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A proposito di acqua pubblica: lettera aperta ai Sindaci del Basso Ferrarese

A proposito di acqua pubblica

Lettera aperta


Al Sindaco di Codigoro
Al Sindaco di Comacchio
Al Sindaco di Copparo
Al Sindaco di Fiscaglia
Al Sindaco di Goro
Al Sindaco di Jolanda di Savoia
Al Sindaco di Lagosanto
Al Sindaco di Mesola
Al Sindaco di Ostellato
Al Sindaco di Riva del Po
Al Sindaco di Tresignana

Vi scriviamo in quanto siete i sindaci dei Comuni proprietari di CADF SpA (Consorzio Acque Delta Ferrarese), l’azienda a totale proprietà pubblica che gestisce il servizio idrico nei vostri Comuni.

Come è noto, alla fine del 2027 scadrà la concessione del servizio idrico a CADF, così come anche negli altri Comuni in provincia di Ferrara, in cui la gestione del servizio idrico è affidata a Hera Ferrara. La fine del 2027 può apparire una data lontana, ma, in realtà, la decisione sul futuro del servizio idrico in tutta la provincia di Ferrara arriverà presumibilmente nel prossimo anno o nei primi mesi del 2027. E’ quindi importante iniziare a discutere, anche pubblicamente, di tale vicenda. Per quanto ci riguarda, non abbiamo alcun dubbio sul fatto che una gestione pubblica, come quella di CADF, è decisamente migliore di quelle di carattere privatistico, come Hera Ferrara, che mettono al centro la realizzazione di profitti e dividendi piuttosto che la scelta di fornire un servizio efficace per i cittadini.

Questa convinzione deriva intanto da considerazioni di ordine generale. L’acqua è bene comune per eccellenza, diritto umano universale e su di essa, e sulla sua gestione, non pensiamo si possano realizzare profitti. A maggior ragione, nella situazione che stiamo vivendo, di crisi ecologica e ambientale, che fa sì che il tema della preservazione e del risparmio di una risorsa naturale e finita, com’è appunto l’acqua, sia assolutamente fondamentale.
In più, ci sono i risultati concreti di CADF e Hera Ferrara, che avvalorano questa valutazione: CADF presenta tariffe più basse rispetto ad Hera Ferrara, produce investimenti procapite più alti, ha perdite idriche lineari inferiori.

Ci sono, insomma, tutte le ragioni per sostenere che il futuro del servizio idrico nella provincia di Ferrara guardi alla soluzione della gestione pubblica e non ad una di carattere privatistico.
A partire da qui, vi chiediamo di farvi parti in causa fattiva di tale prospettiva, anche interloquendo in modo più ravvicinato con le nostre Associazioni, che si occupano da lungo tempo del tema dei beni comuni e della loro tutela. Ciò significa, nel momento in cui fosse confermato che, alla luce della legislazione attuale, alla scadenza delle concessioni, occorre procedere alla costituzione di un unico soggetto che gestisca il servizio idrico in tutta la provincia di Ferrara e una volta svolte le necessarie verifiche di tale orientamento, lavorare perché CADF possa perlomeno continuare a gestire il servizio idrico nel proprio perimetro di riferimento oppure possa candidarsi ad essere il soggetto che gestisce il servizio stesso in tutta la provincia di Ferrara.
Del resto, ciò sta succedendo in altri territori del Paese: pensiamo a Cuneo, dove si sta mettendo in campo la scelta di arrivare ad un unico soggetto gestore a totale proprietà pubblica oppure, per stare più vicino a noi, a Parma, che vive una situazione simile a quella della provincia di Ferrara, dove un’azienda a totale capitale pubblico, Emiliambiente SpA, che opera in una parte della suddetta provincia, si sta proponendo come soggetto gestore unico del servizio idrico in tutto il territorio provinciale. Senza dimenticare quello che è in corso nell’ATO di Firenze, Prato e Pistoia, dove, anche grazie all’iniziativa dei movimenti per l’acqua e per i beni comuni, culminata nel referendum cittadino che si è svolto ad Empoli, si sta abbandonando l’ipotesi negativa di una multiutility da quotare in Borsa per scegliere, invece, la strada di una società pubblica “in house”.

Ricordiamo queste vicende non solo per rendere evidente come la battaglia per l’acqua pubblica sia ancora molto presente nel Paese, ma anche per far presente che vive ancora la sensibilità che, nel 2011, portò la maggioranza assoluta dei cittadini italiani ad esprimersi per la ripubblicizzazione del servizio idrico. Che, dunque, andare in questa direzione significa anche dare una risposta positiva a quell’importante responso democratico.

Certi che vorrete cogliere e interloquire con la sostanza dei convincimenti che abbiamo espresso, e che pensiamo siano da voi condivisi, ci attendiamo  di poter dar seguito al confronto tra noi e, soprattutto, con le cittadine e i cittadini del nostro territorio.

FORUM FERRRARA PARTECIPATA
RETE GIUSTIZIA CLIMATICA FERRARA

Cover: immagine comunivirtuosi.org

Lady Be: mosaici pop dalla plastica, in un mondo di ricordi

L’arte dai rifiuti da tempo fa parlare, un mondo curioso. Incontro con Lady Be.

A colpire subito, il colore, che irrompe, tumultuoso e vivace, nelle opere della giovane pavese Letizia Lanzarotti, in arte Lady Be. Un tributo ai Beatles.

“Sono appassionata ai Beatles, li ascolto da sempre”, ci racconta, “e poi mi serviva un nome arte internazionale, perché ho iniziato ad esporre soprattutto all’estero, Parigi, Bruxelles e New York, uno pseudonimo facile da ricordare, come insegna l’immediatezza della cultura pop. Mi piace molto la visione della vita di affidarsi, di lasciar andare le cose così come vanno, di lasciar succedere”, conclude. E quella canzone iconica è tutto questo.

Beatles serie Emersi, oggetti, smalto e resina su tavola, 60 x 60 cm l’uno
Paul Mc Cartney, 2019, oggetti e resina su tavola, 80 x 80 cm

L’opera di Lady Be non è solo riciclo creativo, ma un’esplosione di emozioni che porta a una profonda riflessione sulla nostra epoca – mala tempora currunt – sul consumo e il valore delle cose, quello che ormai si è perso o si dà per scontato.

L’artista dà nuova vita a materiali plastici di scarto trasformandoli in veri e propri mosaici pop che raffigurano icone della cultura e personaggi della storia.  E lo fa con estro, creatività, ironia, empatia e curiosità. Dando vita a nuovi ricordi, a ricordi che si trasformano, che cambiano a seconda di ogni spettatore.

Ha elaborato una tecnica originale: l’“eco-mosaico”, dove i pezzi di plastica vanno a sostituire i tradizionali tasselli del mosaico. Sono opere realizzate con oggetti quotidiani trovati nei mercatini, sulle spiagge o nelle scuole e catalogati per forma e colore – dai tappi di Coca Cola ai bottoni e a pezzi di bigiotteria – che diventano vere e proprie pennellate su basi disegnate a mano. “Sono partita dalla tecnica della pittura, quindi le pennellate di colore si ritrovano nel mosaico che è, invece, di per sé legato alla natura dell’oggetto”, spiega Lady Be. “Il materiale povero viene messo insieme e recupera un suo significato, un suo valore, nell’opera che va a comporre”, conclude.

Ha iniziato, nel 2009, con Marylin Monroe, “l’opera cui sono maggiormente legata, perché, oltre ad essere la prima, conteneva i miei ricordi più preziosi”, racconta. “Si tratta di un mosaico di 150×150 cm realizzato con materiali accumulati durante la mia infanzia e adolescenza e conservati con cura negli anni. Raccoglievo in scatole tutto ciò che non volevo buttare, involucri di make up o di creme, smalti, pennarelli, piccoli giochi cui era affezionata e li dividevo per colore, per creare armonia. Mi facevano stare bene e pensare al passato da conservare, una sorta di diario. Poi è arrivato l’aspetto ecologico. Non c’era più solo il ricordo ma anche la collettività che lo raccogliesse per me. Da qui la voglia di dare una seconda vita ad oggetti vissuti dalle singole persone”, conclude.

Perché tutto ha avuto una vita precedente e viene dai luoghi più diversi del mondo. Nulla va perduto, ma, uniti i pezzi con estro ed arte, diventa un unicum che riceve nuova vita.

Molti materiali arrivano anche dalle spiagge. L’attenzione alla plastica era necessaria, la più resistente al degrado naturale e quindi con un rilevante impatto ambientale. E poi Lady Be ama lavorare immersa nella natura e fare lunghe passeggiate

Madonna, 2023, oggetti e resina su tavola, 80 x 80 cm
David Bowie, 2020, oggetti e resina su tavola, 80 x 80 cm

L’ispirazione arriva dalla pop art, accesa e brillante, ma anche dalla sua vita e dal rispetto per l’ambiente, oltre che dalla musica, che ama moltissimo. Dopo Marilyn Monroe, Lady Be ha dato vita a centinaia di volti iconici: da Gandhi Coco Chanel, David Bowie, Anna Frank,  Salvador Dalì, Lady Diana, fino a Madre Teresa di Calcutta, Papa Francesco, i Beatles e a ritratti su commissione.

Anche nel caso di questa poliedrica artistica, c’è un’importante dimensione sociale. Basti guardare alla sua Barbie tumefatta in cui raffigura il volto perfetto di una Barbie sfigurato da ematomi e ferite: un occhio livido, il labbro sanguinante. Un colpo al cuore.

Si è parlato molto di quest’opera a denuncia della violenza sulle donne, esposta anche a Montecitorio e nell’ex studio di Piero Manzoni a Milano, commentata anche da Vittorio Sgarbi. “Per realizzare questa opera”, ci racconta, “ho utilizzato diversi materiali come capelli e faccia di vecchie bambole, pezzi di plastica e oggetti di bigiotteria tagliati e ri-assemblati. I capelli di teste diverse a testimoniare le tante donne, di tutte le classi sociali. Ho scelto la Barbie perché tutti la conoscono, un ideale di bellezza e perfezione”, continua, “un personaggio iconico che dimostra come la violenza può toccare tutte, anche quelle dal volto perfetto. Un fenomeno da denunciare, da chiunque e ovunque”, conclude.

Barbie Tumefatta, 2016, oggetti e resina su tavola, 97 x 114 cm

E poi, durante l’emergenza Covid, la decisione di partecipare, con il suo lavoro, alla raccolta fondi #VinciamoNoi, organizzata sulla piattaforma Charity Stars, in favore degli ospedali Sacco di Milano, Spallanzani di Roma e il policlinico San Matteo di Pavia oltre che della Croce Rossa. La sua opera Infermiera con l’orecchino di perla è stata battuta a 6500 €, importo donato agli ospedali e alla Croce Rossa.

A seguire, tanto impegno sociale. L’asta per l’Ucraina, l’esposizione presso la promoteca del Campidoglio del ritratto eco-sostenibile del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, realizzato con i giovani Utenti del distretto 6 del Dipartimento di Salute Mentale Asl Roma 2 o l’iniziativa delle Pigotte d’artista per UNICEF. O le scarpette rosse portate in Parlamento in occasione della recente giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La lista è lunga.

Ad aspettarla, ora, Madrid, a inizio maggio, con un’esposizione presso la Galleria Espacio Jovellanos, la Biennale di Barcellona, a fine Ottobre, al Museo Europeo di Arte Moderna, e l’esposizione permanente di sue 12 opere dedicate alla musica, al Terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa, presenti dal 2019.

Un importante monito all’empatia, alla necessità di combattere il consumismo, l’accumulo irrefrenabile e lo spreco di un “usa e getta” che non si confronta con un mondo dove mancano sempre più risorse e dove, per molti, provare a sopravvivere è la regola. Con grande attenzione all’implacabile marine litter, ma non solo.

Foto, cortesia Lady Be, Immagine in evidenza “Scarpette rosse” portate in Parlamento in occasione della recente giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

 

Campbell: merda per i poveri

Campbell: merda per i poveri

E meno male che il cliente è al centro dell’azienda. Parola loro, non nostra. “Mettiamo il consumatore al centro di tutto quello che facciamo. È così che abbiamo costruito fiducia per quasi 150 anni”, scriveva orgogliosa la Campbell qualche anno fa, spiegando perché appoggiava le etichette sugli OGM e come difendeva il diritto delle persone a sapere cosa c’è nel piatto.Poi, molti comunicati dopo e parecchie lattine vendute in più, salta fuori un audio. In quella registrazione, allegata a una causa civile in Michigan, la voce che l’azienda stessa riconoscerà come quella di Martin Bally, vicepresidente dell’area IT, non sembra esattamente ossessionata dall’idea di “mettere il consumatore al centro”. Le zuppe Campbell diventanohighly processed food for poor people”, cibo altamente processato per poveri, e soprattutto “shit for fucking poor people. Who buys our shit? I don’t buy Campbell’s products anymore”. Merda per poveri del cazzo. Chi compra la nostra merda? Io i prodotti Campbell non li compro più.

È lo stesso marchio che, nei documenti ufficiali, racconta di voler portare “qualità, valore e sicurezza alle masse”, di avere da sempre il consumatore come stella polare, di lavorare per “make food people love”, fare cibo che le persone amano. Nel file audio, però, l’amore per il consumatore si traduce in un’altra lingua: quella che si usa quando si parla dei poveri convinti a cucinarsi una cena in 5 minuti col microonde.

Columns of the Royal Scottish Academy portico in Edinburgh decorated with Andy Warhol’s Campbell Soup Can

La scena, a raccontarla, sembra scritta da uno sceneggiatore con un dente avvelenato contro gli uffici del personale di mezzo mondo.

Novembre 2024, riunione in remoto. Da una parte del monitor c’è Martin Bally, vicepresidente e capo della sicurezza informatica di Campbell’s: non un cuoco, non un nutrizionista, ma uno che dovrebbe occuparsi di hacker e firewall.

Dall’altra un analista di sicurezza, Robert Garza, assunto da poco, che crede di dover discutere di lavoro e prospettive. E invece si ritrova a fare da pubblico a una lunga tirata del capo sui prodotti dell’azienda, sui poveri che li comprano, sui colleghi indiani, sugli edibles alla marijuana che lui stesso, sostiene Garza, consumerebbe con una certa disinvoltura.

A un certo punto, racconta Garza, scatta l’istinto di sopravvivenza del sottoposto moderno: il dito va sul tasto “rec”. Da quel momento tutto viene registrato.
Nella registrazione, finita poi nella causa civile in Michigan e nelle mani di vari media statunitensi, si sente il dirigente ripetere le stesse frasi sulle “highly processed food for poor people” e sulla “shit for fucking poor people” già citate, in un crescendo che sembra fatto apposta per titoli e meme.

È un raro momento di sincerità: il manager che prende le distanze dal cibo che gli paga lo stipendio, dichiarando di non toccarlo nemmeno con la forchetta dei poveri. Non contento, secondo la denuncia, aggiunge che quel pollo sarebbe “bioengineered meat”, roba uscita da una stampante 3D.
Il tutto in mezzo a commenti razzisti sui colleghi di origine indiana, considerati incapaci di pensare con la loro testa. Cibo di merda per poveri, colleghi di merda per pregiudizio, e al centro lui, la coscienza critica del capitalismo da lattina.

“Pubblicità degli anni ’60 – su rivista Campbell’s Soup (USA)”  – by ChowKaiDeng is licensed under CC BY-NC 2.0.

La storia salta fuori solo mesi dopo. Garza sostiene di aver segnalato internamente quelle frasi a gennaio 2025. Dopo circa tre settimane, il licenziamento. Lui parla di ritorsione per aver denunciato un ambiente razzista e un dirigente fuori controllo. L’azienda contesta, parla di altre ragioni. La verità giuridica la stabilirà un tribunale, nel frattempo Garza resta senza lavoro e porta in causa Campbell’s, Bally e il suo diretto superiore. E il file audio, nato per autodifesa, diventa prova centrale del caso e detonatore mediatico.

Quando la registrazione arriva a una tv locale di Detroit e poi ai giornali nazionali, Campbell’s reagisce secondo protocollo. Prima mette Bally “in congedo”, in quella zona grigia dove i manager problematici vengono parcheggiati mentre gli avvocati contano fino a dieci. Poi, vista la tempesta, riconosce che la voce nel file è proprio la sua, lo scarica, annuncia che “non è più dipendente dell’azienda” e definisce quelle parole “volgari, offensive e false”, soprattutto quando parla di pollo ingegnerizzato e stampanti 3D.

Su questo, l’azienda si affanna a precisare: il pollo è vero, al cento per cento, viene da fornitori approvati dal Dipartimento dell’Agricoltura, nessuna carne coltivata in laboratorio, nessuna tecnologia fantascientifica nel barattolo. Il messaggio è semplice: il problema non è il contenuto della lattina, è il contenuto del dirigente.

È la grande religione della mela marcia.
Quando un manager apre bocca e fa uscire quello che doveva restare confinato ai cinici pensieri di corridoio, l’azienda lo isola come un virus.
Non è il sistema che tratta i poveri come un mercato di serie B a cui rifilare cibo ultra-processato a poco prezzo. È lui, il singolo cretino, che a differenza degli altri ha dimenticato la prima regola: non dirlo mai così, non dirlo in una registrazione.

Intanto la politica, che non perde mai l’occasione di fare campagna su ogni pezzo di carne, reale o immaginaria, sente l’odore del sangue. In Florida, dove è stata vietata la carne coltivata in laboratorio, il procuratore generale annuncia un’indagine sulla Campbell’s, citando proprio le frasi del dirigente sulla “bioengineered meat” e il pollo da stampante 3D, come se in quell’ora di sproloquio di un responsabile IT ci fosse la verità rivelata sulle filiere alimentari.

Campbell’s si ritrova così stritolata fra due narrative ugualmente tossiche: quella del manager che esagera e quella della politica che sfrutta l’esagerazione per confermare la propria crociata.
In mezzo, di nuovo, i poveri veri, che continueranno a mangiare quello che trovano sugli scaffali del discount, con o senza etichetta “bioengineered”.

