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Piedi, cammini e simboli

Piedi, cammini e simboli

Fare a pezzi un corpo e concentrarsi su uno dei suoi organi è un vizio da necrofili, un dovere da chirurghi, un vezzo poetico. Eppur a tutti è capitato di farlo. I capelli sono troppo corti o troppo lunghi; le mani sono secche, rugose, piccole, grandi, grasse o magre; i piedi sono lunghi o corti, piccoli, piatti o arcuati. La pancia non è mai abbastanza piatta, altre parti del corpo … dipende.

Non solo queste considerazioni ci accompagnano di sovente nei nostri momenti di ozio, ma si acuiscono a seconda dell’umore, del livello di stanchezza che può toccare la stratosfera, del livello di abbattimento generale causato da tutti i guai che accompagnano la terra in questi giorni.

Uno degli organi che suscita in me più riflessioni è il piede, entrambi i piedi. Forse perché basta che abbassi lo sguardo e li vedo sempre lì attaccati alla parte finale delle mie gambe, a volte un po’ più gonfi del solito, soprattutto quando fa caldo e sono stati tutto il giorno nelle scarpe da ginnastica con le quali corro di qua e di là per lavoro, parenti, amici, spese, inconvenienti e curiosità.

Anche dopo la doccia li vedo sempre là in fondo alle gambe, bagnati e scivolosi pronti a lasciarmi col sedere sul pavimento se non li appoggio subito all’asciutto, uscendo dalla gabbia di plastica che racchiude il vapore appena abbandonato dell’acqua calda finita nel tubo di scarico.

A volte li guardo più da vicino, quando sono raggomitolata sul divano e leggo gli articoli di Periscopio.it visualizzandoli sul telefono, quando mi accovaccio nell’orto per innaffiare i pomodori, le melanzane e i cetrioli, quando faccio Yoga e improvvisamente me li trovo oltre la testa nella posizione dell’Aratro. Visti da vicino sono più grandi e imponenti, con tanti ossicini, tante articolazioni e tante venuzze verdi che traspaiono sotto la pelle.

La loro salute è essenziale, attraverso di loro si vede quanta vita è stata vissuta e come la si è affrontata. Sono segnalatori di malattie se diventano violacei o piagati e portatori di intimità quando li si aggroviglia ad altri piedi spazialmente prossimi. Questo tipo di aggrovigliamento non è tra i miei preferiti, mi piace che i piedi siano liberi di muoversi, fermarsi, correre, tirare un calcio, saltare un ostacolo, ballare.

C’è molta vita nei piedi che percorrono un cammino e, ancora di più, in quelli che ballano. I piedi che ci permettono di danzare garantiscono una vera maestria, uno spettacolo sorprendente. Non c’è dubbio che i piedi siano un tramite tra musica e corpo, basta osservare i bambini quando improvvisamente sentono una canzone. Cominciano a dimenarsi a ritmo della musica compiendo movimenti tanto naturali quanto armonici.

Non c’è ancora una disciplina, un rigore nei movimenti che caratterizza le forme di danza più evolute, ma c’è una tendenza alla rappresentazione corporea che usa i piedi come tramite per la sua realizzazione. Frasi come “get on your feet”, “move your feet”, “dance your shoes off” compaiono spesso nella musica pop che imperversa in streaming, mentre i piedi come simbolo di ribellione e liberazione attraverso la danza, sono ben rappresentati in Footloose, un film del 1984 diretto da Herbert Ross e distribuito dalla Paramount Pictures.

Nel film, Ren McCormack, ragazzo di Chicago, si trasferisce con la madre separata a Bomont un piccolo paese di provincia che ha bandito la musica rock, il ballo e tutto ciò che può corrompere la moralità dopo che cinque ragazzi (tra i quali il figlio del reverendo del paese Shaw Moore) sono morti mentre tornavano da un concerto. Ren riuscirà a riportare la musica in paese grazie ad una festa di ballo memorabile.

Bella storia, belle inquadrature e primi piani sui piedi dei ragazzi che ballano. Ballano, ballano, una tribù che balla. Il film ha una colonna sonora famosissima e la frase “Tonight I gotta cut loose, footloose/Kick off your Sunday shoes” (“Stasera devo scatenarmi, sfogarmi/Togliti le scarpe della domenica”) è diventata un simbolo di ribellione e liberazione attraverso la danza. Il film ha vinto due Golden Globes per le canzoni “Footloose” e “Let’s Hear It for the Boy” e tre candidature all’Oscar.

I piedi sono organi di movimento estremamente complessi, costituiti da uno scheletro composto da ventisei ossa articolate tra loro, che sfrutta per i propri movimenti un complicato sistema di forze muscolari, tendinee, capsulari, legamentose e neurotiche. I piedi, grazie alla loro complessa anatomia, sono in grado di eseguire una vasta gamma di movimenti. Questi possono essere movimenti di flessione ed estensione, inversione ed eversione, supinazione e pronazione. In aggiunta, i piedi effettuano movimenti complessi durante la deambulazione, come l’ammortizzazione, il supporto e la propulsione.

Sono organi importanti dal punto di vista funzionale, estetico e simbolico. Guardando i propri piedi non sempre ci si rende conto di quanto compagnia ci facciano e di quante persone abbiano riflettuto sulla loro presenza, utilità e bellezza. I bambini piccoli se li succhiano, i grandi li massaggiano, impomatano, tatuano, colorano, fotografano e agghindano con calze di tutti i colori e con scarpe che, in parte servono per accompagnare la camminata e in parte affermano uno status e l’eventuale desiderio di trovare l’amore.

I piedi sono affascinanti, lo sono stati per molti pensatori. Così scrive, ad esempio, il poeta Pablo Neruda nella sua Oda a los pies: “Mis pies eran dos palomas / atrapadas / por la gravedad de la vida...” (I miei piedi erano due colombe / intrappolate / dalla gravità della vita…). Oda a los pies (Ode ai piedi) è un componimento in cui il poeta celebra i piedi come parte integrante del corpo umano e della vita stessa. In particolare, sottolinea il ruolo fondamentale dei piedi nel movimento, nella scoperta, nel contatto con la terra e nell’esperienza dell’esistenza.

Nella tradizione religiosa o mistica i piedi sono simbolo di devozione e sono spesso associati all’umiltà, alla venerazione o alla sottomissione. I piedi raccontano il movimento, il cammino, la resistenza. Sono simbolo della vita in marcia, del destino e della trasformazione. Dante, nella Divina Commedia, descrive spesso il movimento dei personaggi in termini di cammino: i piedi sono ciò che li porta verso la redenzione o la dannazione.

I piedi sono anche un dettaglio estetico o sensuale. Soprattutto nel decadentismo, nel simbolismo e in certi autori moderni, i piedi possono diventare oggetto di contemplazione estetica o di desiderio erotico. Sono un elemento realistico o degradante in autori naturalisti come Zola e Verga, mentre in autori più contemporanei, i piedi sono spesso rappresentati in modo crudo, come parte di un corpo che lavora, soffre, marcisce.

I piedi sono inoltre simbolo poetico o spirituale. Per alcuni poeti o scrittori, i piedi possono evocare leggerezza, la libertà, l’infanzia, o essere segno di passaggio sulla terra. Ad esempio, Rainer Maria Rilke usa spesso immagini corporee delicate ai i piedi che danzano, scivolano e ci sfiorano.

Tanti illustri personaggi si sono occupati di piedi scrivendo, ballando, parlando, pensando. Eppure, se li guardo sono semplicemente i miei piedi e proprio in questa semplicità ritrovo il senso della loro presenza e appartenenza. Sono i miei, sono il mio corpo, altri come questi non ci sono, camminano con me e invecchiano con me. In questa loro perenne presenza sono confortanti e in questa loro accompagnare la mia età sono tranquillizzanti.

Un passo dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro … chissà dove si arriverà.

In psicanalisi, i piedi possono essere interpretati come simboli di diversi aspetti della psiche. Possono rappresentare l’ancoraggio alla realtà, l’attaccamento alla terra, l’orientamento nella vita, e il rapporto con la sessualità e la sessualizzazione.

Alcuni psicoanalisti hanno inoltre collegato i piedi a simboli di potere e controllo, così come al desiderio e alla gratificazione. James Hillman, nel suo approccio psicologico, considera i piedi come un ponte tra il corpo e lo spirito, simbolicamente collegati alla nostra capacità di muoverci nel mondo e di prendere decisioni.

I piedi, per Hillman, sono strumenti per l’esperienza del camminare, una pratica che lo psicologo vede come un modo per entrare in contatto con il mondo e con sé stessi. Il cammino e la sua associata azione di camminare, usano come tramite i piedi e come fine l’entrare in contatto con il mondo.

Un contatto che può causare grande sofferenza in questo periodo, in cui la terra e i suoi abitanti soffrono per delle guerre inutili e devastanti, le grandi democrazie non si sa se siano davvero grandi e, soprattutto, se siano ancora democrazie. Un mondo che rende triste il cammino. Per questo i piedi dovrebbero fare male, il loro contatto con il mondo li dovrebbe rendere molto dolenti, in accordo con il rifiuto della violenza in tutte le sue manifestazioni.

Anche i miei piedi non sono ben messi, certe volte mi pungono come se contenessero aghi. Così come quelli di molti miei simili, che camminano su questa terra bellissima e adesso dolorante. Ma questo non deve interrompere il cammino, né farci credere che sia inutile camminare, anzi attraverso il cammino possiamo vedere con maggiore lucidità il mondo. Percorrendo strade e sentieri sia fisici che spirituali, possiamo trovare pensieri buoni che addomesticano la preoccupazione per il futuro e possiamo riscoprire la semplicità di un gesto quotidiano che migliora la vita.

Tutto ciò grazie ai nostri piedi che sono garanzia di movimento, veicolo di cammino e soggetto di rappresentazione simbolica.

Intanto li guardo, questi miei piedi magri e lunghi, e penso di dover rammendare le calze, perché hanno un buco da cui esce l’alluce. Non che mi dispiaccia così il mio alluce, lo vedo in una inquadratura originale, ma questo non si confà al buongusto imperante e un po’ di senso di comunità deve albergare in ogni comportamento e parola.

Belli i piedi per quello che ci permettono di fare e pensare dirigendo il cammino verso un modo nuovo.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods:
se invece di Trump tornassimo a Keynes?

Dal protezionismo a una nuova Bretton Woods: se invece di Trump tornassimo a Keynes?

 

Facciamo l’ipotesi teorica che i dazi di Trump non siano uno strumento negoziale per portare vantaggi agli Stati Uniti ma una vera politica per riportare la manifattura in patria, ridurre il deficit commerciale e quello pubblico. E’ un’ipotesi teorica perché qualche giorno fa Trump ha fatto un accordo temporaneo (3 mesi) con la Cina per ridurre i dazi dal 145% al 30% (10% i dazi della Cina) e con il Regno Unito che potrà esportare in Usa 100mila auto con dazi solo del 10% (anziché 25%), zero dazi per acciaio e alluminio (mentre per il resto 10%), in cambio di acquisti di aerei americani Boeing per 10 miliardi, di carne di manzo made in Usa, etanolo, chimica e macchinari. Seguirà probabilmente un accordo temporaneo analogo con l’Europa.

E’ in corso una lotta tra chi (Bannon, Maga) vuole tornare ad un’America più protezionista che ricostruisce le comunità locali distrutte da globalizzazione, povertà e droghe (e con meno immigrati possibile, come vuole anche il Regno Unito) e le multinazionali high tech (Elon Musk in testa) che non vogliono chiusure, zero dazi e più immigrati professional (sono già il 40% di tutto il personale nelle big tech). Se dovesse prevalere (com’è probabile) l’ala Maga resteranno i dazi (seppure ridotti). Il nuovo protezionismo “light” Usa costringerebbe i paesi con surplus commerciale a dirottare parte del loro eccesso di produzione altrove. Dove, non è chiaro, in quanto non c’è nessun paese disposto ad assorbire tante merci quanto lo sono stati per decenni i consumatori americani o gli operai americani, che hanno visto lentamente chiudere le proprie fabbriche. Non si potrà non riconoscere che il sistema “aperto” ha prodotto una distruzione non solo della classe operaia americana della manifattura, ma anche nel resto del mondo avanzato e in Europa (specie al Sud).

Ma come è possibile allora che l’occupazione americana vada così bene? Gli occupati americani aumentano ogni trimestre ad un ritmo di 150-200mila occupati, ma non si dice che ciò avviene per la forte immigrazione. Negli Stati Uniti l’occupazione dal 2014 al 2023 è cresciuta di 15 milioni di unità, ma in un Paese che aumentava la popolazione di 18 milioni; mentre sparivano gli alti salari della manifattura si diffondevano i posti con bassi salari nei servizi vari. Un fenomeno simile è avvenuto anche in Europa, dove gli occupati sono cresciuti di 16 milioni e la popolazione di soli 6 milioni, con effetti di grande beneficio soprattutto nei paesi dell’Est Europa dove è stata delocalizzata parte della manifattura europea e tedesca.

 

 

A ben vedere le cose sono andate meglio in Europa che negli Stati Uniti, l’esatto contrario della narrazione mainstream sulle “magnifiche sorti e progressive” del neo liberismo globalizzato americano. Idem per l’Italia dove è cresciuto il lavoro (+9,2% dal 2021 ad oggi) ma è calato il monte salari delle buste paga del 6,1% (post inflazione). Ciò è dovuto al fatto che chi va in pensione guadagnava di più dei neo assunti, ma anche al fatto che con un parziale recupero dell’inflazione c’è stato uno slittamento verso le aliquote fiscali più alte (fiscal drag); ciò spiega perché l’Irpef è salita dai 198 miliardi del 2021 ai 235 del 2024 (fonte Ministero delle Finanze). Nonostante gli sgravi del Governo ai ceti bassi, le loro busta paga nette sono minori di 4 anni fa e così dicasi per i milioni che sono saliti sopra i 28mila euro lordi o i 50mila. Chi invece paga sui redditi di capitale, la cedolare secca sugli affitti, le rivalutazioni delle società non quotate, etc. cioè i benestanti, paga aliquote simili a quelle dei poveri. Se poi si nota che le spese in ricerca si stanno riducendo dal 2020 (già erano basse) e che cresce la distribuzione agli azionisti, si capisce bene perché l’Italia declina pur “aumentando” il suo lavoro, che è sempre più povero.

Ciò spiega perché già dal 2016 negli Stati Uniti tutti i politici hanno cominciato a mettere in dubbio l’efficacia del libero scambio e lo stesso TPP, il trattato di libero scambio Trans Pacific. L’idea era che non c’era bisogno di “maggiore globalizzazione” ma di fare in modo che quella esistente fosse vantaggiosa anche per gli americani. Trump ritirò l’adesione al TPP, Biden in molti aspetti proseguì. Oggi l’America assorbe gran parte del risparmio e del surplus commerciale degli altri paesi mentre si riduce anno dopo anno la sua produzione manifatturiera (oggi al 15% sul totale mondiale, quando era quasi la metà nell’immediato dopoguerra). Se questo processo fosse continuato avrebbe portato al crollo dell’economia americana. Molti provvedimenti (anche di Biden) sono stati all’insegna del rientro in patria della manifattura e del sostegno alle aziende made in Usa. Trump ha spinto in modo ancor più radicale, anche se non sarà solo coi dazi che lo si potrà risolvere. Per multinazionali e banche le cose andavano bene così. I fondi finanziari hanno fatto una montagna di soldi assorbendo l’eccesso di risparmio degli europei e del resto del mondo e trasformandolo in asset finanziari ed è per questo che hanno assunto una influenza crescente sui politici e, in alcuni casi, li hanno anche corrotti.

Non è un caso che tutte le banche nel mondo stanno felicemente prosperando sopra le macerie di tante manifatture ed operai. La narrazione era che “mobilità dei capitali e deregolamentazione” avrebbero arricchito tutti e rafforzato il dollaro. In realtà mentre i ricchi americani traevano enormi vantaggi a spese dei lavoratori e pensionati americani, anche gli industriali e finanzieri cinesi e tedeschi non erano da meno, in quanto la globalizzazione ha indotto tutte le imprese a rilocalizzarsi con la scusa della competitività: creando nuove filiere in paesi poveri  con salari più bassi, norme sulla sicurezza più blande, maggiore inquinamento da trasporti (specie da quando è stato inventato il container) e tasse più basse ovunque (si stimano 150 miliardi di euro in meno ogni anno nella sola Europa).

La narrazione era che così i poveri cinesi (et similia) si sarebbero arricchiti…la globalizzazione si faceva per i gli “ultimi”, i diseredati, quasi fosse un messaggio evangelico (sic!). L’effetto reale è sotto gli occhi di tutti (per chi vuole vedere): impoverimento per il 50-60-70% di chi vive nei paesi avanzati, riduzione delle imposte e del welfare, meno spese per sanità e istruzione, salari più bassi o, là dove crescono, meno di un tempo rispetto al valore aggiunto che generano, più debiti degli Stati, abbandono degli investimenti nelle infrastrutture e nelle energie rinnovabili proprio nel momento dell’aggravarsi della crisi climatica. Siamo giunti al paradosso che la finanza fino al 2008 ha pensato di guadagnare convincendo le famiglie americane ad indebitarsi per acquistare a rate una casa, con mutui insostenibili.

