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Le voci da dentro /
Il carcere, una emergenza ignorata

Le voci da dentro. Il carcere, una emergenza ignorata

Il rapporto di metà anno di Antigone

 Antigone è un’associazione indipendente che dal 1991, con azioni concrete e campagne culturali, si occupa di garantire diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario, promuovendo una pena che sia in linea con il dettato della Costituzione.

La sua missione è assicurare che le carceri siano luoghi nei quali vi sia il massimo rispetto per la dignità umana, promuovendo la trasparenza, l’umanità e l’equità nel trattamento dei detenuti. Si adoperano per sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni e i professionisti del settore sull’importanza di un sistema penale orientato al reinserimento sociale, in linea con i principi costituzionali e internazionali. Attraverso attività di monitoraggio, ricerca, advocacy e formazione, lavora per costruire una società più giusta, dove i diritti fondamentali siano garantiti a tutti, anche a chi si trova privato della libertà personale.

Ogni anno Antigone pubblica un rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. Di seguito pubblichiamo il rapporto di metà anno.

(Mauro Presini)

Aumentano le persone detenute, peggiorano le condizioni di vita, si moltiplicano le proteste, i suicidi e le segnalazioni di trattamenti inumani.

È questa la fotografia impietosa che offre L’emergenza è adesso, il rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, frutto di 86 visite negli istituti penitenziari italiani effettuate negli ultimi 12 mesi dal nostro Osservatorio.

Al 30 giugno 2025 le persone detenute erano 62.728, in aumento di 1.248 unità rispetto all’anno precedente. A fronte di una capienza regolamentare di 51.276 posti, e con oltre 4.500 letti indisponibili, il tasso di affollamento reale si attesta al 134,3%. In ben 62 istituti il sovraffollamento supera il 150%, e in 8 casi addirittura il 190% – come a San Vittore, Foggia, Lodi e Roma Regina Coeli. Nel 35,3% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3mq a testa di spazio calpestabile.

Mentre il Governo annuncia piani irrealistici e promesse che si ripetono da vent’anni, i numeri smascherano l’assenza di strategie efficaci. Il tanto decantato piano di edilizia penitenziaria prevede 7.000 nuovi posti entro fine anno, ma nell’ultimo anno ne sono stati realizzati appena 42.

Di contro, i posti effettivi disponibili sono diminuiti di 394.

Nel frattempo, la custodia chiusa riguarda oltre il 60% delle persone detenute, costrette a rimanere per ore in celle sovraffollate e bollenti. In piena estate, senza ventilazione adeguata e con accessi limitati all’acqua, la vita quotidiana in carcere è disumana. Le celle raggiungono i 37 gradi, con ventilatori acquistabili solo a pagamento e a numero limitato.

Gravissima anche la situazione nelle carceri minorili, dove si dorme su materassi a terra, mancano le ore d’aria, e l’utilizzo di psicofarmaci è in allarmante crescita. Dopo l’entrata in vigore del Decreto Caivano, gli Istituti Penali per Minorenni hanno visto un aumento del 50% della popolazione detenuta in meno di tre anni. Oggi più del 60% dei ragazzi presenti è ancora in attesa di giudizio. Sono 91 i minorenni trasferiti in istituti per adulti solo nella prima metà del 2025.

Tra i provvedimenti più recenti, il Governo ha approvato un disegno di legge che prevede la detenzione domiciliare in comunità terapeutica per le persone tossico o alcol-dipendenti con pena residua fino a 8 anni. Ma dietro l’apparente apertura si cela un’impostazione sbagliata: la nuova misura sostituisce l’affidamento in prova – già previsto per pene fino a 6 anni – con una forma comunque detentiva.

In pratica, si sacrifica uno strumento più aperto e rieducativo in favore di un altro più restrittivo, escludendo tra l’altro le persone recidive con una pena superiore ai due anni, che rappresentano proprio la parte più fragile e bisognosa di supporto, in un sistema penitenziario dove il 62% dei detenuti è già stato almeno una volta in carcere. Una vera soluzione al problema può venire solo dalla depenalizzazione del consumo di sostanze, e da un rafforzamento delle misure comunitarie e socio-sanitarie.

La condizione sanitaria non è migliore. Il 14,2% delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave, e il 21,7% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Ma in 29 istituti il medico non è presente di notte. Manca personale, e anche se i concorsi sono stati banditi, il sovraffollamento rende ogni sforzo insufficiente.

Il disagio si manifesta con numeri allarmanti: 22,3 atti di autolesionismo e 3,2 tentati suicidi ogni 100 detenuti. I suicidi registrati da inizio anno sono 45, un dato altissimo, secondo solo al 2024, l’anno peggiore di sempre. I soggetti più fragili – giovani, persone con disagio psichico, senza fissa dimora – pagano il prezzo più alto.

A fronte di tutto ciò, le misure alternative esistono, ma non vengono applicate abbastanza. Al 30 giugno erano 23.970 le persone con una pena residua sotto i 3 anni: potenzialmente idonee a scontare la pena fuori dal carcere, ma in larga parte dimenticate. Nel frattempo, più di 100.000 persone stanno scontando pene in esecuzione esterna, ma il dato non basta a frenare l’aumento in carcere.

“Antigone denuncia da anni come la detenzione debba essere extrema ratio, non una scorciatoia repressiva. L’attuale Governo, invece, risponde all’emergenza con l’inasprimento delle pene, l’introduzione di nuovi reati, l’illusione di soluzioni edilizie e l’inascolto delle proteste. Il risultato è un sistema penitenziario fuori controllo, che non solo viola i diritti fondamentali, ma tradisce ogni finalità costituzionale della pena, mettendo a dura prova la vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Serve una riforma radicale del sistema penitenziario. Antigone aveva già presentato nel 2022 una proposta per un nuovo regolamento, con interventi concreti per migliorare la vita quotidiana delle persone detenute.

Chiediamo:

  • più possibilità di contatti telefonici e video con l’esterno;
  • un maggiore utilizzo delle tecnologie digitali;
  • la drastica riduzione dell’isolamento come strumento disciplinare;
  • la prevenzione degli abusi;
  • la promozione della sorveglianza dinamica e di un sistema centrato sul rispetto della dignità umana.

“La vera emergenza è adesso – conclude Gonnella – e non si affronta con nuove carceri, ma con coraggio politico, depenalizzazione, misure alternative credibili e rispetto per la dignità umana”.

LEGGI IL RAPPORTO A QUESTO LINK

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Vite di carta /
Tra “umano” e “non-umano”

Vite di carta. Tra “umano” e “non-umano”

È tempo di categorie, il distillato più puro che traggo dalle letture a ventaglio di questi giorni: tre, a volte quattro libri aperti sul tavolo come vasi comunicanti. Tempo per leggerli, quello abbondante che mi dona il “colpo della Strega” di Ferragosto. Bloccata nei gesti, uso la testa.