Perché è di questo che si parla, sotto i comunicati stampa e le querele minacciate. Di un’intera architettura economica che considera i poveri un target e non un’emergenza. Chi ha poche decine di dollari a settimana per mangiare non sceglie tra bistrò e cucina molecolare: sceglie tra scaffali di prodotti a lunga conservazione, offerte, promozioni, coupon. Le periferie sono piene di supermercati dove il fresco costa più del tempo che non hai, e il cibo in lattina è la soluzione logica per orari impossibili, doppio lavoro, salari insufficienti. In quel segmento di mercato, il confine fra “buono” e “accettabile” è dettato dal margine di profitto, non dalla dignità del piatto.

Il dirigente che parla di “merda per poveri” non inventa nulla. Mette solo in chiaro la gerarchia non scritta: c’è il cibo per chi può permettersi di pensare al gusto e alla salute, e c’è il cibo per chi deve solo sopravvivere a fine mese. La domanda vera non è se quel pollo venga davvero soffiato da una stampante 3D, come in un incubo techno-trash, ma su chi si regge questa dieta di massa.
Finché esisterà un mercato di “prodotti per poveri” costruito sull’idea che le loro papille gustative valgono meno, che i loro stomaci sono destinazione naturale di ciò che il resto del mondo non mangerebbe, la frase “cibo di merda per poveri” resterà lì, pronta a scappare dalla bocca del prossimo dirigente in overconfidence.

 

Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961 – foto Flickr

Piero Manzoni, nel 1961, inscatolava direttamente la Merda d’artista e almeno sull’etichetta era onesto. Andy Warhol, l’anno dopo, con le lattine Campbell ci faceva un’icona pop: la zuppa industriale elevata ad arte, appesa nei musei come simbolo dell’America che mangia in serie. Campbell invece tiene un piede in ogni barattolo: nelle gallerie è la lattina glamour di Warhol, nelle riunioni interne il suo dirigente parla di “merda per poveri”, ma sulle etichette continua a chiamarla “food people love”.
Alla fine, tra Manzoni, Warhol e Campbell, l’unico che non prende in giro il pubblico è quello che la merda l’ha scritta davvero sulla scatola.

 

(*) Articolo originale diogenenotizie.com 1 dicembre 2025: “Campbell, “merda per i poveri” e povertà di un’azienda”

Cover: Andy Wharol, Campbell’s Soup Cans, MoMA New  York – foto da Flickr

Parole a capo /
Convivio poetico

Parole a capo: Convivio poetico

Mercoledì 26 novembre, alla Galleria del Carbone a Ferrara, si è svolto un incontro a più voci di poete e poeti che hanno pubblicato con la casa editrice Bertoni. Era presente il curatore di collana Bruno Mohorovich. Lucia Boni ha fatto gli onori di casa e ha introdotto un argomento delicato ed importante all’interno dell’universo poesia: scrittura, editoria, distribuzione: il ruolo del curatore.

Le domande erano (e sono) tante e le risposte, com’è ovvio che sia, plurime e ricche di esperienze personali. “Perché si scrive?”, “Per chi si scrive?”, “Chi ti pubblica?”, “Chi ti trova?”, “L’editore ti viene a cercare o sei tu che lo cerchi?”, “Cosa si spende per pubblicare?”, “Quali sono i rapporti con il curatore?”. Ci sono tanti approcci col mondo dell’editoria che possono anche non comportare un rapporto diretto col curatore (ad es. l’autoproduzione). Si è sviluppato un dibattito che ha interessato anche come l’editoria si relaziona con gli autori che vogliono pubblicare. Può succedere che l’autore/autrice si trovi di fronte a proposte che ne possono snaturare il desiderio di riuscire a rendere partecipi gli altri attraverso la propria scrittura.

L’editoria a pagamento EAP (in inglese vanity press), ad esempio, è un fenomeno controverso e molto dipende dai servizi editoriali offerti o meno all’aspirante autore/autrice a fronte del contributo richiesto. Ad esempio editing, correzioni testuali che portino il dattiloscritto al meglio delle proprie potenzialità, presentazioni dell’opera pubblicata, partecipazione a fiere del libro e ad eventi culturali in genere, distribuzione in librerie, presenza o meno del codice ISBN. Mohorovich ha esposto la “filosofia editoriale” della Bertoni dove l’attenzione a non ricadere nel fattore speculativo è molto presente. Il rapporto tra il curatore e l’editore dev’essere di reciproca fiducia così come quello con l’autore/autrice.
Un rapporto che implica ascolto reciproco delle esigenze e una poesia che comunichi qualcosa di significativo. Nel momento della scrittura il poeta si esprime in modo palese o implicito e dice cosa intende per poesia, cioè usa una sorta di meta-linguaggio poetico che si raccorda al desiderio che le sue parole, il suono, il ritmo, le pause di silenzio arrivino a chi legge in modo puntuale ma soprattutto autentico. Si è detto che è come un mettersi a nudo. A questo proposito, Lucia Boni ha individuato due chiavi: l’Intento, accanto o prima dell’Auspicio per indagare sulle espressioni del mai univoco senso che si può  dare all’arte della parola. Attraverso l’utilizzo di alcune parole chiave come “auspicio”, “silenzio”, Lucia Boni ha connesso i testi di alcune delle pubblicazioni presenti, stimolando la scelta di alcune letture.

L’incontro è stato voluto dalla Associazione “Città di Ferrara” che gestisce la Galleria del Carbone, luogo espositivo che programma momenti culturali di interazione tra le diverse espressioni artistiche. La Galleria del Carbone, con la collaborazione dell’Associazione Culturale “Ultimo Rosso”, si impegna ad organizzare altri incontri – confronti, allargando la cerchia  degli autori, editori e lettori.
Di seguito, diamo i testi poetici letti durante l’incontro.

Porti la luce
alle donne palestinesi

Vivi!
Vai nel mondo.
Questi muri mi soffocano
io rimango qui.
Ma tu vai,
apriti alla vita.
Bimba mia
porta con te
la forza di tua madre,
il coraggio delle donne.

Piangi,
piangi forte!
Chiamali
che vengano a salvarti!
Io rimango qui,
sotto la casa crollata.
Ma tu…
sei nata dall’amore
nell’ora più buia.
Cerchi solo aria
pura, sana.
Chiedi solo pace,
per poter crescere…

Piangi,
piangi forte!
Ogni respiro è vita…
Tuo padre ti cerca
insegnali a non odiare…
Sei la speranza
nel domani.

Ora vai: sarai luce!

 

(CECILIA BOLZANI)

 

*

 

Street poetry

ricoprite di poesia
i portici imbrattati di sgorbi
i pali dei lampioni feriti
i muri dei cessi pubblici
i cestini stradali

rivestite di rime
le insegne sbiadite dei bar
le saracinesche dei negozi morti
le colonnine dei carburanti fai da te
i portoni dismessi

seminate di versi
i banconi dei take away
i tavolini degli aperitivi
gli ingressi degli alberghi a ore
gli uffici interinali

appendete canti
alle grucce del lavasecco
ai fili dei terrazzi dove nessuno stende più
agli alberi dimenticati delle periferie
alle altalene mute

gettate nell’aria semi di parole
fate risuonare l’alfabeto
di melodie vergate nei diari dell’anima!

 

(RITA BONETTI)

 

*

 

Mi chiedo

 

Mi chiedo guardandoti
come vada vissuto l’amore
il nostro.
Ti accorgi del suo frugare continuo
il rumore che fanno
certezze e pieghe
delle nostre imperfezioni?

Mi chiedo cosa sarebbe
l’amore con i nostri baci.
Si appoggerebbe alle nubi
come lussureggiante pianta di fagiolo gigante.

Mi chiedo
sedendomi
sopra le tue ginocchia
quale biglietto abbiamo timbrato
alla stazione del nostro incontro.

E intanto
mentre penso
e ti guardo
ti guardo mentre tu pensi
tutto continua
nella banalità rassicurante
delle cose che accadono
Si stacca una foglia da ficus
una folata di vento sposta la tenda
L’acqua per la pasta inizia il suo bollore

Mi chiedo
Tirando una piega della tovaglia
se l’amore possa conoscere
Il gridarlo
Per non essere dimenticato.

Schiarisco voce e intenti e
chiarisco a tutti i presenti
I lettori
Gli assenti se son pronti
a tapparsi le orecchie o lasciarsi andare

all’impeto della mia gioia
Ti amooooooooo
Ecco
Per un momento
un istante
Tutto l’odio che si aggira
Nella stanza del mondo
L’ho spento.

 

(LIDIA CALZOLARI)

 

*

 

Provinciale

 

Su questi sassi malfermi
riparto il ricordo,
la nebbia degli anni
imbevuti di futuro,
ingenue vite ripiene d’amore.

La piazza s’affaccia al sole
e San Giorgio lancia sfide
a draghi di ben altra mole.
Il fianco degli Adelardi
è imbevuto di vino, piscio e ciotoli
vocianti, sudati
ma l’isola che cercavo
s’è sempre nascosta.

Lo so, non è mai tempo di sosta.

Anche i sassi sono cambiati,
rimessi in sesto
per improbabili chiusure di testo.

Ferrara, piccola città
incolpevole solo a metà.

Anche i sassi sono cambiati,
generazioni bruciate
all’imbarazzato sapore della morte.
Un sacrificio non richiesto
di una città che non ha fermato
tra le dita
troppe vite in fuga
troppe fughe oltre la vita.

 

(PIER LUIGI GUERRINI)

 

*

Sogno

 

Mi aprivi la porta
ed avevi vent’anni, se mai li ha avuti.
Galoppava musica da dietro le tue spalle,
come fuoco divampa dalle stanze aperte in buona fede, cercando salvezza. Mostravi denti bianchi, più che un  sorriso.
Ma occorre essere allenati per discernere la assetata crudità del vero dalla gelida bellezza di quel che appare.
Molto più morbido è crogiolarsi nel bagliore di una primavera tiepidamente assolata.
Quindi siamo rimasti sulla soglia, in bilico sulle parole non dette, come in  una danza scaltra di scimmie.

 

 

(FRANCESCA TOTARO)

 

*

Malanni di stagione ( ? )
Segno
della decadenza
,dei
tempi,
del
lento
imputridirsi
che
esala
miasmi
da
cloache
avite,
il
silenzioso
grido
disperato
di
chi
muore
immolato
sulla
(moderna)
ara
catodica
[ … ]
Dalle
gonfie
pance
denutrite,
ai
corpi
martoriati
da
esplosioni
tra
un intermezzo,
un pasto,
e un altro
( … )
con l’opinabile
opzione
di variare
scena
( od opinione ).
Indifferenza
( … )
E’ questo
il vero
sottile
male
che
corrode,
che
ci uccide,
inconsciamente.
(ENRICO TRIBBIOLI)

*

 

E se dovessi non riconoscermi più
così
d’un tratto.
Potrei pensare di essere un’altra
o altro
potrei credermi una nuvola in cielo
un’alga in mare
un fiore viola cresciuto tra l’asfalto
e non riuscire a raccontarlo.
E se dovessi poi non riuscire a spiegarlo
e se a nessuno poi importasse
e se fosse che così
credendomi altro
restassi immobile per l’eternità
in un corpo non mio
con una voce in prestito.
Se fosse
qualcuno quaggiù mi riconoscerebbe?
(MARZIA VENTURELLI)
Ringrazio Lucia Boni e Cecilia Bolzani per aver collaborato alla stesura dell’articolo.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 314° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Seconda mano: crolla la spesa delle famiglie in Italia

Seconda mano

Crolla la spesa delle famiglie in Italia nel 2024: -10,5% sul 2020

Istat ha pubblicato i consumi delle famiglie nel 2024 e 2023. Un confronto con gli anni 2020-2021 a prezzi costanti, considerando l’inflazione, ci dice che la spesa media si una famiglia italiana è scesa da 2.328 euro mensili del 2020 ai 2.161 del 2024 (-7,2%), ma se si considera quella mediana, dove si colloca il 50esimo percentile (giusto in mezzo) il calo è ancora maggiore (-10,5%), in quanto a crescere sono stati solo i consumi del 15% delle famiglie più ricche che alzano la media, mentre per le altre i consumi reali calano.
A crescere sono pranzi e cene fuori casa, alloggi, trasporti, comunicazioni e interventi sulla casa. Tutto il resto cala.

La conseguenza è che si risparmia su tutto e poiché “non tutto il male viene per nuocere”, nel caso dell’abbigliamento e calzature (la spesa reale è scesa da 88 euro al mese a 80) una gran parte dei cittadini ricorre ad abiti di seconda mano.

Sono soprattutto i giovani che comprano (e vendono) di seconda mano.
Nei negozi sono calati i clienti che risparmiano in abiti per comprare caso mai l’ultimo modello iPhone. Uno studio su 400 ragazzi nati tra il 1997 e il 2012 delle Università Bocconi e Sannio (età media 22 anni) dice che scelgono l’usato nei negozi di seconda mano, nei mercatini che è anche un modo per socializzare e divertirsi, oppure on line su Vinted o Walapop dove con 50 euro compri 10 abiti.
Vinted è nata in Francia è ha accumulato 75 milioni di utenti, di cui 11 in Italia. Poi c’è Marketplace, piattaforma di Meta, mercatini virtuali dove puoi vendere e comprare.

Ogni anno nel mondo si producono 100 miliardi di vestiti e 92 tonnellate finiscono in discarica o a mare.

In copertina: abiti usati – Foto di salutfromparis da Pixabay

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Siamo dei fantasmi

Siamo dei fantasmi

Siamo dei fantasmi, non ci volete vedere. Siamo dei non morti che camminano nel fango, l’acqua in alcune tende ci arriva fino a sopra le caviglie. I miei fratellini piangono, i morti giacciono sotto a montagne di cemento e ferro. Ora che sta arrivando l’inverno, la polvere e il caldo soffocante hanno lasciato spazio al freddo, al gelo e all’acqua. Cosa è peggio? Decidete voi.

Ma non preoccupatevi, non è un genocidio, non siamo ancora tutti morti, non ci sono camini o forni, ci sono solo le bombe e le macerie, la fame e la sete, siamo dei non vivi. Voi la chiamate tregua, ma la voglia di morire dei bambini per voi è normale?

Fra poco per voi sarà Natale, festeggerete un Palestinese nato al freddo e al gelo in una mangiatoia, beato lui, noi non abbiamo nemmeno quella. Per il mondo non siamo nessuno, non siamo un popolo, non abbiamo diritti, non abbiamo una terra, né uno stato, né una città, forse nemmeno rappresentanti.

L’ONU oltre un anno fa ha detto che Gaza era un posto invivibile, non adatto alla vita umana, pensate voi come è ora. Gli aiuti sono fermi ai valichi, quegli stessi valichi che voi ritenevate agibili da mesi, ma che non lo sono da mai.

Parlate di democrazia, parlate di umanità, parlate di diritti alla difesa e alla vita: venite a trascorrere il Natale quaggiù da noi, guardatevi intorno e continuate a difendere l’indifendibile, continuate a piangere lacrime finte, continuate ad armare i nostri aguzzini. Sono vostri fratelli? Sono occidentali a presidio del medio oriente? E noi chi siamo? Vite indegne di essere vissute, colpevoli del crimine di essere vivi. Ma non preoccupatevi, quaggiù da noi non nasce più nessuno, muoiono e basta. Ma no, tranquilli, non è un genocidio, è una estinzione graduale, un po’ le bombe, un po’ la fame, un po’ le malattie, ma non preoccupatevi noi la storia non la dimentichiamo. E voi siete sicuri di conoscere la storia anche fuori dai confini del vostro mondo? Aggressori, aggrediti, occupanti, diritto alla difesa e alla vita, siete sicuri di sapere incasellare queste parole nel muro giusto?

Vostri artisti dicevano di non volere essere delle altre pietre nel muro. Noi non abbiamo più muri, solo pietre.

Quante domande vorrei farvi, quante immagini vorrei vedeste, ma è meglio di no, restate al caldo, sotto le vostre coperte a quadri, votate i vostri gentili rappresentanti, che fingono di parlare per voi, continuate a credere che il vostro mondo è il migliore che esiste, che la vostra superiorità vi è data dal cielo.

Noi intanto continuiamo a non vivere, i più fortunati. Gli altri a poco a poco diventano fango, in modo che nemmeno da lontano voi possiate vedere del fumo. Così non vi viene in mente quello che è già accaduto, a casa vostra, il secolo scorso.

E di tutto ciò che è accaduto noi non abbiamo colpa, ma nonostante questo ne paghiamo le eterne conseguenze.

Ora vi saluto, vado a vedere se nella mia tenda c’è ancora qualcuno che respira.

 

Cover photo wikimedia commons

 

La porta lasciata socchiusa: l’arte di sparire e il silenzio che prende il posto della parola

La porta lasciata socchiusa: l’arte di sparire e il silenzio che prende il posto della parola

Accade che il percorso analitico si interrompa senza un vero atto di parola: c’è chi smette di presentarsi, chi lascia soltanto un messaggio stringato, chi si ritrae senza mettere in gioco un’elaborazione del punto in cui si trova.

Queste uscite silenziose — che evitano l’incontro, la parola rivolta, il passo soggettivo — segnalano quanto sia complesso sostenere la responsabilità del proprio dire, soprattutto quando l’analisi comincia a toccare ciò che nel soggetto resta più opaco.

Ogni interruzione porta una verità singolare, e andrebbe interrogata nella sua specificità. Eppure, alcune costanti emergono. Una delle più evidenti riguarda il momento in cui il lavoro analitico comincia a incidere sul godimento: quando la parola pronunciata produce un leggero taglio nella modalità di sostenersi nel sintomo, quando l’Altro analitico smette di funzionare come garanzia e qualcosa dell’identificazione inizia a vacillare. È spesso qui che si attivano movimenti di fuga: passaggi all’atto, abbandoni improvvisi, ritiri che non si articolano.

Sottrarsi all’analisi, in questi casi, equivale a sottrarsi al punto stesso dove la verità soggettiva fa sentire la sua esigenza.

Ma c’è anche un’altra logica, più velata ma non meno determinante. L’interruzione brusca può diventare una difesa contro la separazione dal luogo analitico, soprattutto quando quel luogo ha inciso profondamente nella vita psichica del soggetto.

