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Leggi Mille giorni che non vieni di Andrej Longo e al centro del mondo c’è Napoli con il suo paradigma di vita che sembra coprire pressoché tutta la casistica delle esistenze. Anche se vivi chissà quanto lontano da lì.

A raccontare la propria storia è Antonio Caruso, un giovane che si trova in galera a scontare una pena di tredici anni per omicidio, una pena che ha interrotto la vita in famiglia con la giovane moglie Maria Luce e la figlia Rachelina appena venuta al mondo e che ora ha sei anni. Ha interrotto anche il corso per la patente per guidare i camion e la possibilità di lavoro che avrebbe potuto seguirne.

Qui in cella le giornate passano tutte uguali, c’è molto tempo per ripensare al passato. E c’è l’amico Caffeina che riporta il buon umore con le sue battute: “Basta ‘sti penzieri! T’abbrucian’ ‘a cervella i penzieri! Nun penzà!”.

Là fuori Maria Luce sbarca il lunario lavando pavimenti,  alle prime visite in carcere Antonio ha sentito i calli nelle sue mani e intanto ha visto Rachelina; ora non più, perché le visite si sono interrotte e Maria Lù non vuole più saperne di lui.

Antonio comincia il suo racconto nel momento in cui gli viene comunicato che può uscire dal carcere; ne è felice ma anche sconcertato e non conosce il motivo per cui può tornare libero. Fuori gli amici non ci sono più, quelli veri come Caffeina e gli altri sono rimasti dentro. Certo gli si offre una seconda possibilità. Antonio rimette in moto le giornate potendo andare a vedere il mare e cercando soprattutto di ristabilire i contatti con Maria Lù e con la bambina.

In breve scopre che a scagionarlo dell’omicidio commesso è stato il complice, il grande amico Polpetta che, dovendosene andare per una grave malattia, gli ha lasciato in eredità la possibilità di tornare libero. È uno scambio di favori: insieme anni prima hanno ucciso per vendicare l’uccisione del loro amico di sempre, Tyson, ma a essere riconosciuto da un testimone e ad andare in galera è stato il solo Anto’.

A questo punto occorre che io riporti le sue parole mentre parla all’amico che non c’è più e gli spiega come mai non ha fatto il suo nome agli inquirenti. Le riporto perché in una storia come questa, in cui il protagonista è un pregiudicato, è lo stile con cui si esprime a catturare chi legge, sono le parole schiette e ingenue come queste:

“La tentazione l’ho tenuta. Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare”.

Nella sua narrativa Andrej Longo ci ha abituato al dialetto napoletano. Ho riletto i racconti di Più o meno alle tre, uscito nel 2002, e ho ritrovato la stessa cantilena nella lingua, il ritmo delle parole sincopate che pulsa venendo su dalle profondità di chi è partenopeo.

In questo ultimo romanzo, sono passati vent’anni, mi pare che il dialetto sia più marcato, più esclusivo. D’altra parte non può che essere così, dovendo coprire l’intero orizzonte espressivo del protagonista. Come se il narratore nei Promessi Sposi fosse Renzo, con la semplicità e la forza della sua capacità linguistica di “povero montanaro”.

Mi pare un’operazione mirabile. E ancor più mi piace che la vicenda di Antonio con i suoi contenuti diventi mano a mano la storia di tutti noi, almeno di molti.

Maria Lù si riavvicina cautamente a lui. Mentre Rachelina, che lo ama incondizionatamente, gli testimonia a ogni occasione la gioia che prova nell’averlo vicino. Le parole del titolo sono le sue quando lo rivede, per lei bambina l’iperbole di aver contato fino a mille i giorni senza di lui esprime al meglio il suo amore.

Per cercare un lavoro Antonio incappa in un giro illecito: mentre guida un camion carico di pomodori, scopre che in realtà nel fondo sono nascosti rifiuti tossici, armi e anche dei prigionieri. Sono dodici neri destinati a un destino di prostituzione e di morte.

Sono lì, davanti a lui, che li ha fatti uscire da quel nascondiglio soffocante, uomini, donne, bambini. Sono gli ultimi, i più fragili in assoluto su questa terra. In un atto di generosità, dice Andrej Longo in una intervista, Antonio li libera e li conduce da Padre Vincenzo nella sua parrocchia a Napoli, sempre aperta per chi ha bisogno di aiuto.

La parola giusta non è generosità, è quella che usa Antonio, “giustizia”. E qui mi torna di nuovo sulla punta della penna il Renzo manzoniano, che a Milano, in un mondo più grande di lui, ha come piccola bussola la sua idea di giustizia. Si mette nei guai, come ben sappiamo. E anche Antonio finisce per essere accusato di favorire l’immigrazione clandestina e ritorna in carcere.

Uscirà di nuovo? Uscirà. Offrendosi come esca per catturare la banda che gestisce il traffico criminale di uomini e di cose, col rischio della vita. Il finale della storia concede un po’ troppo allo stereotipo dei film d’azione, tutti spettacolarità, tuttavia si salva una volta di più per le parole di Antonio. Quando durante un secondo viaggio in camion prepara la cattura della banda, ci sono altri neri da salvare e lui si ferma a un autogrill e li fa uscire dalla pancia del camion.

Uno di loro, Mustafà, è già stato in Italia e può comprendere quello che Antonio gli raccomanda: “Senti a me: tu aspetta qua. Non ti muovere. Io prendo l’acqua al bar. Capito?” E quindi: “Prendo due pacchi di bottigliette da mezzo litro. Torno dai neri. Distribuisco l’acqua. Si attaccano alla bottiglia come se non bevono da dieci anni. Soprattutto i bambini tengono sete”.

È la giustizia naturale. È fratellanza, come ci terrà a precisate Antonio e Mustafà di rimando “Fratello, sì. Io sogno frato a te, e tu sei frato a me”.

Può chiamarsi ‘romanzo di formazione‘? Lo è per Antonio, che mostra di essere maturato in questo suo coraggioso atto di aiuto ai più deboli. Si è accostato alla sua famiglia con senso di responsabilità, facendo breccia di nuovo nel cuore di Maria Lù e godendo della compagnia di Rachelina.

Indipendentemente dal finale, che non va svelato, la sua attenzione a coloro che hanno bisogno ci investe tutti. Fa del suo un nostro romanzo di formazione: in questo tempo così pieno di piaghe a ogni latitudine, diventiamo consapevoli di essere insieme a lui i penultimi della terra.

Eravamo la classe media e ora viriamo verso la povertà, avevamo la pace e ora la guerra ci insegue, ci incalzano i tentacoli ricresciuti della pandemia. Lontani o vicini che siamo, da Napoli la parabola della storia di Antonio ci arriva forte e chiara e tenta di scompigliare le idee che avevamo prima. Ci offre una chiave per accorgerci delle infinite somiglianze tra noi e gli altri su questa terra.

Nota bibliografica:

  • Andrej Longo, Più o meno alle tre, Meridiano zero, 2002
  • Andrej Longo, Mille giorni che non vieni, Sellerio, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

 

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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