Parte tutto da Gli uomini pesce di Wu Ming 1, il libro vasto a cui l’autore ha lavorato per sette anni dandogli lo stesso impianto del Delta del Po che ne è protagonista.

Un romanzo tentacolare, così definito da Marco Belli alla prima presentazione dello scorso autunno a Ferrara, al Grisù. Bacchelliano, aggiungo io, per la portata narrativa del discorso che attinge a un grande corso d’acqua e articola una rete di idee sul mondo (a partire dalla geografia come chiave di lettura della vita sul pianeta, o dal rapporto tra la conoscenza scientifica e le scienze occulte) e sulla scrittura letteraria.

Wu Ming 1, intervistato da Maria Calabrese e Girolamo De Michele in una più recente presentazione alla Biblioteca Popolare Giardino, ha convogliato il discorso sullo scenario della narrazione e dunque sul Territorio Ferrarese di cui è appassionato conoscitore.

È il globo terracqueo, tuttavia, a “mandare le onde”. Lo dico con le parole di Fabio Genovesi e coinvolgo qui  la sua scrittura, capace anch’essa di muoversi tra diversi ordini di grandezza e aperta allo scacchiere totale del mondo dal punto di osservazione di un’altra piccola monade, la Versilia.

Dunque un’opera ponderosa Gli uomini pesce, costruita come il meccanismo di un orologio i cui ingranaggi con passo sistematico portano avanti il racconto su più linee di svolgimento e su diversi piani temporali.

Il personaggio che dice io, Antonia Nevi, avanza dentro la storia portando il proprio bagaglio di saperi e di affetti, e soprattutto il suo dolore.

La rotella su cui gira si muove con le altre e dal movimento che si estende ai dentelli delle altre ruote Antonia apprende pezzi di verità: sulla propria famiglia e su di sé, sulla storia italiana dall’ultima guerra a oggi, sulle dinamiche di un territorio delicato e complesso come quello ferrarese, messo in ginocchio dalla siccità terribile del 2022.

Mentre Antonia assembla la biografia di Ilario Nevi, di cui è diventata erede, il romanzo si tinge di giallo costringendola a investigare sul passato dello zio e sulla sua opera di artista e di studioso. Da lì, dall’intellettuale libero ed eccentrico che Ilario è stato, Antonia è chiamata a spingere il proprio sguardo verso orizzonti inattesi: nello spazio, che si dilata fino a uscire dalla Terra, e nel tempo, che recupera ere lontanissime.

Gli uomini pesce è un romanzo epico sulla consapevolezza alla quale l’eroe accede di spaesamento in spaesamento, che gli impone la fatica ai limiti del tollerabile di rileggere da nuovi punti di vista l’ecumene delle proprie conoscenze. Fino alla conclusione lieta di ricomporre la personalità di Antonia e predisporla ad avere un nuovo desiderio, o anche due, come recita la bella frase finale, da esprimere proprio nella notte di San Lorenzo.

Tra le prove più dure da superare c’è il concepire il non-umano in modo nuovo.

Per le considerazioni sul non-umano attingo al saggio bellissimo di Amitav Ghosh, La grande cecità, più volte caldeggiato da Wu Ming 1 come un importante riferimento sul rapporto tra clima perturbato e letteratura, sulla forma romanzesca capace di inglobare “esempi della perturbante intimità della nostra relazione col non-umano”.

Nel tempo abbiamo voltato le spalle al dialogo con le cose e con gli animali, quegli animali di cui Fabio Genovesi nel suo Il calamaro gigante dice che “erano la manifestazione visibile della forza mistica e superiore che da sempre sentiamo esistere sopra di noi… Gli animali erano le nostre divinità. Li ammiravamo, e li dipingevamo sperando di avvicinarci a loro”, come nelle caverne di Lascaux, di Altamira e di Chauvet già quarantamila anni fa.

Ci hanno portato a farlo, dice Gosh, le convinzioni basate sul dualismo cartesiano da cui dovremmo invece staccarci: da una parte sta l’umano a cui appartengono intelligenza e razionalità, dall’altra ogni altro essere a cui le stesse sono negate.

Ora sentiamo più forte che mai la precarietà dell’esistenza umana, siamo preda dello spaesamento che ci porta il cambiamento climatico, il quale “sfida e rifiuta le idee illuministiche…perché suggerisce – anzi dimostra – che forze non-umane sono in grado di influire direttamente sul pensiero umano”.

Il romanzo di Wu Ming 1 risponde alla chiamata del cambiamento che deforma il nostro immaginario: fra i misteri a cui Antonia si accosta il più eclatante riguarda gli esemplari di Homo Bracteatus che fin dagli anni Settanta-Ottanta hanno lasciato tracce in vari punti del Delta.

Si tratta di  un umanoide anfibio col corpo ricoperto di scaglie dorate, sul quale si sono scatenate leggende straordinarie impastate con la ufologia. C’è di che farne un romanzo di fantascienza, e Gli uomini pesce è anche questo ma non solo questo.

È un’opera visionaria in cui l’ipotesi che il bracteatus sia arrivato dallo spazio, da un paese in cui si erano evoluti i dinosauri, trova posto accanto a una panoramica sulla geografia del Delta di assoluto realismo: idrogeologia, geografia e storia del territorio inquadrano il presente e ipotizzano con competenza il futuro.

Mettono il dito sulle piaghe del territorio e propongono soluzioni.

Il finale della narrazione insiste sul compito che Ilario Nevi ha assegnato alla nipote: se lui in prima persona è stato un aedo senza pubblico, esclusi alcuni intimi amici e sodali, ad Antonia resta il compito di ricostruire una collettività attorno alla salvaguardia del Territorio.

Alla letteratura, pure, resta da seguire una analogo cammino, nella proposta così lucida di Gosh che Wu Ming 1 ha accolto e attivato in questo romanzo.

Nota bibliografica:

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, 2024

Amitav Ghosh, La grande cecità, BEAT, 2019

Fabio Genovesi, Il calamaro gigante, Feltrinelli, 2021

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Testimonianze dalla Israele che si oppone al suprematismo dei suoi governanti

Testimonianze dalla Israele che si oppone al suprematismo dei suoi governanti

La cronaca dalla Palestina occupata si arricchisce giorno per giorno di testimonianze sempre più sconvolgenti. Dopo avere riportato la voce dei medici d’urgenza che hanno prestato servizio a Gaza, gli incontrovertibili testimoni delle atrocità commesse (e subite), tanto più importanti come testimoni in assenza della stampa internazionale, non ammessa, e della stampa locale, assassinata, in questo articolo mi concentro su alcune osservazioni e analisi esclusivamente provenienti da politici, giornalisti e attivisti israeliani.

Dov’è papà?

Inizio da QUI .