Sparire, lasciare un vuoto di parola, interrompere senza salutare può apparire come un modo per non affrontare il lutto legato alla conclusione di un legame che ha contato. È una modalità paradossale di attaccamento: non si dice addio proprio perché si teme che l’addio operi un taglio reale.

E qui si inserisce un elemento che appartiene anche al discorso sociale contemporaneo: il ghosting come modalità relazionale diffusa.

La sparizione improvvisa, il ritiro senza spiegazioni, l’interruzione del legame senza un atto di parola non sono solo gesti individuali; sono forme che l’Altro sociale offre come possibili soluzioni. In un contesto in cui il ghosting è diventato un modo di evitare la responsabilità del dire e del separarsi, non sorprende che questa stessa logica entri nella stanza d’analisi. Il soggetto ripete, anche lì, ciò che circola nel discorso dell’epoca: la fuga come risposta al punto di impasse, la scomparsa come equivalente dell’atto.

E tuttavia, è proprio lì — nel momento in cui la parola potrebbe farsi atto, assumere il proprio peso, produrre un taglio soggettivo — che si misura l’etica della psicoanalisi. Non si tratta di trattenere nessuno, ma di rendere possibile un luogo in cui la separazione possa essere detta, non agita; attraversata, non evitata.

L’analisi trova la sua necessità nel fare esistere un discorso in cui non sia il silenzio a decidere, ma la parola quando diventa gesto, responsabilità, scelta.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/k_khanh96-18424544/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5595562″>k_khanh96</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5595562″>Pixabay</a>

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Da Ferrara alla Tanzania. Il 12 dicembre la Cena di Natale dell’IBO per i bambini con disabilità

Da Ferrara alla Tanzania.
la Cena di Natale dell’IBO per i bambini con disabilità

L’inclusione scolastica dei bambini con disabilità è difficile nel nostro Paese, immaginarsi in Africa.

Nei distretti rurali e non solo, dove ci sono 80 alunni e un solo insegnante, stigmi sociali isolano i bambini dalla comunità e prima ancora dalla propria famiglia.

In Tanzania, nella Regione di Iringa, l’organizzazione di volontariato internazionale IBO Italia è impegnata dal 2018 nelle attività educative, formative e di sensibilizzazione che creano le condizioni per l’inclusione scolastica dei bambini con disabilità.

In questi anni, da quando l’associazione si è accreditata nel Paese e ha creato una propria sede, sono stati realizzati interventi in 70 scuole; 300 bambini con disabilità hanno ricevuto cure, assistenza e ausili; 400 persone tra insegnanti e personale scolastico hanno ricevuto formazione specifica. Oltre a questo, sono stati realizzati supporti didattici; costruito ex novo, in collaborazione gli insegnanti locali, un sistema di valutazione delle disabilità non solo fisiche ma anche cognitive; il tutto continuando sempre a fare attività di sensibilizzazione (anche con radio, cinema, teatro sociale) per 5.000 studenti e 10.000 membri nelle comunità locali.

Un lavoro silenzioso e paziente, che pezzo dopo pezzo (grazie a progetti finanziati da enti e Fondazioni, in collaborazione con altre ONG e associazioni locali) cambia ogni giorno la vita dei bambini con disabilità ma anche il volto delle scuole: perché lavorare per i più fragili aumenta il benessere di tutti.

Ad esempio, sono stati realizzati bagni accessibili, laddove erano inesistenti, con grande disagio da parte soprattutto delle bambine. E’ stato migliorato l’accesso all’acqua potabile: il 21 novembre è stato inaugurato un pozzo sotto la pioggia battente, pioggia che è stata salutata come una benedizione. Si sta iniziando a creare orti per produrre cibo e promuovere un’alimentazione sana, con laboratori inclusivi che offrono ai bambini con disabilità la possibilità di lavorare al fianco degli altri bambini.
Una campagna di fundraising “Sport contro la fame” è stata lanciata il 25 novembre alla FAO promossa da FOCSIV in collaborazione con il CSI (Centro Sportivo Italiano) per realizzare orti in 3 scuole di 3 distretti di Iringa. E’ importante garantire un pasto a scuola a tutti i bambini, perché le scuole chiedono un contributo alle famiglie (che viene spesso dato in natura) e mangiano solo i bambini delle famiglie che possono darlo.

Da settembre 2025 si è concluso il progetto finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e per portare avanti il lavoro IBO Italia sta attivando diverse azioni di fundraising, rivolte a privati cittadini sensibili, aziende, fondazioni. La continuità degli interventi nei contesti della cooperazione internazionale è una sfida importante, data la difficoltà di reperire risorse per coprire la presenza degli operatori in loco e i costi di struttura.  IBO Italia con impegno, grazie alla professionalità dello staff, è riuscita a intercettare risorse per le progettualità da fonti pubbliche (nel 2024 circa l’82% delle entrate), ma rimane il problema della sostenibilità economica del “presidio” in Tanzania, che a questi interventi “una tantum” danno continuità e garanzia di sopravvivenza.

Per questo, la tradizionale Cena di Natale di IBO, da sempre un bel momento di comunità per Ferrara, sarà dedicata al reperimento di risorse per la Tanzania.

Siamo fiduciosi che la risposta della comunità ferrarese sia più che positiva: ci stiamo impegnando al massimo grazie al lavoro dei nostri volontari, di tutte le età: per cucinare del buon cibo, abbinando ai piatti dei buoni vini (a IBO c’è un gruppo di appassionati enologi, n.d.r.), per organizzare una serata piacevole da condividere con parenti, amici e colleghi.

Per chi non conosce la storica associazione, nata in Belgio nel 1953 e approdata a Ferrara nel 1994, sarà l’occasione per scoprire le sue molteplici attività internazionali, oltre che presso le scuole e presso la sede di Via Boschetto, uno spazio di comunità interculturale dove è possibile partecipare  agli “eventi a Casa IBO”: scambio vestiti, cene interculturali, proiezioni cinematografiche, incontri con i volontari, cene e degustazioni di vino in fundraising.

Allora…Vi aspettiamo il 12 dicembre presso la sede della Contrada di San Giacomo in via Ortigara 14.

Info e prenotazioni:
https://iboitalia.org/12-dicembre-cena-di-natale/

 

IBO Italia

IBO Italia e una organizzazione di volontariato di Ferrara, gestisce la mobilità giovanile in ambito volontariato, mediante esperienze di breve, media e lunga durata, in Italia e all’estero, per giovani dai 14 ai 17 anni e dai 18 ai 30 anni. Espleta questa funzione mediante campi di volontariato, Servizio Civile Universale, Corpo Europeo di Solidarietà (Programma ESC) e scambi giovanili. E’ impegnata inoltre nel campo della cooperazione internazionale.

Dal 1953 nasce con la mission del volontariato come strumento di solidarietà e condivisione. IBO è l’acronimo fiammingo di “Internationale Bouworde” che significa “Soci Costruttori Internazionali”, in quanto si occupava di ricostruire case destinate ai profughi della Seconda Guerra Mondiale.

Ha sede principale in Via Boschetto 1 dove gestisce Casa IBO, un luogo che oltre a essere uffici è anche una residenza per volontari di diversa provenienza e un punto di aggregazione e di riferimento per la comunità dove vengono organizzate molteplici iniziative aperte al pubblico esterno.

 

In copertina: IBO Italia, Tanzania inclusione di bambini disabili.

Parole e figure / Sentieri – Strenne Natalizie

Appena uscito in libreria con Kite, ‘Sentieri’, di Guia Risari, è un’opera poetica che racconta il cammino come scoperta di sé e incontro con l’altro. Un racconto-regalo di cui abbiamo davvero bisogno.

A volte, lotto contro il vento
e sfido il tempo col mio corpo.

Poi mi fermo ad ascoltare
le note del silenzio,
che scivolano sulla mia pelle umida.

Penetro in una foresta
sconosciuta
e guardo
tra gli alberi e le nuvole
il disegno dell’orizzonte.

Inizia così una storia costruita attraverso frammenti suggestivi e immagini bellissime che si alternano tra momenti di solitudine e di condivisione. Un libro dedicato “alla strada che ognuno deve percorrere per ritrovare sé stesso e l’altro”.

Siamo di fronte a un albo davvero unico, magico, uno dei più belli pubblicati recentemente, un’intensa e delicata riflessione sul rapporto con la natura e sui legami profondi che uniscono ogni persona al mondo che la circonda quando ci si concede il tempo di osservare, ascoltare e sentire davvero. Una perla preziosa.

Ci sono l’incontro-scontro con il vento, quello che spesso ci sferza il viso e ci viene (in)contro e la fatica di pedalare controcorrente. E, poi, la foresta sconosciuta in cui ci ritroviamo, che può essere intricata e ostile ma anche piena di magia.

Essere temerari è una meravigliosa scoperta. Un modo di riappacificarsi con il mondo e di tenergli testa, quando serve. Tutto è vita.

Il lago, poi, nasconde migliaia di segreti e storie, basta guardarlo per immaginarle o ritrovarle. Non è difficile se si usa la fantasia e lo si vuole sorprendere.

E’ bello imparare a perdersi tutti in giorni per strada, perché sempre la si ritrova. Basta guardare il cielo e una finestra illuminata per provare a non voltarsi indietro.

La stessa scala porta sempre in luoghi diversi, basta saperla salire e scendere, guardando avanti e sorridendo anche degli inciampi. In fondo, c’è un giardino fiorito e verdeggiante con qualche lucciola e quattro amici che aspettano per ascoltare. Chissà poi dove porta quel sentiero e chi si potrà mai incontrare o reincontrare…

Le foglie cadono e scricchiolano, gli animali bisbigliano e osservano, le meraviglie ci attendono, basta saperle vedere ed ascoltare. Seguiamole e basta. Ci indicheranno loro la strada. Con accanto chi c’era e ci sarà sempre, chi non c’è più ma c’è. Chi ci sarà.

Viaggiando accanto, i nostri passi accarezzeranno il mondo. Perché da soli si ha un po’ di paura, il buio spaventa, bisogna sapersi ascoltare. Saper riposare e riprendere fiato all’ombra di un albero centenario che tanto ha visto e compreso. Saper cantare sotto il cielo immobile e terso. E allora, ogni nube, scomparirà.

Il mondo ascolta, lo sa fare bene, da ogni fiore nasce luce.

Il bianco infinito calma pensieri e animi, accoglie orme che ci indicano la via.

In fondo, i sentieri per perdersi e ritrovarsi sono infiniti. Con noi stessi ad attenderci.

Da regalare, a Natale, e sempre.

Sentieri Risari

 Guia Risari vive a Torino. Laureatasi in Filosofia morale, ha proseguito gli studi in Inghilterra, specializzandosi in ebraistica moderna, per poi approfondire la Letteratura comparata in Francia, dove ha soggiornato collaborando con importanti università. Autrice versatile, pubblica opere di taglio surrealista, testi teatrali, libri per l’infanzia, saggi, poesie e narrativa. Conduce laboratori, conferenze e corsi dedicati alla scrittura e alla lettura.

Andrea Calisi, dopo gli studi artistici, ha iniziato a lavorare in una cooperativa sociale svolgendo laboratori creativi di Art therapy in una struttura semiresidenziale per ragazzi schizofrenici. Si trasferisce a Roma, dove intensifica le collaborazioni come illustratore e grafico. Ha lavorato per importanti studi di moda, per l’Arci Nazionale, per il magazine D la Repubblica delle Donne, il supplemento culturale Alias del Manifesto, WWF, Regione Lazio, Touring Club Italiano, Università di Siena, Universal Music e importanti case editrici.

Guia Risari, Sentieri, illustrazioni di Andrea Calisi, Kite, Padova, 2025, 40 pp.

L’energia nascosta nei rifiuti e… nella letteratura

L’energia nascosta nei rifiuti e… nella letteratura

In uno dei suoi racconti giovanili più enigmatici e profetici l’autore americano Thomas Pynchon invitava a riflettere su un concetto che va ben oltre la termodinamica.

L’entropia è un concetto che ha a che fare con la seconda legge della termodinamica ed è, in poche parole, funzione di stato che misura il grado di disordine ed inefficienza in un sistema chiuso. Per Thomas Pynchon questo concetto di fisica è una metafora dell’esistenza, della vita dei protagonisti del suo racconto Entropy, scritto nel 1960.

Thomas Pynchon, Entropia e altri racconti, Edizioni e/o, 1988

La storia racconta la vita di due coppie che vivono nello stesso condominio: una delle due coppie è totalmente aperta agli scambi e il loro… disordine è in costante aumento e senza freni. L’altra coppia rappresenta invece un sistema chiuso: i due si occupano di un piccolo orticello all’interno del proprio appartamento, sforzandosi di essere quasi autosufficiente

Anche questa coppia però, come la prima, non riuscirà a combattere l’avanzata instancabile dell’aumento entropico e così entrambe le coppie andranno, inevitabilmente, incontro al caos.

Entropia ha segnato la svolta della letteratura contemporanea statunitense verso le tematiche della scienza e della fisica quantistica.

L’entropia, per lo scrittore americano, non è solo la misura del disordine o della perdita di energia in un sistema chiuso, ma diventa metafora della civiltà dei consumi, del suo spreco sistematico e della sua incapacità di vedere nei rifiuti una risorsa.

In un mondo dove le materie prime si avviano verso l’esaurimento, Pynchon, già allora, suggeriva una via alternativa: imparare a leggere l’energia residua nei materiali scartati, a riconoscere il potenziale nascosto nei rifiuti. E invitava a superare la visione lineare del consumo e ad abbracciare una logica circolare, dove il riciclo non è solo un gesto etico, ma una necessità epistemologica e culturale.

Oggi lo sappiamo bene: riciclo chimico vuol dire sia rigenerare la materia che recuperare l’energia.

Se il riciclo meccanico si limita a separare, triturare e rifondere i materiali, il riciclo chimico interviene sulla struttura molecolare dei rifiuti, trasformandoli in nuove materie prime. È una forma di “alchimia industriale” che, come già suggeriva Pynchon nel suo racconto, cerca di invertire il corso del disordine, recuperando l’energia latente nei materiali scartati.

In Italia, diverse realtà industriali stanno investendo in questo tipo di tecnologie, con progetti innovativi e sostenibili:

LyondellBasell – Ferrara: impianto pilota MoReTec® basato su pirolisi rapida per trasformare rifiuti plastici in oli sintetici.

Versalis – Mantova: tecnologia Hoop® per trattare rifiuti plastici eterogenei e produrre materia prima per packaging.

Plasta Rei – Cisterna di Latina: modello brevettato di riciclo chimico “short-loop” per plastiche non riciclabili.

Circular Materials – Padova: tecnologia SWAP (Supercritical Water-based Advanced Precipitation) con acqua supercritica per estrarre metalli strategici da rifiuti industriali.

PolimeRES – Isernia: impianto di pirolisi modulare per plastiche miste, in collaborazione con BlueAlp.

Aliplast – Treviso: sistema Closed Loop per recuperare film plastici e produrre materiali riciclati ad alte prestazioni.

Questi esempi dimostrano come il riciclo chimico possa diventare un pilastro dell’economia circolare italiana, contribuendo alla decarbonizzazione, alla riduzione della dipendenza dalle materie prime vergini e alla valorizzazione dei rifiuti complessi. Si tratta di un tentativo concreto di recuperare l’energia dispersa, trasformando il rifiuto in risorsa e il caos in ordine.

Recuperare l’energia dei rifiuti significa recuperare anche una parte della nostra responsabilità collettiva. In un’epoca segnata dalla crisi climatica e dalla scarsità di risorse, il messaggio di Pynchon risuona con forza: non possiamo più permetterci di ignorare ciò che scartiamo. Ogni rifiuto è una storia incompiuta, un frammento di energia che attende di essere riattivato.

La letteratura contemporanea ha spesso affrontato il tema del consumo, dello spreco e dell’entropia sociale. Don DeLillo, in opere come Underworld, esplora il destino dei rifiuti e il loro impatto sulla memoria collettiva.

David Foster Wallace, con il suo sguardo ironico e profondo, ha indagato l’accumulo compulsivo e il sovraccarico informativo come forme di inquinamento mentale. Dave Eggers e Ben Lerner hanno riflettuto sull’ansia ecologica e sull’incapacità della società di gestire i propri “scarti”.

Questi autori, come Pynchon, ci invitano a ripensare il concetto di scarto: non come fine, ma come possibilità. Il riciclo, meccanico o chimico, è il gesto che trasforma la fine in un nuovo inizio. È un atto di rigenerazione materiale e simbolica, che ci permette di immaginare un futuro dove l’entropia non è destino, ma sfida da affrontare con intelligenza e creatività.

In questo contesto, è fondamentale riconoscere il ruolo unico che la letteratura può svolgere nella comunicazione dei temi ambientali. A differenza degli articoli tecnici, spesso accessibili solo agli addetti ai lavori, e a differenza degli slogan che rischiano di semplificare e banalizzare concetti complessi, la letteratura offre uno spazio di riflessione profonda e sfumata.

Attraverso la narrazione è possibile tradurre le tensioni ecologiche e sociali in esperienze intime e condivisibili. Perché anche la scienza e la tecnologia – come la storia –  non sono solo eventi che accadono ma eventi che accadono a qualcuno, che possono coinvolgere tanti e addirittura minacciare altre specie e l’intero pianeta.

Anche in questo caso, come quello già ampiamente illustrato da Chiaromonte a proposito della Storia, il romanzo può diventare un ponte tra Scienza e coscienza collettiva, capace di veicolare idee complesse con chiarezza e aggirare le pericolose trappole tese dalla ignoranza  e dalle fake news.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/ermaf62-5401910/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=2324335″>Ermanno Ferrarini</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=2324335″>Pixabay</a>

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Il supermercato che gioca a guardie e ladri:
il ladro è finto, il licenziamento è vero

Il supermercato che gioca a guardie e ladri: il ladro è finto, il licenziamento è vero

Da bambino giocavo a mosca cieca, palla avvelenata, bandiera, figurine. Adesso si gioca a chi ammazza più gente per finta su uno screen, o a chi corre su un circuito ed esce di strada morendo per finta, o a chi compra con soldi finti giocatori per la squadra finta che gareggia nel campionato finto, o Fantacalcio. Nei giochi veri, la parola chiave è finto. La finzione è parte necessaria del gioco. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Il poker, se metti in palio denaro vero, non è un gioco, perché puoi perdere un sacco di soldi.  Si chiama anche “gioco d’azzardo”, dove la parola chiave è azzardo. Uno sport quando diventa professione non è più un gioco: se perdi guadagni poco, la carriera si ferma, e ti devi trovare altro da fare per campare.