Del resto cos’è la disuguaglianza, se non uno spremere la maggioranza delle famiglie per trasferire reddito e patrimoni a quel 10% sempre più ricco al mondo? Il fatto è che questo modello non è sostenibile perché porta ad una riduzione della domanda interna, dei consumi, a maggiore indebitamento e ad un surplus dell’export…finchè c’è qualcuno (USA) disposto al deficit commerciale. Ma ora pare che il n.1 al mondo non sia più disponibile ad assorbire tutto questo.

Il permanere di questa guerra dei dazi ha di sicuro effetti negativi su tutti e prima di tutto sugli Stati Uniti, creando un clima di incertezza e anarchia com’è stato solo 200-300 anni fa. Per la stabilità finanziaria e dei portafogli di chi possiede azioni, la speranza è tornare al passato globalista. Ma esso non farà che impoverire ulteriormente le classi operaie. Prendiamo la Germania. Potrebbe passare da un avanzo di bilancio ad un disavanzo, abbassare le tasse sui lavoratori più poveri, aumentando così il loro reddito. Investendo poi su ponti, strade, treni e infrastrutture, energia verde, alleggerendo i mutui su chi compra la prima casa, crescerebbe la domanda interna, il tenore di vita, l’occupazione. L’Europa potrebbe seguire. Se poi si introducesse una normativa che finalmente elimina almeno i paradisi fiscali al suo interno, con una BEI che finanzia i grandi progetti infrastrutturali europei, forme di sussidio alla disoccupazione comuni, una crescente convergenza dei sistemi di pensione europei, tutta l’Europa si solleverebbe in un nuovo rinascimento. La Bei potrebbe emettere debito come fa il Tesoro Usa coi suoi tresaury, con finanziamenti internazionali se non trova quelli interni (che pure ci sono se pensiamo che gli europei risparmiano 30mila miliardi all’anno). Si potrebbe poi introdurre anche un’imposta sui grandi patrimoni dei più ricchi in tutta Europa. Se Cina e altri paesi seguissero, ci sarebbe uno straordinario aumento del tenore di vita all’interno di tutti i paesi e l’indebitamento scenderebbe. L’aumento dei consumi darebbe vita ad una nuova fase di rilancio degli investimenti. Il sistema basato di più sulla domanda interna con dazi limitati, potrebbe poi evolvere verso un sistema più aperto dove i dazi rimarrebbero per quei paesi che sfruttano i loro lavoratori e su cui potrebbe avviarsi un vero confronto, nel nome della Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII e dell’iniziativa del nuovo Papa Prevost (Leone XIV) che auspica la difesa del lavoro in tutto il mondo.

Manifattura significa non solo alti salari ma interrelazioni spesso vitali con altre industrie. Se l’Ilva di Taranto chiude ci sarà un effetto a catena sugli impianti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e sulle industrie italiane che si riforniscono di acciaio, com’è stato per la chiusura del cracking Eni di Marghera per la chimica. Per questo è importante ridare peso allo Stato, alla politica industriale e alla manifattura.

Sembra difficile ma fu fatto a Bretton Woods. Lì si formarono nuove regole che originarono un grande sviluppo nei primi 30 anni post bellici, all’insegna della domanda interna. Poi quelle regole erano imperfette, ma le ragioni di Keynes si potrebbero riprendere e quello che allora apparve uno sconfitto, sarebbe ora il vero vincitore: la sua idea del bancor (una moneta di riserva mondiale fatta da molte monete e da materie prime), di uno sviluppo globale basato sull’eguaglianza, sulla cooperazione e la pace e lo sviluppo della domanda interna. I popoli sarebbero d’accordo: molto meno i super ricchi e la finanza.

 

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Per certi Versi / L’armatura

L’armatura

Involucro mortale
l’armatura spaccata
tra le mani di un fabbro
nella realtà di sanare

l’urlo dell’anima
non si può stagnare
l’assoluzione del sangue
è il segno che vale

In copertina: immagine Flickr 

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Lo stesso giorno /
17 maggio del 1990: l’omosessualità viene rimossa dall’OMS dall’elenco delle malattie mentali

Il 17 maggio del 1990 l’OMS ha depennato definitivamente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali,

Finocchio, frocio, busone, ricchione, culattone… Cosi, nel gergo comune e in infinite barzellette, venivano chiamati e dileggiatigli omosessuali- Che erano comunque malati, da espellere (vedi l’esempio del giovane Pasolini) o internare (in manicomio) o da sopprimere (nei lager nazisti in compagnia degli ebrei). Questo prima del 1990 quando l’OMS (ma quanto ci ha messo?) decidesse finalmente di rimuovere l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.

Dall’ora ufficialmente, per la scienza e per tutte le enciclopedie del mondo, l’omosessualità è un orientamento sessuale che comporta l’attrazione emozionale, romantica e/o sessuale verso individui dello stesso sesso. Nella definizione di orientamento sessuale, l’omosessualità viene collocata nel continuum etero-omosessuale della sessualità umana.
Naturalmente la decisione dell’OMS, registra finalmente un grande mutamento nella cultura e nel sentire comune, ma non elimina totalmente ignoranza e pregiudizio. Ignoranza e pregiudizio oggi ancora molto diffusi. Per tanti, non solo per il neo onorevole Vannacci o per i cattolici integralisti, gli omosessuali sono ancora malati da curare (più o meno amorevolmente) e riportare sulla retta via.

Ma conta tornare alla storica decisione della Organizzazione Mondiale della Sanità. Tenete a mente la data:  17 maggio 1990. E ora fate un salto indietro di quarant’anni.

Intorno alla metà del Novecento, il biologo e sessuologo statunitense Alfred Kinsey intuì che il comportamento sessuale di uomini e donne non poteva essere ridotto soltanto alle categorie di eterosessuale e omosessuale. Il biologo avviò così un’inchiesta confluita nei saggi Sexual Behaviour in the Human Male e Sexual Behaviour in the Human Female, pubblicati rispettivamente nel 1948 e nel 1953. Gli studi condotti da Alfred Kinsey segnarono il primo rivoluzionario passo verso la legittimazione del concetto di sessualità fluida, oggi centrale nella lotta per i diritti della comunità LGTBQ+. Prima di allora, nessuno studioso aveva mai sostenuto e dimostrato scientificamente che il comportamento sessuale fosse un concetto mutevole, e che le inclinazioni di ciascuno potessero essere soggette a mutamenti nel corso della vita. Negli anni Quaranta e Cinquanta  del Novecento, inoltre, dominavano ancora convinzioni obsolete su diverse pratiche – come l’autoerotismo, i rapporti omosessuali e bisessuali, il sesso prematrimoniale ed extraconiugale – considerate promiscue e ai limiti della perversione. Mosso dall’esigenza di abbattere certi tabù, Kinsey avviò un progetto cui dedicò gran parte della propria vita, e che gettò le basi della scienza del comportamento sessuale degli esseri umani.

Quella di Hirschfeld rimase comunque l’unica stima scientifica disponibile fino al 1947, quando uscì il primo dei due volumi del celebre Rapporto Kinsey, dedicato al comportamento sessuale maschile.

Le statistiche fornite da questo Rapporto ebbero un effetto dirompente, suscitando molte polemiche. Alfred Kinsey era un biologo e non uno psichiatra, ed ebbe l’idea di applicare anche alla specie umana il metodo usato nelle ricerche scientifiche, catalogando i soggetti in base non a ciò che dichiaravano di essere, ma in base a quello che dichiaravano di avere fatto. Grazie a tale studio scoprì che quasi la metà dei soggetti studiati aveva avuto contatti sessuali protratti fino all’orgasmo con una persona dello stesso sesso almeno una volta nella vita.

Inoltre, il 5% (una su venti) fra le persone studiate aveva avuto esclusivamente rapporti omosessuali nel corso della sua vita dopo l’adolescenza, e un ulteriore 5%, pur avendo avuto rapporti con entrambi i sessi, ne aveva avuti in prevalenza col proprio sesso.

Questi dati furono contestati con estrema violenza soprattutto da coloro che, giudicando l’omosessualità un comportamento estraneo alla natura umana, ritenevano poco credibile che quasi la metà degli esseri umani l’avesse sperimentata almeno una volta nella vita. Per screditare l’attendibilità dei suoi studi, Kinsey fu attaccato a livello personale come pornografo, omosessuale e pedofilo

Kinsey cercò di ribattere alle critiche con un ulteriore volume della sua ricerca, che avrebbe dovuto essere il terzo, dedicato esclusivamente al comportamento omosessuale; ma la Fondazione Rockefeller, che lo aveva sin lì finanziato, poco soddisfatta delle polemiche innescate dalla ricerca e soggetta a forti pressioni da più parti, gli negò ulteriori fondi. La ricerca di Kinsey subì pertanto un drastico ridimensionamento e da allora le ricerche sulla percentuale di omosessuali sono compiute con estrema cautela, su campioni limitati, spesso traendo conclusioni in base al modo in cui gli intervistati si definiscono anziché in base al loro comportamento effettivo.

Per questo motivo la stima dell'”uno su venti” (cioè del 5%) continua ad essere considerata come la più attendibile da un punto di vista scientifico, al punto da essere adottata ufficialmente dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per valutare l’incidenza dell’omosessualità esclusiva all’interno della popolazione umana.

Secondo Kinsey, la dimensione sessuale era troppo dinamica e complessa per essere ingabbiata in rigidi dualismi e in categorizzazioni semplicistiche: l’identità sessuale di ciascun individuo costituiva, a suo dire, un continuum di sfumature spesso ignorate, represse o taciute. Nel corso della sua carriera, il sessuologo si batté non solo per i diritti di omosessuali e bisessuali, ma anche per la legittimazione della masturbazione, del sesso extraconiugale e di altre tipologie  considerate deplorevoli e addirittura pericolose. Secoli di pregiudizi, dogmi religiosi e scarsa informazione, sommati alla scarsa conoscenza del proprio corpo – sia da parte degli uomini che delle donne – avevano contribuito infatti ad alimentare paure e pregiudizi infondati, molto difficili da scardinare.

Alfred Kinsey

Deciso ad abbattere tabù e pregiudizi, e partendo dalle proprie conoscenze di biologo e zoologo, Kinsey avviò un’indagine scientifica che consisteva in una serie di interviste a campione a vari strati della popolazione statunitense. Durante le interviste, il sessuologo si dimostrava in primo luogo attento a mettere a proprio agio l’intervistato; in questo modo, sosteneva, era più facile che le testimonianze fossero prive di reticenze o autocensure, che avrebbero inficiato l’attendibilità delle statistiche. Emersero presto risultati interessanti: il 62% delle donne e il 92% degli uomini dichiararono di aver praticato la masturbazione almeno una volta nella vita; il 50% degli uomini sposati affermarono di aver avuto esperienze sessuali extraconiugali; il 26% delle donne ammisero invece di aver avuto almeno un’esperienza sessuale extraconiugale prima dei quarant’anni. In questo progetto di ricerca Kinsey fu affiancato da un gruppo di suoi allievi, tra i quali si distinguono i nomi di Wardell Pomeroy e Clyde Martin: i due, diretti eredi del lavoro di Alfred Kinsey, contribuirono a interessanti scoperte nell’ambito della sessuologia e dei comportamenti sessuali ritenuti erroneamente fuori dalla norma.

Per diversi anni Kinsey effettuò interviste e raccolse testimonianze confluite nei Kinsey Reports; se dapprima si concentrò sull’osservazione del comportamento maschile, qualche tempo dopo dedicò i suoi studi alla sessualità femminile. Ma oltre ai due saggi, che ebbero un’imprevedibile risonanza diventando in breve tempo dei bestseller, l’inchiesta di Kinsey e dei suoi collaboratori generò la cosiddetta Scala Kinsey. Questo strumento comparve per la prima volta in Sexual Behaviour in the Human Male e si articola in una scala da 0 a 6, ognuna corrispondente al grado di eterosessualità o di omosessualità dell’individuo sottoposto al test. Se il grado 0 corrisponde a un’esclusiva eterosessualità, il grado 1 indica leggere tendenze omosessuali, il grado 2 un’eterosessualità con forti tendenze omosessuali, e il 3 la completa bisessualità. Procedendo si arriva ai gradi 4, 5 e 6, che indicano rispettivamente omosessualità con forte componente eterosessuale, omosessualità con leggera componente eterosessuale e, da ultimo, la piena ed esclusiva omosessualità. Nella Scala Kinsey compare anche il grado X, attribuito a chi non prova attrazione sessuale né per individui del sesso opposto né per quelli dello stesso sesso.

Nel 1947, Alfred Kinsey fondò presso l’Indiana University di Bloomington l’Institute for Sex Research – meglio conosciuto come Kinsey Institute – che da oltre settant’anni promuove la ricerca interdisciplinare nel campo della sessualità nell’uomo e nella donna, occupandosi anche della conservazione del materiale storico e della sensibilizzazione sui temi della libertà e della fluidità sessuale. Con la sua inchiesta su base scientifica, Kinsey ha segnato una prima, fondamentale tappa in un processo di conoscenza del comportamento sessuale che prosegue ancora oggi. Nonostante la notevole risonanza del progetto – che fu finanziato dalla Rockefeller Foundation – Kinsey fu oggetto di aspre contestazioni da parte di gruppi conservatori. Il sessuologo fu accusato di istigazione all’adulterio e al libertinaggio; furono anche criticati i suoi metodi di ricerca scientifica, che prevedevano l’osservazione diretta – da parte di Kinsey o di un suo collaboratore – del comportamento sessuale dei soggetti presi in esame. Inoltre, il saggio Sexual Behaviour in the Human Male raggiunse il quarto posto nella Ten Most Harmful Books of the Nineteenth and Twentieth Centuries di Human Events, importante rivista degli ambienti conservatori statunitensi.

James H. Jones – che alla figura di Kinsey ha dedicato un libro – ha sostenuto che, nel condurre la propria ricerca, il sessuologo sia stato guidato dai propri bisogni sessuali e dalle proprie esperienze controverse. Benché sposato e padre di quattro figli, Kinsey avviò infatti una serie di relazioni omosessuali, tra cui quella con il suo allievo e collaboratore Clyde Martin. Un punto importante della sua biografia coincide con il 1953, quando, dopo la pubblicazione del saggio sul comportamento sessuale femminile, un comitato della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti – presieduto dal membro del Congresso per lo Stato del Tennessee Brazilla Carroll Reece – cominciò a indagare sul sessuologo e sulla Fondazione Rockefeller per presunti legami con il Partito Comunista. In seguito a queste accuse – avvenute nel pieno della Guerra Fredda e del Maccartismo – il presidente della Fondazione Rockefeller Dean Rusk decise di revocare i finanziamenti destinati al progetto di Kinsey nel 1954. La decisione gettò il sessuologo in uno stato di grave prostrazione, che non gli impedì però di portare avanti il suo progetto ancora per due anni, fino alla sua morte nel 1956.

Il Senatore Joseph McCarthy, 1950

La ricerca di Kinsey è stata uno spartiacque non solo riguardo al comportamento sessuale individuale, ma anche a proposito dell’identità di genere. A partire dalla rivoluzione del biologo e dalla fondazione del Kinsey Institute, la sessuologia ha gettato le basi per una diffusa conoscenza del corpo, della sessualità e della percezione di sé. Fu così che, nel campo della scienza e della sessuologia, iniziò ad affacciarsi il concetto di gender che, non più vincolato al sesso biologico, si articola in uno spettro non riducibile ai poli maschio/femmina – così come la “Scala Kinsey” contempla una gamma di sfumature tra i due estremi di eterosessuale e omosessuale. Il concetto di gender – in aggiunta a quello di orientamento – ha portato negli anni all’introduzione, nel linguaggio comune, di alcuni neologismi che identificano le varie sfumature dello spettro – cisgender, transgender, transessuale, genere non binario, genderqueer, genderfluid, agender. Questa lenta rivoluzione è stata osteggiata come quella di Kinsey degli anni Cinquanta – e lo è tutt’ora – da gruppi di detrattori e di conservatori. Ciononostante il processo innescato da quegli studi non si è mai arrestato, fornendo basi scientifiche alla battaglia per i diritti della comunità LGBTQ+. A dominare è oggi l’idea che identità sessuale e identità di genere costituiscano due spettri molto ampi; di conseguenza, i sistemi binari maschio/femmina e eterosessuale/omosessuale sono limitati e insufficienti per contemplare e descrivere una realtà tanto eterogenea e complessa.

Le scoperte di Kinsey rappresentarono un punto di rottura rispetto a un certo diffuso bigottismo, che si ostinava a classificare l’identità sessuale secondo categorie rigide e che apponeva lo stigma su certe pulsioni socialmente non accettate. Kinsey fu il pioniere della legittimazione della sessualità fluida e anche dopo la sua morte la ricerca nel campo della sessuologia continuò a procedere lungo il percorso da lui tracciato, osservando sempre più capillarmente il comportamento sessuale degli individui. In particolare, a raccogliere il testimone del lavoro di Kinsey – oltre ai suoi diretti collaboratori – furono William Masters e Virginia Johnson, che negli anni Sessanta si avvalsero addirittura di apparecchi che misuravano le reazioni fisiologiche degli individui di fronte a determinate stimolazioni sessuali. La risonanza ottenuta dagli studi di Kinsey sull’omosessualità e la bisessualità hanno ricoperto un ruolo fondamentale anche nel processo che ha portato alla sentenza del 2003 della Corte Suprema statunitense che ha dichiarato incostituzionali le leggi statali contro la sodomia. Il traguardo, raggiunto dopo quasi cinquant’anni di lotte, ha segnato un passo fondamentale nell’acquisizione dei diritti da parte della comunità LGBTQ+ statunitense.