Nel link sopra, Orly Noy, giornalista israeliana, illustra con raggelante chiarezza quello che Israele intende quando afferma che Hamas usa i civili come “scudi umani”. Israele ha un sistema di intelligenza artificiale che localizza i sospetti terroristi o comunque i suoi obiettivi umani – che spesso l’IA battezza come terroristi sulla base di algoritmi le cui indicazioni vengono assunte senza verifica – e una volta individuati sa sempre dove si trovano. Sa quando sono da soli e quando sono a casa con le loro famiglie. Questo metodo di seguimento ha un nome: “where is daddy?”. Spesso non vengono colpiti quando sono fuori dalle loro case: i cecchini digitali aspettano che siano a casa, e preferiscono bombardarli quando sono lì. In questo modo non fanno fuori solo la loro famiglia, ma tutti gli abitanti del palazzo in cui quella famiglia vive. La domanda sorge spontanea: chi sta usando gli umani incolpevoli come scudi?

Gershon Baskin è un giornalista e attivista ebreo israeliano, nato a New York e immigrato in Israele nel 1978, che ha svolto anche il ruolo di negoziatore per conto di Israele. In una recente intervista comparsa su La Stampa a firma Rula Jebreal,  Baskin afferma che Netanyahu ha rifiutato nel 2024 un’offerta di Hamas per liberare tutti gli ostaggi in cambio del ritiro da Gaza e di un governo palestinese civile. Bibi avrebbe accettato un’ipotesi che prevedesse solo una liberazione parziale di ostaggi. Alla domanda “per quale ragione?”, la risposta di Baskin è lapidaria: “perché vuole continuare la guerra”.

In questo video, Ehud Barak, che è stato primo ministro di Israele, e Ami Ayalon, che è stato a capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele – quindi non esattamente due pensionati che chiacchierano al bar – confermano quello che numerose ricostruzioni facevano sospettare, ma che detto da loro assume la veste di notizia certa: Netanyahu ha favorito il consolidarsi di Hamas come autorità di Gaza, autorizzando massicce entrate di denaro contante a suo favore provenienti dal Qatar. Ayalon ne spiega anche il motivo: Netanyahu lo ha fatto per dividere i palestinesi di Gaza da quelli della Cisgiordania, dove invece “comanda” l’Autorità Palestinese. La logica era di mettere gli uni contro gli altri ed evitare la saldatura tra palestinesi. Divide et impera. 

Nota mia: se c’è una cosa che possiamo constatare con desolazione, è che al di là delle kefiah esibite come simbolo di riscatto in giro per il mondo, una leadership palestinese credibile non esiste da un pezzo, perlomeno a piede libero. L’ultimo leader potenzialmente unificante, Marwān Barghūthī, è in carcere dal 2002, a seguito di una serie di sentenze emesse da tribunali israeliani di cui lui ha contestato la giurisdizione, essendo residente in Cisgiordania. La sua figura era scomparsa dai radar dell’opinione pubblica mainstream: ci ha pensato il fanatico ministro Ben Gvir, con una visita pubblica in carcere tanto tracotante quanto idiota, a fare in modo che i media parlassero nuovamente di lui (che peraltro appare decisamente in cattive condizioni di salute).

Nota mia numero due: siccome Hamas, che gli faceva comodo, gli è sfuggita di mano perché ha coltivato in seno una serpe di violenti vendicatori – cosa che forse poteva essere preventivata, dopo che una popolazione da circa ottant’anni viene espulsa o confinata da un regime di oppressione edificato su base razziale -, Netanyahu adesso non trova di meglio per contrastarla che affidarsi anche ai servigi di un noto criminale e trafficante di droga, Abu Shabab. Come si può leggere su Il Manifesto del 7 giugno scorso (qui), “prima del 7 ottobre, Abu Shabab era stato incarcerato da Hamas con l’accusa di furto e traffico di stupefacenti. È tornato in libertà grazie ai bombardamenti israeliani che hanno distrutto gran parte delle strutture civili di Gaza, comprese le prigioni. Al suo comando ci sarebbero 200-300 uomini, armati di fucili Ak-47 (Kalashnikov) e vestiti con uniformi di una sedicente «Unità antiterrorismo»”.  Shabab è un fondamentalista jihadista, che considera Hamas un’organizzazione troppo moderata. Per la serie: il nemico del mio nemico è mio amico. Peccato che di questo passo finisci per ingaggiare come “amici” i peggiori tagliagole della galassia. Quello che è successo in Libano coi maroniti ed i falangisti ed in Afghanistan coi talebani evidentemente non ha insegnato nulla nè a Israele nè agli Stati Uniti.

 

I palestinesi non esistono

Il doloroso, lucido acume delle denunce ed analisi di sponda israeliana che ho sommariamente riportato, potrebbe trasmettere la sensazione che in Israele stia montando una consapevolezza critica di massa dell’insostenibilità, per la stessa sopravvivenza di Israele come democrazia, di una prospettiva di oppressione, segregazione, apartheid, colonizzazione permanente. A smontare questa speranza, che almeno sul breve periodo somiglia piuttosto a un’illusione, ci pensa Gideon Levy, giornalista israeliano, che sul quotidiano Haaretz riporta (qui) le dichiarazioni “rubate” e trasmesse dall’emittente israeliana Channel 12 del generale Aharon Haliva (che si dimise da capo dell’intelligence all’indomani del 7 ottobre), considerato in Israele un moderato perché critica le posizioni dei falchi fanatici ministri Smotrich e Ben Gvir. Il “moderato” Haliva afferma testualmente: “Per ogni vittima del 7 ottobre 50 palestinesi hanno dovuto morire. Non importa se erano bambini. Non sto parlando di vendetta ma di un messaggio per le generazioni future. Non c’è niente che possiamo fare: periodicamente, hanno bisogno di una Nakba, in modo da sentire il prezzo”. Personalmente non ragionerei in questi termini nemmeno per “rieducare” uno sciame di mosche: in Israele invece ci sono esponenti “moderati” che parlano in questi termini degli arabi. Rammento sempre che, nel dibattito embedded israeliano, i palestinesi letteralmente non esistono, e se qualche suprematista si lascia sfuggire la parola “palestinese” commette una gaffe. Sono arabi, e le parole del generale Haliva chiariscono bene, oltre ogni fraintendimento, la considerazione prevalente di cui godono in Israele gli arabi: membri di una razza inferiore.