L’antropologo Gregory Bateson (cito Wikipedia) “individua l’essenza del gioco nel suo essere metalinguaggio: dato che i giochi sono qualcosa che “non è quello che sembra”, perché un’attività ludica sia veramente tale ogni giocatore deve poter affermare: “Questo è un gioco”, cioè ci deve essere la consapevolezza che l’azione è fittizia e che “meta-comunica” questa sua finzione. La metacomunicazione, quindi, per Bateson serve per rivelare la natura del “come se” del gioco, e la sua creazione di un mondo irreale in cui azioni fittizie simulano azioni reali”.

Ho giocato anche a guardie e ladri. Se il compagno della tua squadra ti toccava correndo, da prigioniero tornavi libero, ma non esisteva nessuna prigione: era solo una finzione del gioco. Al supermercato Pam Panorama di Campi Bisenzio l’azienda ha deciso che mantenere o perdere il posto di lavoro vero dipende dal “gioco del carrello”. Cito Fabio Giomi, il lavoratore della Pam di Campi Bisenzio (all’interno del centro commerciale I Gigli), cassiere d’ esperienza che, leggo, aveva addirittura ricevuto dei premi, diventato protagonista mediatico del “gioco”:

“Si è presentato in cassa un ispettore fingendosi un normale cliente. Nella spesa aveva nascosto una serie di articoli minuscoli, addirittura nelle fessure laterali delle confezioni di birra da 15 lattine. Gli oggetti erano molto piccoli: lacci per capelli, matite per gli occhi, maschere per il viso e altro. Finito il test mi ha detto che avrei dovuto rompere la scatola per controllare bene dentro. Mi disse che volendo, con questo sistema mi avrebbe “rubato l’anima” e che questa cosa avrebbe avuto delle conseguenze. Difatti mi è arrivata una lettera di contestazione a cui ho risposto spiegando le mie ragioni. Poi è arrivata la sanzione disciplinare che è stata massima: licenziamento in tronco per giusta causa”.

Capito? Uno stronzo di ispettore (non intendo usarli come sinonimi, quindi distinguo), travestito da cliente, nasconde dei prodotti piccoli dentro delle casse di birra, e se non li trovi mentre passi allo scanner la spesa vieni licenziato per “omesso controllo”. Immagina di essere un cassiere che blocca ogni cliente per controllare minuziosamente se non ha nascosto qualcosa dentro qualcos’altro: il modo migliore per spingere l’azienda ad eliminarti e sostituirti con una macchina perchè rallenti il traffico e gli incassi calano; però contemporaneamente se non ti accorgi del finto furto vieni licenziato. Questo non è un gioco: è una trappola per fregarti il lavoro, lo stipendio, la vita, e per diminuire il numero di quelli da licenziare collettivamente – decisione che peraltro l’azienda ha già preso, annunciando la chiusura del punto vendita e il licenziamento di tutti quelli che ci lavorano, 45 persone.

Campi Bisenzio è diventata una specie di Triangolo delle Bermuda del lavoro: invece di sparire navi e aerei, spariscono i lavoratori. Il comune toscano è infatti anche la sede della GKN, fabbrica meccanica chiusa e tenuta aperta artificialmente da un manipolo di lavoratori autoorganizzati che resistono alla dismissione del sito, ai licenziamenti, alla stanchezza e alla disperazione. Con un tessuto così degradato si può anche credere alla direzione di Pam Panorama, quando lamenta furti e taccheggi nei suoi punti vendita al punto da rilevare ammanchi per un controvalore (immagino complessivo) di 30 milioni di euro. Quello a cui non si può credere è che il test del carrello sia il modo per fronteggiare il fenomeno. Più banalmente, e cinicamente: Campi Bisenzio è in caduta verticale dei redditi, con pochi soldi in tasca la gente si arrangia come può, bisogna pur mangiare qualcosa quindi i microfurti aumentano e gli incassi calano, Pam fa i suoi conti e decide di licenziare le persone e chiudere. A conferma peraltro che il fenomeno non è locale, Filcams CGIL Toscana denuncia che negli ultimi dieci anni gli addetti di Pam in regione sono passati da quattromila a mille.

Queste lacerazioni nel tessuto sociale si producono di norma nel silenzio dei mezzi di informazione. Quando i media se ne occupano è perché sono incuriositi dalle modalità del sopruso, e vi individuano un tratto folkloristico da sfruttare per vendere copie: un licenziamento comunicato via whatsapp la sera prima, o durante una riunione da remoto, oppure costruito con una trappola. Quello che deve colpire, che deve destare un misto tra sorpresa e indignazione, non è tanto il fatto che una persona perda il suo lavoro, quanto l’audacia o l’arroganza dei modi. E’ un meccanismo del quale io stesso sono ingranaggio: questo articolo prende appunto le mosse dalla “trappola del carrello”.

Per un verso questa arroganza, che reintroduce in misura generale il “nutum“, cioè il cenno del capo del padrone per liberarsi di una persona, ristabilisce quel diritto di recesso reciproco che presuppone un concetto puramente privatistico, piatto, astratto del rapporto tra lavoro e capitale. Un concetto esemplificato dal nostro ineffabile Marattin quando, per spiegare la bontà del jobs act, lo paragonò al divorzio, dicendo in tv che quando una delle due persone non sta più bene nel rapporto, è giusto concedere una separazione.

D’altro canto, quando questa spiccitudine dei modi verrà sdoganata mediaticamente e non farà più notizia, arriverà a compimento la parabola regressiva del concetto di lavoro: da strumento della propria emancipazione sociale, come sta scritto nella nostra Costituzione, a puro scambio fintamente simmetrico tra manodopera e salario, che avviene in un vacuum di apparenti pari opportunità.

 

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GRANDE TEATRO E VOCI TRA GLI ALBERI

GRANDE TEATRO E VOCI TRA GLI ALBERI

Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

Così l’incipit dell’Autopsicografia di Fernando Pessoa nella traduzione di Antonio Tabucchi. Inutile dire che si può facilmente sostituire poeta con attore, con clown, per sentire subito echeggiare un risata in grado di nascondere lacrime. L’artista saltimbanco, quale che sia la sua declinazione, si muove infatti con leggerezza sull’abisso (ne ha scritto Jean Starobinski in un libro da ricordare: Ritratto dell’artista da saltimbanco), quasi dimentico della fragilità che ben nascosta deve pure avere dentro di sé.

Insomma, senza lacrime il suo messaggio ci arriva accompagnato soltanto da bravura, da lucidità, da coraggio. Esattamente quelle che si sono viste in questi giorni in un magnifico spettacolo andato in scena alla Pergola con la regia di Massimo Popolizio.

In primo piano Umberto Orsini, straordinario interprete di se stesso e non solo che, alla fine di una luminosa carriera, nel camerino di uno spoglio teatro, rappresentando l’attesa dell’ingresso in palcoscenico del marito abbandonato nel Temporale di Strindberg, offre al pubblico, in una totale mimesi di realtà e finzione, una sorta di duplice mise en abîme. Quella del teatro che si riverbera sulla vita, offrendole situazioni, battute, ivi compresa la coscienza della fine; quella di una biografia (presente, passata) che mentre si mostra e si ripercorre si trasforma in teatro, accompagnata da un ironico disincanto.

Bastano alcune coincidenze tra i due testi per alimentare il gioco di specchi: la presenza dell’uomo del ghiaccio e della giovane guardarobiera sia nella realtà fittiva della rappresentazione di oggi (Prima del temporale) che nella finzione drammatica a cui si collega (Il temporale); i tuoni ‘reali’ di una giornata scura a cui corrispondono ‘figuralmente’ quelli di una piovosa, letterariamente lontana estate svedese.

Più assordanti, certo, questi ultimi, affidata com’è la loro trasposizione all’inesperienza dei rumoristi, mentre più marcata e diffusa è la critica sulle trasformazioni del mondo che una vecchiaia più pronunciata consente di rimarcare nella nuova pièce con una sorta di amaro, impaziente, ma perfino benevolo sorriso.

Giacché se nel testo da camera stindberghiano il protagonista ha paura della vita e preferisce rifugiarsi in una solitaria clausura, Orsini, nel suo sold out (titolo del libro all’origine dell’attuale rappresentazione nel quale, con una felice espressione, il successo sotteso a ogni ‘teatro esaurito’ finisce per coincidere con la conclusione di una vita da cui non si può che restare fuori, finito ormai il tempo che era stato concesso), non interrompe i rapporti non solo con i ricordi, ma con i compagni di lavoro: le comparse che ruotano intorno a lui sul palcoscenico, mantiene intatte partecipazione e empatia, mentre osserva e valuta il presente consapevole che le gocce d’acqua si stanno progressivamente sciogliendo, insomma che il ghiaccio è ormai quasi esaurito.

Una vita pienamente vissuta (quella di Orsini) è accostata a una vita strozzata (quella del funzionario in pensione del testo di inizio Novecento), l’una e l’altra nell’incanto del teatro e nella scelta di un’opera che a dispetto di tutto è tra le meno gridate e crudeli di Strindberg, priva com’è degli eccessi della follia o della spinta misogina che in altre porta alla tragedia. Infatti nel Temporale di Strindberg la pratica della noluntas ha attenuato tutto ed è con il poco di vita che resta che si fanno i conti, scegliendo di spengerla rimanendo lontano dalle passioni.

Per passare ad altro, pur restando nel campo della letteratura svedese, lo stesso tono equilibrato, sommesso, colpisce se si legge un libro appena uscito dall’editore Crocetti che offre una scelta, felicissima, di tre voci poetiche femminili contemporanee. Queste poetiche Voci di donne dal Nord che la curatrice e traduttrice, Cristina Lombardi, propone come le più originali e significative che possano arrivare oggi da Stoccolma e della Svezia settentrionale, sono un giusto contrappunto – si potrebbe dire – alla crudeltà delle donne di Strindberg.

Nate tra il ’47 e l’80, Eva Ström, Ann Jäderlund, Linnea Axelsson, dopo una solida formazione umanistica, letteraria e artistica, accanto a un’avviata carriera professionale, hanno portato nei loro versi l’amore per la natura, l’attenzione all’interiorità, la capacità di dar voce a quanto è normalmente trascurato in ogni paese, in particolare nella loro terra.

Se la più giovane Axelsson si lancia in una sorta di poema epico che dà voce alle popolazioni lapponi (i Sami) e a una storia dimenticata di un nord Europa costretto al nomadismo tra renne, pioggia e ghiaccio che stanno fitti nello “zaino / del cuore” per colpa di frontiere colpevolmente chiuse, Eva Ström ci restituisce la natura vivente, ‘sacra’, di un paesaggio fatto di distese di alberi (sicomori, castagni, salici, tigli, pioppi, betulle, faggi, ontani, aceri, pini, cipressi, frassini, querce…) che negli anni del Covid hanno offerto una sorta di contrappunto all’asfissia lenta che aveva colpito il mondo.

Proprio da loro sembra poter arrivare salvezza. Non è un caso che il bosco si animi, parli, diventi un luogo di rifugio per gli umani.

Sarà allora a Dafne (prototipo di ogni auspicata metamorfosi contro la violenza) che si indirizzerà una poesia in grado di “illuminare da lontano, anche attraverso la notte d’inverno”, mentre il baobab (l’albero capovolto dall’invidia di Dio) diviene simbolo della conoscenza (“nessuno ha braccia sufficienti ad abbracciarla ma l’acqua vi scorre dentro”) e ogni sogno non è altro che desiderio di fusione con ciò che sta accanto e sopra di noi (“prego ogni sera […] / di poter viaggiare in lungo e largo / per cieli stellati e sorvolare fiumi […]. Rido nel sonno e sento le galassie precipitarsi su di me / creo ogni notte questi ammassi di stelle per me stessa / e ci volo in mezzo con intrepida gioia”).

In effetti, se la scienza non sa dare risposte, non rimane che rifugiarsi nei sogni e nell’accettazione dell’alternanza di vita e morte, del lento, fatale ritorno a un’origine che prelude rinascita, nell’adeguamento alla scansione ‘sacra’ e necessaria dei ritmi della natura. Anche in questo gli alberi dovrebbero esserci maestri, già che “devono essere potati perché nuovi germogli possano spuntare e / riempirsi di nuova linfa”. Solo da loro può nascere anche la liberazione del viaggio, quello che porta verso le ultime Ebridi, giacché se davvero si desidera “la trasformazione che si compie / in viaggio […] / se davvero è così in nessun altro modo, se proprio è così, / se è così, / allora [… si è] spento le luci di casa / e [… si è] già in viaggio”.

D’altronde, lo ricordava il Paul Celan posto in esergo a una lirica di Ann Jäderlung, “Una stella ha certo ancora luce”; una luce che si può tentare di seguire mentre il sole muore se si sceglie di volare in sogno attivando così lo specchio/specchio, ovvero la luce che “da un grande schermo si riversa / sul pavimento e / si espande”. Esattamente come “quando la vita se ne va” e “Ogni corpo / gravato dal suo peso. Si libera / dal corpo reale. / Ed entra nell’altro”, mentre “l’acqua si scioglie nel /vetro l’acqua / si scioglie da dentro / nel vetro sottile”.

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Le voci da dentro / Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento

Le voci da dentro. Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento

 Riprendiamo e pubblichiamo una lettera scritta da Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. È indirizzata Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, dottor Ernesto Napolillo, ed è un invito ad incontrare i rappresentanti delle associazioni che fanno volontariato in carcere e a conoscere l’approccio che hanno nei confronti della responsabilizzazione delle persone detenute. È un invito non casuale che segue alcuni provvedimenti restrittivi emanati di recenti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
(Mauro Presini)

Gentile dottor Napolillo, Lei è stato di recente nella Casa di reclusione di Padova e ha visto un carcere dove, pur nelle difficoltà del sovraffollamento, si cerca con la collaborazione di tutti di rispettare il mandato costituzionale, cioè di garantire a più detenuti possibile di non entrare in carcere e uscirne a fine pena come sono entrati, ma di fare un percorso realmente rieducativo, che significa crescere culturalmente, mettere in discussione le proprie scelte passate, avere voglia di fare i conti con la sofferenza provocata dai reati, nelle vittime ma anche nei famigliari delle stesse persone detenute.

Quando noi volontari raccontiamo alla società civile (le scuole, e non solo) dove nascono le scelte sbagliate, che poi portano le persone in carcere, lo facciamo perché riteniamo, e nell’esperienza di questi anni le migliaia di studenti e insegnanti che abbiamo incontrato ce lo confermano, che dal carcere si può fare autentica prevenzione.

Ma se il carcere diventerà essenzialmente quella segregazione, di cui ha parlato lei, non solo non si riuscirà a fare nessuna prevenzione, non si riuscirà a “salvare” nessun ragazzo giovane dal rischio di rovinarsi la vita e finire in galera, ma non si riuscirà neppure a creare più sicurezza per la società, perché da quel carcere “segregante” usciranno a fine pena, dal momento che prima o poi la pena per quasi tutti finisce, non delle persone più responsabili, ma delle bombe a orologeria, caricate di rabbia e pronte ad esplodere.

Le assicuriamo che a noi le regole piacciono, e nel confronto e nella delicata attività rieducativa che noi volontari portiamo avanti le poniamo al centro delle nostre azioni, ma le regole che sono state di recente fissate per qualsiasi iniziativa culturale, per qualsiasi attività “trattamentale” che avvenga in carcere sono così macchinose, che rischiano di portare alla paralisi qualsiasi istituto di pena che le debba applicare.

Pensi al paradosso della Casa di reclusione di Padova: per la presenza di una piccola sezione di Alta Sicurezza di una ventina di detenuti, gli altri 650 detenuti comuni dovranno sottostare a regole che rischiano di distruggere qualsiasi progettualità.

La burocrazia infatti, quando è ossessivamente tesa al controllo, impedisce qualsiasi cambiamento e qualsiasi crescita culturale, Ebbene, non è esagerato dire che in queste nuove disposizioni si può riconoscere proprio quella burocrazia, che è in grado di paralizzare qualsiasi iniziativa.

La circolare di recente emanata ha effetti penalizzanti per tutte le nostre attività, che dovrebbero piuttosto potersi ispirare a quelle regole penitenziarie europee, che sostengono tra l’altro che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”.

Quello che invece succede è che:

  • viene scoraggiata la società civile dall’assumersi il compito, che le è riconosciuto dalla Costituzione, di promuovere la rieducazione delle persone detenute;
  • viene così compromesso un rapporto di fiducia che da sempre è risorsa e supporto per le stesse Istituzioni
  • si rischia che aumentino enormemente autolesionismi, tentati suicidi, suicidi, aggressioni, proteste, comportamenti violenti, che segnalano quanto sono poco umane e poco dignitose le condizioni di vita nelle carceri;
  • il reato di rivolta penitenziaria, che punisce con pene fino a otto anni di carcere il detenuto che disobbedisce anche in forma nonviolenta agli ordini impartiti, provocherà più conflitti, più pene e più carcere per tutte quelle persone detenute, e sono tante, così disperate che non hanno nulla da perdere.

Siamo certi che non interessa a nessuno tornare a carceri dove il conflitto, l’aggressività, la rabbia la fanno da padroni.

Allora, per parlare di questi temi, la invitiamo a incontrare i rappresentanti delle nostre associazioni e ad aprire un dialogo. E se ha un po’ di tempo ci piacerebbe anche che partecipasse a un incontro in carcere tra le scuole e le persone detenute: si potrà così rendere conto che è da lì che bisognerebbe partire, dalla responsabilizzazione delle persone detenute, è quella la sfida vera e coraggiosa per dare un senso alle pene.

