccorso, ieri sera.

delitto sull'isola biancaIl secondo è un giallo ambientato sul Po, all’Isola Bianca di cui avevo solo sentito parlare prima di vederne le immagini durante l’incontro con l’autrice, la ferrarese Chiara Forlani. La quale, appassionatissima dei luoghi, ha parlato distesamente della nascita di questo romanzo, del misterioso delitto avvenuto sull’isola nel 1950 e della situazione storica in quegli anni a Ferrara. Delitto sull’isola bianca è il primo di una trilogia che la scrittrice ha già finito di scrivere, segno di una invidiabile energia narrativa.

 

 

quando le montagne cantanoAncora. I libri che sto leggendo e i libri da leggere. Sto leggendo Quando le montagne cantano di Phan Que Mai Nguyen, la saga di una famiglia che intreccia  la storia del Vietnam lungo tutto il Novecento ed è raccontata con rara sensibilità dalle due protagoniste femminili. Leggo questa storia e consulto la guida turistica del Vietnam, in attesa di partire per Ha Noi tra due settimane.

 

 

 

il nome del maleDevo leggere l’ultimo romanzo di un altro autore ferrarese, Alessandro Carlini. Di lui non ho ancora letto nulla, ma lo conoscerò anche di persona quando sarà ospite della Biblioteca comunale del mio paese per la presentazione di questo suo ultimo Il nome del male. Una nuova indagine del magistrato Aldo Marano.

 

 

 

Ora torno a ieri sera nelle sale e salette del pronto soccorso a Cona, dove un signore attempato dall’abbigliamento clownesco passava di stanza in stanza declamando versi e poi cantando ariette famose. Portava un cappello rosso natalizio e sopra una cuffia di lana bianca abbinati a pantaloni corti e a un cardigan dai colori sgargianti.

Una apparizione incongrua in tanto silenzio. Eppure costituiva lo scarto da tanta immobilità forzata, era il colpo d’ala di chi non soggiace alla situazione contingente e inventa alternative.

Come la lettura.

Avrei voluto avere con me un bel romanzo, o meglio ancora un racconto e tentare di fascinare l’uditorio con una storia che li mettesse a distanza da se stessi in un momento così incoerente. In un non-luogo così difficile da impattare.

Per costruire una prima corazza di emergenza: le parole altrui, le storie altrui che gira gira sono anche le nostre. Diamo loro la delega a rappresentare le vite e quando leggiamo calziamo le scarpe degli altri fingendo di non sapere che sono anche ai nostri piedi.

Nota bibliografica:

  • Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende, a cura di Wu Ming 1, Alegre, 2020
  • Chiara Forlani, Delitto sull’isola bianca. Le indagini del Foresto, Nua Edizioni, 2022
  • Nguyen Pan Que Mai, Quando le montagne cantano, Editrice Nord, 2020 (traduzione di Francesca Toticchi)
  • Alessandro Carlini, Il nome del male, Newton Compton Editori, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]