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Presto di mattina /
Nelle tue mani

Presto di mattina. Nelle tue mani

Nelle tue mani

“Se lo Spirito scegliesse lei?” domanda la giornalista al cardinale Prevost due giorni prima del conclave.
Risposta: “tutto è nelle mani dello Spirito santo… nelle sue mani”.

 È Re, più in alto dei gioghi dell’Alpe
regge gli ardori meridiani;
senton le vigne le sue mani calde
calarsi sui grappoli sani:
la roccia, disfatta e più bionda,
in altissima luce affonda.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, 34).

Perde
calore in cielo l’aereo tremore,
a intervalli cadono le messi ne’ campi gialli,
esse salendo a Dio
saranno nelle sue mani come un fiore
in quelle d’una giovinetta che le ha belle.
(Mario Luzi, Tutte le poesie, 30).

 Dignitas humana

Rerum novarum / Desiderio delle cose nuove, così l’incipit dell’enciclica di papa Leone XIII (15 maggio 1891) circa la necessità e urgenza vitale – come diceva spesso – di «accrescere e migliorare le cose vecchie con le nuove». Al centro dell’attenzione era soprattutto la questione operaia, riflettendo l’Enciclica dava inizio al cammino di apertura della chiesa verso la società e il mondo del lavoro.

Ma tutto questo veniva fatto a partire dal tema della dignità umana: «A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili» (Rerum Novarum, 32).

Dignità umana che la recente dichiarazione del Dicastero vaticano della fede (25.03.2024) qualifica come “dignità infinita”, cui si deve “un rispetto incondizionato”.

Dignitas infinita

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù.

Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza». Di tale dignità ontologica e del valore unico ed eminente di ogni donna e di ogni uomo che esistono in questo mondo si è resa autorevole eco la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”» (Dignitas infinita, 1).

Papa Leone XIV

Nato il 14 settembre 1955 a Chicago, negli Stati Uniti, dell’Ordine degli Agostiniani, Robert Francis Prevost è stato missionario in Perù per molti anni. Nominato recentemente da papa Francesco prefetto della Congregazione dei vescovi è stato fatto cardinale il 30 settembre 2023.

Il cammino del “Papa delle due Americhe”, potremmo dire, si è sviluppato attraverso un duplice e parallelo percorso: il sentiero tracciato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che inizia ricordandoci che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (Articolo 1) e il sentiero della dignità infinita che sgorga dalla gioia del vangelo e dalla vita di Gesù di Nazaret.

Si legge ancora nella Dignitas infinita: «Fin dagli inizi del suo pontificato, papa ha invitato la Chiesa a “confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano” ed a “scoprire che “con ciò stesso gli conferisce una dignità infinita”, sottolineando con forza che tale immensa dignità rappresenta un dato originario da riconoscere con lealtà e da accogliere con gratitudine.

Proprio su tale riconoscimento ed accoglienza è possibile fondare una nuova coesistenza fra gli esseri umani, che declini la socialità in un orizzonte di autentica fraternità: unicamente «riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere fra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità» (Dignitatis infinita, 1).

Così come il nome di ogni papa racchiude un seme che si farà pianta, con uno sguardo di fede e uno stile pastorale rivolto a Dio e all’umanità, quello prescelto da papa Prevost mi fa pensare a una pianta il cui seme contiene due cotiledoni, foglie embrionali: dignitas humana e dignitas infinita.

Due gemme piccole, nell’ombra della terra in attesa del sole, i cui fiori e i frutti presentano la massima varietà di forme, spuntano con le radici e hanno un compito nutritivo finché la pianta non sia riuscita ad attivare la funzione di fotosintesi. Sono respiro per la pianta ancora senza foglie, come la dignità è respiro di umanità ancora senza pace.

Certo, il nome Leone rimanda al passato, fa pensare a Leone XIII e alla questione sociale e va anche più indietro nel tempo, a Leone I, detto anche Leone Magno per il suo impegno per la pace profusa nel 452 e nel 455, quando, disarmato, dissuase Attila e poi i Vandali d’Africa, guidati dal re Genserico a continuare l’invasione dell’Italia.

Non sorprende allora che le prime parole del papa siano state per la pace, quella donata a Pasqua dal Cristo risorto ai discepoli e all’umanità: soffio del suo Spirito: «Una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva Roma!».

Ma si può pensare anche a un altro Leone, che ci fa ritornare a un presente aperto ad un futuro di pace, a quella fraternità universale così insistentemente evocata da papa Francesco nella Fratelli tutti.

Mi riferisco a frate Leone, fedele custode delle origini francescane; pecorella di Dio lo chiamava Francesco d’Assisi. Nel papa che ci ha lasciato e in colui che è venuto mi piace allora pensare che Francesco e Leone stiano di nuovo camminando insieme con noi nel solco dell’Evangelii gaudium e dell’opzione preferenziale per i poveri, per il riscatto della loro dignità.

Ancora insieme come quella volta – si narra nei Fioretti – quando Francesco spiegava a frate Leone in cosa consistesse la “perfetta letizia”. Sta questa tutta nella sequela e nell’imitazione del Cristo, nel suo abbandono al Padre, servendo umanità.

Così scrive sant’Agostino: «Perciò, fratelli, se il nostro amore è sincero, imitiamo anche noi. Non potremmo infatti rendere miglior frutto di amore di quello che è l’imitazione dell’esempio: Cristo in realtà “patì per noi lasciandoci un esempio perché ne seguiamo le orme”» (Discorso 304, 2.2).

Francesco d’Assisi, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone».

Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere il suo volto per te
e ti faccia grazia.
Il Signore elevi il suo volto su di te
e ponga su di te la pace
(Nm 6,22-27).

Benedica te Leone XIV.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza: 5 Sì per il futuro delle giovani generazioni

Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza:
5 Sì per il futuro delle giovani generazioni.

Nonostante l’appoggio di molte personalità del mondo della cultura (per esempio: Luciana Castellina, Alessandro Barbero) continua imperterrito il silenzio mediatico sugli importantissimi referendum che chiamano gli italiani alle urne l’8 e il 9 Giugno 2025. Un silenzio che si adatta benissimo ai tempi: una becera destra nazionalista al governo, il neoliberismo come ideologia trasversale del momento, l’espropriazione pervasiva delle libertà costituzionali e dei beni comuni, l’erosione dei diritti sociali e un’opinione pubblica sempre più chiusa, dubbiosa e allo stesso tempo diffidente e indifferente che non trova più gli strumenti per esprimersi.

Ecco perchè è fondamentale oggi parlare dell’importanza di questi 5 referendum proposti dalla Cgil:

  • si parla dell’abrogazione delle vergognose norme neoliberiste sul lavoro introdotte con la riforma del Jobs Act del governo Renzi che vennero definite a “tutele crescenti”, realizzando de facto un’ulteriore precarizzazione del lavoro e una riduzione delle tutele;
  • si parla delle condizioni di lavoro, dei diritti, delle tutele sul lavoro per garantire alle generazioni futuro il futuro come promessa e non come precarietà;
  • si parla di un diritto alla cittadinanza più democratico e inclusivo.

Votare SI’ ai 5 quesiti è un imperativo categorico perché ogni anno muoiono 1000 persone sul lavoro.

I 5 quesiti:

Stop ai licenziamenti illegittimi:

Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre 3 milioni e 500mila ad oggi e aumenteranno nei prossimi anni le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.

Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese:

Nelle imprese con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata  l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione rispetto alla/al titolare. Abroghiamo questo limite, aumentiamo l’indennizzo sulla base della capacità economica dell’azienda, dei carichi familiari e dell’età della lavoratrice e del lavoratore.

Riduzione del lavoro precario:

In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.

Più sicurezza sul lavoro:

Arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi 1000 i morti. Modifichiamo le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro.

Più integrazione con la cittadinanza italiana:

Riduciamo da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter fare domanda di cittadinanza italiana, che una volta ottenuta sarebbe trasmessa ai figli e alle figlie minorenni. Questa modifica costituisce una conquista decisiva per circa 2 milioni e 500mila cittadine e cittadini di origine straniera che nel nostro Paese nascono, crescono, abitano, studiano e lavorano. Allineiamo l’Italia ai maggiori Paesi Europei, che hanno già compreso come promuovere diritti, tutele e opportunità, garantisca ricchezza e crescita per l’intero Paese.

Rendiamolo più sicuro!

Cancelliamo le leggi che hanno reso le lavoratrici e i lavoratori più poveri e precari.

Rimuoviamo l’ingiustizia che nega il diritto alla cittadinanza a 2 milioni e 500mila persone che vivono e lavorano in Italia.

 

Per ulteriori informazioni:

https://files.cgil.it/version/c:ZTA3ODRmMmMtOWI0YS00:MGVlYjg0ZjQtNTNjZS00/CGIL-informazioni-generali-referendum-Ok.pdf

https://www.cgil.lombardia.it/wp-content/uploads/2025/01/Scheda-Cgil-di-approfondimento-quesiti-referendari.pdf

https://www.cgil.it/referendum

https://files.cgil.it/version/c:ODM5MTQxNmItYjBjMS00:YzM1NWJkYjktNzhmZS00/volantinoA4-RaccoltaFirme-ReferendumPopolari2025%28web%29.pdf

https://www.lavorodirittieuropa.it/images/CESTER.pdf

https://www.fisac-cgil.it/141351/i-quattro-quesiti-referendari-promossi-dalla-cgil?pdf=141351

People Have the Power

People Have the Power

Sono pensierosa e scontenta. Il mondo non è bello. Neanche l’Italia. Neanche Ferrara. Questa sera, vado alle prove di canto senza ispirazione, per un educato senso del dovere. Cominciamo con una bella ninna nanna, tenera, dolce, che invita ad un sonno sereno. Mi rivolgo alla mia amica di sezione e le bisbiglio: “non sono queste le cose che, oggi, vorrei cantare”.

Non so come la cosa sia partita ma, la maestra, adesso, sta parlando delle tesine delle sue allieve e viene menzionata una canzone che, per errore, (il caso non è mai per caso, dice Jung) scambio per People have the power. …“Di chi?”…

Le mie amiche più giovani ma esperte di musica, mi aiutano a dare ordine alle idee e a ricordare. Mi suggeriscono. Mi ritrovo. “Ah certo di Patti Smith”, “Bellaaa!”. Sì è questo che vorrei cantare. È questo che mi servirebbe adesso. Non un materno, rassicurante, lenitivo cullare che fa passare tutto, ma la convinzione che le persone hanno Il potere di bloccare i folli della terra”.

(…) Stavo sognando nel mio sogno

mentre mi arrendo al mio sonno
Ti affido il mio sogno

Le persone hanno il potere

Il potere di sognare, di governare (…)

È stato il 1° giugno del 1988 quando Patti Smith ha pubblicato People Have The Power, una delle sue canzoni più famose e una delle canzoni di protesta più note di tutti i tempi. Dalla fine degli anni ’80 in poi non c’è, probabilmente, qualcuno che sia sceso in piazza per protesta che non abbia urlato almeno una volta il ritornello di People Have The Power.

Un inno così semplice eppure così potente.

Un brano che non ha solo la rabbia e la pretesa ma un ottimismo che non chiede il permesso e una presa di coscienza che rimbomba forte.


(…)
Ascolta, io credo che tutto quello che sognamo
può arrivare e farci arrivare alla nostra unione
noi possiamo rivoltare il mondo
noi possiamo dare il via alla rivoluzione sulla terra (…)

Mi permetto di scomodare Jung (ancora?) e gli archetipi (insisti?) giovane per aver fatto il 68, sento però che nella mia mente e nel mio background culturale, esplicito ma in parte anche inconsapevole, si sono depositati modelli, principi fondamentali collettivi che mi precedono. Anche se relativamente recente, quello che riemerge e da cui derivano altre rappresentazioni è lo spirito sessantottino trasportato fino ad oggi, così come la rinascita di quel tipo di energia che si riaffaccia anche quando pensi si sia esaurito.

La canzone è nata come protesta per la guerra in Vietnam, ma come non pensare che ha estremo valore anche oggi per tutte le guerre in corso, per prima Gaza la martire.

I versi sono stati scritti da Patti Smith, ma è stato il suo amato marito Fred ‘Sonic’ Smith a dare l’idea per il concetto del brano e per lo spirito che pervade People.

Fred non fece in tempo ad assistere alla trasformazione di People Have The Power in un inno del popolo, morirà nel 1994. Ma il brano è diventato esattamente ciò che lui sperava che fosse: “Lui ha scritto la musica, il concetto era suo e voleva che diventasse una canzone che la gente di tutto il mondo potesse cantare per le cause più disparate. Lui non ha fatto in tempo a vederlo, ma io sì. Ho visto la gente e ho partecipato a cortei in tutto il mondo in cui le persone cominciavano a cantarla spontaneamente, che si trattasse di Parigi, di New York o della Palestina. Il fatto che il suo sogno si sia realizzato è qualcosa che mi commuove molto”, dirà Patti Smith.

E a me commuove che Patti, oggi, con i suoi lunghi capelli bianchi, continui a cantare questi versi contro la disumanità e l’indifferenza dei folli che pare abbiano preso il sopravvento, perchè la gente ha rinunciato ad ascoltare (“perché la gente ha le orecchie”). Lei, però, non rinuncia alla speranza e alla fiducia nella gente:

(…) Gli atteggiamenti vendicativi divennero sospetti
E piegandosi in basso come per sentire

gli eserciti smisero di avanzare
perché la gente ha le orecchie

I pastori e i soldati
giacciono sotto le stelle
scambiandosi ideali, abbassando le armi
da disperdere nella povere (…)

Noi abbiamo il potere
La gente ha il potere

Il potere di sognare, governare
di bloccare i folli della terra

È promulgata la legge della gente

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In copertina: Banski a Gaza

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Pepe Mujica, «la pecora nera», un comunista anomalo che ha fatto la storia

Pepe Mujica, «la pecora nera», un comunista anomalo che ha fatto la storia

E’ morto all’età di 89 anni a Montevideo dove era nato il 28 maggio del 1935, José Alberto Mujica, chiamato “El Pepe” dai suoi concittadini e presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015. Era stato un guerrigliero del Movimento di liberazione nazionale, Tupamaros (dal 1966) ed aveva spesso rischiato la vita. Catturato finì in galera (come la sua compagna Lucía) per 13 anni (dal ’72 all’85). Una galera dura, fatta di isolamento, torture psicologiche e fisiche, ma El Pepe non ha mai ceduto.

Questa galera gli aveva minato il fisico, come riconobbe lo scorso gennaio, annunciando “semplicemente sto morendo di cancro” (all’esofago) che gli aveva compromesso il fegato. Rinuncio alle cure, non userò la chemio pesante, né operazioni chirurgiche perché il mio fisico è debole, ne ha passate troppe… il guerriero ha diritto al riposo”.

Pepe ha preferito morire a casa sua, in pace, assieme alla sua compagna di una vita, con cui è stato più di cinquant’anni, Lucía Topolansky, anche lei ex militante contro la dittatura ed ex senatrice. Lucía e Pepe, un grande amore, anche se non potevano nascere più diversi.

Lui in un quartiere operaio di Montevideo, orfano di padre a sette anni, lei figlia di un ricco ingegnere e imprenditore, educata dalle suore domenicane. “Tutto è intestato a lei, un essere superiore a cui devo ogni cosa”. Sposati soltanto nel 2005, dopo una lunga convivenza non hanno fatto figli, “perché dovevamo cambiare il mondo”.

Vivevano in modo molto spartano in una piccola casa, alla periferia di Montevideo, coltivando la terra. La casa era sempre quella che aveva abitato anche quando era presidente, una umile chacra (casolare) alla periferia (povera) di Montevideo con accanto la sua auto, il “mitico” maggiolino Volkswagen, immortalato nel documentario a lui dedicato nel 2018 dal regista serbo Emir Kusturica (El Pepe, una vita suprema).

Il maggiolino era diventato il simbolo del suo stile parco e popolare, vecchia e un po’ scassata con cui si muoveva dalla casa di tre stanze al palazzo della presidenza. E quasi il 90% del suo stipendio da presidente devoluto alla lotta contro la povertà.

«Pepe è l’ultimo eroe politico in un mondo dove i politici parlano di cose che la gente non intende», sosteneva Kusturica, ma anche i due giornalisti uruguaiani Andrés Danza e Ernesto Tulboviz che hanno firmato un libro a lui dedicato (Una oveja negra al poder, Una pecora nera al potere).

Dopo la guerriglia e il carcere (erano ispirati dalla rivoluzione di Fidel Castro a Cuba), dopo la fine della dittatura, l’amnistia permetterà ai guerriglieri di cercare con le elezioni il Governo. Nel 2010 Mujica diventa così presidente dell’Uruguay e un’icona della sinistra latino-americana.

Nei cinque anni di governo Pepe (con Lucía sempre al suo fianco) vara un liberalismo progressista, una critica violenta al consumismo, la legalizzazione della marijuana venduta attraverso lo Stato, dando un bel colpo ai narcos, regolamenta l’aborto e le nozze gay. Era a favore dell’integrazione e della multiculturalità, “perché la razza pura é una merda”.