Agnese Moro, una donna straordinaria vittima di un reato atroce come l’uccisione del padre, ci ha detto più volte che NON VUOLE BUTTARE VIA NESSUNO, e sono tante le vittime di reati che come lei si sono rese conto che il carcere “cattivo”, la pena del “marcire in galera fino all’ultimo giorno” sono un male che produce soltanto altro male. E segregare le persone vuol dire solo buttarle via. Grazie dell’attenzione, siamo sicuri che accetterà il nostro invito

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/markolovric-1547694/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Marko Lovric</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Pixabay</a>

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Patto per il lavoro e il clima: perchè la Regione evita una discussione aperta?

Patto per il lavoro e il clima: perchè la Regione evita una discussione aperta?

Un fantasma si aggira nelle stanze della Regione Emilia-Romagna. Mi riferisco alla bozza di aggiornamento del Patto per il lavoro e il clima  (Vedi testo integrale in PDF)

La Regione approdò al Patto per il lavoro e il clima alla fine del 2020, con la sottoscrizione delle principali categorie e soggetti economico-sociali (Confindustria e sindacati confederali in primis), Comuni e Province, Università e Legambiente regionale, che peraltro ritirò la sua adesione nel 2023.
L’unica realtà coinvolta nella discussione dell’epoca che non condivise e non firmò il testo fu RECA (Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna), soggetto che raggruppa più di 80 tra Associazioni e Comitati attivi nel territorio regionale sui temi ambientali.

La discussione che si sta sviluppando su tale bozza e si vorrebbe concludere in tempi rapidi, entro la metà di dicembre, in termini autoreferenziali tra i soggetti firmatari del Patto del 2020, ed escludendo chi, come RECA, aveva dissentito e a cui non è stato inviato il testo.

Già questo è un dato rilevante, che la dice lunga sull’idea di partecipazione democratica che alberga nella nostra Regione e che risulta ancor più grave alla luce degli impegni che il presidente della Giunta De Pascale aveva assunto con RECA in un incontro svolto all’inizio di questa legislatura. In quell’incontro era stata espressa l’intenzione di coinvolgere tutti i soggetti, anche di chi esprime opinioni diverse, dicendo, anzi, che andava fatto in proposito ben di più rispetto alla Giunta precedente. Probabilmente l’attuale presidente della Giunta, proveniente da una città portuale, è avvezzo alle famose promesse avanzate dai marinai!

Per certi versi, è ancora più inquietante notare che il confronto in atto avviene senza aver prodotto nessun bilancio del Patto realizzato nel 2020. Nelle intenzioni, quel progetto voleva riconfermare il ruolo di regione apripista, all’avanguardia nelle politiche sociali e ambientali, riproponendo un’idea di modello sociale e produttivo cui l’intero Paese poteva guardare e al quale ispirarsi. Assumendo l’idea del contrasto al cambiamento climatico e della transizione ecologica come nuovo paradigma da affiancare a quello della promozione dei diritti del lavoro, di quelli sociali e civili.
Ebbene, a 5 anni di distanza, sarebbe necessario riflettere sul fatto che le condizioni ambientali e climatiche sono peggiorate anche nella nostra regione – basta pensare alle alluvioni del 2023 e 2024 o al dato del consumo di suolo che nel 2024 ha visto la nostra regione come quella che più l’ha incrementato – e anche che la situazione di chi lavora e dei ceti più deboli è andata indietro, con l’aumento del lavoro “povero” e della precarietà, la diminuzione del reddito, l’innalzamento delle situazioni di povertà.

Questa non volontà di produrre un ragionamento su ciò che è successo si porta poi dietro, nella nuova bozza, una serie di analisi e giudizi completamente avulsi dalla realtà che stiamo vivendo e assolutamente sbagliati. Lì si parla, per descrivere la nuova fase inaugurata dalla presidenza Trump, come del passaggio dalla “globalizzazione senza attriti” ad una “globalizzazione condizionata”. E ancora si avanza una valutazione per cui “nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2025, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato l’urgenza di rafforzare le politiche europee su alcuni fronti strategici: sicurezza, neutralità climatica, autonomia energetica, casa accessibile, qualità del lavoro. Ha rilanciato il programma per un’industria europea più competitiva e ribadito la necessità di garantire che la transizione ecologica sia anche una transizione giusta e inclusiva”.

A me pare che proprio non si colga la drammatica realtà che si sta imponendo nel mondo odierno, che è il prodotto congiunto del tentativo di affermare, con la forza e al di fuori del diritto internazionale, una nuova egemonia “imperiale” degli Stati Uniti e un inedito protagonismo di una realtà multipolare, che non è esente anch’esso di velleità di dominio, e di un decadimento dell’Europa, che abbandona il proprio modello sociale per prefigurare un’idea di sviluppo guidata dall’economia di guerra.

Non siamo in una fase di “globalizzazione condizionata”, ma di un pesante scontro commerciale e del risorgere dei nazionalismi, che si traduce nel ricorso alla guerra come normale regolamentazione dei conflitti internazionali. Nè si può sottacere che la svolta dell’Unione Europea, e della Germania in primo luogo, teorizzata proprio con il discorso della von der Lyen nel settembre scorso, si caratterizza in modo inequivocabile per pensare che il futuro dell’Unione Europea sta nel competere con gli USA e la Cina nel riarmo e nella conversione dell’apparato industriale, oggi in crisi, verso l’industria bellica.

La Regione sembra non voler capacitarsi di tutto ciò, presenta una visione edulcorata della situazione in atto, molto probabilmente perché, altrimenti, dovrebbe mettere in discussione i capisaldi di fondo su cui intende muoversi e che, invece, avrebbero la necessità di un ripensamento profondo.
In particolare, si continua a voler ignorare che il cosiddetto “modello emiliano” è alla nostra spalle da un bel po’ di tempo in qua, essendo venuti meno i suoi pilastri di fondo: un tessuto produttivo fondato sulle piccole e medie imprese, uno Stato sociale in espansione, una larga partecipazione alla vita politica e sociale, innestata su un blocco sociale coeso ed egemonizzato dalla sinistra. Questi stessi pilastri, peraltro, sono ancor più insidiati dalle trasformazioni in corso e da quelle che è prevedibile arriveranno: dalla finanziarizzazione dell’economia alle politiche di austerità, dal crescere dell’individualismo fino al riorientamento verso la conversione bellica della struttura produttiva, visto – detto un po’ sbrigativamente – la sua relazione stretta con l’economia tedesca, soprattutto nel settore metalmeccanico.

Non a caso, questa “incomprensione” genera, da una parte, la riproposizione di politiche che appaiono sempre più usurate, a partire dall’idea di una forte crescita economica quantitativa, e dall’altra uno scarto sempre più marcato tra enunciazioni di principio e scelte che si praticano concretamente. Questo ultimo dato, che era stato alla base della mancata firma di RECA al Patto per il lavoro e il clima del 2020, è ulteriormente evidente nella bozza di aggiornamento di cui stiamo parlando.

Per stare alle politiche ambientali, mi limito solo ad alcuni esempi:
– si continuano ad avanzare contenuti che sembrano utili a tutelare la risorsa acqua, ad affermare l’idea dell’economia circolare nel ciclo dei rifiuti;
– a promuovere una mobilità sostenibile nel momento stesso in cui le politiche concrete vanno nella direzione della privatizzazione dell’acqua;
– ad incrementare la produzione dei rifiuti, ad andare avanti con le grandi opere, che comportano forte consumo di suolo e incentivano il traffico veicolare privato su strada.

Sulla transizione energetica, viene riproposto l’obiettivo di coprire i consumi finali di energia elettrica con le fonti rinnovabili al 2035, ma senza che esso venga supportato da una credibile pianificazione degli interventi che lo rendano possibile. E intanto si prosegue sostenendo l’economia del fossile, come nel caso del rigassificatore e del progetto di cattura e storaggio della CO2 di Ravenna e in quello del metanodotto della “linea Adriatica”.

Infine, non si può sottacere quella che è una vera e propria perla della bozza. Mi riferisco al fatto che, nella parte finale si trova scritto un vero e proprio panegirico del ruolo della partecipazione. Tra le varie affermazioni “positive”, si legge anche che “rilievo va riconosciuto alle associazioni ecologiste, ai movimenti civici e giovanili impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici e per la giustizia ambientale: le loro competenze, la capacità di mobilitazione e la visione anticipatrice rappresentano oggi risorse preziose per l’intera comunità regionale”.
Peccato che non si trovi il modo di fare riferimento alle proposte di legge di iniziativa popolare, in specifico a quelle sui temi ambientali (acqua, rifiuti, energia e consumo di suolo) che RECA e Legambiente regionale hanno presentato ancora nel 2022, sostenute da più di 7000 cittadini emiliano-romagnoli, e che continuano a non essere discusse. Infatti, esse non passarono alla discussione in Aula nel 2024, perché la legislatura regionale si interruppe anticipatamente. Il loro iter è ripreso con la nuova legislatura e, nonostante vari confronti con i capigruppo regionali di maggioranza, tuttora non si è realizzata alcuna discussione nelle sedi competenti, né nella Commissione Ambiente e tantomeno nell’Aula legislativa.
Siamo di fronte ad un vero e proprio “vulnus” democratico, ad un atteggiamento che, volutamente, mette tra parentesi l’iniziativa dei cittadini e delle Associazioni di rappresentanza, svilendone il loro ruolo nel promuovere la partecipazione, salvo il fatto di lamentarsi, solo per un giorno, quello successivo alle votazioni, che l’astensionismo cresce sempre di più!

Insomma, siamo ben lontani dal vedere la svolta nelle politiche ambientali e sociali di cui abbisogna anche la nostra regione. Non bisogna però darsi per vinti, ma avere la consapevolezza che solo la mobilitazione dal basso può provare ad invertire questa tendenza, può mettere in discussione il “muro di gomma” che separa i cittadini dalla rappresentanza istituzionale, come si è visto in questi ultimi mesi con la grande reazione contro il genocidio a Gaza e contro le politiche di riarmo.

Cover: immagine dal video della Regione per la campagna di comunicazione dal titolo:”L’Emilia-Romagna progetta un futuro diverso, Per tutti, nessuno escluso” .

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La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare

La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare

Riflessioni laiche su una vicenda che divide e interroga

La storia della famiglia che vive nei boschi dell’Abruzzo — padre, madre e tre figli — è arrivata sulla scena pubblica con il fragore tipico di ciò che tocca l’infanzia, le scelte di vita non convenzionali e l’intervento dei servizi sociali. Un avvelenamento da funghi, la corsa in ospedale, le prime verifiche e poi l’allontanamento dei bambini, ora ospitati in una casa famiglia insieme alla madre, con il padre libero di vederli quando desidera.

Come spesso accade, la notizia è stata posta in modo da creare schieramenti: da un lato chi difende la libertà di una scelta di vita alternativa, dall’altro chi invoca la protezione dei minori. Ma la realtà è più complessa delle opposte tifoserie.

Chi decide che cosa è “buono” per un bambino?

Chi può dire quando un genitore svolge adeguatamente il proprio compito?

E su quali criteri?

Non esiste un modello unico di famiglia “giusta”: esistono funzioni — cura, protezione, contenimento emotivo — che possono essere esercitate in contesti molto diversi. La vita nei boschi può apparire radicale o disturbante, ma ciò che conta, per uno sviluppo psichico sano, è se il bambino si sente sostenuto, ascoltato e protetto.

Un dato che disturba la narrazione: bambini sereni

Nelle prime valutazioni, gli operatori hanno riscontrato bambini sereni, non spaventati, non in stato di angoscia. È un elemento importante, quasi stonato rispetto alla narrazione polarizzata che si è imposta.

La serenità non elimina i problemi, ma indica che il legame con i genitori ha una qualità affettiva significativa.

La domanda allora si sposta:

se lo stato interno dei bambini appare buono, quale rischio esatto si sta tentando di prevenire?

L’allontanamento: protezione o trauma aggiuntivo?

L’ingresso in una casa famiglia, pur con la madre presente e con la possibilità per il padre di vederli liberamente, rappresenta comunque una frattura. Ogni allontanamento introduce discontinuità e una forma di sospensione: “perché ora non posso più stare dove sono sempre stato?”. È una domanda che ogni bambino si pone, anche quando gli adulti fanno del proprio meglio per proteggerlo.

Era davvero inevitabile arrivare a questa misura?

L’avvelenamento da funghi può accadere in qualsiasi famiglia: urbana, rurale, istruita, inconsapevole. È stato un campanello d’allarme, ma non è automaticamente la prova di un’incapacità genitoriale.

Una società che fatica con la differenza

Forse questa vicenda dice più delle nostre ansie collettive che della famiglia coinvolta.

Viviamo in una società che fatica a tollerare forme di vita fuori dal registro dominante. E quando ciò che è atipico riguarda i bambini, l’ansia aumenta: scatta il bisogno di ricondurre tutto a un modello rassicurante, riconoscibile, standard.

Eppure, si potrebbe allora domandare:

che dire di quei genitori che espongono i loro figli sui social, monetizzando la loro immagine, chiedendo loro di recitare, sorridere, posare, commentare, diventare piccoli personaggi pubblici prima ancora di capire cosa significhi essere guardati?

Che dire dei bambini coinvolti in video virali, sfide, messaggi promozionali, dove la loro intimità diventa contenuto?

Sono forme di vita considerate “normali”, spesso accolte con leggerezza o addirittura con simpatia. Eppure sollevano interrogativi profondi sulla protezione dell’infanzia, sul diritto alla riservatezza, sull’uso — o lo sfruttamento — dell’immagine del minore.

Non si tratta di condannare, ma di riconoscere la asimmetria dei nostri giudizi: ciò che è culturalmente familiare ci sembra accettabile; ciò che è diverso, immediatamente sospetto.

Nel rumore della polarizzazione, i bambini rischiano di scomparire due volte: sia quando vengono idealizzati come vittime, sia quando vengono normalizzati come piccoli protagonisti mediatici.

Lavoro di ascolto e mediazione: la via rimossa dal dibattito

Se la tutela dell’infanzia è davvero il fine, allora la strada dovrebbe essere un’altra:

fare un lavoro di ascolto reale, capace di includere i genitori, di comprendere le loro ragioni e la loro visione del mondo, di cogliere lo stile di vita che hanno scelto e le risorse che possiedono.

Solo da lì può nascere una vera mediazione: modi concreti per permettere ai bambini di crescere nel loro ambiente — o in una versione più sicura dello stesso — senza essere costretti ad abbandonarlo.

Supporti esterni, presenze educative, regole di monitoraggio, sostegni pratici: ci sono molte forme attraverso cui una comunità può aiutare senza punire, affiancare senza imporre.

La tutela non dovrebbe essere una scelta binaria tra “lasciar fare” e “separare”, ma un lavoro di costruzione delicata, cucita sulle vite reali, non sui modelli astratti.

Interrogativi che restano aperti

Questa vicenda non chiede una sentenza, ma domande più profonde:

Sappiamo distinguere tra ciò che ci inquieta e ciò che mette realmente a rischio un minore?

Sappiamo ascoltare senza cercare di normalizzare?

Sappiamo costruire mediazioni invece di imporre soluzioni drastiche?

Possiamo immaginare che proteggere significhi anche custodire i legami che funzionano?

E siamo sicuri che ciò che appare “normale” sia per forza più sano di ciò che appare “diverso”?

Forse il compito più difficile è proprio questo: non giudicare subito, ma ascoltare davvero.

E ricordare che la protezione dell’infanzia non si esercita dividendo il mondo in buoni e cattivi, ma cercando — insieme — gli spazi in cui i bambini possano crescere senza perdere ciò che per loro è casa.

Cover : Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/alanajordan-25247407/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9172374″>Alana Jordan</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=9172374″>Pixabay</a>
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Tecnocrazia e famiglia nel bosco

Tecnocrazia e famiglia nel bosco

Ieri mi è successo un fatto che voglio raccontare. Ero al parco con il mio cane, chiacchieravo con altre donne. Parlavamo della morte delle gemelle Kessler e discutevamo del fatto che molto dietro alla pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia, ci lasciava perplesse. La tanto ventilata autodeterminazione e libertà, parole che volano alte ogni volta che si parla di questi argomenti, non possono essere usate a strumento di propaganda. Scegliere di togliersi la vita ha un impatto forte sulla società.

Tutte consapevoli che il tema è delicato e che tocca corde profonde di sofferenza ci interrogavamo però sul fatto che dietro a queste pratiche c’è comunque un mercato. Io ho azzardato e ho proprio parlato di mercato dei corpi, del fatto che per legiferare su questo si devono trattare i corpi come da tempo trattiamo la natura, come se fossero inanimati.

E ho parlato del mercato dei corpi e dei pezzi di corpo riferendomi anche alla propaganda dell’utero in affitto oggi definita eufemisticamente gestazione per altri  e alla “donazione” di ovuli e sperma. Forse la morte confezionata con un farmaco letale, un medico che te la inietta e un avvocato che certifica che tutto è stato fatto secondo la legge (in realtà secondo una sentenza perché in Germania la legge non c’è ancora), non fa parte del sistema mercato? Non è forse un contratto che sancisce l’intrecciarsi di queste personalità professionali?

Si era avvicinato da poco un signore che spesso arriva al parco con il suo cane. Ci ascoltava in silenzio. Poi alla mia affermazione che c’è un mercato dei corpi e di pezzi di corpo è sbottato violentemente dicendo “la deve smettere di dire cavolate, queste sono chiacchiere da bar e di questo può parlare solo chi è competente”. Sono rimasta in silenzio per pochi secondi, si rivolgeva a me? mi sono chiesta, e perché con tanta violenza?

Non sono una che sta zitta e, quando mi sono ripresa dallo stupore, ho ribattuto che sui temi di morte e vita tutti possiamo esprimere le nostre opinioni e che queste mie riflessioni non erano fatte alla leggera. Si è allontanato senza più dire nulla. Le altre signore sono rimaste basite dalla violenza verbale con la quale mi aveva aggredito e mi hanno confessato che il signore è un giudice in pensione. Mi sono dovuta trattenere dal rincorrerlo e mordermi la lingua per non dirgli che ero felice che fosse in pensione perché così non potrà più intimidire alcuno in quel modo.