La mini rassegna di fatti e misfatti raccontati solo da cittadini israeliani, che da diversi punti di osservazione, alcuni avendo ricoperto ruoli chiave di potere nello Stato di Israele, disvelano il cinismo, la ferocia ma anche la miopia del regime israeliano attuale, mi serve anche per sentirmi confortato dentro questa tragedia. In compagnia (intellettuale e virtuale) anche di tante persone israeliane. Una minoranza dentro Israele, ma significativa. Una fiammella: anche se le manifestazioni di piazza sono sempre più partecipate, esse sono incentrate fondamentalmente sulla sorte degli ostaggi israeliani, e basta. Una fiammella che serve prima di tutto a me, per distinguere bene un governo dal suo popolo. Non è una cosa scontata: anzi, la confusione tra un governo e il suo popolo è proprio la base per consumare sanguinose vendette contro gli innocenti, anziché prendersela con i colpevoli. Tra l’altro, una crescente marea di intollerante e strumentale utilizzo dell’argomento antisemita sta inquinando lo specchio d’acqua della discussione pubblica in Italia, e questo senza che ci sia ancora una legge (ma cova sotto le ceneri) che definisca antisemita ogni critica o manifestazione contro lo Stato di Israele. In questo articolo,  abbiamo già avuto modo di confrontare le idee dei “semiti” che sono considerati antisemiti dai fanatici della terra promessa, con le dichiarazioni cieche e le pratiche criminali dei cosiddetti “semiti” al potere, che stanno attirando – loro sì – sull’etnia ebraica sparsa per il mondo l’antisemitismo di ritorno. Considero inaccettabile lo schiacciamento delle opinioni dentro il recinto della “razza”: oltre ai nazisti, ai jihadisti e ai fanatici di ogni bandiera e culto, se c’è qualcuno di razzista sono proprio i suprematisti al potere in Israele. La realtà distopica odierna invece conferisce dignità a confabulazioni che settant’anni fa sarebbero state considerate frutto di una deriva psichiatrica: così abbiamo una parte di opinione pubblica suggestionata dall’idea che nel girone degli infami antiebrei debbano essere collocati alcuni figli dell’Olocausto, e nel girone dei difensori dell’identità ebraica debbano annoverarsi i figli dei redattori del Manifesto della Razza e delle successive leggi razziali. Questo passa il miserabile convento italiano.

 

Immagine di copertina tratta da https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/

 

 

 

 

 

 

 

Mi lamento, dunque siamo

Mi lamento, dunque siamo

C’è un momento in cui il lamento – anche  il lamento sul… lamento -, se troppo a lungo coltivato, smette di essere resistenza e diventa posa. L’articolo di Franco Arminio su Robinson del 27 luglio, dedicato al Festival del Lamentoche si terrà in Calabria a Soveria Mannelli (CZ) dall’ 1 al 4 Agosto, è l’ennesima riproposizione di una poetica del Sud che si nutre di malinconia, di biografie dolenti, di paesi che si svuotano e cuori che si spezzano.

Ma il Sud non può essere sempre proposto o ridotto a un fondale per la poesia, uno stereotipato realismo magico, né un pretesto per la malinconia. Il Sud – e intendiamo i Sud, del mondo, tutti – è una questione politica, economica, culturale. E il lamento, se non si fa gesto collettivo e rivoluzionario, resta estetica dell’impotenza.

Non si tratta quindi di negare il valore antropologico del lamento. Le Lamentazioni di Geremia sono tra le pagine più alte della Bibbia, e in esse il dolore diventa canto, invocazione, resistenza spirituale. Ernesto De Martino, in Sud e magia, ha mostrato come il lamento funebre nelle culture contadine del Mezzogiorno fosse un rito di reintegrazione, un modo per dare forma al caos delle perdite, degli allontanamenti forzati, delle migrazioni.

E persino Philip Roth, con Il lamento di Portnoy, ha trasformato il lamento in una forma di autoanalisi ironica e spietata, capace di mettere a nudo le nevrosi di un’intera generazione.

Lamentarsi, in fondo, è un gesto profondamente umano. È ciò che facciamo quando ci sentiamo traditi (o traditori), abbandonati (o incuranti), impotenti (o spavaldi). È ciò che fanno i nostri genitori, i nostri amici, i nostri paesani. Quelli che restano e quelli che partono da… un’area interna.

E forse è proprio da lì che nasce la nostra prima ribellione: dal fastidio verso chi ci è più vicino, verso chi si lamenta troppo. Ma in quel fastidio c’è anche riconoscimento. Perché, in fondo, ci somigliamo. Perché siamo anche noi, a volte, quelli – io , Arminio, voi – che si lamentano.

Viviamo in un’epoca in cui il lamento è visto come un fallimento. Bisogna essere performanti, presenti, sorridenti. Bisogna mostrarsi vincenti, bon viveur, sempre in forma. Il dolore, la stanchezza, la fragilità non hanno più cittadinanza. E allora sì, forse, un festival del lamento potrebbe avere senso. Ma solo se saprà sottrarsi alla logica dello spettacolo. Solo se saprà restituire dignità a ciò che oggi viene nascosto, silenziato, deriso.

Il problema non è il lamento in sé, ma il suo uso. Quando diventa cifra stilistica, quando si riduce a diario personale, quando si fa narrazione individuale senza sbocco collettivo, allora smette di essere utile. I Sud non sono una somma di casi personali. Sono una storia comune, fatta di sfruttamento, abbandono, ma anche di resistenza, mutualismo, intelligenza diffusa.

Serve allora una critica incarnata, che parta dai corpi, dai territori, dalle lotte. Servono quei Sud che non si piangano addosso, ma che si pensino come soggetto politico. Che rifiutino la narrazione vittimistica e costruiscano alternative. I Sud della prima Università di Italia, quella di Arcavacata di Rende, o dei paesi dell’accoglienza come Riace, quelli della restanza descritti da Vito Teti.

I Sud dove meridionali si nasce e quelli dove si diventa come dice Sandro Abruzzese nel suo ultimo libro (Meridionali si diventa, Rogas Edizioni, 2025), quei Sud che non si accontentano di “entusiasmo e spirito critico”, ma pretendono giustizia, redistribuzione, dignità.

Il lamento, se vuole avere senso, deve diventare rivolta. Solo allora potremo dire, parafrasando Camus: mi lamento, dunque siamo.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Viaggio in Italia. L’associazione Calimero

Viaggio in Italia. L’associazione Calimero

Difficile scrivere stasera. Emozioni ancora vive, gioie e soddisfazioni profonde, d’un valore che non vuole proprio diminuire – non esiste l’inflazione nei sentimenti – si sommano sovrapponendosi e provocando in me un dolce languore, un’onda di risacca che va e viene, portando a galla l’immenso affetto che mi lega a molti dei volontari e dei “ragazzi”, come ci ostiniamo ancora a chiamarli, anche se alcuni hanno oramai quarant’anni. L’unica speranza che ho è di procedere con ordine.

Nel 1998, al termine di un campo vocazionale della Parrocchia dell’Immacolata, in cui ero praticamente ospite ateo e confuso – per niente felice, alla faccia di Carmen Consoli – andai dall’amato e compianto Don Giovanni (anche se allora lo conoscevo appena), con la richiesta di fare volontariato, preferibilmente con i disabili, visto che mi ero appena licenziato da un Centro Educativo Riabilitativo.