Mujica non aderirà mai al socialismo del XXI secolo di Hugo Chavez e Fidel Castro. Li ammirava, ne condivideva parte dei programmi e la lotta antimperialista, ma non l’impostazione ideologica. Andava più d’accordo con l’ecuadoriano Correa e ancor di più con l’amico brasiliano Lula – ma a Montevideo, si sedeva e trattava con imprenditori.

Se li caccio e nazionalizzo, corro il rischio che si riducano gli investimenti e i posti di lavoro per la mia gente…l’esperienza di Cuba dimostra che lo Stato non dà garanzie di saper maneggiare meglio gli affari. Dunque, bisogna essere pragmatici, affiancare il buonsenso – la migliore delle ideologie – mentre si espongono idee di progresso”. Il primo ex guerrigliero – e probabilmente l’unico – invitato alla Casa Bianca dall’allora presidente Obama, in procinto di “aprire a Cuba” e recarsi in visita all’Avana (2016).

Una vera pecora nera, ma ascoltato, della sinistra latinoamericana, che secondo Alberto Fernández, ex presidente dell’Argentina “parlava come un filosofo, ma fuori dagli schemi”. L’orizzonte della sua politica era a favore della felicità umana, dell’amore per la Natura, delle relazioni umane. Concetti che ripeteva anche in interventi politici, come nel corso del vertice della Celac (Comunità Stati latinoamericani e del Caribe) all’Avana (2014). Spiazzando un poco il linguaggio sinistrese, ma ricevendo applausi e consensi.

Danza e Tulbovitz nel loro libro descrivono un uomo contrario al dogmi e innamorato del buon senso. «Una delle principali fonti di conoscenza è il senso comune – affermava Mujica -. Il problema è quando metti l’ideologia al di sopra della realtà. La realtà ti arriva come un pugno e ti fa rotolare per terra… Io devo lottare per migliorare la vita delle persone nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Questa è la realtà. Sto lottando per degli ideali, ok; ma non posso sacrificare il benessere della gente per degli ideali”.

Sarà sepolto sotto la sequoia che ha piantato lui stesso, insieme alla sua adorata cagnolina Manuela.

Su Mujica leggi anche su Periscopio:
Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso;
Josè Mujica, Il miglior discorso del mondo;

Giuseppe Ferrara, Il vaso rosa di Josè Mujica

In copertina: immagine di spondasud.it

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Maggie: «FIORI DI CORALLO»

Maria Mancino (Maggie): «FIORI DI CORALLO»

Scrivere e leggere poesie è frequentare un mondo parallelo. Un universo che ogni tanto si connette, si tiene in contatto, entra curiosamente nella vita di ogni giorno, cerca punti d’osservazione originali, possibilmente non scontati, ripetitivi.
Capita spesso di sentirsi chiedere cosa vuol dire per me, cosa significa scrivere poesie in questo tempo. E’ necessario? E’ utile? E’ un esercizio di stile o retorico? Un paio d’anni fa, su Periscopio, scrivevo alcune riflessioni che mi piace condividere pensando alle poesie di Maria Mancino: “Io penso che la poesia debba essere uno spazio di libertà assoluta, senza confini o limitazioni espressive. Io credo che ci sia ancora molto bisogno di sperimentare nella/con la parola. Penso sia un bisogno che non dovrebbe mai scomparire. Un bisogno di pensiero differente! Una parola fatta di suoni larghi, sintetici, di spazi/silenzi, di corse al rallentatore, di istantanee da rischiare anche se dovessero uscire “sfuocate”. Una parola che si trasforma in immagini. Una sperimentazione non accademica che non si arrenda ad una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, al “mordi e fuggi”, alla “superficialità” e fatica a lasciare tracce significative, solchi. Una poesia che si presenta sempre più spesso sotto forma (e sostanza!) di chiacchiera dove “le parole non misurano niente, fanno giri inutili, mancano deliberatamente ogni bersaglio” (Emilio Tadini). Iosif Brodskij scriveva che “la poesia è anche l’arte più democratica – comincia sempre da zero. In un certo senso, il poeta è davvero come un uccello che canta senza guardare al ramo su cui si posa, qualunque sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad ascoltarlo, anche se sono soltanto le foglie”.
Fiori di corallo” è un libro antologico uscito un paio di mesi fa per le Selvatiche Edizioni. E’ una silloge suddivisa in quattro sezioni dove sono selezionate alcune poesie da tre delle precedenti raccolte dell’autrice (“Bianco Spino“, Babbomorto Editore, 2018; “Mani d’argilla“, Babbomorto Editore, 2019; “Bacio di carta“, Babbomorto Editore, 2022) e la quarta sezione “Fiori di corallo” con poesie inedite.

In particolare, con continuità, la poesia sbuca con insistenza, si riveste di versi, si fa contigua, si fa sorella di vita nella sezione “Bacio di carta“, facendo “rivoluzioni di silenzio“.

Il mio alibi

Mi allontano da pelli abrasive
senza pori e respiro

trasporto il mio pensare
in luoghi estranei
dove poter infrangere
leggi e vetri

faccio rivoluzioni di silenzio
nel chiasso di calcificate convinzioni
vivo all’estremità del quieto essere
e svendo certezze sottobanco

Condannatemi pure
il mio alibi è la poesia

Passi di fango

Fuggono gli alberi
dal finestrino di un treno
sotto nuvole
che declamano la sentenza

sarà acqua di pozzanghera
sarò passi di fango
Sarà ramo denudato
sarò foglia senza vita

si arrotola il corpo
in un abbraccio di versi
incarno i colori della malinconia
in questa stagione
di silenzio e di poesia

Fiori di corallo“, che da corpo al titolo del libro, invoca senza tregua un desiderio di libertà, che cancelli, dimentichi il filo spinato del tempo.

Fiori di corallo

Fiori di corallo vacillano
su lutti dimenticati
non è sepolto il dolore

gli epitaffi senza croci
hanno bisogno di ricordare
un passato che non trova pace

sul filo spinato del tempo
la gemma caparbia cuce fiori
su pelle preziosa libertà

Una voglia disperata di libertà che incrociamo anche ogni giorno guardandoci negli occhi, sfiorando le nostre pelli, coprendo gli stessi passi.

Occhi negli occhi

Spalla conto spalla
in oceani di anime
si sfiorano corpi
inciampo in ognuno

occhi negli occhi
su volti senza nome
dentro gli stessi passi
in scarpe differenti

prigionieri senza cella
con le croste sul cuore
smerciamo sembianze

Una invocazione trattenuta, piena di parole non dette che fanno male perché fai fatica a dipingere di speranza quello che provi, che vedi e non sai (è una speranza) se altri vedono/sentono. E’ una invocazione laica nelle intercapedini del cielo dove
le stelle brillano ancora
come lumi di petrolio
a indicare la strada
per tornare a casa

Crampi

Ho tutte le cose
del mondo nello stomaco
non so se assimilarle
o vomitare
ho ingoiato immagini
e parole
sperando di poterle digerire
neppure il digiuno
mi fa stare bene
ho i crampi nel cuore

(In copertina, foto di Michaela da Pixabay)

Maria Mancino è nata a Campobasso e cresciuta a Matrice, si è poi trasferita a Imola, dove attualmente vive. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive, e sostiene che la poesia abita in un luogo intimo dentro ognuno, ancor prima di essere scritta. Curatrice della collana di poesia “DIFETTOSE” con la Casa Editrice Selvatiche. Ha pubblicato le raccolte poetiche Bianco Spino, Mani d’argilla, Nascosta è in lui la mia follia, Bacio di carta, La memoria della betulla e la raccolta di racconti I plumcake del nonno. Nel 2022 ha vinto il PREMIO LUIGI ANTONIO TROFA – Ferrazzano (CB) e nel 2024 il PREMIO MARIA VIRGINIA FABONI – Tredorzio (FC)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 285° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

Pubblicato da Pressenza il 14.05.24

Membro del movimento guerrigliero dei Tupamaros negli anni Sessanta, imprigionato dalla dittatura uruguaiana tra il 1972 e il 1985, poi ministro, presidente e due volte senatore dopo la sua presidenza, leggendario leader del Movimento di Partecipazione Popolare (MPP) – settore maggioritario del Frente Amplio, ora nuovamente al governo – “Pepe” ha messo tutta la sua vita al servizio del suo popolo.

Coerente con il suo approccio critico nei confronti della spinta capitalista ad accumulare beni materiali che non contribuiscono alla felicità umana, Mujica ha condotto uno stile di vita austero fino alla fine, donando il 90% del suo stipendio a istituzioni di azione sociale a beneficio di settori impoveriti e piccoli imprenditori.

Tra i principali risultati politici durante il suo mandato presidenziale, va ricordato il Piano di edilizia sociale “Juntos”, il cui obiettivo era quello di fornire alle famiglie bisognose una casa in cui vivere. La costruzione delle case ha coinvolto non solo i professionisti, ma anche le persone stesse, insieme ai loro vicini e ai volontari.

Nel giugno 2012, con una decisione da pioniere, il governo Mujica ha proposto di legalizzare e regolamentare la vendita di marijuana. Un altro progetto importante è stata la promozione dell’Università Tecnologica dell’Uruguay, un’istituzione pubblica e autonoma che offre istruzione in sei dipartimenti del Paese, consentendo agli studenti dell’interno del Paese di accedere all’istruzione universitaria.

Mujica è anche riuscito a promulgare, dopo un’accanita resistenza conservatrice, la legge sul matrimonio egualitario nel maggio 2013. Sempre sotto il suo mandato presidenziale, nel 2012 è stato depenalizzato l’aborto con la legge n. 18.987, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza (IVE).

Strenuo oppositore della guerra, nel suo discorso alle Nazioni Unite del settembre 2013 ha affermato che il primo compito dell’umanità è “salvare la vita”.

In quel messaggio poetico e pieno di significato, ha sottolineato: “Porto il fardello dei milioni di poveri dell’America Latina, una patria comune in via di formazione. Porto con me le culture originarie schiacciate, i resti del colonialismo nelle Malvine, gli inutili blocchi di quell’alligatore sotto il sole dei Caraibi chiamato Cuba. Porto con me le conseguenze della sorveglianza elettronica che ci avvelena con la sfiducia. Porto con me un gigantesco debito sociale, con il dovere di lottare per l’Amazzonia, per una patria per tutti e perché la Colombia trovi la strada della pace. Porto con me il dovere della tolleranza. La tolleranza è necessaria per chi è diverso e non per chi è d’accordo con noi. La tolleranza è la base per vivere insieme in pace”. Mujica ha poi definito “piaghe contemporanee” l’economia sporca, il traffico di droga e la corruzione.

“Abbiamo sacrificato i vecchi dei immateriali e occupato il tempio con il dio mercato, che organizza la nostra economia, la politica, la vita e finanzia persino l’apparenza della felicità a rate. Sembra che siamo nati solo per consumare e consumare, e quando non possiamo farlo, ci sentiamo oppressi dalla frustrazione e dalla povertà”, ha aggiunto.

Ha criticato con forza il consumismo. Se l’umanità aspira a consumare come l’americano medio, ci vorrebbero tre pianeti per vivere. Gli sprechi e le speculazioni andrebbero puniti.

Né i grandi Stati, né le multinazionali e tanto meno il sistema finanziario dovrebbero governare il mondo”. Per il presidente uruguaiano, è l’alta politica intrecciata con la scienza, “che non brama il profitto”, che dovrebbe fornire le linee guida.

Al di là delle critiche, Pepe Mujica ha concluso il suo discorso con un messaggio di speranza per la capacità dell’umanità di trasformare i deserti, di creare piante che vivono nell’acqua salata, di sradicare l’indigenza dal pianeta e di accettare il fatto che la vita è un miracolo di cui bisogna prendersi cura.

Attivo promotore dell’integrazione regionale sovrana, ha fatto parte dell’asse politico latinoamericano, accanto a Cristina Kirchner, Lula da Silva e Hugo Chávez, tra gli altri.

Nell’ambito delle Giornate Latinoamericane e Caraibiche dell’Integrazione dei Popoli, che si sono svolte a Foz de Iguazú nel febbraio 2024, alle quali ha partecipato con i suoi 88 anni, il veterano attivista ha affermato che “non c’è integrazione senza popoli che la sostengano”, tracciando una chiara rotta per gli sforzi di costruzione di una casa comune in America Latina e nei Caraibi.

Nel suo intervento nell’atto finale della Conferenza, Mujica ha illustrato interessanti esempi sulla necessità e l’utilità dell’integrazione per il miglioramento della deplorevole situazione del gruppo che siamo soliti chiamare “popolo”, anche se molti dei suoi membri, forse influenzati da false promesse individualistiche, non sempre si considerano tali.

Mujica ha proposto una prima fase con possibili questioni, difficili da respingere, che potrebbero facilitare la comprensione da parte della base sociale dei vantaggi e dei requisiti di sopravvivenza che l’integrazione continentale comporta.

“L’integrazione non è fine a se stessa e non prospera se non migliora la vita dei popoli. Inoltre, per non essere uno slogan vuoto e inutile, deve configurarsi con immagini precise, acquisire colore, forma, plasticità, suscitare passione…”.

E’ difficile descrivere in modo completo della sua persona, a volte affabile e altre acida nella sua franchezza, profonda e allo stesso tempo affezionata ai detti popolari. José Alberto “Pepe” Mujica Cordano passa alla storia come un umanista integrale.

Come ha detto durante una recente visita del Presidente cileno Boric alla sua fattoria di Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo: “Siamo diversi, ma sappiamo tutti che ci sono troppe persone che non hanno una possibilità nella vita. Per questo ci definiamo di sinistra, ma in realtà non siamo né di destra né di sinistra, siamo umanisti. Pensiamo a ciò che è meglio per il futuro dell’umanità. E moriremo sognando questo.”

Javier Tolcachier
Javier Tolcachier, argentino, umanista da lungo tempo, è ricercatore dal Centro Mondiale di Studi Umanisti; analizza per Pressenza i fatti dell’America Latina. Ha scritto numerosi saggi sulla situazione mondiale, sulla storia latinoamericana, sulla Cina. javiertolcachier@disroot.org Twitter: @jtolcachier

Quest’articolo è disponibile anche in: SpagnoloFrancese
Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

Leggi anche su Periscopio:
Josè Mujica, Il miglior discorso del mondo;
Giuseppe Ferrara, Il vaso rosa di Josè Mujica

Cover: Pepe Mujica (Foto di Juliana Barbosa, MST-PR)

Vite di carta /
Tra Mogadiscio e Ostia con Saba Anglana

Vite di carta. Tra Mogadiscio e Ostia con Saba Anglana

Era da un po’ che non mi spostavo a Mogadiscio con le mie letture, dai tempi di Giuseppe Catozzella e del suo Non dirmi che hai paura, il romanzo che ha vinto il premio Strega Giovani nel 2014 con la storia di Samia Yusuf Omar, la ragazzina somala figlia del vento che si qualifica per la corsa dei 200 metri alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 e arriva orgogliosamente ultima.

Le altre atlete sembrano culturiste rispetto a lei, che è vestita più che altro di orgoglio nazionale mentre la maglietta bianca e i fuseaux neri sono quelli che usa ogni giorno per allenarsi.

Credo che ora, dopo avere letto il magnifico La signora meraviglia di Saba Anglana, avrò in mente anche lei, l’adulta che vive a Roma ma è nata a Mogadiscio, non usa il suo nome nel romanzo ma sappiamo che è Saba, riveste il ruolo di narratrice e di protagonista ed è in continuo movimento.

Siamo nel 2015 e lei si muove tra Italia ed Etiopia a raccogliere i documenti che possano conquistare, dopo quarant’anni di vita a Roma, la cittadinanza italiana per la zia materna Dighei.

L’iter burocratico a cui la narratrice e la sua famiglia devono sottostare non è meno complicato del viaggio di Samia dalla Somalia a Pechino, viene da dire. Anche se l’ironia è fuori posto, perché Samia poi muore cadendo dal barcone che la porta in Europa anni dopo, in prossimità delle Olimpiadi di Londra.

La signora meraviglia, esordio nella narrativa della cantante e attrice italiana di origine somala, è scritto con parole che incantano.

Sembrano uscire dagli organi interni dell’autrice, un po’ sangue e tanta sensibilità armonizzati insieme in una prosa che scorre segmentata in frasi brevi. Rivelano verità giunte a maturazione, pronte a essere trasformate in parole.

Raccontano le radici famigliari che affondano nel Corno d’Africa, nella storia coloniale italiana fino all’astio contro gli italiani in Somalia , che nei primi anni Settanta spinse a venire a Roma la famiglia di Nina col marito italiano Carlo e lei, Saba.

Il montaggio è alternato e di volta in volta opera uno strappo spazio-temporale tra l’oggi della vita a Roma e nel Veneto e il memoir famigliare tra Etiopia e Somalia. Dalla luce maestosa tra Roma e Ostia alla assolata Mogadiscio si snodano le memorie che la narratrice ha ricevuto dalla madre Nina e da zia Dighei, che vivono accanto a lei, e dagli altri che abitano in Veneto, zio Bab e le zie Sophia ed Esther.

Non le ha introiettate solo da loro, figli di nonna Abebech e di nonno Worku: qualcosa le è stato travasato nell’anima per via sotterranea. Lungo i solchi delle radici più profonde le sono arrivate le scosse ancestrali del Wukabi: una sorta di demone interiore, che noi chiameremmo attacco di panico, il disagio psicologico di chi non si sente accolto.