Certamente, senza volere, con le mie parole, ho risvegliato una sofferenza che lo ha spinto a reagire così, ma quello che mi ha fa accapponare è l’arroganza di alcuni che pensano che ci siano cittadini di serie A e di serie B. Quelli competenti (A) in materia, quelli specializzati sono loro che devono scegliere per il bene di tutti.  Si chiama tecnocrazia. E a me fa davvero paura.

Solo pochi anni fa ci siamo trovati ad affrontare la stessa situazione. Se avevi dubbi sul farmaco/vaccino covid eri un ‘anti-scienza’. Certi scienziati avevano la verità in tasca e denigravano quelli che si ponevano dei dubbi. Discutere era impossibile. Lo Stato decideva sul tuo corpo pena l’esclusione dalla società, l’impossibilità di lavorare, di accedere nei luoghi pubblici etc. O stavi con loro o eri un disertore, un sorcio e non vado oltre etc. La stessa magistratura è stata silente, dimenticando che la Costituzione nell’articolo 32, 2 e 21 mette al centro proprio l’autodeterminazione che è invalicabile; il Codice di Norimberga poi era diventato carta straccia.

Oggi riguardo alla famiglia nel bosco succede la stessa cosa. Si possono portare via dei bambini dal loro ambiente e strapparli ai genitori naturali solo perché alcuni hanno deciso che l’unico modo per crescerli sani e buoni è quello omologato, quello della scolarizzazione di Stato. Se non hai l’acqua corrente e il riscaldamento non li ami, vuoi il loro male. Se scegli per loro la relazione con la natura e non quella sociale non li ami.

Ma quale follia sta prendendo questi giudici? O, sarebbe meglio dire, questi tecnocrati che vogliono omologare tutti e inserirli in protocolli schedabili? Cosa sta spingendo le persone a credere che solo quelli preparati in certi campi hanno diritto di parola e tutti gli altri devono stare zitti? Se sei analfabeta allora sei privo di qualsiasi intelligenza? Ma da quando? Solo perché sai leggere non è detto che tu sappia avere relazioni sane.

Ma da quando siamo diventati così incapaci di discernimento al punto che non vediamo tutti i paradossi che il nostro mondo “primo” sta producendo?  Un medico che inietta un farmaco letale ad esempio. E da quando non riusciamo più a vedere che questo sistema ci sta portando diritti verso il totalitarismo? Altro che democrazia.

Dietro a tutto questo, ormai mi chiedo se non ci sia una regia che vuole privarci della nostra umanità, della nostra intelligenza intuitiva, del nostro senso. Perché è di questo che stiamo parlando della cancellazione dell’umanità per come l’abbiamo conosciuta, della compassione, della intelligenza emotiva e intuitiva a favore degli algoritmi delle macchine (ben confezionati da chi vuole avviarci in una certa direzione) che governeranno il nostro vivere sociale.

Spero che la voce antica dei nostri corpi urli la verità ai più e metta un freno a questa deriva totalitaria vestita a festa e agghindata con su scritto parole ormai vuote di significato: libertà, giustizia, amore, inclusione, diversità.

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Maximilian Kasy: «Possiamo proteggere la privacy dagli algoritmi di I.A. solo collettivamente»

Maximilian Kasy: «Possiamo proteggere la privacy dagli algoritmi di I.A. solo collettivamente»

«Immaginate di candidarvi per un posto di lavoro. Sapete di essere un candidato promettente con un curriculum eccellente. Ma non ricevete nemmeno una risposta. Forse lo intuite: per la preselezione dei candidati viene utilizzato un algoritmo di intelligenza artificiale. Ha deciso che rappresentate un rischio troppo grande. Forse l’algoritmo è giunto alla conclusione che non siete adatti alla cultura aziendale o che in futuro potreste comportarvi in modo tale da causare attriti, ad esempio aderendo a un sindacato o mettendo su famiglia. Non avete alcuna possibilità di comprendere il suo ragionamento o di contestarlo».

Il professor Maximilian Kasy illustra così quanto già oggi siamo in balia degli algoritmi di IA. Kasy è professore di economia all’Università di Oxford e autore del libro «The Means of Prediction: How AI Really Works (and Who Benefits)». In italiano: «La capacità di prevedere: come funziona davvero l’IA (e chi ne trae vantaggio)».

Maximilian Kasy, Professor of Economics University of Oxford (Foto di tratta da YouTube)

Kasy avverte che gli algoritmi dell’I.A. potrebbero privarci del nostro lavoro, della nostra felicità e della nostra libertà, e persino costarci la vita.

«È inutile preoccuparsi di proteggere la propria privacy digitale, anche se si mantengono riservati la maggior parte dei dettagli personali, si evita di esprimere la propria opinione online e si impedisce alle app e ai siti web di tracciare la propria attività. All’intelligenza artificiale bastano i pochi dettagli che ha su di voi per prevedere come vi comporterete sul lavoro. Si basa su modelli che ha appreso da innumerevoli altre persone come voi». Kasy ha fatto questa triste constatazione in un articolo pubblicato sul New York Times.

Concretamente, potrebbe funzionare così: le banche non utilizzano i clic individuali, ma algoritmi appositamente progettati per decidere chi ottiene un prestito. La loro IA ha imparato dai precedenti mutuatari e può quindi prevedere chi potrebbe trovarsi in mora.

Oppure le autorità di polizia inseriscono negli algoritmi dati raccolti nel corso di anni su attività criminali e arresti per consentire un «lavoro di polizia preventiva».

Anche le piattaforme dei social media utilizzano non solo i clic individuali, ma anche quelli collettivi per decidere quali notizie – o disinformazioni – mostrare agli utenti. La riservatezza dei nostri dati personali offre poca protezione. L’intelligenza artificiale non ha bisogno di sapere cosa ha fatto una persona. Deve solo sapere cosa hanno fatto persone come lei prima di lei.

Gli iPhone di Apple, ad esempio, sono dotati di algoritmi che raccolgono informazioni sul comportamento e sulle tendenze degli utenti senza mai rivelare quali dati provengono da quale telefono. Anche se i dati personali degli individui fossero protetti, i modelli nei dati rimarrebbero invariati. E questi modelli sarebbero sufficienti per prevedere il comportamento individuale con una certa precisione.

L’azienda tecnologica Palantir sta sviluppando un sistema di intelligenza artificiale chiamato ImmigrationOS per l’autorità federale tedesca responsabile dell’immigrazione e delle dogane. Il suo scopo è quello di identificare e rintracciare le persone da espellere, combinando e analizzando molte fonti di dati, tra cui la previdenza sociale, l’ufficio della motorizzazione civile, l’ufficio delle imposte, i lettori di targhe e le attività relative ai passaporti. ImmigrationOS aggira così l’ostacolo rappresentato dalla privacy differenziale.

Anche senza sapere chi sia una persona, l’algoritmo è in grado di prevedere i quartieri, i luoghi di lavoro e le scuole in cui è più probabile che si trovino gli immigrati privi di documenti.
Secondo quanto riportato, algoritmi di intelligenza artificiale chiamati Lavender e Where’s Daddy? sono stati utilizzati in modo simile per aiutare l’esercito israeliano a determinare e localizzare gli obiettivi dei bombardamenti a Gaza.

«È necessario un controllo collettivo»

Il professor Kasy conclude che non è più possibile proteggere la propria privacy individualmente: «Dobbiamo piuttosto esercitare un controllo collettivo su tutti i nostri dati per determinare se vengono utilizzati a nostro vantaggio o svantaggio».

Kasy fa un’analogia con il cambiamento climatico: le emissioni di una singola persona non modificano il clima, ma le emissioni di tutte le persone insieme distruggono il pianeta. Ciò che conta sono le emissioni complessive.

Allo stesso modo, la trasmissione dei dati di una singola persona sembra insignificante, ma la trasmissione dei dati di tutte le persone – e l’incarico all’IA di prendere decisioni sulla base di questi dati – cambia la società.

Il fatto che tutti mettano a disposizione i propri dati per addestrare l’IA è fantastico se siamo d’accordo con gli obiettivi che sono stati fissati per l’IA. Tuttavia, non è così fantastico se non siamo d’accordo con questi obiettivi.

Trasparenza e partecipazione

Sono necessarie istituzioni e leggi per dare voce alle persone interessate dagli algoritmi di IA, che devono poter decidere come vengono progettati questi algoritmi e quali risultati devono raggiungere.

Il primo passo è la trasparenza, afferma Kasy. Analogamente ai requisiti di rendicontazione finanziaria delle imprese, le aziende e le autorità che utilizzano l’IA dovrebbero essere obbligate a rendere pubblici i propri obiettivi e ciò che i loro algoritmi dovrebbero massimizzare: ad esempio, il numero di clic sugli annunci sui social media, l’assunzione di lavoratori che non aderiscono a un sindacato, l’affidabilità creditizia o il numero di espulsioni di migranti.

Il secondo passo è la partecipazione. Le persone i cui dati vengono utilizzati per addestrare gli algoritmi – e le cui vite sono influenzate da questi algoritmi – dovrebbero poter partecipare alle decisioni relative alla definizione dei loro obiettivi. Analogamente a una giuria composta da pari che discute un processo civile o penale e emette una sentenza collettiva, potremmo istituire assemblee cittadine in cui un gruppo di persone selezionate a caso discute e decide gli obiettivi appropriati per gli algoritmi.

Ciò potrebbe significare che i dipendenti di un’azienda discutono dell’uso dell’IA sul posto di lavoro o che un’assemblea cittadina esamina gli obiettivi degli strumenti di polizia preventiva prima che questi vengano utilizzati dalle autorità.
Questi sono i tipi di controlli democratici che potrebbero conciliare l’IA con il bene pubblico. Oggi sono di proprietà privata.

Il futuro dell’IA non sarà determinato da algoritmi più intelligenti o chip più veloci. Dipenderà piuttosto da chi controlla i dati e dai valori e dagli interessi che guidano le macchine.
Se vogliamo un’IA al servizio del pubblico, è il pubblico che deve decidere a cosa deve servire.

Maximilian Kasy: «The Means of Prediction: How AI Really Works (and Who Benefits)», University of Chicago Press, 2025

Cover: Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Educazione sessuo-affettiva nelle scuole: il tabù italiano

Educazione sessuo-affettiva nelle scuole: il tabù italiano

L’Italia è rimasta uno degli ultimi paesi europei in cui l’educazione affettiva e sessuale non è compresa obbligatoriamente nei programmi scolastici, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Romania e Polonia.

Ritardo non di poco conto se si prende atto che in Svezia è stata introdotta nel 1955, in Germania e Danimarca nel 1970, in Francia nel 1973, solo per elencare i più avanzati, mentre la Spagna introduce l’obbligatorietà nel 2022. Prima di analizzare gli argomenti a favore di tale “educazione scolastica” viene spontaneo chiedere le motivazioni di un ostruzionismo di così lunga durata da parte di un Paese come l’Italia, fondatore dell’UE ,che dovrebbe condividerne i valori fondamentali.

Una prima risposta la fornisce l’ex- femminista Eugenia Roccella, ora ministra della Famiglia, che dichiara che in Svezia i tassi di femminicidio sono superiori a quelli italiani, nonostante l’educazione sessuale obbligatoria (fenomeno denominato “paradosso nordico”).

La sua dichiarazione dimostra la rimozione totale della interpretazione femminista del femminicidio, che lo mette piuttosto in relazione al grado di emancipazione e indipendenza femminile, non tollerato da parte maschile per la perdita secca di potere (libertà di scelta femminile).

Ancora più esplicita nel limitare la portata dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole è stata l’approvazione in commissione Cultura della Camera, il 16 ottobre, dell’emendamento presentato dalla Lega al DDL Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico, che vieta a “figure esterne” e “attivisti ideologizzati” di svolgere attività didattiche riguardanti l’educazione sessuo- affettiva… il tema può essere affrontato solo da un punto di vista biologico e riproduttivo. A chiarimento ulteriore il ministro dell’istruzione Valditara ha specificato che i bambini non devono affrontare temi legati all’identità di genere, non devono essere indottrinati secondo le “teorie gender”.

Questa posizione, che ha l’unico pregio di chiarire le motivazioni di una tale accanita resistenza, ha sollevato critiche e obiezioni, non solo da parte delle opposizioni, ma anche e soprattutto delle figure professionali presumibilmente coinvolte nell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole.

Il dissenso è stato espresso degli Ordini degli psicologi di otto regioni (Emilia Romagna, Campania, Lazio, Abruzzo, Veneto, Puglia, Basilicata e Sicilia) per il danno recato a bambini, bambine e adolescenti nel loro sviluppo sessuale, affettivo e relazionale negando loro l’accesso a informazioni e conoscenze inerenti la realtà circostante.

Aggiungerei che l’emendamento risulta estremamente offensivo nei confronti di professionisti (psicologi, sessuologi, ma anche insegnanti) che evitano accuratamente “indottrinamenti”, generalizzazioni e specialmente ogni forma di essenzialismo (la femmina è così per natura, il maschio è così per natura) rivolgendosi a individui incarnati, unici, collocati storicamente, socialmente e geograficamente.

Secondo Save the Children, Unesco e OMS i programmi di educazione sessuale e affettiva sono finalizzati a  “promuovere la conoscenza e la consapevolezza delle proprie emozioni per riconoscerle e imparare a gestirle”.

Il crescente numero di episodi di violenza giovanile provenienti da famiglie non disfunzionali, gli efferati femminicidi messi in atto da giovanissimi “bravi ragazzi”, gli stupri collettivi di medievale memoria, attestano chiaramente come la prima agenzia educativa, la famiglia,  sia spesso all’oscuro delle problematiche affettive e relazionali dei propri figli e non abbia la capacità concreta di aiutarli.

Se la seconda agenzia educativa, la scuola, non integra con contenuti puntuali e aggiornati, non aiuta i giovani a conoscere e gestire il groviglio di emozioni che caratterizza la pubertà e l’adolescenza, giocoforza lo spazio vacante viene occupato da due “esperti” non invitati: la pornografia e i social, con gli esiti diseducativi che possiamo constatare. In confronto la conoscenza della teoria gender ha la pericolosità di un film di Walt Disney.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/dimhou-5987327/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=3575167″>Dim Hou</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=3575167″>Pixabay</a>

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Parole a capo
Bruno Mohorovich: Alcune poesie da “Parlerò di te”

Parole a capo <br> Bruno Mohorovich: Alcune poesie da “Parlerò di te”

 

«C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte, dove rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età. Quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare»
(Alda Merini)

 

Intingo la penna
nel blu notte
e scrivo
su carta increspata di nuvole,
poeta senza poesia,
parole striate di frammenti.
Punti e virgole
sono pulviscolo
in muti spazi
e pudiche attese.
Rileggo questa follia,
che affido ad un velo di vento
perché la posi alla tua finestra,
nell’ovattata luce della luna.

 

*

 

E’ per te
questa penna che prova
a scrivere una poesia
Ogni verso che fisso su questo foglio
è per te.
Nel chiaro concerto di stelle e luna
nel notturno volo di una farfalla vagabonda
nell’aria flebile d’una sera d’estate
nel profumo che spande fiori
tra note di musica che compongo
ma non so suonare
cerco di dirti,
il diletto di pensarti
la delizia del tuo abbraccio
l’incanto di sentirti vicina.
E’ per te,
quest’uomo che pensa d’esser poeta
per te.

 

*

 

Finestre chiuse in questa distesa
di notturna quiete
oltre i confini delle nere colline
Ti raggiungo nel sonno
vegliandoti
Colgo la tua stanchezza
e la ripongo fuori,
nell’ombra del silenzio
Accanto al tuo sorriso
riflesso sui tuoi disciolti capelli
mi muovo leggero
cercando quell’essenza di fiori
che liberi levigando l’aria.
Dalla tua finestra socchiusa
luci di lampare
si perdono
nell’orizzonte dei tuoi occhi

 

*

 

Nel ronzio di queste ore
nello sciame d’auto
ritornano due labbra
che nel tempo hanno smarrito
i loro baci.
Eravamo noi in quella via,
consumata dai nostri passi
che ci siamo persi
nell’indaco di una sera.
Eravamo ancora noi
col sorriso di sempre
in quella stessa via
che ci siamo ritrovati.

 

*

 

Nella velata notte
che cela il lagrimar delle stelle,
un sussurro di musica
ci suggerisce i ricordi.
Seduti su una panchina
il fremito del vento
ci offre una fragranza di fiori.
Il brusio delle nostre voci,
sul limitare della nostalgia
si schiude in un sussulto.

E vestimmo di sorrisi
le nostre rughe

 

*

 

Giocano a fare Dio
le nuvole
mentre il sole esala
gli ultimi raggi.
In sottofondo
partecipo
raccolto nel rimpianto
tra il verde che declina alla sera
e l’inusuale tintinnio d’un canto.
Ho raccolto la tua voce
e m’invento un dialogo.

 

Foto di dae jeung kim da Pixabay

 

Bruno Mohorovich è nato a Buenos Ayres il 3/3/1953, istriano, attualmente vive a Perugia. Ha vissuto a Pesaro quasi 20 anni dove ha curato eventi letterari e organizzato collettive di pittura. Ha 2 lauree in Sociologia e Lettere; si è sempre occupato di critica cinematografica e didattica del cinema nella scuola.
Nel 2015 ha diretto il corto sul XX Canto dell’Inferno della “Commedia” di Dante, nell’ambito delle celebrazioni per la nascita del sommo poeta, promosso dalla Loescher Editrice e dall’Accademia della Crusca ottenendo il Primo premio ex aequo alla Fiera Internazionale del libro di Torino. L’opera è stata realizzata con gli studenti del CLA (Centro Linguistico Ateneo – ‘Università agli Studi di Perugia).
Ha curato la pubblicazione “Saulo Scopa – fotografie e cortometraggi 1998 – 2008”, “Cinema in… – 3 voll.”per le edizioni AIART – Associazione Spettatori, il libro “Nuovo Cinema…scuola” per Era Nuova, e per i tipi della Bertoni Editore, i libri di poesie “Storia d’amore – una fantasia”, “Tempo al tempo” e “Parlerò di te”.