Con mio sommo stupore la Parrocchia aveva al suo interno un’associazione specifica, fondata da alcuni ragazzi qualche anno prima, che si occupava di disabilità: il “Calimero”.
Immaginate un gruppo di 30, 40 volontari, singoli o famiglie comunque giovani – o almeno lo eravamo allora – con i relativi figli, d’età variabile fra i 5 anni ed i 14, aggiungete l’assoluta mancanza di timore reverenziale, la capacità di affrontare situazioni difficilissime sdrammatizzando, la voglia di divertirsi e di divertire (i “ragazzi”). Aggiungete un pizzico di sana follia, una ventina di diversamente abili d’ogni tipo, shakerate il tutto e… Voilà, la vacanza “Calimero” è servita, bella fresca e spumeggiante, in un boccale di metallo e ceramica da Oktoberfest.

Anche se oramai brillo per la mia assenza, per anni ho partecipato alle vacanze di Capodanno, Pasqua ed a quelle estive, le più lunghe. È abitudine dell’associazione infatti – oltre a garantire pomeriggi in cui si svolgevano varie attività (musica, psicomotricità e attività ricreative), nonché le uscite del sabato per una pizza tutti assieme (ogni quindici giorni, chi poteva o voleva) – prendere in affitto case vacanze per gruppi o vecchi alberghi dismessi, quasi sempre in località di montagna o di collina, e gestire tutte le attività della giornata, dalla colazione, alle uscite, fino alla cena e al dopocena.

Durante quei giorni sono nate e si sono cementate negli anni, amicizie profonde e durature, nonostante tra di noi, non tutti si frequentino abitualmente gli uni con gli altri. In quelle lunghe giornate, a volte difficili e lunghe, specie per i responsabili, ogni avvenimento, ogni problema, piccolo e grande, veniva affrontato e risolto, grazie alla forza immensa della condivisione.

Eravamo veri e propri “compari” (cum panem), spezzavamo e dividevamo lo stesso pane, ogni giorno, e ne avanzava sempre, proprio come nell’episodio evangelico dei pani e dei pesci (Mc 6, 35-44), che precede e introduce l’istituzione dell’Eucarestia, ognuno di noi raccoglieva più di quanto donasse. È la forza della gratuità e della letizia francescana, e non importava che molti di noi non fossero praticanti: eravamo tutti veri credenti, perché rispettavamo e seguivamo il “comandamento nuovo” (“Che vi amiate gli uni con gli altri; come io vi ho amato, anche voi amatevi gli uni con gli altri”. Gv 13, 34-35).

Seguendo e trascrivendo il flusso di coscienza dei ricordi, ecco allora un’intera camerata che esce a dormire in corridoio a fronte del mio russare (sic). Mi sveglio, non vedo più nessuno, dico a tutti di rientrare e passo la notte a leggere ed a fumare, alternando passeggiate semi – notturne con alcune volontarie ed una delle nostre “ospiti” che si era svegliata alle quattro del mattino urlando: ‘llazione!!! Colata!!! (colazione e cioccolata). Mentre ero su di una panchina, all’esterno, due volpi mi passano davanti in processione. Qualche ora dopo, verso le sei, prendo l’auto, vado in paese, trovo un forno aperto e compro trenta bomboloni per farmi perdonare.

Ecco ora un viaggio di ritorno interminabile, come la coda sulla Brennero – Modena, passato ad ascoltare M. che, nonostante le difficoltà fisiche e di parola – lievi a dire il vero – costruisce lì per lì, una sorta di poema immaginario sulle nuvole che vede dal finestrino dell’auto.

Un’altra vacanza a Gudon di Chiusa, con il mio amico Massimo che pulisce un tavolo da ping pong verde, in cemento, ma il prodotto usato inizia a decolorarlo e io, piegato in due dalle risate – e memore forse, chissà perché, di qualche partoriente nei vecchi film western – gli urlo: “buttaci dell’acqua calda!”. Lui – purtroppo – mi dà retta e lancia una pentolata d’acqua bollente sul cemento del tavolo che inizia letteralmente a colare vernice verde, mista ad acqua fumante, da tutte le parti.

Ricordi. Preziosi frammenti di vita incisi nella memoria in modo indelebile da essere qui, ora, mentre scrivo. Grazie amici, con o senza l’ ”H” davanti, è soprattutto grazie a voi se oggi posso dire di aver avuto una vita piena e felice. Intanto, quei bambini di allora sono cresciuti, diventando ragazzi straordinari, anche grazie alle uscite ed alle vacanze comunitarie. Sono già adesso il futuro del “Calimero”, tanto che pensando a loro, capaci di raccogliere un eredità così importante, ad ai miei tanti alunni di questi vent’anni di insegnamento, a volte non mi pesa affatto il non aver avuto figli.

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Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Ritorno a Pontalba

Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Ritorno a Pontalba

Dopo un mese dalla mia prima presenza in paese e dopo due dalla morte della contessa, tornai a Pontalba. Sia nei bar che nei negozi si parlava ancora del cielo verde sopra la villa il giorno della morte di Maria Augusta, anche se la notizia non faceva più scalpore.

Come tutti gli accadimenti umani, anche i più strani dopo un po’ acquisiscono l’etichetta di ‘passati’ e vengono archiviati come le pagine già lette di un romanzo di racconti, seppur originali. Si erano abituati tutti alla notizia che il cielo era verde sopra Villa Cenaroli il giorno della morte della contessa e, la normalizzazione dell’evento, aveva permesso sia di parlarne sia di dimenticarsene.

La vita degli abitanti di Pontalba procedeva come sempre lenta e curiosa come le sponde del fiume intorno al quale il paese era cresciuto. Il Lungone scorreva, con la sua acqua insidiosa, verso la foce e i pescatori animavano le sue sponde insieme alla vegetazione e alla fauna locale. Un bell’insieme di vita, pensieri, attese e ricordi.

Presi una stanza al Pontalba Hotel, non troppo originale come nome ma adatto al contesto, visto che non esistevano altri alberghi in quel paese e non era necessaria alcuna distinzione da altri posti di pernottamento. Arrivai il 3 marzo, me lo ricordo perché è il giorno del compleanno di mio cugino Armando, e trovai un muro di nebbia fitta e morbida come una cagliata appena fatta. Una poltiglia bianca, densa e impenetrabile.

– Oggi c’è nebbia. Peccato, non si vedono i campi che sono già di un bel verde acceso – così mi disse la signora della reception, una certa Erika dal bel fisico e dalle labbra rosso fuoco. Una ragazza socievole con cui mi intrattenni più volte a chiacchierare. Mi diede una stanza al secondo e ultimo piano dell’albergo. Una bella camera spaziosa con la finestra e il balcone rivolti verso Cominella, la frazione di Pontalba dove è ubicato il santuario di Santa Capellina Assunta.