Non si è mai sentita veramente integrata nonna Abebech, etiope, rapita da un somalo e poi da lui abbandonata a Mogadiscio con una figlia. Dopo anni più sereni vissuti accanto al marito pure etiope Worku e i loro otto figli, Abebech affonda nel buio, posseduta dallo spirito pericoloso che le toglie il senso della vita e perfino l’uso delle gambe.

Saba ha ereditato da lei l’inquietudine che scava gorghi di vuoto, dentro. Nella sua stanza tiene il proprio autoritratto, una sagoma che ha tracciato col sangue e che la ammalia come una Gorgone. Si guardano nei momenti in cui torna in lei il Wukabi.

A nonna Abebeck hanno portato la salvezza alcune figure misteriose, a metà tra saggezza e magia. Una più di tutte, una maga etiope che conosce anche le superstizioni e le mitologie dei somali, e ha per nome Wezero Dinkinesh.

Per Saba l’iter burocratico che garantirà la cittadinanza italiana a zia Dighei si rivela come un videogioco: “le regole sono a volte da fantascienza, si materializzano dei marziani da neutralizzare” a ogni step, riesce a dire con ironia. Intanto deve affrontare i ricordi, recuperare i brandelli di identità sua e dei famigliari.

Dice: “Lo sono tutti speciali, gli immigrati. Perché hanno qualcosa di rotto dentro da aggiustare” e poi passando al tu di un interlocutore più intimo: “diventi un umano esperto in riparazioni”.

Saba va fino ad Addis Abeba a cercare un ultimo documento per zia Dighei, visita la città alta con la mistica chiesa di San Michele e anche la tomba dei nonni Abebech e Worku.  E proprio qui, dopo avere attraversato le storture della burocrazia raggiunge un traguardo: Saba comprende che il Wukabi va accettato come parte di sé, dice “la bestia non muore, ci devo convivere”.

Giunti qui, alla conclusione del libro, ritroviamo a nostra volta la Signora Meraviglia del titolo, con tutta la sua ironia e il suo sorriso. La strega Wizero Winkinesh e l’appellativo dato dalle zie e da Saba al documento della cittadinanza italiana hanno infatti lo stesso nome.

Nota bibliografica:

  • Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2014
  • Saba Anglana, La signora Meraviglia, Sellerio, 2024

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

l'ornamento del mondo

L’ornamento del mondo

L’ornamento del mondo

I have been here before,
But when or how I cannot tell…
[Dante Gabriel Rossetti]

L’ornamento del mondo: come musulmani, ebrei e cristiani hanno creato una cultura di tolleranza nella Spagna medievale (Back Bay Books / Little Brown & Co., New York, 2002). Avete mai letto o sentito parlare di questo libro?

Maria Rosa MencaL,introduzioneHaroldBloom, The Ornament Of The World: How Muslims, Jews, and Christians Created a Culture of Tolerance in Medieval Spain, New York 2002.

Si tratta di un bestseller scritto da una professoressa di Yale, Maria Rosa Menocal, con una preziosa prefazione di Harold Bloom. Il libro è di fatto un ritratto illuminante della Spagna medievale nel periodo in cui musulmani, ebrei e cristiani vivevano insieme in un’atmosfera di tolleranza.

Questa storia avvincente di un’età dell’oro “perduta”, riporta in vita la ricca e fiorente cultura della Spagna medievale, dove per più di sette secoli musulmani, ebrei e cristiani hanno vissuto insieme e dove la letteratura, la scienza e le arti sono fiorite… O, forse, la tolleranza è fiorita grazie alla letteratura, alla scienza e alle arti?

“Non è esagerato dire che ciò che presuntuosamente chiamiamo cultura ‘occidentale’ è dovuto in larga misura all’illuminismo andaluso… Questo libro ripristina in parte un mondo che abbiamo perso.” [Christopher Hitchens, The Nation].

Diciamo subito che questo è un libro sulla nostalgia, e la nostalgia può essere una cosa pericolosa quando diventa un trucco della nostra memoria per filtrare il passato attraverso una lente sentimentale, dimenticando tutto il male e magnificando solo il bene.

In generale quando pensiamo a un tempo precedente alla nostra vita, corriamo il rischio non solo di distorcere la verità, ma di inventarla: anche a questo si riferiscono i primi due versi di Dante G. Rossetti posti in epigrafe.

Il libro parla di Al-Andalus, della penisola iberica islamica chiamata cosi dagli stessi musulmani, – dal 711 al 1492 – e, come anticipato, della cultura della tolleranza che fiorì durante questo periodo. Menocal prende il suo titolo da un’osservazione di Hroswitha, una monaca cristiana tedesca, che durante un incontro con un ambasciatore, definì Córdoba “l’ornamento del mondo”.

A dispetto della sua professione Menocal non scrive una storia convenzionale e cronologica, ma preferisce mettere in fila una serie di immagini di quel periodo. Il suo è un approccio molto più vicino a quello di una giornalista che a quello di una storica, indugiando su scorci biografici e aneddoti delle personalità più accattivanti ed evocative di quel periodo.

In questi momenti di crisi internazionali dove sembrano ri-convergere le stesse identiche cose (e personalità) emerse nel passato, ricordare queste storie può rivelarsi di aiuto soprattutto considerando che anche il nostro tempo presto sarà datato.

Come ci ricorda Rossetti, siamo già stati qui. E allora proviamo a dire quando, dove e… come  siamo “arrivati qui” e, al contrario, ne siamo “venuti via”.

L’ornamento del mondo è stato pubblicato nel 2002 tra gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e l’invasione dell’Iraq ed è un libro di una straordinaria attualità, perché tratta di una delle cause conclamate ed evidenti delle guerre: l’indurimento delle ortodossie e l’esasperazione di posizioni radicali (imperialiste, sovraniste, nazionaliste…razziste).

All’inizio del libro viene tracciata una breve storia della Spagna musulmana, evidenziando la composizione multietnica e multireligiosa della penisola iberica nel periodo trattato e la coesistenza pacifica di monoteismi rivali che però si riconoscevano come “popolo del Libro”.

La cultura di Cordoba di quel periodo beneficiò delle traduzioni arabe della filosofia greca che si fecero strada da Baghdad ad Al-Andalus e che favorirono un’atmosfera culturale di pluralismo, tolleranza e raffinatezza.

Al-Andalus terminò con la riconquista cristiana della Spagna nel 1492 e con la conversione forzata o l’espulsione di musulmani ed ebrei. La cultura andalusa fu infine sterminata nel secolo successivo mediante l’opera dell’Inquisizione verso qualsiasi pluralità culturale e religiosa e, addirittura contro le stesse lingue araba e ebraica.

La tesi principale della Menocal è che quasi tutte le conquiste culturali che tendiamo a pensare come moderne e occidentali siano in realtà arrivate attraverso Al-Andalus. Fu dai canti d’amore dell’Arabia preislamica, modificati in canzoni popolari, che i trovatori appresero l’arte della lirica che portò alla moderna poesia europea; fu la narrazione orale popolare della Persia, di Baghdad e di Cordova che diede vita alla moderna narrativa secolare di Boccaccio e Chaucer.

Con la reconquista da parte cristiana del 1942 fu questa “sacrosanta” diversità religiosa a venire cancellata tanto che la Menocal sembra avanzare la tesi che sia la stessa religione, attraverso un suo indurimento ortodosso, a essere un ostacolo alla convivenza in una società di prim’ordine.

E infatti nel capitolo riassuntivo del libro quello dal titolo Breve storia di un luogo di prim’ordine, la Menocal ricorre allusivamente al seguente aforisma di F. S. Fitzgerald: la prova di una intelligenza di prim’ordine è la capacità di mantenere due idee opposte nella propria mente e allo stesso tempo mantenere ancora la capacità di funzionare”.

Cover: Califfato di Cordoba: Ebrei e Musulmani giocano a scacchi. – immagine da Esefarad. com

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Cortometraggi europei allo European Projects Festival, appuntamento il 14 maggio

Anche quest’anno Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” (FFCF), festival internazionale di cortometraggi, partecipa al ricchissimo programma della seconda edizione di European Projects Festival, il festival della progettazione europea, che si svolgerà a Ferrara dal 14 al 16 Maggio.

Lo fa con un’esclusiva rassegna a ingresso gratuito, mercoledì 14 maggio dalle 22h00 alle 23h00 presso la Sala Ex Refettorio – Chiostro S. Paolo, in via Boccaleone 19, con prenotazione online dei posti (qui).

Verranno presentati quattro cortometraggi europei, selezionati per le tematiche trattate, legate a tutela ambientale, diritti e cultura dei popoli nativi, immigrazione e diritti delle minoranze di genere.

Provenienti dall’ultima edizione del FFCF, questi quattro film dimostrano la grande qualità delle produzioni corte europee e la maestria degli autori presentati, capaci di rapportarsi con tematiche di estrema profondità e attualità, senza mai perdere la magnificenza visiva del cinema internazionale.

Programma delle proiezioni (tutti i film sono in lingua originale con sottotitoli in italiano):

  • ROOM TAKEN – di Tj O’Grady Peyton (Irlanda, 19 min)
  • THE FISHERMAN, THE ALIEN, THE SEA – di Elisabetta Zavoli (Italia, 9 min)
  • IVALU – di Anders Walter e Pipaluk K. Jørgensen (Danimarca, 17 min)
  • COLLAGE – di Màrius Conrotto Dïaz (Spagna, 10 min).

Qualche dettaglio per film che meritano davvero.

Room Taken: storie di marginalità

Il cortometraggio Room Taken (2023), del regista irlandese TJ O’Grady-Peyton, in soli 18 minuti porta lo spettatore a confrontarsi con alcuni dei temi sociali più attuali ed importanti: l’immigrazione, i problemi abitativi, la disabilità, l’assenza di politiche sociali, gli anziani abbandonati, l’inclusione (o, meglio, l’esclusione). In sintesi, la marginalità. Quella ribellione alla politica dello ‘scarto’ tanto caro al compianto Papa Francesco.

In tutto questo, il racconto di TJ O’Grady-Peyton, vincitore del Young Director Awards, a Cannes, nel 2013, è colmo di umanità e compassione, oltre che di tenerezza. Il cortometraggio ha ottenuto il Premio Miglior Cortometraggio al Cleveland International Film Festival e il Premio Miglior Cortometraggio al Dublin International Film Festival.

Al centro del racconto, Isaac e Victoria, entrambi ai limiti, della società e dell’umanità. Invisibili, soli, abbandonati, dimenticati.

Isaac (Gabriel Adewusi) è un uomo di colore da poco arrivato in Irlanda, un senzatetto, che non riesce ad avere un alloggio sociale, Victoria (Brid Brennan) una deliziosa signora anziana non vedente, che abita da sola in una casa vicino al bar dove, un giorno, Isaac entra per ricaricare il suo telefono.

Qui incrocia l’anziana, una habitué del luogo, da come parla alla barista. Nel riportarle la borsa dimenticata al bar, Isaac, si rende conto che quella dolce signora vive in una grande casa completamente da sola e, avendo un disperato bisogno di un posto dove stare, finge di uscire e si stabilisce in uno sgabuzzino del piano di sopra all’insaputa della proprietaria.

Nasce una convivenza forzata, dove Isaac si muove per casa educatamente e fa piccoli lavoretti, aggiustando cose qua e là. Mentre Victoria crede che gli oggetti aggiustati e gli scricchiolii che sente da qualche tempo, siano frutto delle gentilezze e dei gesti d’amore da parte del tanto amato marito defunto, una presenza sempre costante.

È un toccante e profondo incontro fra individui di mondo diversi e distanti, una convivenza fatta di tolleranza, solidarietà ed empatia. Fino alla telefonata tanto attesa da Isaac: un posto-letto nel dormitorio pubblico si è liberato. A noi, in fondo, un po’ dispiace, ci eravamo abituati a quella strana coppia…

The fisherman, the alien, the sea: il granchio blu

In The fisherman, the alien, the sea, Elisabetta Zavoli racconta, in soli 9 minuti l’esplosione inaspettata, nel giugno 2023, della popolazione di granchi blu (Callinectes sapidus), nella laguna di Goro, nel Delta del Po.

Qui, tra le grida allarmate ma inerti dell’intera comunità, un giovane pescatore di quarta generazione, Alessio Tagliati, leader di una piccola cooperativa di allevatori di vongole che ha perso tutta la sua produzione a causa della voracità dei granchi blu, affronta questa nuova sfida ambientale rilanciando una tecnica di pesca tradizionale sostenibile insegnatagli dal nonno e seguendo ciò che il mare gli ha insegnato: essere pronto ad adattarsi a un ambiente in continuo cambiamento, dimostrando un enorme spirito di resilienza di fronte al collasso del suo mondo.

Nato come uno dei progetti che la regista doveva produrre per il National Geographic Society – Storytelling Grant, per dimostrare gli impatto dell’invasione del granchio blu, l’idea di farne un film nasce dall’incontro con Alessio, sotto il segno delle parole “mare” e “speranza”, oltre che “resilienza”.

Elisabetta vorrebbe seguire quella storia, per vedere come tutta la comunità, sull’esempio di quel pescatore modello, possa reagire, con coraggio e capacità di adattamento.

Ivalu

Ivalu è scomparsa. La sua sorellina cerca disperatamente di trovarla mentre la vasta natura della Groenlandia nasconde segreti. Dov’è Ivalu?

I registi danesi, Anders Walter e Pipaluk K. Jørgensen, raccontano, in Ivalu (2023), della durata di 16 minuti, la tragedia indicibile e inimmaginabile. Un’opera candidata a miglior cortometraggio agli Oscar 2023.

Tratto dall’omonima graphic novel di Morten Durr e Lars Horneman, la trasposizione cinematografica, ci portano fra i freddi paesaggi groenlandesi che osservano le giovani sorelle Pipaluk (Mila Heilmann Kreutzmann) e Ivalu (Nivi Larsen), rincorrersi spensierate tra le rovine, raccoglierei mirtilli sulle montagne, pescare d’estate sui fiordi prima che ghiaccino. Mentre tutti si adoperano nella piccola cittadina danese, per prepararsi all’arrivo della regina, Pipaluk è sulle tracce della sorella che sembra essere scomparsa. Di lei restano solo disegni a matita nera appesi al muro della loro cameretta condivisa e il costume folkloristico indossato alla sua cresima, che ancora trattiene il suo profumo.

Un corvo la accompagna nella ricerca, quel corvo che Pipaluk pensa sia la sorella.

È anche un viaggio interiore, una confessione dolorosa, una lettera d’amore, la difficoltà immensa di elaborare un’assenza. Si svela lentamente una realtà di abusi sottaciuti e di un gesto estremo mai reso esplicito ma sempre trasfigurato. Viaggiando a ritroso nei suoi ricordi, la solitaria Pipaluk scova i segni del male contro cui la piccola Ivalu combatteva silenziosamente: uno sguardo di troppo, le lacrime in notti insonni, un’improvvisa esplosione di violenza.

Il viaggio di Pipaluk si conclude con un grido senza suono, innocente e disperato allo stesso tempo, custodito dal corvo e dalle pareti rocciose di una desertica Groenlandia. Nel silenzio più immenso di tutto e tutti.

Collage

Una ragazza che lavora in un museo cerca di convincere un collega che due visitatori stanno flirtando. E lei come può saperlo? La giovane sostiene che, secondo studi scientifici, esistono sei segnali che dimostrano l’attrazione di una persona per un’altra.

È la narrazione divertente di un interessante cortometraggio spagnolo, Collage, diretto da Màrius Conrotto, del 2024, della durata di 9 minuti.

Zebra. Ridere fa bene

ZEBRA. RIDERE FA BENE

Zebra. ChristopherDa quando da giovane giocavo a calcio e volavo sulla fascia sognavo l’Italia la vostra serie A. Ora ho 34 anni e anche se per fare il calciatore non ho più l’età, non ho smesso di puntare in alto: presto esordirò come comico. 

Mia madre avrebbe voluto che frequentassi l’università, ma la sofferenza che vedevo ogni giorno in Edo State, lo Stato della Nigeria da cui provengo, era troppa e così la mia voglia di provare a costruire la mia vita altrove.

Mia madre ha capito le mie motivazioni e mi ha lasciato libero di scegliere. Lei è stata il migliore esempio a cui potessi guardare. Ogni volta che mi metto ai fornelli e preparo alcuni dei piatti che mi ha insegnato è un po’ come averla qui al mio fianco.

Il piatto che mi riesce meglio è il jolof rice, un riso a base di pomodoro e cipolla molto gustoso. In cucina sono bravo ma non ho mai fatto il cuoco. Ho sempre lavorato nel settore edile come muratore, in Nigeria e Alto Adige. Qui ho avuto modo di imparare a fare cose che nel mio Paese non si usano, come i cappotti termici.

Da giovane, però, sognavo di diventare un calciatore. Giocavo ala, il classico numero 7 o 11 di una volta: fascia destra o sinistra per me era indifferente, perché ero in grado di giocare con entrambi i piedi. I miei idoli erano Kanu e Okocha, campioni famosi anche in Europa a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Oggi non sono più veloce come una volta, però me la cavo ancora bene, anche se il calcio ormai è solo una passione da condividere con gli amici nel weekend.