Sempre per la Bertoni Editore, del quale attualmente è coordinatore del marchio “poesiaedizioni”. Ha curato le antologie poetiche “Marche – omaggio in versi” e “Napoli – omaggio in versi”, i volumi “La città tra desiderio e utopia”, dedicata a Perugia e “Atarcònt – immagini pesaresi” dedicata alla città di Pesaro, i calendari “PoesiaNatura” e “Alberi”, le trilogie “Inni” e le “Agende poetiche”, oltreché curatore di due collane poetiche.

 

Ringrazio Bruno Mohorovich di averci autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 313° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista

Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista

Sono le prime parole con cui Nathan – il padre dei tre bambini strappati a lui e a sua moglie – commenta il provvedimento in un’intervista di Daniele Cristofani pubblicata oggi sul quotidiano Il Centro (L’intervista integrale è stata trasmessa ieri sera, in due puntate speciali di Zoom, storie del nostro tempo, alle 18.50 e alle 23.15, sull’emittente televisiva Rete8).

L’ordinanza cautelare del Tribunale dei Minori de L’Aquila non si è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione – in quanto giustamente i bambini seguivano il metodo unschooling  ma sul pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione – previsto dall’articolo 2 della Costituzione – “produttiva di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”.

Secondo il tribunale “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare può avere effetti significativi sullo sviluppo del bambino, che si manifestano sia in ambito scolastico che non scolastico”.

Fra le folli motivazioni “sentenziate” dal tribunale dei minori de L’Aquila, si legge anche che sarebbe necessario allontanare i minori dall’abitazione familiare, “in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge”.

Inoltre, “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del periodo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori.

 

Quindi il tribunale ha disposto la sospensione della potestà genitoriale a padre e madre che con tre figli minori, fra i 6 e gli 8 anni, oltre che l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare e il loro collocamento in una casa famiglia e nominato un tutore provvisorio dei minori, l’avvocata Maria Luisa Palladino.

Il tribunale parla di “lesione del diritto alla vita di relazione”, senza nemmeno accorgersi che il diritto alla vita di relazione nelle nostre società industrializzate e opulente viene violato ogni giorno, perchè abbiamo dimenticato come vivere. Il diritto alla relazione viene violato in nome della crescita economica, della competizione, dell’efficientismo e dell’utilitarismo, dell’incomprensione e l’incapacità di dialogare sul posto di lavoro: tutti pronti a correre pregando di arrivare prima degli altri per qualche salto di carriera, per qualche soldo in più che sia esso per profitto o per sopravvivenza, ma non sicuramente per vivere in pace.

Il diritto alla relazione è violato dalla virtualizzazione delle relazioni, dall’espropriazione delle relazioni umani, dagli smartphone dati in mano ai bambini di 3 anni, dal diffondersi dell’apatia, dal non distinguere il valore delle proprie azioni e dal non capire il senso del limite.

Per non parlare dell’individualismo epidemico, dell’atomizzazione indotta dal consumismo, della diffusione capillare di un linguaggio sempre più violento e che induce alla violenza, dai crescenti fenomeni di bullismo e autolesionismo nei giovanissimi, dalla crescita esorbitante dell’abuso di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti; dal dilagare di uomini che uccidono le donne per possesso o senso di proprietà e dal dilagare di giovani ragazzi adolescenti che molestano o stuprano le loro coetanee.

Questo è quello che vivono costantemente i nostri giovani in un brutale circolo vizioso, perchè non si dà il giusto valore alle cose e si finisce nella disumanizzazione: le persone cessano di essere considerate un fine e diventano un mezzo.

Il tribunale si dimentica che tutte queste situazioni provengono da persone che vivono la nostra società e da essa continuano a imparare l’incapacità di relazionarsi.

Quindi, nella nostra società, il problema è pedagogico e culturale. Ma al posto di vederlo e di mettere a fuoco il lassismo pedagogico e il vuoto educativo che si sta generando in questa “modernità liquida”, come direbbe Zigmunt Bauman, si punta il dito contro chi sta fornendo a tutti noi un esempio drastico, estremo ma alternativo di educazione e di vita.

Siamo davvero sicuri che i figli di Nathan e Catherine abbiano problemi di relazione? Siamo davvero sicuri che il loro diritto a relazionarsi sia stato leso? Bisogna vedere che tipo di relazione si intende. Sicuramente il tribunale ha interiorizzato, da tradizione e cultura giuridico-istituzionale liberale, una prospettiva antropocentrica di relazione per la quale relazionarsi vuol dire che gli umani si relazionano con gli umani. Si potrebbe adottare un prospettiva eco-centrica più ampia, affermando che relazionarsi significa relazionarsi al mondo, non inteso – come direbbe Ulrich Beck – “al sistema-mondo”, inteso come “alle cose della Natura”.

Una domanda sorge spontanea: i nostri figli si sanno relazionare come i figli di Nathan e Catherine si relazionano alla Natura, alle piante, agli animali, ai sassi, all’acqua, ai torrenti, al suolo e ai lombrichi?

La risposta è drammaticamente negativa, nonostante il Tribunale de L’Aquila si preoccupi dei “rischi igienici” a cui andrebbero incontro i figli di Nathan e Catherine in un stile di vita rurale. Il tutto mentre i figli della nostra società sono schizzinosi nei confronti di tutto ciò che è naturale, inseguiti da genitori ancora più schizzinosi di loro che vorrebbero una Natura sterile –  priva di microbi, batteri e virus – per non farli ammalare. Eppure sono gli stessi genitori schizzinosi pronti ad accompagnare i loro figli a mangiare da BurgerKing, McDonald, RoadHouse e altre catene di junk food.

Questo è il risultato di una società che ha perso la cultura dell’igiene naturale per lasciar spazio all’igienismo. Conclusione: generazioni di giovani illusoriamente felici, malnutriti e medicalizzati, che non sopravvivrebbero nemmeno venti minuti ad un blackout mondiale.

Mi risulta che queste situazioni non siano nemmeno concepibili dai figli di Nathan e Catherine, i quali invece saprebbero benissimo cosa fare nel bel mezzo di un blackout totale e non avrebbero problemi ad intrattenersi con i propri animali o fare un bagno nel torrente.

La risposta è ancora più cruda: i nostri figli non solo non sanno relazionarsi alle cose della Natura, ma non sanno nemmeno relazionarsi al “sistema mondo” che invece vivono. Spesso, i nostri figli, vivono vite per procura di fronte ai dispositivi tecnologici e digitali (ma anche tv) a guardare serie tv, videogiochi, film stupidi, fiction americane e reality. Il fenomeno sempre più diffuso degli hikikomori non è fantascienza, ma un trend in aumento nella nostra società.

Anche per quanto riguarda la sessualità, la mancanza di relazioni nella nostra società è un problema non indifferente. Come afferma il grande psicanalista Luigi Zoja, la presunta “sessualità disinibita” nei giovani di oggi è pura apparenza, segnata invece da una crisi del desiderio che teme corpo, emozioni e sentimenti.

La psicanalista Laura Pigozzi, riflettendo sulla deriva dell’erotismo tra i giovani, ha parlato di iposessualità nei giovani: c’è grande disponibilità di erotismo e di corpi offerta dalla Rete (OnlyFan), ma ciò non fa crescere il desiderio nella realtà. I ragazzi diffidano sempre più delle relazioni sentimentali e fisiche perché sono stati educati ad avere paura del mondo esterno, del diverso, sono iperprotetti; questo ha reso la sessualità meno reale. Il sesso viene percepito sempre più come una performance, da maschi e femmine, che genera ansia. I giovani che si chiudono nelle loro stanze rifiutando ogni contatto sociale. È un approccio rarefatto al desiderio in cui ci si espone sempre meno all’altro: al suo corpo e al rischio delle emozioni.

Oggi stiamo crescendo una società di bambini etichettati fin dalla nascita, dove la diversità o è vista come un problema, o come un disagio, o come vittimismo o come autocompiacimento e mai come valore intramontabile. Un società malata che imbottisce i propri figli di psicofarmaci, che dà a loro smartphone senza i giusti strumenti, che investe nelle “competenze” e sempre meno sulla conoscenza, sull’esercitare il pensiero e il senso critico.

Mi risulta che tutti questi problemi di relazione siano presenti – nella nostra società odierna – tra soggetti che in questa società sono nati e cresciuti senza conoscere alcuna “estraniazione rurale”.

In questo contesto, bisognerebbe capire se la relazione deve essere intesa come “obbligo” (come sembra intenderlo il Tribunale) o come “diritto” (come dovrebbe essere) e, nel caso fosse considerato un “diritto”, dovremmo essere in grado – come società – di garantirlo, e di una certa qualità. Cosa che non mi pare siamo in grado di fare. Qual è dunque la logica che ci spinge a voler insegnare agli altri come fare relazione e a relazionarsi, se siamo noi i primi a non riuscire a concepire un futuro nelle nostre relazioni?

Alla nostra società manca una cultura che sia in grado di educare alle relazioni, mentre invece è molto brava a spiattellare sui media mainstream nazionali il caso di una famiglia che non vuole saperne nulla di questa modernità futile, effimera e anti-educativa.

Questa famiglia è stata presa mediaticamente come capro espiatorio affinchè l’opinione pubblica la brutalizzasse, si indignasse di loro e puntasse il dito. Anche se questo era l’intento, fortunatamente non è avvenuto. Per evitare di analizzare come il potere disciplinare (citando Foucault), l’istruzione – quella riduzionista occidentale – e le sue istituzioni – ovvero la società e la cultura di mercato – stiano oggi massacrando le relazioni, si addita chi nella propria semplicità si dedica alla creazione autentica di relazioni. Perchè questo è il fulcro del discorso.

Qual è la colpa di questa coppia di genitori anglo-australiani che hanno deciso di vivere in semplicità nei boschi abruzzesi? Educare liberamente i loro figli in mezzo alla Natura e al contatto con essa, con un maestro privato; vivere secondo un stile di vita ecologico e naturalistico in una bellissima casetta in mezzo al bosco a Palmoli, in provincia di Chieti; vivere secondo il ritmo lento della Natura, trascorrendo una vita serena e tranquilla lontano dal caos, dal rumore e dalla frenesia della società industrializzata; autosostenersi totalmente con pannelli solari, pozzo di acqua privato, legna a volontà, tanti animali e tanto amore.

I media hanno parlato della famiglia di Nathan e Catherine come di una “famiglia neorurale”, come se il ruralismo fosse qualcosa di vecchio e antico da ripudiare. In realtà il ruralismo è vivere l’essenza della vita, lontano dalle mode, dai consumi, dall’effimero, dai veleni dell’esistenza come l’avidità, la stupidità e la collera… che immancabilmente generano sofferenza a lungo tempo.

Questa famiglia – secondo il Tribunale e una fetta dell’opinione pubblica – dovrebbe forse fare come tutte le altre famiglie medie italiane: insegnare ai propri figli a guardare Uomini e Donne, Temptation Island, L’Isola dei Famosi, il Grande Fratello; a guardare cartoni animati stupidi e diseducativi o addirittura a piazzarli davanti a videogame volti allo sviluppo estremo di adrenalina e serotonina.

Si chiama schizofrenia ontologicamentre il vuoto educativo e la rarefazioni delle relazioni imperversano nella società di oggi, inaugurando un’epidemia di apatia, le istituzioni di questa stessa società reprimono modelli alternativi proprio di educazione, di pedagogia, di società ecologica e di crescita umana.

La schizofrenia ontologica è arrivata a livelli tali che una famiglia che vive in una casa in un bosco è percepita come un pericolo, forse perché può essere un modello da seguire… E questo fa ancora più paura al potere.

Nell’epoca in cui si esaltano sviluppo e progresso, chi prova ad allontanarsene deve essere punito. Come osi non sottometterti alle bollette? Come osi privarti della tv, dell’auto a rate, dello smog incensante? Come puoi impedire ai tuoi figli di far scoprire il tossico mondo dei social media? Come puoi non ambire nel vedere i tuoi figli che girano video su TikTok? Come osi non sottometterti alla dittatura dell’algoritmo? Come osi cercare uno stile di vita che abbandona il materialismo della società capitalista e consumista per dedicarti ad un risveglio politico, etico e spirituale?

Come osi non allacciarti alla corrente, usufruendo di un panello solare costruito artigianalmente? Come osi non allacciarti all’acquedotto, preferendo usare l’acqua di fonte gratuita dal pozzo sul proprio terreno? Come osi non allacciarti al gas in questo periodo storico dove, con la guerra in Ucraina, abbiamo fatto di tutto per boicottare il North Stream russo per rimpinguare le casse USA con il gas liquido? Come osa questa gente usare la loro legna come negli ultimi 170.000 anni di storia?

Questi sono gli interrogativi che si pone il necropotere della società del controllo.

Chi sceglie l’autodeterminazione, la libertà educativa, le relazioni di cura autentiche ed evita di crescere i propri figli come lo fa la massa, ovvero a suon di cellulari, antidepressivi, influencer, centri commerciali, omologazione e conformismo, rappresenta da un lato una vera minaccia per il quieto vivere del gregge al macello, ma dall’altro rappresenta un esempio concreto di come si possa portare bellezza nella propria vita fuori dagli schemi effimeri della società consumista ed industriale di massa.

[…]

Articolo pubblicato su Pressenza il 22.11.2025

Cover: https://pixabay.com/it/photos/log-cabin-villetta-casa-finlandia-1886620/

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Alice ed Ellen Kessler: nemmeno la morte ci separerà

Alice ed Ellen Kessler: nemmeno la morte ci separerà

Alice ed Ellen Kessler non hanno vissuto semplicemente insieme: hanno vissuto come una soltanto. Iconiche gemelle della televisione europea, scelgono di morire nello stesso momento all’età di 89 anni tramite suicidio assistito.
Nella loro casa in Germania, un medico e un avvocato assistono le due sorelle mentre azionano il dosatore che avvia la somministrazione del farmaco letale.
La decisione è lucida, ponderata, coerente con tutta la loro vita.

La loro esistenza è sempre stata una forma di co-esistenza: stessa carriera, stessi ritmi quotidiani, appartamenti sullo stesso pianerottolo collegati da una sala comune, che dividevano solo quando litigavano, tirando su una parete mobile. E, soprattutto, hanno un’identità speculare condivisa. Non si sposano né costruiscono famiglie separate: l’idea che una delle due rimanga sola è per entrambe inconcepibile. La loro identità non si differenzia mai del tutto. La morte, in questa prospettiva, non appare come una frattura, ma come l’ultimo atto di continuità.

Simbolicamente potente è anche la loro disposizione testamentaria: le ceneri devono essere mescolate insieme e unite a quelle della madre. Anche se la legge tedesca non lo consente, l’intenzione rivela il desiderio profondo di fondersi, non solo l’una con l’altra, ma con la radice originaria della loro esistenza.

Secondo Lacan, il soggetto si costituisce attraverso la separazione: l’ingresso nel simbolico presuppone che il bambino accetti di non essere tutt’uno con la madre e con l’immagine speculare dell’Altro.
Nei gemelli, e ancor più in coppie così intimamente legate, questo processo assume una forma diversa: l’Altro non è un’entità esterna, ma una presenza identica, quasi un’estensione del proprio corpo.

Nel caso delle Kessler, ciascuna funge da specchio stabile e continuo per l’altra. Non sono solo doppie, ma un punto di identificazione reciproco così forte da rendere impensabile una vita separata. L’ipotesi lacaniana di un soggetto che cerca unità attraverso l’immagine trova qui un esempio radicale: l’immagine speculare non è un passaggio, è destino.

La scelta di morire insieme incarna questa coerenza interna: l’una non può sopravvivere all’altra senza fratturare la propria identità. L’idea che una delle due possa “andarsene prima” è dolorosa e inaccettabile. Il “noi gemellare” si percepisce indiviso fino alla fine: non due soggetti che condividono la vita, ma una struttura psichica che esiste solo nella reciproca presenza.

La storia delle Kessler racconta una vita vissuta come un tutt’uno e una morte che ne rispecchia con coerenza la profonda fusione. Morire nello stesso momento e desiderare di fondersi simbolicamente con l’altra e con le radici della propria esistenza non è un rifiuto della vita, ma un atto di fedeltà assoluta a un modo di essere che è sempre duale, mai singolare. Mostrano come alcune esistenze si tengono in equilibrio solo quando restano intrecciate fino all’ultimo respiro.

Cover: immagine da MAM-e  Dizionario dello Spettacolo 

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Vite di carta /
La violenza accanto

Vite di carta. La violenza accanto

Leggo La vita accanto di Mariapia Valadiano e avverto confusamente dove si posiziona nel territorio dei libri che conosco: il gps della mia lettura avanza in zone via via diverse e mi fa provare, specie nelle ultime pagine, una sensazione doppia. Da una parte c’è il coinvolgimento nella storia che ha tratti originali, come fu detto fin dal momento della candidatura allo Strega 2011 da Cesare Segre.

Dall’altra la percezione che siano davvero tanti i riferimenti a mondi letterari di questo secolo e dei due precedenti. Come una torta dai tanti sapori che ha attinto da un folto ricettario.

Ho preso appunti su appunti mentre leggevo, tracciando il percorso dell’intreccio dei fatti ma spostandomi spesso su altri fili narrativi tra loro paralleli: ora sull’evoluzione di un personaggio e poi di un altro, ora su episodi laterali dall’andamento carsico, scomparsi dall’alveo principale del racconto e poi riapparsi verso la foce.

La storia è quella di Rebecca, la cui bruttezza fino dalla nascita è lo stigma che la marchia e decide per lei una vita di clausura nel palazzo di famiglia, lontano dagli occhi malevoli e dalle chiacchiere trancianti della città di Vicenza. La bruttezza agisce come una forza centrifuga che allontana da lei la madre, prima di tutto.

Allontana per i primi anni gli altri bambini, le strade e le piazze della città. Chi le sta davvero vicino è la domestica di casa, alla quale il padre ha delegato per debolezza la cura quotidiana della bambina.

La sorella del padre sembra intervenire nella vita di Rebecca quando entra nella casa con la sua esuberanza misteriosa, ma non porta amore. Porta il desiderio di affermazione di sé in un ambiente familiare che si è spento dopo la nascita della bambina, nel momento in cui la depressione ha coperto di silenzio la madre e l’ha tenuta reclusa nella sua stanza affacciata sul fiume Retrone.