Appoggiai la mia valigia vicino al letto di ferro e mi sedetti sul materasso per osservare il resto della stanza. Un grande armadio di legno scuro di circa centocinquant’anni e un comodino dello stesso periodo, entrambi verniciati di fresco e ben tenuti. Una scrivania e una sedia di legno laccato e due poltrone ricoperte di un tessuto a strisce color crema e rosa, un tappeto che ricordava il tessuto delle poltrone, uno specchio sopra lo scrittorio.

Il bagno era piccolo, azzurro, con i sanitari e la doccia, un secondo specchio, un asciugacapelli e dei teli di spugna azzurri. Non era un arredamento particolarmente ricercato, ma piacevole e ben tenuto. I teli del bagno erano ripiegati e stirati, le lenzuola del letto tiratissime, il piumino arrotolato verso la parte del letto dove avrebbero potuto riposare i miei piedi.

Sul cuscino era appoggiato un cartoncino con scritto: “benvenuto a Pontalba” e sopra il cartoncino era collocato, un po’ in bilico, un cioccolatino a forma piramidale, assai invitante. Ero di nuovo là. Non so per quale motivo quel posto mi faceva sentire a casa.

Un paese della pianura lombarda, attraversato dal fiume, ricco di vegetazione, con poche case e pochi abitanti, una villa vicino al fiume con un parco magnifico e dei veri Conti che vi abitavano. Tutto lì, un piccolo mondo curioso.

Il mio capo voleva che scrivessi un articolo per TresciaOne sulla morte della contessa Maria Augusta e che indagassi sulla diceria assai bizzarra che dalla sua tomba, il giorno dell’inumazione, fosse uscita una volpe verde. Una vera stranezza, però in paese tanti erano convinti che fosse successo davvero. Si diceva che una volpe verde fosse uscita dalla tomba mentre vi stavano calando la bara per poi dirigersi verso il boschetto vicino, incurante della gente raccolta intorno al feretro per l’ultimo saluto alla morta.

Non solo, la mattina in cui la cameriera aveva trovato la contessa morta, il cielo era diventato verde sopra villa Cenaroli. Ma se per qualche rara congiuntura metereologica può capitare di vedere il cielo verde, una volpe non può diventare improvvisamente verde per poi tornare del suo colore originale.

Quindi perchè Clementina, la cameriera personale della morta, il panettiere e il lattaio avevano visto la volpe di quel colore? era stato lo stato emotivo di quel particolare momento? Forse il cielo verde aveva lasciato nelle loro retine una forte impressione e il colore era stato traslato sulla volpe semplicemente per un fenomeno psichico non del tutto spiegabile, ma nemmeno del tutto sconosciuto, qualcosa che poteva avere a che fare con l’autosuggestione? Ma esistono le volpi verdi? Qualcuno ne ha mai viste?

Il manto delle volpi può essere rossiccio o bianco, non mi risultano malattie volpine che possano alterare questi colori. Però la volpe poteva essersi strusciata in una particolare erba, ci sono erbe che lasciano colore e macchiano. Qui è capitato a tutti di ritrovarsi alla sera con i pantaloni striati di verde. L’animale si era semplicemente rotolato in un’erba particolarmente macchiante?

Insomma, non si sapeva come spiegarsi l’accaduto e il mio capo mi aveva rispedito a Pontalba per indagare. Quando ero stato qui la prima volta, avevo raccolto alcune testimonianze sulla vita di Maria Augusta e diverse persone mi avevano raccontato che il verde smeraldo era il colore preferito della nobildonna, la quale possedeva una magnifica collana di quelle preziose pietre.

Pensando agli smeraldi mi sorpresi a ricordare quando, diversi anni fa, ebbi una fidanzata che mi piaceva particolarmente e per un po’ di tempo pensai di sposarla. Andai in una gioielleria per comprarle un anello con lo smeraldo e scoprii che non avevo i soldi per pagarlo se non facendo un mutuo. Lessi quell’esperienza come un cattivo presagio e dopo un po’, forse condizionato da questi miei retropensieri, interruppi quella relazione che stava cominciando a non convincermi più.

Mentre pensavo alla mia ex che si chiamava Lina e cercavo di mettere in fila le informazioni che avevo già raccolto sull’apparizione della volpe, ero ancora seduto sul materasso della mia stanza d’albergo. Dalla finestra che dava verso Cominella, la nebbia cominciava a diradarsi e si intravvedevano macchie di verde che facevano capolino nel bianco.

Una visione particolare e suggestiva che solo nelle zone d’Italia dove si è avvezzi alla nebbia fitta, si vede. Se ci si concentra sul bianco e la giornata prosegue verso il mezzodì, ad un certo punto compaiono come dal nulla delle sagome prima sfuocate e poi sempre più nitide e si cominciano ad intravvedere piante, case, macchine, persone. Gradualmente le forme si mostrano per quello che sono, emergono dal bianco. Un fenomeno suggestivo e romantico che consiglio come esperienza materiale e spirituale insieme.

Pensando a dove riprendere le mie ricerche per poi scrivere l’articolo sulla morte della contessa, ricordai che mi era stato suggerito da alcuni Pontalbesi con cui avevo parlato un mese prima, di chiedere una spiegazione su quegli strani fenomeni di trasformazione del colore a una certa Costanza Del Re che abitava in via Santoni Rosa e che conosceva Maria Augusta perché era amica di sua figlia Malù.

Mangiai il cioccolatino, feci una doccia veloce, misi un paio di jeans e un maglione di lana nero e scesi nella hall dell’albergo per chiedere a Erika dove e quando trovare Costanza Del Re. Erika mi disse che conosceva Costanza, abitava a poche centinaia di metri da casa sua, in Via Santoni Rosa, la via che ha sull’angolo la forneria di una certa Camilla e che scende verso la parte bassa del paese, dove si ammucchiano le case dei Pontalbesi meno fortunati, perché la zona è a livello del fiume ed è più soggetta ad esondazioni.

La casa di Costanza Del Re rasentava le vecchie mura medioevali di Pontalba. Mi misi in cammino, uscii dall’albergo e mi diressi verso la forneria di Camilla, dove pensavo di fare una tappa prima di andare dalla signora con cui volevo parlare. Da quel che mi aveva detto Erika, il negozio di Camilla e la casa di Costanza erano vicine, una sul cantone della via e l’altra qualche casa più in là, entrando in via Santoni. Di fronte alla Casa dei Del Re c’era quella dei Canali, signori che avevano un’impresa di trebbiatura florida e conosciuta. Mi feci coraggio ed entrai nel negozio.

– Buongiorno – dissi

– Buongiorno – mi rispose una ragazza da dietro il banco. Ecco Camilla, pensai.

 – Mi dica – disse.

Per non sembrare inopportuno comprai una lattina di birra e una confezione di crakers.

Sono un giornalista, sto indagando sugli strani eventi associati alla morte della Contessa Maria Augusta, lei ne sa nulla? –

-Certo, a Pontalba tutti sanno tutto di tutti, bisogna solo discriminare ciò che è vero da ciò che non lo è.