Anche se per vivere non giocherò a calcio, tuttavia, non significa che abbia smesso di sognare. Il mio obiettivo è debuttare entro la fine dell’anno come stand up comedian. Adoro far ridere le persone. Mi ispiro ad alcuni comici nigeriani come Sabinus, Funny Bros e AY, ma ovviamente punto a trovare la mia cifra personale.

Al momento sto scrivendo alcuni testi che prendono spunto dal mio vissuto e da alcune storture della società. Sono convinto che ridere sia salutare e che ironizzare e mettere alla berlina situazioni della quotidianità che sfiorano l’assurdo, inoltre, possa sensibilizzare un pubblico ampio su temi che magari ai più sembrano distanti.

Uno di questi, che vivo in prima persona, è la difficoltà che si incontra quando si cerca una casa in affitto. Io, mia moglie e nostro figlio Christian di undici mesi viviamo in un appartamento il cui contratto non è mai stato registrato dalla proprietaria di casa. Questo è un ostacolo che non ci consente di prendere la residenza.

Da tempo stiamo cercando un’altra sistemazione, ma mi sono reso conto che, se già per tutti è complicato trovare una casa, quando di cognome fai Inegbezele lo è ancora di più. E su questo aspetto particolare, purtroppo, anche facendo grandi sforzi non ci trovo niente da ridere.

Non vede l’ora di dare appuntamento a lettori e lettrici di Zebra. al suo primo show.

CHRISTOPHER INEGBEZELE

CIT.: “Non ho smesso di sognare e presto debutterò come stand up comedian.”

Per maggiori informazioni in italiano: www.oew.org/zebra   In tedesco: www.oew.org/zebra

Nelle prossime settimane Periscopio ospiterà la voce di Zebra, attraverso gli articoli dei suoi redattori e collaboratori

Corte dei conti: gravi ritardi del “piano carceri”

Corte dei conti: gravi ritardi del “piano carceri”

di
pubblicato da Collettiva il 5 maggio 2025

L’importanza della notizia è data dal fatto che anche un organo dello Stato certifichi le denunce che in questi anni hanno continuato a fare i garanti per le persone detenute e le associazioni che si occupano di carceri. Tra queste Antigone, il cui coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione Alessio Scandurra ci ricorda che “una decina di anni fa fu approvato un piano straordinario per l’edilizia penitenziaria, con un commissario straordinario e sul quale erano stati messi soldi e che, come sempre, doveva essere la risposta della politica al sovraffollamento carcerario”.

Lavori ordinari per un’emergenza straordinaria

“Negli ultimi anni – prosegue – ci sono state diverse iniziative, ma non hanno mai cavato un ragno dal buco, o hanno prodotto sempre risultati molto modesti a confronto delle aspettative. Questo sembra in realtà il frutto di una politica ordinaria di edilizia penitenziaria che lentamente sostituisce alcuni istituti più vecchi, più malandati, ne costruisce di nuovi, ma in una successione più fisiologica che non emergenziale e straordinaria”.

Oltretutto la comunicazione istituzionale spesso non è completamente trasparente. “Ad esempio, quando si inaugura un’opera si dice che è l’esito dell’ultima iniziativa straordinaria, però poi, se si va a frugare nelle carte, si scopre che sì, magari l’ultimo piano aveva stanziato soldi per finire il tal padiglione carcerario, che però stava su un progetto di 25 anni prima. Per cui, dopo una serie di piani straordinari che non sono andati in porto, viene fatto l’ultimo miglio e quel successo se lo intesta il governo in carica in quel momento. Sono cose che abbiamo visto”.

Cause e concause

La Corte dei conti individua poi alcune cause del grave ritardo del piano straordinario, come la carenza di finanziamenti per le modifiche, il cambiamento delle esigenze di una struttura e le imprese inadempienti. Aggiungiamo noi che è di solamente un mese fa la notizia secondo la quale per il nuovo piano di edilizia penitenziaria, a pochi giorni dallo scadere della gara d’appalto, mancavano ancora i decreti ministeriali per istituire le nuove sezioni da realizzare in nove carceri.

Scandurra spiega che costruire un carcere è più complicato di qualunque altro edificio pubblico, “perché ha requisiti molto specifici. Però è evidente che da parte dell’amministrazione penitenziaria ci siano difficoltà a stare su questi progetti, a monitorarne l’esecuzione e la qualità”.

L’Associazione Antigone, ci fa sapere il suo coordinatore, ha incontrato tante vicende di lavori che “quando sono andati a compimento, ci si è accorti che non avevano alcuni requisiti indispensabili per l’utilizzo della struttura. A questo punto bisogna indire un nuovo bando per le modifiche e le integrazioni per renderlo adatto allo scopo a cui era destinato. Questo accade perché evidentemente non ci sono le competenze e il personale amministrativo per monitorare la realizzazione di questi progetti”.

Non solo sovraffollamento

Per la Corte dei conti il problema non è solamente la mancata creazione dei posti detentivi necessari, ma anche la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento all’interno degli istituti.

È una situazione di complessivo degrado e la Corte ha individuato una serie di problemi che noi denunciamo da tempo, e credo che tutta la filiera dell’edilizia penitenziaria ordinaria e straordinaria presenti un bilancio fallimentare”, conclude Scandurra: “Se si entra negli istituti penitenziari, si vede che la situazione degli spazi detentivi in uso è spesso veramente inaccettabili. L’analisi sul piano straordinario è lo specchio del complesso della situazione delle carceri italiane”.

 

Per certi Versi / Salgono voli

Salgono voli

Perdono il tempo
districando il dolore
con mani di terra
tesso preghiere

il lillà sfiorisce
nel vento sincero

salgono voli
dagli inferi esplorati
dove per amare
serviva un copione

In copertina: pexels-photo

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

La difficile situazione della libertà di stampa nel mondo

La difficile situazione della libertà di stampa nel mondo

Gli attacchi fisici contro i giornalisti sono senz’altro le violazioni più visibili della libertà di stampa, ma anche la pressione economica rappresenta un problema grave e insidioso, un fattore importante quanto sottovalutato, che sta seriamente indebolendo i media.

Gran parte di ciò è dovuto alla concentrazione della proprietà, alla pressione degli inserzionisti e dei finanziatori, e a un sostegno pubblico limitato, assente o distribuito in modo poco chiaro.

Una grave situazione, resa evidente dai dati misurati dall’indicatore economico dell’RSF Index che mostrano chiaramente che i media di oggi sono divisi tra il preservare la propria indipendenza editoriale e garantire la propria sopravvivenza economica.

Dei cinque indicatori principali che determinano il World Press Freedom Index, l’indicatore che misura le condizioni finanziarie del giornalismo e la pressione economica sul settore ha fatto scendere il punteggio complessivo mondiale nel 2025.

L’indicatore economico dell’RSF World Press Freedom Index 2025 ha toccato il punto più basso della storia e la situazione globale è ora considerata “difficile”.

Secondo i dati raccolti da Reporters sans frontières-RSF per il World Press Freedom Index 2025, in 160 dei 180 paesi valutati, i media raggiungono la stabilità finanziaria “con difficoltà” o “per niente”.

Peggio ancora, le testate giornalistiche stanno chiudendo i battenti a causa delle difficoltà economiche in quasi un terzo dei Paesi del mondo.

È il caso degli Stati Uniti (57°, in calo di 2 posizioni), della Tunisia (129°, in calo di 11 posizioni) e dell’Argentina (87°, in calo di 21 posizioni).

La situazione in Palestina (163°) è disastrosa.
A Gaza, l’esercito israeliano ha distrutto redazioni, ucciso quasi 200 giornalisti e imposto un blocco totale sulla Striscia per oltre 18 mesi.
Ad Haiti (112°, in calo di 18 posizioni), la mancanza di stabilità politica ha gettato nel caos anche l’economia dei media.

Anche Paesi relativamente ben posizionati, come il Sudafrica (27°) e la Nuova Zelanda (16°), non sono immuni da tali sfide.

Trentaquattro Paesi si distinguono per le chiusure di massa delle loro testate giornalistiche, che hanno portato all’esilio di giornalisti negli ultimi anni.
Ciò è particolarmente vero in Nicaragua (172°, in calo di 9 posizioni), Bielorussia (166°), Iran (176°), Myanmar (169°), Sudan (156°), Azerbaigian (167°) e Afghanistan (175°), dove le difficoltà economiche aggravano gli effetti della pressione politica.

In particolare, negli Stati Uniti (57°, in calo di due posizioni) l’indicatore economico è sceso di oltre 14 punti in due anni e il giornalismo locale sta pagando il peso della crisi economica: oltre il 60% dei giornalisti ed esperti di media intervistati da RSF in Arizona, Florida, Nevada e Pennsylvania concorda sul fatto che sia “difficile guadagnarsi da vivere come giornalista” e il 75% ritiene che “l’emittente media lotti per la sostenibilità economica”.

Il calo di 28 posizioni del Paese nell’indicatore sociale rivela che la stampa opera in un ambiente sempre più ostile.
“Il secondo mandato del presidente Donald Trump, si legge nel Report, ha già intensificato questa tendenza, con falsi pretesti economici utilizzati per riportare la stampa in carreggiata.

Ciò ha portato all’improvvisa cessazione dei finanziamenti all’Agenzia statunitense per i media globali (USAGM), con ripercussioni su diverse redazioni, tra cui Voice of America e Radio Free Europe/Radio Liberty , e, di conseguenza, oltre 400 milioni di cittadini in tutto il mondo sono stati improvvisamente privati dell’accesso a informazioni affidabili.

Analogamente, il blocco dei finanziamenti all’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha bloccato gli aiuti internazionali degli Stati Uniti, gettando centinaia di testate giornalistiche in uno stato critico di instabilità economica e costringendone alcune a chiudere, in particolare in Ucraina (62° posto).

Tagli ai finanziamenti che rappresentano un ulteriore colpo per un’economia dei media già indebolita dal predominio che giganti della tecnologia come Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft hanno sulla diffusione delle informazioni: queste piattaforme, in gran parte non regolamentate, stanno assorbendo una quota sempre crescente di entrate pubblicitarie che normalmente sosterrebbero il giornalismo.

Perdita di introiti pubblicitari che si accompagna alla concentrazione della proprietà dei media: i dati dell’Indice mostrano che la proprietà dei media è altamente concentrata in 46 paesi e, in alcuni casi, interamente controllata dallo Stato.

L’Italia arretra nel World Press Freedom Index 2025 pubblicato da Reporters sans frontières (RSF), scendendo al 49° posto su 180 Paesi, tre posizioni più in basso rispetto al 2024 e a pesare su tale peggioramento è soprattutto l’ingerenza della politica nei media pubblici, a partire dalla cosiddetta “legge bavaglio”, che limita la pubblicazione di atti giudiziari.
Non mancano poi l’aumento delle pressioni economiche sui giornalisti, i tagli, le concentrazione della proprietà editoriale e una precarietà diffusa.
Il rapporto evidenzia anche il peso delle organizzazioni mafiose, in particolare nel Sud d’Italia, che continuano a minacciare e non di rado ad aggredire fisicamente i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata e di corruzione: oltre 20 giornalisti sono sotto scorta per aver ricevuto minacce o subito aggressioni legate a inchieste su mafia e corruzione.

In definitiva, giornali

Più di sei paesi su dieci (112 in totale) hanno visto il loro punteggio complessivo nell’Indice scendere.

E per la prima volta nella storia dell’Index, le condizioni per esercitare il giornalismo sono “difficili” o “molto serie” in oltre la metà dei paesi del mondo e soddisfacenti in meno di uno su quattro.

Qui per approfondire: https://rsf.org/en/rsf-world-press-freedom-index-2025-economic-fragility-leading-threat-press-freedom.

Questo articolo è uscito sull’agenzia pressenza il 5 maggio 2025

Cover: Free newspaper stand image, public domain information CC0 photo.

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Le voci da dentro /
Con il rugby si può cambiare

Le voci da dentro. Con il rugby si può cambiare

Thomas Arnold, da molti considerato il padre dello sport moderno, nella sua visione dello sport si poneva l’obiettivo educativo di preparare gli uomini del domani attraverso i giochi di squadra, soprattutto il rugby.

Le tre caratteristiche del suo pensiero erano: prediligere l’equilibrio, irrobustendo il corpo e frenando gli impulsi; sviluppare il senso della responsabilità personale attraverso il rispetto verso l’avversario; adottare soluzioni impreviste di fronte alle situazioni variabili in modo da prepararsi alla vita.

Per dar forza al suo pensiero, Thomas Arnold diceva che “Nel rugby si gioca con un avversario non contro un avversario”.

Mi sembra che questa sia una frase molto significativa che riassume chiaramente il senso di rispetto che esiste nel rugby.

Credo anche che quegli obiettivi prefissati da Arnold tanti anni fa si adattino perfettamente sia ai bisogni educativi della società attuale e, allo stesso modo, possano essere elementi trainanti di un progetto di reinserimento sociale, coerente con l’articolo 27 della nostra Costituzione.

Uno di questi progetti nazionali è Rugby oltre le sbarre, perché ha l’obiettivo ambizioso di contribuire alla risocializzazione delle persone detenute, attraverso l’applicazione concreta dei valori educativi caratteristici di questo sport: il sostegno al compagno, il valore della disciplina ed il rispetto delle regole, dell’avversario, dell’arbitro.

I risultati delle tante esperienze del progetto Rugby oltre le sbarre dimostrano evidenti effetti positivi sul consolidamento dei rapporti umani dentro il carcere attraverso una nuova percezione dell’altro e soprattutto, grazie al rispetto delle regole. Tutto ciò porta anche ad un abbassamento significativo della recidiva, che è fra le principali finalità di una buona rieducazione.

Proprio nell’ambito di questo progetto, sabato 3 maggio 2025, nel campo sportivo della Casa Circondariale di via Arginone, è avvenuto il debutto ufficiale della squadra Rugby27, i cui giocatori sono ragazzi detenuti nel carcere di Ferrara, che ha incontrato i Cinghiali del Setta di Bologna.

Rugby27 è un’associazione sportiva nata a Ferrara su iniziativa di un gruppo di volontari, tecnici, atleti e dirigenti nell’estate del 2021 mentre i Cinghiali del Setta fanno parte della rete italiana di rugby Popolare, alla quale aderiscono diverse realtà su tutto il territorio nazionale che condividono una visione dello sport, antirazzista e antifascista, basata sull’inclusività e sul rispetto, senza limiti di età, capacità, sesso, religione, provenienza o etnia.

L’iniziativa di sabato, più che una partita, è stato un altissimo momento di incontro, sia sportivo che umano, che è potuto accadere grazie all’impegno di Stefano Cavallini, responsabile del progetto, dei tecnici Ulderico Montanari e Francesco Cavallini, con la collaborazione indispensabile della direzione, della comandante, del personale dell’area educativa, della polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Ferrara, con il patrocinio del Comune di Ferrara.

La partita è stata di buon livello e, a riprova del fatto che il risultato sul campo conta meno sia dell’impegno comune che del capire che “libertà è partecipazione”, l’ultimo dei tre tempi da dieci minuti è stato giocato dalle due compagini “rimescolate”: in pratica alcuni giocatori de “i Cinghiali del Setta” hanno preso l’iniziativa di andare a far parte del “Rugby27” e viceversa.

È stato sorprendente assistere allo scambio delle maglie a partita ancora in corso e non alla fine, come nel calcio.

È stata la metafora stupenda del “mettersi nei panni dell’altro” per far capire che, nella vita, un cambiamento è possibile, accettando di condividere gli stessi valori, scegliendo di vivere impegnandosi, rispettandosi e sostenendosi.

Insieme al classico terzo tempo, credo che questo sia stato un momento che di grande insegnamento; non è un caso che, dal rugby come sport di “sana e robusta Costituzione”, ci sia davvero molto da imparare.

Nel mio piccolo, da ex giocatore di rugby, ho imparato in prima linea, che…

Nello sport più sociale, si gioca in tanti perché c’è bisogno di diversi contributi e punti di vista per raggiungere l’obiettivo… come nell’inclusione.

Nello sport più strano, la palla non è rotonda, per cui non bisogna solo saperla lanciare e colpire con la giusta forza, ma occorre soprattutto saperla ricevere… come nell’accoglienza.

Nello sport più collettivo, chi deve ricevere la palla sta più indietro rispetto a chi la porta per osservare la strada che ha fatto chi è venuto prima di lui e, grazie al suo aiuto, proverà a trovare il proprio percorso originale… come nella cooperazione.

Nello sport più educativo, si valorizzano le capacità e le abilità di ciascunocome nella solidarietà.

Nello sport più combattivo, occorre lottare per difendere i propri spazicome per i beni comuni.

Nel rugby, per arrivare alla meta, occorre sudare, scontrarsi, soffrire, sostenersi, stringersi… insieme, come nella vita.

Le immagini della cover e nel testo dell’articolo sono state dall’autore durante la partita 

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Evento pubblico, domenica 11 maggio 2025 a Corella: Scienza, informazione e benessere sull’Appennino Mugellano

Un’intera giornata, Domenica 11 maggio 2025, per i crinali liberi del Monte Giogo di Villore a Corella (Dicomano, Firenze) dedicata a scienza, informazione e benessere sull’Appennino Mugellano a contatto  con gli  ecosistemi naturali da preservare dall’industrializzazione di mega impianti eolici.