La voce narrante è quella di Rebecca ed è sua la prospettiva con cui vengono messi a fuoco i familiari, gli unici che frequenta da bambina. Poi entrano nel suo campo visivo i compagni di scuola, se va bene indifferenti verso di lei, quando non la chiamano mostro e se ne tengono lontani. Si fa amica soltanto con la compagna di banco, la grassa logorroica Lucilla che è una luce anche di fatto nella sua vita appartata.

La struttura del racconto segue le volute della crescita di Rebecca, della consapevolezza che si fa chiara sulla famiglia con i suoi scheletri dentro gli armadi, con la passione per la musica che le viene trasmessa, ma che in lei valorizza un talento speciale. La vita accanto, quella del mondo, sembra ferirla di meno mentre come pianista prende consistenza col tocco delle sue mani.

Quando è adolescente conosce la signora De Lellis, grande pianista nonché madre del suo insegnante di pianoforte, e con lei accresce la propria forza interpretativa.

Leggo su veloci recensioni che la passione per il pianoforte la salva, la colloca altrove rispetto agli egoismi e alle doppiezze familiari. Certo, ma non è solo la musica a darle l’identità. C’è il rapporto mai consumato con la madre che tuttavia trova un risarcimento dopo la sua morte. Rebecca esplora, accarezza, riordina la stanza dove la donna si è rinchiusa per anni, prima di gettarsi nelle acque del fiume, di “essere pietra sul fondo”.

Trova e legge il suo diario, trova gli acquerelli dedicati ai fiori e riempie di margherite e di lavanda i vasi e il terrazzo della casa. Ritrova la madre mentre mette a fuoco la debolezza di carattere del padre, l’inettitudine a proteggere le donne della sua famiglia.

Le pagine finali sciolgono i molti nodi narrativi prendendo la direzione ora del romanzo d’appendice col lieto fine che ritrae Rebecca serena e avvolta da nuove sicurezze: Lucilla con la figlioletta che vanno a vivere insieme a lei; la sua bruttezza che si è attenuata grazie a un consolatorio intervento di chirurgia estetica.

Ora si dissolve, altresì, l’atmosfera da romanzo gotico a cui rimandava la mostruosità di Rebecca, con la repulsione che ingenerava nei coetanei. Quella sua solitudine totale nell’infanzia faceva pensare alla solitudine tragica della creatura del dottor Frankenstein, e accomunava così due esseri  sensibilissimi, puniti dalla ignoranza cattiva degli uomini.

Il tema della violenza è a un passo. Nel romanzo avvelena prima di tutto il vissuto di Rebecca: le usano violenza la insipienza del padre che non la protegge e la vox populi vicentina che la denigra.

La madre, che non ha ricevuto l’aiuto adeguato alla sua forma depressiva, nel suo diario chiama “la Mostra” la sorella del marito e lui è “il bugiardo”.

Quanto alle famiglie che le ruotano intorno, basti ricordare che la madre del maestro De Lellis ha subito una violenza carnale incestuosa, della quale viene informata Rebecca e con lei il lettore. L’agnizione però si ferma qui, il maestro non saprà mai chi è il suo vero padre.

In casa di Lucilla, come risposta disperata alle annose violenze del padre si consuma l’uccisione dell’uomo. La colpevole sembra la madre, tuttavia nel finale scopriamo un’altra verità.

A fronte di eventi strappalacrime come questi la scrittura di Veladiano ha fidelizzato i lettori con uno stile asciutto ed esatto. A sua volta l’ambientazione contemporanea riesce a tenere lontana l’atmosfera del romanzo dalla tradizione ottocentesca, specie da quella scapigliata: al gusto di ritrovare l’orrido nelle pieghe riposte della società ha sostituito il brusio volubile delle chiacchiere vicentine.

Nota bibliografica:

  • Mariapia Valadiano, La vita accanto, Einaudi, 2011
  • Mary Shelley, Frankenstein, Feltrinelli, 2013

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/pianoforte

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La vita va così

Il film “La vita va così”, che ha aperto il festival del Cinema di Roma, è ispirato alla storia vera del pastore sardo Ovidio Marras e alla sua battaglia contro i giganti del cemento e la speculazione edilizia

La vita va così

Ieri sera sono andata a vedere “La vita va così”. Mi avevano detto che ne valeva la pena perché molto “ carino”. Ne vale la pena! è molto più che carino. È un film che con delicatezza, ironia, coraggio racconta bene la spaccatura non più sanabile tra due prospettive che guardano al futuro. Da una parte lo sguardo degli imprenditori del nord, impersonato da Diego Abatantuono, presidente di un grande gruppo immobiliare, e dai suoi collaboratori, convinti che tutto abbia un prezzo: la terra, il lavoro, la vita stessa e, dall’altra, il pastore sardo che con un semplice no, rifiuta il fatto che la terra dove sorge la sua casa, la terra del padre del padre del padre, abbia un valore commerciale , sia solo terra che scorre tra le dita.

Il regista Riccardo Milani ha detto in una intervista che con questo film ha voluto affrontare il conflitto che si crea tra il desiderio di sviluppo e la fame di lavoro di certe comunità, desideri legittimi, e  la tutela dell’ambiente. Io  in questo film ho visto di più, ho visto due mondi che guardano al futuro in modo diverso.  La tenacia del mondo antico ancestrale non scolarizzato, un mondo che si procura il necessario senza grandi eccedenze, senza certezze se non quella che il sole, dopo la notte, sorge sempre, che si scontra contro l’idea di un mondo in continua e illimitata crescita,  in continuo sviluppo dove tutto è programmato, protocollato,  scolarizzato, già calcolato e somministrato  alla comunità come una realtà ineluttabile.

Il nord che rappresenta il “ progresso” non è descritto dal regista come solo cattivo e arrogante;  di fronte alla tenacia di un pastore sardo  fortemente radicato  nell’idea che tra  la terra e  lui stesso non c’è separazione, il presidente del colosso immobiliare, sembra interrogarsi.

La certezza che non siamo i padroni della terra e delle sue ricchezze, ma siamo i padroni della nostra vita e della nostra casa e  che quello spazio è invalicabile , è la  motivazione che anima, per anni, la resistenza di questo semplice pastore difronte allo strapotere dell’impero immobiliare.

La magia del film è che il regista tiene in equilibrio i due sguardi sul mondo in modo sapiente.
Il nord è descritto ricco e un po’ sborone, ma agisce con la convinzione di portare il progresso e una qualità di vita più alta nella profonda sarda.  Il presidente del gruppo immobiliare, però intuisce che nel no ostinato di questo pastore  c’è tutta la sua dignità e gli riconosce un enorme coraggio nel rifiutare una cifra più che milionaria.
Sono  trattati anche con ironia e delicatezza, i  conflitti  che si creano  all’interno della comunità e della famiglia del pastore, perché tutti hanno l’aspettativa che lui dica di si, perché nell’ottica che sviluppo e progresso sono indissolubilmente legate, chi rifiuta una proposta milionaria è solo un pazzo e un egoista che pensa solo a se stesso a non ha a  cuore le sorti di chi gli sta intorno.

Ma non si vince mai da soli. Sarà la figlia, che all’inizio del film non sa da che parte stare, perché  si sente divisa tra le ragioni di chi le chiede di convincerlo  a vendere e l’amore per lui , ad accompagnarlo nella battaglia legale contro il colosso immobiliare.

In lei si risveglia piano piano il valore sacro della terra quando assiste al saccheggio di chi guida le ruspe che senza alcuna cura, estirpa ulivi centenari, interra tubature,  cementifica  e distrugge senza pietà tutto ciò che circonda la casa della sua infanzia. È un urlo viscerale il suo. La dignità è legata a doppio nodo con la sorte di quel cielo e di quella terra che l’ha vista crescere.  Lei è quella terra, venderla sarebbe vendere se stessi. Ed è qui il vero strappo.

Chi si è disconnesso dalle sue radici, quasi tutti, non vede che “vendere” la propria casa, la propria terra dove si è cresciuti è vendere se stessi a un sistema che ti renderà schiavo per sempre.
Alla crescita illimitata  questo pastore si pone come limite . Lui sardo quasi analfabeta, ha un’ intelligenza intuitiva fenomenale e un certezza talmente limpida da non sentire mai il bisogno di spiegare il suo NO.  Ed è qui la spaccatura. Questa intelligenza intuitiva in realtà è una dote umana che abbiamo tutti ma che abbiamo dimenticato di avere o forse sarebbe meglio dire che ci insegnano da tempo  ad accantonare in nome del superbo “ logos” occidentale. Se solo attivassimo un pochino di quell’intelligenza vedremmo chiaramente che la tanto agognata ricchezza che ci viene  prospettata dal “sistema progresso” sarà nostra solo se accetteremo di vendere la nostra stessa natura, noi stessi.

È  questo che ho amato del film, siamo tutti immersi in questo sistema e nella narrazione che senza progresso non c’è futuro,  ma possiamo scegliere di essere come il pastore, possiamo dire di NO , un no senza spiegazioni logiche e “ di buon senso “ e diventare il limite a un sistema che nella sua folle corsa verso la crescita illimitata ci sta portando alla morte di senso.  Perché è questo che fa il pastore, si rifiuta di uccidere la sua anima; la sua missione su questa terra non è negoziabile. È talmente semplice e banale da capire che mi chiedo perché siamo ancora qui a domandarci che scelta fare.

In copertina: foto da pressenza 

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Parole e figure / Arrivano i Mumin! E Vida sia. Strenne Natalizie

Si avvicina il Natale, tempo di consigli illustrati. Escono in libreria, con Iperborea, “Vida e la missione di Re Inverno”, di Bjarne Reuter e “Arriva il Natale nella Valle dei Mumin”, di Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund

In Vida e la missione di Re Inverno, la poesia e lo humour del danese Bjarne Reuter incontrano la magia dell’inverno nordico in questo romanzo illustrato che ha per protagonisti una bambina e un folletto. Un “libro dell’avvento” in 24 capitoli che si possono leggere uno al giorno fino alla vigilia di Natale.

Per un’improvvisa bufera di neve, Vida e il fratello Karl rimangono bloccati a casa del nonno, che vive in un paesino sperduto nella natura con il gatto Mosè, il pappagallo Paolo e il cavallo Salomone von Olsen. Il nonno è una fonte inesauribile di storie, come quella del suo eroico viaggio per mare da Capo Buongiorno a Capo Buonanotte, ma nel bosco innevato vicino alla sua casa Vida incontra un vero folletto! O meglio, sarà un vero folletto solo quando avrà superato la prova a lui assegnata da Re Inverno, che consiste nel trovare entro il giorno di Natale «uno stivale di chiardiluna, un gilet di ragnatela, un dente caduto con un brivido e una goccia di crepuscolo». Comincia così l’impresa segreta di Vida per aiutare il folletto nella sua bizzarra e poetica missione, tra sorprese, meraviglie e trovate spassose, in un emozionante conto alla rovescia fino al 25 dicembre, nella speciale magia dell’inverno nordico.

Bjarne Reuter, Vida e la missione di Re Inverno, Illustrazioni di Anna Forlati, Iperborea, Milano, 2025, 160 p.

Bjarne Reuter, scrittore e sceneggiatore, è uno dei più noti e amati autori danesi per l’infanzia e l’adolescenza. Le sue opere, spesso adattate per il cinema, sono state tradotte in più di venti lingue e hanno ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi, come il Premio del Ministero della Cultura Danese, il Premio dei Librai Danesi, il Premio Søren Gyldendal e il Deutscher Jugendliteraturpreis. Iperborea ha pubblicato Hodder e la fata di poche parole, vincitore del Premio Andersen 2023 nella categoria 9-12 anni, e Elise e il cane di seconda mano, finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2021.

La famiglia dei Mumin è risvegliata dal letargo invernale per affrontare un’entità sconosciuta e forse pericolosa: il Natale.

I Mumin sono una famiglia di troll speciali, simili a buffi e teneri ippopotami, che abitano in una casa a forma di stufa di maiolica. Curiosi, eccentrici, comici e poetici, vivono continue avventure insieme ai loro tanti amici, a metà tra le fattezze umane e quelle degli animali più strani. In questa avventura è inverno, la stagione del lungo letargo dei Mumin. A interromperlo sono le grida allarmate dell’Emulo: “Il Natale sta arrivando e voi ve ne state qui a dormire!” Il Natale? Che cos’è? Sarà pericoloso! Tra manicaretti da cucinare, regali da preparare e abeti da addobbare, nella valle c’è un gran fermento che i Mumin non riescono a capire. E molto spesso quello che non si capisce fa paura…

Da un classico di Tove Jansson, una storia che parla di amicizia, comunità, famiglia, calore e gentilezza. E, ovviamente, di Natale.

Per sapere (o ricordare) qualcosa di più dei Mumin ne abbiamo già scritto…

Cecilia Davidsson, Alex Haridi, Tove Jansson e Filippa Widlund, Arriva il Natale nella Valle dei Mumin, Iperborea, Collana I Miniborei, Milano, 2025, 40 p.

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Non tutte restano prigioniere: la responsabilità di scegliere

Nella Giornata nazionale contro la violenza sulle donne, vale la pena tentare un discorso che non si lasci catturare dalle semplificazioni che dominano lo spazio pubblico. Da anni assistiamo a una narrazione che individua nel patriarcato, nel maschilismo tossico, nei “narcisisti patologici” e nell’uomo che uccide la donna indifesa, l’unico schema possibile.
È un racconto rassicurante perché offre una spiegazione univoca: da una parte il carnefice, dall’altra la vittima. Ma questa narrazione è riduttiva, non regge alla prova della clinica e, soprattutto, non permette una vera prevenzione.

Dire che “la violenza è maschile” semplifica ciò che, invece, è profondamente complesso.
Quando parliamo di uomini incapaci di tollerare la separazione dall’Altro, non stiamo parlando di un’essenza maschile né di un destino culturale immutabile. Stiamo parlando di soggetti – singolari, mai intercambiabili – la cui struttura psichica rimanda al loro rapporto con l’Altro primario, con la mancanza, con il limite simbolico. Ma sottolineare questo non significa spostare l’intero peso della responsabilità sulla figura materna o su una donna reale: vorrebbe dire, ancora una volta, semplificare.

Il punto, infatti, non è individuare un colpevole unico – il maschile, il materno, l’educazione, la cultura – ma riconoscere che il fenomeno è strutturale, multilivello, e riguarda il modo in cui ciascun soggetto accede alla separazione, alla mancanza, al desiderio dell’Altro.

Per questo la narrazione dominante finisce per occultare la complessità:

– crea un maschile “da aggiustare”;

– produce un femminile “da proteggere”;

– e ignora completamente la singolarità del legame, dell’incastro, della scelta.

La realtà clinica e sociale, invece, ci mostra altro.

Anche i fenomeni di violenza agita da donne sono in aumento, così come i fenomeni di bullismo al femminile. Parliamo di ragazze che esercitano violenza su altre ragazze, o su altri soggetti, senza che ciò trovi posto nella narrazione che vorrebbe il femminile come luogo esclusivo della cura e il maschile come luogo esclusivo della distruttività. È un dato che conferma una verità fondamentale: la violenza non ha genere.

E anche il caso della pagina Facebook “Mia moglie”, dove un grande gruppo di uomini derideva le proprie compagne, lo dimostra ulteriormente: l’amministratrice della pagina era una donna. Non perché “le donne siano peggiori”, ma perché il godimento che spinge verso l’umiliazione dell’altro non appartiene a un sesso. È umano. È strutturale. È trasversale.

Allo stesso modo, il versante femminile delle vittime non può essere compreso attraverso la retorica dell’innocenza passiva.
La domanda clinicamente pertinente è: perché alcune donne restano incastrate in relazioni invischianti, mentre altre no?

Ma da questa prima domanda ne derivano inevitabilmente molte altre, altrettanto cruciali:

– Che cosa cercano, esattamente, in quei legami così stretti da diventare soffocanti?

– Quale tipo di mancanza tenta di colmare quella relazione che appare, dall’esterno, distruttiva?

– Quale immagine di amore portano con sé e da dove viene?

– Che cosa fa sì che riconoscano come “amore” qualcosa che invece le inghiotte?

– Che cosa impedisce loro di separarsi quando il legame diventa evidentemente a rischio?

– Quale fantasma incontra il fantasma dell’altro, producendo l’incastro?

Fragilità antiche – difficoltà nel tollerare la solitudine, confini interni labili, un bisogno di conferma che precede l’incontro amoroso – possono rendere più facile confondere la fusione con l’amore, più difficile leggere i segnali dell’invasione, più complicato dire “no” senza sentirsi crollare.

Quando queste fragilità incontrano uomini che, a loro volta, non tollerano la separazione, nasce l’incastro: due soggetti che si agganciano nello stesso punto cieco, ciascuno impedito – per ragioni diverse – a sostenere il movimento della distanza.

Ed è proprio qui che si gioca il tema della prevenzione.

La prevenzione non consiste nel rieducare un genere, né nel cercare un colpevole unico. La prevenzione consiste nel non creare vittime:

– dare alle ragazze strumenti per costruire confini interni solidi;

sostenerle nella possibilità di stare nella solitudine senza viverla come abbandono;

aiutarle a leggere i segnali del legame;

permettere loro di riconoscere la differenza tra amore e annullamento;

metterle nella posizione simbolica di poter scegliere, prima di essere catturate.

E, allo stesso tempo, la prevenzione consiste nel permettere ai ragazzi di accedere alla separazione senza viverla come annientamento, di fare esperienza della mancanza senza percepirla come rovina, di tollerare l’Altro che se ne va senza doverlo annientare.

Non tutte restano prigioniere.

Non tutte diventano vittime.

E non tutti gli uomini diventano carnefici.

Per affrontare davvero la violenza, dobbiamo accettare che essa non ha genere. Ha una struttura, una storia soggettiva, un nodo specifico nel rapporto con l’Altro.

È nella complessità, non nella semplificazione, che possiamo finalmente ritrovare la possibilità di scegliere.

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