Interessante risposta, come in tutti i paesi del mondo anche qui circolavano sia notizie vere che false e la scommessa giornaliera era quella di riuscire a capire quali appartenevano alla prima categoria e quali alla seconda.

Camilla mi sembrò subito molto consapevole di tutto ciò, il suo lavoro le garantiva un osservatorio di rilievo su quel piccolo lembo di Lombardia. Le dissi della volpe verde e lei mi rispose che alle volpi vedi lei non credeva minimamente e che la gente di Pontalba doveva smettere di inventarsi fesserie. Subito dopo vidi entrare una signora con dei lunghi capelli neri e sentii Camilla dire:

– Ciao Costanza!

‘Ecco Costanza Del Re in persona’ pensai, e mi girai a guardarla. Nonostante la mia decennale esperienza di giornalista e il mio aver registrato eventi e luoghi di ogni genere, rimasi stupito. Gli occhi di Costanza erano di uno strano verde, esattamente come lo era il suo abbigliamento. La giovane era interamente vestita di verde! Io credo alla coincidenza e da quella visione rimasi completamente attratto.

Questo signore che fa il giornalista, vuole informazioni sulla volpe verde – disse Camilla senza aggiungere altro, perché ciò che aveva detto riassumeva ed esauriva il senso della mia presenza.

Costanza si mise a ridere e poi si girò verso di me e mi disse:

– È capitato nel posto giusto, le volpi vedi esistono solo qui e sono bellissime.

Mi chiesi di quali volpi stesse parlando e per un momento mi sembrò una volpe verde pure lei, bella e furtiva. “Questo paese ha davvero qualcosa di strano” pensai, e così facendo mi cadde dalle mani la lattina di birra e feci un fracasso terribile nel negozio… o almeno così mi sembrò quel giorno.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Per certi Versi / I passi dei fantasmi

I passi dei fantasmi

Hai portato via l’aria

e il polline dell’ultima

margherita

 

i venti d’estate

li hanno ingoiati i draghi

 

soffoca la mia identità

nell’arsura della promessa

 

hanno passi lunghi i fantasmi

sorpassano i passi

senza fare rumore

 

In copertina: Foto da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

FILASTROCCA DEL PAESE DI ATINAMÙ

FILASTROCCA DEL PAESE DI ATINAMÙ

Noi viviamo nel paese di Atinamù [1]
Umanità qui non ce n’è quasi più,
sembra ci siam scordati come si fa
a vivere insieme senza aggressività.
Ogni cosa va proprio al contrario
‘sto manicomio non ha dizionario:
della pace non sappiam l’alfabeto,
della guerra impariamo il segreto.
Dicono: le armi sono per far pace
che è come dir l’acqua crea brace.
Il sotto è sopra, il bianco è nero:
ci dicono tutti che il falso è vero.
Basta! Buttiamo pistole e fucili,
facciamo insieme aiuole ed asili.
Distruggiamo le mine e le bombe
e godiamoci il volo delle colombe.
Smontiamo i missili aerospaziali
costruiamo più scuole e ospedali.
Pensa a come sarebbe più bello
sentire di avere più di un fratello;
se vivessimo insieme abbracciati
sentendoci bene, non minacciati;
immagina come sarebbe giusto
se della pace amassimo il gusto.
Questo mondo per adesso non c’è,
però cominciamo a crearlo io e te:
Vedrai, se proviamo succederà
e sarà bello tornare a Umanità.
Noi siamo preziosi cristalli di sale
ognuno diverso, ciascuno uguale;
siamo tutti come gocce di pioggia
l’una all’altra s’unisce, s’appoggia;
siamo tutti come i fiocchi di neve:
se la pace si regala poi si riceve.

[1] Per chi non l’avesse capito Atinamù è il contrario di Umanità

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Israele, il Leviatano che per divorare Amalek mangerà se stesso

Israele, il Leviatano che per divorare Amalek mangerà se stesso

 

Amalek (/ˈæməlɛk/;[1] ebraico biblico: עֲמָלֵק‎, romanizzato: ʿĂmālēq) è descritto nella Bibbia ebraica come il nemico della nazione degli Israeliti. Il nome “Amalek” può riferirsi ai discendenti di Amalek, nipote di Esaù, o a chiunque vivesse nei loro territori in Canaan, o ai discendenti nordafricani di Cam, figlio di Noè. (Wikipedia)

Lo Stato di Israele nella sua spaventosa veste attuale è una teocrazia democratica, oppure una democrazia teocratica. In quanto tale, è all’avanguardia non solo nelle operazioni di assassinio e mutilazione della popolazione indigena con droni e missili, ma anche nel tentativo di rendere compatibile un sistema giuridico di stampo anglosassone, un apparato giudiziario teoricamente separato dal potere politico e la Torah. La compatibilità risiede in questo: se la Torah dice che devi sterminare tutti i discendenti di Amalek, devi sterminarli, perchè la Torah è la fonte giuridica delle altre norme, la vera costituzione materiale in uno Stato che non ha una Costituzione formale. Quindi nel cestino non va buttato solo il diritto internazionale, che giace appallottolato lì dentro da un pezzo, ma il diritto penale e tutta la teoria della separazione dei poteri, delle prove, del contraddittorio e del giusto processo, sulla quale poggiano tutte quelle che si autodefiniscono democrazie di stampo occidentale, come Israele dichiara di essere. Tutto nel cestino, almeno se stiamo parlando di arabi (non palestinesi: i palestinesi non esistono). Peccato che voler governare secondo il librò di Giosuè, opera di autori ignoti, collocabile attorno al quinto secolo prima di Cristo sulla base prevalentemente di tradizioni orali, sarebbe come se in Italia scrutassimo nelle viscere degli animali come facevano gli aruspici per varare la legge finanziaria, o se in Grecia consultassero l’oracolo di Delfi. Ma Israele rappresenta il popolo eletto, per cui l’apodissi messianica è l’architrave dello Stato.

A proposito di proposizioni apodittiche: quindi, se sei ritratto in una foto assieme a un capo di Hamas, o hai scritto un presunto post di giubilo su telegram (essendo peraltro sotto lo stivale di un regime segregazionista da quando sei nato) sei tu stesso un massacratore di ebrei, travestito da qualcosa, in questo caso da giornalista di Al Jazeera. Quindi noi, un Salvini premiato dagli israeliani e una Meloni che, invece di farlo arrestare, stringe la mano a Netanyahu, massacratore di palestinesi travestito da primo ministro, li dovremmo non dico bombardare – non sono mica arabi – ma almeno mandare alla sbarra come criminali di guerra (quanto alle foto in compagnia di qualche pendaglio da forca, tra tutti e due avrebbero già preso l’ergastolo). Ma noi in Italia siamo garantisti: anzi, se un libico che ci aiuta a gestire il traffico di esseri umani è accusato di stupro di bambini, lo rimandiamo a casa sua con l’aereo di Stato (saremo anche il terzo fornitore di armi di Israele, ma quel minimo di tradizione diplomatica per coltivare buone relazioni con il nord Africa ci è rimasta).