Organizza l’evento il Comitato Tutela Crinale Mugellano – Crinali Liberi – Coalizione Ambientale TESS con il titolo “La Falterona abbraccia i crinali di Corella e Villore. Parlare di eolico industriale è pericoloso, non parlarne molto di più”, che intende accendere i riflettori sull’impatto ambientale, paesaggistico e umano degli impianti eolici industriali, promuovendo al contempo una riflessione collettiva sulle alternative concrete e possibili.

Il programma della giornata è ricco di interventi autorevoli tra cui l’intervento dell’ex direttore del Parco Nazionale Foreste Casentinesi Alessandro Bottacci, che parlerà del valore sacro delle foreste, l’intervento del Presidente delle Terapie Forestali Foreste italiane Raoul Fiordiponti e quello dell’architetto Paolo Mattioni, esperto di paesaggio. Non mancheranno voci significative del territorio appenninico, come quella di Aldo Cucchiari di Mountain Wilderness e del GRIG sull’impatto ambientale e sulla biodiversità e di Donatella Gasparro del Movimento della Decrescita che affronterà il tema dell’ecologia politica.

Il pomeriggio sarà dedicato ad esperienze rigenerative nella natura, come le attività di co-creazione con la natura proposte da Isabella Guerrini, il Bioregionalismo con Luca Vitali, i percorsi di consapevolezza legati alla pratica del Tai Chi e agli insegnamenti di spiritualità e nonviolenza di Thich Nhat Hanh.
Sarà allestita una Mostra con le foto aggiornate dei recenti lavori per l’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore.

Tantissime le realtà che hanno dato adesione all’evento: dalle Associazioni ambientaliste come Italia Nostra, ALTURA e Mountain Wilderness, ai gruppi escursionistici come il CAI Firenze, Mugello e Scandicci, fino ai Comitati dell’Appennino Mugellano “No Eolico Industriale Firenzuola”, “I nostri crinali” e il Comitato “La Faggeta” aderenti alla Coalizione Ambientale TESS, Transizione Energetica Senza Speculazione, oltre ai gruppi consiliari del Comune di Dicomano quali “Dicomano che verrà” con Laura Barlotti e “Insieme per Dicomano” con Saverio Zeni.

L’ingresso è libero e aperto a tutti. Vi aspettiamo numerosi!

Per informazioni è possibile contattare i seguenti contatti via WhatsApp: 3392637865 o 3208866199.

Comitato Tutela Crinale Mugellano – Crinali Liberi – TESS Transizione Energetica Senza Speculazione

I crinali dell’Apennino Mugellano: un patrimonio da tutelare

In copertina: Corella: frana sotto il gasdotto Snam per i lavori dell’eolico industriale

 

Parole a capo
«Libertà vo’ cercando»: poesie per gli 8o anni dalla Liberazione

Il 4 maggio scorso, a Conselice (RA), all’interno delle numerose iniziative organizzate dall’ANPI ravennate nei territori di Lavezzola, San Patrizio e Conselice, l’Associazione “Ultimo Rosso” ha realizzato una lettura collettiva di poesie dedicate alla LIBERTA’ di stampa e di espressione, in celebrazione dell’80°anniversario della Liberazione dal giogo del nazi-fascismo. Grazie agli organizzatori, a Rossella Renzi che ha coordinato l’evento e al numeroso pubblico attento e partecipe! In questo numero di Parole a Capo, pubblichiamo alcune delle poesie lette.

«Libertà vo’ cercando»

IL FAZZOLETTO
di Cecilia Bolzani

Voglio raccontare
come fui della mia famiglia
la prima senza velo in chiesa:
libera, con la testa alta,
a scegliere il posto nella fila.
Mia nonna divenne
libera di votare, di protestare,
così come di pregare
ma sempre con il fazzoletto in testa.
Mia madre aveva sofferto
studiato, anche insegnato,
la dignità di essere donna,
ma col fazzoletto in testa,
mentre ancora
esisteva il delitto d’onore.
Quel fazzoletto, simbolo
di lotta e di coscienza,
per me era il passato.
Mai avrei immaginato
quel passato
vicino alla libertà
più di tante quotidiane realtà.

 

*

 

IPER-INFORMATI
di Anna Rita Boccafogli

Che faccio ora, a chi credo?
Vedo le news in video, leggo qualche giornale
sento a volte la radio, cambio anche canale
ho le notizie in Google, socials vari e Facebook.
Tra notizie e racconti quante facce ha il reale,
finte o veritiere, seducenti, ingannevoli
quando non menzognere.
Con la tecnologia ti propinan fake news
che appaiono autentiche, se non controlli di più.
Troppe info confuse non son vero sapere
rimani in superficie come in mare a serfare:
serve una buona bussola, saper essere accorti
che i raggiunti diritti non diventino storti.

 

*

LA  LIBERTA’, INASPETTATA
di Maria Angela Malacarne

La libertà,
inaspettata.
Posso ancora credere
che il giorno
non sfiorisca
e il rosso della gioia
brilli
come vino nei bicchieri.

 

*

COME IL PANE
di Silvia Lanzoni

Parole strappate
Piegate
Macchiate d’inchiostro
Quando ero bambina
Bella calligrafia
L’apparenza inganna
Scrivo poesia
Dissotterro le parole
Con forza frenesia
Le cerco le trovo
Le impasto come il pane
Anche loro hanno fame

 

*

 

IN FUGA CON ELEGANZA
di Pier Luigi Guerrini

Via, di corsa
senza pensare troppo
che fa male
via, di fretta
senza guardare
che t’incanti
via di fuga
senza rimorsi
che la libertà
è medicina rara.
Via di qua
con eleganza
senz’abbondanza
inizia la danza
del mai abbastanza
che cerca di darsi
un improbabile contegno
un’impresentabile importanza.

 

*

FUTURO CHIARO LIBERO E APERTO
di Lucia Boni

il futuro è una palla di cristallo
di cui solo un eletto può svelare i bagliori?
no anche se fosse supportato da teorie e scienza
il futuro non è una sfera senza appigli
è forse più
radice
fatta di filamenti con percorsi al buio
materia viva che sviluppa e tende
organo che cammina
in varie direzioni ma
non vaghe conosce
tutte le sue mete e i luoghi
il futuro è ancorato sotto dentro
poi
a tempo debito decide e butta il suo pollone
piccolo germoglio a
pelo di terra e genera
cosa del buio che
sceglie di nutrirsi della luce
sono steli che intesse e
rami che impalca
il futuro è tessuto
da mano cieca che
tasta e che conosce
filo che genera la
tela dei giorni
filo di ordito e filo di trama
il futuro intreccia
i destini di tutti
prima o poi
ciascuno passa da quelle mani
dentro il telaio e
nessuno è lontano e nessuno escluso
liberi tutti ma liberi insieme

 

(Foto di Steve Buissinne da Pixabay)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 284° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Dove va il mondo, e dove va Cittadini del mondo?

Oggi pomeriggio alle 18 in via Kennedy 24 a Ferrara assemblea sul destino dell’associazione Cittadini del Mondo.

 

Ho incontrato gli amici di Cittadini del mondo (qui il sito) all’epoca della Riforma Gelmini (2008). La chiamavamo “deforma” perché imponeva tagli lineari e precarietà diffusa alla scuola e all’ Università italiane, oltre ad una organizzazione fortemente aziendalista. I risultati oggi si vedono bene, ma già allora si potevano intuire, per chi volesse ripercorrere con sguardo largo quel periodo consiglio il bel lavoro di Girolamo De Michele intitolato “La scuola è di tutti”. Alzi la mano chi si ricorda il Coordinamento Istruzione Pubblica! Insegnanti, studenti, sindacato, io ed altri colleghi partecipavamo come ricercatori precari, e svolgevamo le nostre riunioni e attività proprio alla sede di Cittadini del mondo, in via Kennedy. Spesso eravamo così tanti che alcuni restavano in piedi, ma siamo sempre riusciti ad organizzare bellissime e pacifiche manifestazioni di dissenso. Leggo che vogliono spostarla a Chiesuol del Fosso, ma forse mi sbaglio. Come si può pensare che i ragazzi e le ragazze stranieri che abitano a Ferrara da poco tempo e che a Cittadini fanno lezione di italiano possano raggiungere un posto così fuori mano? Mercoledì 7 maggio alle 18 (ndr oggi) raggiungerò Cittadini del mondo nella loro storica sede per partecipare all’assemblea e discutere della situazione, spero ci vedremo in tanti là.

Leggo che anche la sede del circolo Arci Bolognesi è in forse, e mi ritrovo in un nuovo flusso di ricordi. Abbiamo chiesto e ottenuto collaborazione per molte serate di autofinanziamento e informazione durante la campagna referendaria sull’acqua pubblica (2010-2011), dove abbiamo fatto incontri, aperitivi, concerti, tutti molto riusciti. Ricordo anche la scuola di musica e danza africana organizzata al Bolognesi, e il festival (con saggio) lungo le Mura nord. Ovviamente ho memoria dei tantissimi concerti e dj set, musica così diversa e di grande qualità. Il Bolognesi è sempre stato un ambiente accogliente e vivo, aperto alle differenze e dove il divertimento si faceva intercultura. Poi l’anagrafica e gli impegni mi hanno portata lontano da questo angolo incantato (ne parla anche Carlo Bassi nel suo “Perché Ferrara è bella”) e da chi lo fa vivere, ma sarebbe grave perdere un luogo di socialità così ricco per un mancato accordo di convivenza con i residenti, se questo è il problema.

Mentre penso alle persone e agli spazi, le une che modificano gli altri e viceversa, l’emozione mi porta diretta alla chiusura del Centro sociale La Resistenza. Nella mia memoria è una delle case del Comitato acqua pubblica, ritrovo per i festeggiamenti più colorati del 25 aprile, delle cene vegetali e non con Marianna ai fornelli, dei seminari (ne ricordo uno bellissimo sul reddito di base e una serie intera su Michel Foucault), e i laboratori di giocoleria per grandi e piccoli nei pomeriggi di primavera, i concerti di musica industriale, il gruppo di acquisto solidale: i miei sono veramente pochi fotogrammi di un lungometraggio degno di Almodovar. Un energico collettivo che in autogestione ha incarnato per anni in città l’idea del centro sociale giovanile aperto a tutti/e. Infatti il pomeriggio si poteva giocare a carte con gli anziani del quartiere, avendoci il tempo.

Se a tutto questo aggiungo la vicenda del Centro servizi volontariato, su cui risparmio i racconti perché sono troppi e sfilacciati, se penso che anch’esso è destinato al trasferimento (a Chiesuol del Fosso?!), mi chiedo che idea di città abiti nei progetti dell’Amministrazione comunale.

Sindaco Fabbri, mi rivolgo a lei: davvero è utile allontanare una dopo l’altra le voci che suonano diversamente? Alla fine quale sarà l’effetto? Ci ripensi. Non per me, certamente, ma perché le monoculture non ci possono sfamare.

Cambiamento climatico e patrimonio culturale. Ravenna 2100: progettare l’adattamento.
Ciclo di incontri: 9, 20 e 28 maggio 2025

Cambiamento climatico e patrimonio culturale. Ravenna 2100: progettare l’adattamento
ciclo di incontri aperti al pubblico

“Cambiamento climatico e paesaggi di adattamento”
Venerdì 9 maggio, ore 16:00-19:00
Sala Nullo Baldini della Provincia di Ravenna, Via Guaccimanni 10, Ravenna

“Cambiamento climatico e monumenti: evoluzione della conservazione”
Martedì 20 maggio, ore 16:00-19:00
Sala di Palazzo Vecchio, Piazza della Libertà 5, Bagnacavallo (RA)

“Cambiamento climatico e monumenti: scenari di adattamento conservativo”
Mercoledì 28 maggio, ore 16:00-19:00
Sala Ragazzini del Centro Dantesco, Largo Firenze, Ravenna

Tre conversazioni con Emilio Roberto Agostinelli, saggista e già funzionario della Soprintendenza, invitato dall’Ordine degli Architetti a parlare del futuro dei monumenti del ravennate, la cui conservazione sarà a rischio a causa del cambiamento climatico.

Ravenna, 05/05/25 – Quale sarà il futuro di Ravenna, dei suoi territori costieri e dei suoi monumenti nel 2100? A questa domanda cerca di rispondere Emilio Roberto Agostinelli chiamato a discuterne dall’Ordine degli Architetti PPC di Ravenna in un ciclo di tre incontri dal titolo Cambiamento climatico e patrimonio culturale. Ravenna 2100: progettare l’adattamento”, che si svolgerà nel mese di maggio, con due tappe a Ravenna e una a Bagnacavallo.

Emilio Roberto Agostinelli, architetto, già funzionario della Soprintendenza di Ravenna, direttore dei restauri di numerosi monumenti ravennati, discuterà del rapporto tra cambiamento climatico e monumenticittà e paesaggio. Rivolgendosi non solo alla platea dei tecnici, ma anche e soprattutto al pubblico generalista, indagherà il complesso e poco dibattuto tema delle azioni di adattamento per contrastare gli effetti del cambiamento climatico sul nostro territorio e descriverà come potrà cambiare il nostro contesto di vita in funzione delle scelte che faremo. «Mentre oggi molti di noi hanno maggior confidenza con i temi della mitigazione, cioè su come, per esempio, si possano ridurre le emissioni di gas serra risparmiando energia», afferma Agostinelli, «poco noto e più spinoso è il tema dell’adattamento, cioè delle urgenti azioni da intraprendere contro gli effetti devastanti di un clima che cambia. Il fine è creare in ogni persona la consapevolezza di quanto sarà diversa Ravenna nel 2100, quando la consegneremo non a generazioni astratte, ma a chi ha già oggi nomi e cognomi, come i nostri nipoti».

In base alle previsioni e agli studi disponibili, nel 2100 la fragile pianura alluvionale ravennate subirà rilevanti trasformazioni, proseguendo la dinamica e plurimillenaria interazione fra terra-subsidenza (abbassamento del suolo) e acqua-mare/fiumi. Nel primo incontro di venerdì 9 maggio, alle ore 16 alla Sala Nullo Baldini della Provincia di Ravenna, Agostinelli si interrogherà sugli scenari conseguenti le diverse azioni di adattamento da realizzare. A partire da strumenti pubblici, come quelli dell’evoluto “Piano d’Azione per l’Energia ed il Clima”  – PAESC 2020 – prodotto dal Comune di Ravenna, del successivo “Rapporto di sintesi AR6 Cambiamenti climatici 2023” dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change – Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite), del recentissimo “Rapporto 2024 sullo stato del clima in Europa” (ESOTC), evidenzierà come la geografia sarà modificata a causa della concomitanza fra abbassamento del livello del suolo e innalzamento di quello del mare, con effetti sull’uso dei terreni, oltre che sulla salvaguardia degli abitati, e illustrerà quali scelte oggi si prospettano. Un ventaglio variegato di scenari paesaggistici di adattamento da scegliere e intraprendere in modo partecipato, che da un lato vede sistemi di difesa ‘duri’, dall’altro approcci più ‘morbidi’ basati sugli ecosistemi, tutti osservati nei loro costi, benefici, svantaggi, efficienza e sfide della governance, oltre che nelle conseguenze dell’eventuale inazione o azione tardiva.

Il secondo e il terzo incontro, che si terranno martedì 20 maggio a Bagnacavallo (ore 16, nella Sala di Palazzo Vecchio) e mercoledì 28 maggio a Ravenna (ore 16, nella Sala Ragazzini del Centro Dantesco), dal territorio scendono di dettaglio sul tema dei monumenti. Si partirà dalla storia della teoria della conservazione negli ultimi due secoli per giungere a parlare dei progressi informatici del nuovo millennio e degli ultimi anni, tra cui l’intelligenza artificiale e i modelli predittivi di danno. Grazie a queste tecnologie possiamo progettare strumenti di salvaguardia e adattamento conservativo, con cui meglio fronteggiare per esempio gli effetti della crescita del livello della falda acquifera, la subsidenza, i cambiamenti nel microclima interno dei valori termo-igrometrici, su alcuni insigni monumenti inseriti in un contesto particolarmente a rischio, quale quello locale.

«Con questo ciclo di incontri abbiamo voluto dare al pubblico una prospettiva completa sul tema del cambiamento climatico» afferma Stefania Altieri, consigliera dell’Ordine degli Architetti PPC di Ravenna «la cui minaccia non si rivela solo attraverso calamità come le alluvioni, tragicamente a noi vicine, ma anche attraverso l’innalzamento dei mari che sono una minaccia per gli insediamenti umani da tempo evidente agli occhi degli esperti, ma purtroppo non così sentito e urgente per l’opinione pubblica».

Emilio Roberto Agostinelli, architetto. Dal 1990 al 2022 è stato Funzionario Architetto del Ministero della Cultura presso la Soprintendenza di Ravenna. Ha progettato e diretto restauri su numerosi monumenti ravennati, quali la Basilica di S. Apollinare Nuovo, S. Vitale, S. Apollinare in Classe, Battistero Neoniano ecc. Dal 2005 al 2021 è stato professore a contratto dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna in discipline sul Restauro Architettonico. Autore di articoli e saggi, svolge ricerca e divulgazione sul patrimonio culturale.

In copertina: campanile del paese scomparso di Curon nel lago artificiale di Resia

Al cantón fraréś
Bruno Zannoni: il Laudato si’ di Papa Francesco

Bruno Zannoni: il “Laudato si’ ” di Papa Francesco

Il 24 maggio 2015 Papa FRANCESCO emana l’enciclica LAUDATO SI’ sulla cura della Casa Comune.

Riprendendo il titolo dal “Cantico delle creature” di San Francesco, con un linguaggio comprensibile a tutti, il Pontefice manifesta preoccupazione per il depredamento della terra, l’inquinamento dell’acqua e dell’aria; dettaglia la crisi sociale e ambientale; esprime indignazione per l’inequità e le diseguaglianze fra il Nord e il Sud del globo; evidenzia l’importanza degli aiuti finanziari e tecnologici ai paesi più arretrati.
Un indignato monito contro lo sfruttamento sconsiderato di questo nostro unico mondo, denunciato anche dalle ricerche della comunità scientifica.
Propone un cambiamento degli stili di vita, con nuove abitudini meno consumistiche, ovvero una rivoluzione culturale per salvaguardare la bellezza delle foreste, dei mari, delle diversità biologiche, del vento, del sole.
“Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza.”
Una speranza in favore della pace, dell’eguaglianza, di un equilibrio sociale ed interiore…

Bruno Zannoni, autore della poesia, scritta nello stesso 2015, condensa in pochi versi molti temi esposti nell’enciclica. Sollecitato e convinto dalla lettura della lettera papale coglie con espressioni in dialetto ferrarese gli insegnamenti del Santo Padre “l’as diś d’avér rispèt e avéran cura d sta Creazión, che a ciamén “Natura”, il quale ci esorta a vigilare sul “privilégio par qualcdùn, fónt dla speculazión e dal cunsùm, teàtar d’òdi, d’ingiustìzia, d guèra” e ad ascoltare “ al zigh ch’al vién… mó anch da póvra źént ch’la campa d stént”. (Ciarìn)

Laudato si’

La Géneśi l’as diś: “La Creazión
l’è stà al mumént dla nostra lunga storia
ch’l’à vist dla Fórma Bèla la vitòria
sóra l’Infóram ch’al n’à distinzión”.
Dóp Caos sénza vita, Luś e Piànt
e po’ tut j’Animàj, al Ziél, ill Stèll,
po’ Òm e Dòna. “L’è tut bón st’al quèl!”:
pr’al Creatór, ‘na bléza entuśiaśmànt.

Papa Francesco con “Laudato si’”
l’as diś d’avér rispèt e avéran cura
d sta Creazión, che a ciamén “Natura”,
ch’l’è l’Òpra dal Signór da custudìr.
Al Sant Franzésch l’insgnàva la virtù
(quand al lasàva un pèz dl’òrt dal cunvént
lìbar da la man dl’òman, dl’intervént)
parché da i sò fradjé fus arcgnusù
e cuntemplàda, acsì, la véra esénza
-in cla vegetazión salvàdga e gréza-
d cl’originària e spléndida sò bléza
che dal Creator la sgnàva la preśénza.

L’Enciclica “Laudato si’ ” l’as diś
che l’è la bléza dal Creato un dón
che nisùn òm al mónd l’è al sò padrón,
mó l’à d’èsar par tuti un paradiś:
sì, “meno ricca e bella” l’è sta tèra
s’ la dvénta un privilégio par qualcdùn,
fónt dla speculazión e dal cunsùm,
teàtar d’òdi, d’ingiustìzia, d guèra.

E dóv al Scrit dal Papa l’è più inténs
l’è in cal fòrt arciàm dl’aspèt sociàl
d ‘na bléza dla natùra universàl
indóv l’ecologìa l’àva un séns.
Un séns al nòstr’impégno par l’Ambiént
in gràdo d’ascultàr al zigh ch’al vién
da inquinamént di ‘gl’àque e di terén,
mó anch da póvra źént ch’la campa d stént.

Laudato si’

La Genesi ci dice: “La Creazione
è stato il momento della nostra lunga storia
che ha visto la vittoria della Forma Bella
sull’Informe indistinto.
Dopo il Caos senza vita, (ecco) la Luce e le Piante
e poi tutti gli Animali, il Cielo, le Stelle,
poi l’Uomo e la Donna. “Questa cosa è assai buona!”:
per il Creatore, una bellezza entusiasmante. (1)

Papa Francesco con “Laudato si’” (2)
ci dice di avere rispetto e averne cura
di questa Creazione, che chiamiamo “Natura”,
che è l’Opera del Signore da custodire.
San Francesco insegnava la virtù
(quando lasciava una parte dell’orto del convento
libera dall’intervento della mano dell’uomo)
affinché dai suoi fratelli fosse riconosciuta
e contemplata, così, la vera essenza
-in quella vegetazione selvaggia e primitiva-
di quella originaria e splendida sua bellezza
che manifestava la presenza del Creatore.

L’Enciclica “Laudato si’ ” ci dice
che la bellezza del Creato è un dono
di cui nessun uomo al mondo è il padrone,
ma che deve essere per tutti un paradiso:
sì, “meno ricca e bella” è questa terra (3)
se diventa un privilegio per qualcuno,
(se diventa) fonte di speculazione e di consumismo,
(se diventa) teatro d’odio, di ingiustizia, di guerra.

E dove lo Scritto del Papa è più intenso
è in quel forte richiamo all’aspetto sociale
di una bellezza universale della natura
dove l’ecologia abbia un senso. (4)
Un senso il nostro impegno per l’Ambiente
in grado di ascoltare il grido che proviene
dall’inquinamento delle acque e dei terreni,
ma che pure viene dalla povera gente che vive di stenti. (5) 

 

(1) “Dopo la Creazione dell’uomo e della donna, Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” – Genesi 1, 31).
(2) Lettera Enciclica LAUDATO SI‘ (LS) del Santo Padre Francesco sulla cura della Casa Comune.
(3) Ma osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio della  finanza e del consumismo, in realtà  fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella… (LS, n. 34)
(4) Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale…”(LS, n. 49).
(5) “… che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (LS, n. 49).

 

Altre poesie e informazioni bio-bibliografiche su Bruno Zannoni nel Cantón Fraréś:

I canaròl dal Dèlta  del 01/05/20

Al sat chi è mort?  del 14/01/22

Per leggere o rileggere tutte le uscite di Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica di Periscopio curata da Ciarìn. clicca[Qui]

perchè aderisco al digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza

perchè aderisco al digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza

perchè aderisco al digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza

Aderisco al digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza, che dal 29 aprile proseguirà fino al 30 maggio. La mia partecipazione a questa forma di  Resistenza civile per i diritti di tutte e tutti sarà mercoledì 7 maggio.

perchè aderisco al digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza

Provo  a illustrare la mia scelta con una breve storia.

Ho fatto altre esperienze di digiuno. La prima credo nel 1991 quando è scoppiata la guerra tra i paesi della ex Iugoslavia. In quegli anni facevo parte di quello che avevamo chiamato Coordinamento Ferrara per la Pace, c’erano anime molto diverse che mettevano da parte le differenze per questo grande obiettivo. Avevo compagni speciali, tra questi Daniele Lugli e Alberto Melandri. Ci si dava il cambio, una staffetta visibile nella piazza dei listoni in centro. Ognuno digiunava in base alle proprie capacità poche ore, giorni, ma tutti sperimentavano cos’è fare testimonianza non solo con le parole. Provare nel proprio corpo la carenza, la mancata risposta ad un bisogno fondamentale, costruisce uno spazio invisibile, ma molto solido, che ti collega alla realtà del vissuto della sofferenza che possono vivere gli altri, tutti gli altri. Ti radica a quello che è il valore autentico della solidarietà.

Ogni uomo, ci dicono le neuroscienze, attraverso i neuroni specchio sa provare empatia, riesce a vivere una esperienza che contemporaneamente è dell’altro ma diventa anche tua. L’empatia è esperienza incarnata (embodiment) non è immedesimazione, per quanto profonda, è rivivere nel proprio corpo l’esperienza emotiva dell’altro. Per questo il digiuno coinvolge sia chi lo pratica, riportandolo alla capacità di entrare in profondità, di “sentire” il limite, la vulnerabilità – il corpo, l’uomo, la vita sono fragili. – ma rende partecipe attivamente anche chi osserva. Anche se lo sguardo è di scherno o perplesso, o critico, inevitabilmente suscita percezioni, sentimenti che chiedono di trovare un significato. Anche suo malgrado, l’osservatore diventa testimone di una presa di posizione che si impone perchè nonviolenta, silenziosa, discreta ma percepibile.

Il digiuno rompe la complicità del silenzio e della collusione, il mandar giù ogni ingiustizia, presuppone intenzionalità, determinazione, controllo, pazienza, e qui viene il difficile, assenza di rancore.

In questo caso specifico il digiuno è una protesta nonviolenta contro il Decreto Legge Sicurezza,

i suoi contenuti più gravi si possono riassumere in questi punti:

  • la criminalizzazione della povertà, delle manifestazioni pacifiche e del dissenso, anche in carcere e nei CPR;
  • reclusione di donne incinte o con figli piccoli negli ICAM, che sono veri e propri istituti penitenziari, con la minaccia di separare i bambini dalle madri come sanzione disciplinare;
  • divieto della coltivazione e commercializzazione della canapa tessile;
    – ampliamento dei poteri delle forze di sicurezza;
  • costruzione di nuovi reati con pene pesanti anche per fatti di sola rilevanza sociale.

C’è ancora tempo per aderire, non c’è bisogno di una bandiera!

 

Testo integrale del Decrero Legge  in Gazzetta Ufficiale [Qui]:

La contemporaneità di Elio Pagliarani e dei suoi Epigrammi ferraresi

La contemporaneità di Elio Pagliarani e dei suoi Epigrammi ferraresi

 

Il 21 maggio del 1957 il poeta Elio Pagliarani (Viserba 1927-Roma 2012) pubblicò la seguente poesia:

È difficile amare in primavere

come questa che a Brera i contatori

Geiger denunciano carica di pioggia

radioattiva perché le hacca esplodono

nel Nevada in Siberia sul Pacifico

e angoscia collettiva sulla terra

non esplode in giustizia.

                                   Potrò amarti

dell’amore virile che mi tocca, e riempirti

se minaccia l’uomo

nel suo genere?

 

O trasferisco in pubblico stridore

che è solo nostro, anzi tuo e mio?

[Da Inventario privato, Veronelli, Milano 1959]

 

Sono versi questi che per la prima volta legavano il tema atomico della bomba hacca a quello amoroso: una chiara testimonianza della modernità  del poeta romagnolo. E sono versi, soprattutto quelli finali, che chiedono alla poesia (e dunque al poeta) quale debba essere il suo ruolo. Negli anni  della guerra fredda, dei test nucleari e del “miracolo economico” italiano, Elio Pagliarani grazie a una nuova presa di coscienza della funzione della poesia, istituiva la cosiddetta poesia-racconto.

Occorre ricordare che, praticamente nello stesso periodo, Gregory Corso, il poeta americano della beat generation, scrisse una vera e propria poesia d’amore alla Bomba con dei versi che  furono stesi sulla pagina in modo da assumere la forma di un fungo atomico.

Come i poeti beat in America, Pagliarani si distinguerà dunque, da questa parte del mondo occidentale, per lo sperimentalismo e per quelle tipiche proiezione verso il futuro (partendo dal passato) che in pratica servivano a sottolineare una rinnovata fiducia nell’atto poetico.

Oltre ai famosi poemetti o romanzi in versi, La Ragazza Carla e la Ballata di Rudi, che lo impegneranno lungo il corso della vita, le sue composizioni poetiche più significative (Lezione di fisica e Epigrammi ferraresi) rappresentano proprio il frutto di queste proiezioni  temporali che rendono la sua poesia contemporanea e la …contemporaneità, di fatto, poetica.

Il ruolo del poeta è sempre stato molto complicato e ambiguo soprattutto quando la pressione della realtà diventa più complessa, contraddittoria e violenta, come accadeva appunto in quegli anni. E forse proprio perché ci troviamo in un momento storico analogo a quello, oggi riusciamo a comprendere meglio quell’immaginario distopico già ipotizzato in quegli anni da uno dei padri fondatori della beat generation, William S. Burroughs II, che cominciò a vedere nell’identità e nel linguaggio veri e propri  virus per la nostra specie.

Cosicché tutte le grandi narrazioni di allora tradotte in linguaggio venivano di fatto falsificate, anzi, per così dire, infettate nell’essere affermate o negate, tramite questi virus.

E dunque, in un contesto così degenerato dal virus-parola, il poeta come aveva già compreso Pagliarini, è chiamato a dare o a restituire un vero significato al nostro “ essere umani” attraverso un’altra esposizione, un’altra negazione, un’altra denuncia che potessero andare oltre la semplificazione della narrazione e del racconto cronologico di UNA e UNA SOLA “infettata” verità. Ed ecco dunque circoscritto, in opposizione negativa, il ruolo della poeta e della poesia.

Come è stato ricordato «Pagliarani…è un precursore: fra i primi del Novecento, a innestare nel ramo della lirica la gemma della plurivocalità che conferisce ai suoi testi quell’inconfondibile impostazione epica e polifonica…».

La poesia e la figura del poeta vengono così messe al servizio di una “specifica” riduzione dell’io e di uno ricercato declino del poetese. Pagliarani riesce a fare questo regalando liricità  a un lessico mutuato  da altri settori disciplinari, mischiando linguaggio ‘alto’ e ‘basso’, lavorando sulla dimensione orale della poesia che si trasforma quasi in un agire poetico e, addirittura, in una sorta di interpretazione teatrale ( prima di qualunque  poetry slam!) fino alla identificazione con l’eretico Savonarola espressa nei suoi Epigrammi ferraresi (Piero Manni Editore, 1987)

In un tale nuovo (ma antico) registro Pagliarani con parole vibranti e con-temporanee – nel senso di possedere una “ubiquità temporale” – continua a denunciare l’abbrutimento  e la decadenza della società in cui viveva ( e nella quale SI continua a vivere contemporaneamente).

Anche in questa riscrittura che omaggia Savonarola ritornano sotto forma di una lingua inconsueta – quasi a intravederne l’antidoto stesso a quel virus – tutti i temi principali della sua poesia: la condanna della cupidigia e della sete di potere, l’indignazione per le offese riservate agli individui più deboli e vulnerabili; e si comincia a percepire, più netta di prima,  l’eventualità di una rivolta, l’istigazione alla disobbedienza civile.

La fine dell’ideologia diventa per il poeta una precisa poetica di negazione oppositiva, intesa come azione di estrema resistenza.

Il poeta non può fare altro che far reagire il linguaggio per spingere il lettore a interrogarsi, per aiutarlo a  uscire dagli automatismi epidemici del virus-parola che i mezzi di comunicazione di massa continuano a diffondere, e quasi utilizzando un approccio omeopatico, Pagliarani comincia a usare il virus-parola come vaccino.

Dal verso lungo, a fisarmonica, della Ballata di Rudi e di Lezioni di fisica, si passa così a un’espressione poetica breve e concisa degli Epigrammi ferraresi.

Si consideri che gli Epigrammi uscirono nella famosa epoca della “Milano da bere” quando una lenta e inesorabile restaurazione del sistema neoliberista si rinnovava nel fenomeno dello yuppismo e dell’ “edonismo reaganiano” a seguito delle acerbe e in parte sterili contestazioni del ’68. La società scivolava verso un torpore dal quale non si sarebbe più ripresa.

Al poeta deluso non rimaneva che affidarsi all’icasticità delle parole di Savonarola e grazie a queste costruire un discorso criptico. Se il verso lungo rappresentava lo svolgersi di un ragionamento ma anche il grado di diffusione di un’epidemia del virus-parola, gli epigrammi potevano costituire l’antidoto alla società contemporanea completamente indifferente alle ingiustizie che la attraversavano grazie al controllo dei mezzi di informazione e alle famose…”narrazioni”. Quante altre ne sono seguite a quella! Il virus-parola continua la sua azione epidemica.

Pagliarani stesso fornisce sibillinamente la chiave interpretativa della sua nuova operazione poetica: basta leggere con attenzione i suoi epigrammi e in particolare l’ultimo verso del secondo.

Resta sempre difficile, anche oggi, amare in primavere come questa e Pagliarani ci aiuta a capire come… guarire.

I

Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare.

Costoro dicono che è beato chi ha roba.

Quelli sei con la mannaia in mano furono tutti angeli.

II

La profezia non è cosa naturale né procede da causa naturale;

la immaginano molti sgorgata da disposizione individua

con purga e salasso: quanto più un uomo ha purgato dai vizi

volontà e affetto delle cose al mondo

tanto meglio le cose future sa divinare.

Questo non è vero e mòstrasi: perché la profezia è stata data ancora alli cattivi

come fu Balaam huomo sceleratissimo.

Come è sera rompi il muro: non uscire dalla porta.

III

Onde la terra sempre per il suo appetito naturale va in giù

e l’amore è accidente.

IV

Fanciulli voi non avete fatto ogni cosa.

Lavate via il resto tutta questa quaresima.

Lavate via l’anatema: voi avete la maledizione in casa.

(Hanno tanta roba che vi affogano dentro).

V

Ma li miracoli terminano a cosa finita

come è illuminare un cieco, che termina alla luce

o resuscitare un morto, che termina alla vita.

 

[da Epigrammi ferraresi (1987)]

In copertina: Ferrara, Statua di Savonarola. particolare.

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