Ma torniamo a Israele, la terra promessa. La Torah va applicata con puntiglio e scrupolo: per me tu sei un terrorista figlio di Amalek, ergo ho il diritto di ammazzare te e tutta la tua troupe, e ho già ammazzato tuo padre, che è pur sempre il padre di un terrorista, quindi ha una culpa in re ipsa – oltre ad essere arabo, che da solo già basterebbe. Giusto per confrontare giornalisti sotto le bombe con giornalisti in sofà, a quale pena bisognerebbe sottoporre i sechi i capezzone le picierno i prado e tutti i difensori di un governo che spara in testa ai bambini e sequestra ai medici in entrata a Gaza tutto il latte artificiale per i neonati? (Ah giusto, paragone inappropriato: a Gaza non esistono giornalisti ma terroristi. A Gaza non esistono palestinesi, ma arabi).

Sì, hai capito bene. Qui e qui    puoi ascoltare e vedere le testimonianze (tra le tante) di due medici d’urgenza che, all’ingresso a Gaza, si sono visti sequestrare dalla polizia israeliana tutte le dosi di latte artificiale destinate ai neonati, che portavano con sé. E tutti i colleghi con i quali hanno parlato riferiscono la stessa cosa: il latte artificiale (la cosiddetta baby formula) viene trattenuto dall’esercito, in modo che nemmeno un grammo possa arrivare negli ospedali dove i neonati stanno morendo di fame. C’è bisogno di uno sforzo logico per capire qual è il senso di tutto ciò? Amalek non deve avere discendenti, quindi far morire i discendenti di Amalek non è peccato, ma è giusto, anzi: è santo. La parola di Dio.

Nella storia della specie umana, quando un popolo decide di farsi dettare la legge da Dio, regolarmente quel Dio risulta il peggiore dei criminali, un angelo sterminatore. Quando guardo ciò che sta facendo il governo – e purtroppo lo Stato – di Israele non mi viene in mente dio, ma un Leviatano che nell’ossessione di divorare tutti gli amaleciti finisce per mangiare se stesso. Acquisisce una terribile attualità la lettera aperta che Hannah Arendt, Albert Einstein ed altri ventisei intellettuali ebrei inviarono al New York Times nel dicembre 1948, alcuni mesi dopo la fondazione dello Stato di Israele. In questa lettera mettevano in guardia gli Stati Uniti dal dare credito all’emergente leader ebraico (bielorusso) Menachem Begin, prima della fondazione di Israele a capo di un movimento terrorista suprematista, responsabile tra gli altri del massacro di Deir Yassin, le cui prassi anticiparono quella condotta coloniale e conquistatrice che è diventata la cifra dello Stato e oggi sembra non avere più ostacoli. Si tratta di un documento centrale non solo per la provenienza e l’autorevolezza dei sottoscrittori, ma in quanto profetico della supremazia che la vena messianica e fascista del movimento sionista ha acquisito sull’anima laica e multiculturale, che ormai si esprime prevalentemente attraverso gli intellettuali ebrei che vivono fuori da Israele.

A questo link puoi leggere il testo integrale della lettera.

 

Cover image. https://www.deviantart.com/rdj73/art/Biblical-Creature-The-Leviathan-1160319462, Creative commons

 

 

 

COME AL CINEMA
un racconto

COME AL CINEMA
un racconto

Per strada non c’è un’anima, solo lui e la sua anima. È una notte di fine inverno, freddissima, senza luna e senza nebbia. I contorni delle cose, le case, gli alberi, i cartelli pubblicitari sembrano ripassati con la china. Il casello di Ferrara sud è chiuso, un incidente dice la radio, un’autobotte rovesciata.

Guarda l’ora sul cruscotto, le due, è ancora in tempo. Tutte le strade portano a Bologna, mancano due ore al suo volo, il check-in chiude alle quattro e un quarto. Niente autostrada, meglio, non gli è mai piaciuto guidare in autostrada, non si vede niente, si parte e si arriva come in un tunnel.

Lascia la Porrettana, la strada che i bolognesi chiamano via Ferrarese e i ferraresi via Bologna, volta a destra e si infila nel lungo rettilineo che conduce a Poggio, la prima stazione dell’antica via Galliera, vede sulla sua sinistra l’antica torre sbrecciata dell’Uccellina.

Spegne la radio. Sua mamma è morta da un anno, un anno esatto. Si è spenta come una candela a fine corsa. Non ha sofferto, si dice sempre così, chissà se è vero. C’era un vecchio prete ad officiare la messa funebre, uno che sua mamma non l’aveva mai vista, aveva fatto un’omelia standard, un mucchio di sciocchezze su quanto era buona e quanto era pia la signora Caterina, e quanto grande fosse la sua fede.

Invece lui sua mamma non l’aveva mai vista pregare, se lo faceva, lo faceva di nascosto e della chiesa cattolica apostolica romana e dei preti aveva una pessima opinione. Forse a Dio ci credeva, ma Dio era decisamente troppo lontano, almeno per lei, meglio Gesù Cristo. Fede o non fede, lei dell’aldilà non se ne occupava e preoccupava, nemmeno a un passo dalla morte aveva perso la sua sublime ironia.

Quando l’aveva interrogata su cosa si aspettava di trovare dall’altra parte: Non ti pare una domanda un po’ prematura, così gli aveva risposto candidamente. Una settimana dopo era già troppo tardi, non parlava più, un pomeriggio aveva chiuso gli occhi e se n’era andata, senza chiedergli il permesso.

Con questo ricordo aveva raggiunto Poggio Renatico. Intanto si era alzato il vento. Nel nero della notte passavano veloci lenzuoli bianchi, arrivavano e sparivano, poi una nebbia opaca occupò tutto il campo visivo. Poco male, pensò, lui non aveva paura della nebbia, la maledizione dell’automobilista per lui non era una maledizione, ci era nato con la nebbia, qui nella bassa padana ci nuotiamo nella nebbia, è come una vecchia zia che ci dà appuntamento ogni inverno,  se non arriva ci rimaniamo male.

Rallentò, azionò i tergicristalli, ancora c’era visibilità a una cinquantina di metri. Vide all’ultimo momento il cartello di San Venanzio. Ora la strada descriveva una lunga curva a novanta gradi. La percorse a venti all’ora, dentro un mare di latte sempre più denso; la curva non finiva mai. Ricordava il cartello di San Vincenzo appena finita la curva, ma anche il cartello era scomparso, come se si fosse infilato nella manica di un cappotto.

E ora? Impossibile proseguire. Fermò la macchina sul ciglio della strada e uscì fuori dall’abitacolo. Stese le mani davanti a sé, sparite. Una nebbia così non l’aveva mai vista, era come sperimentare una quarta dimensione. Ma se il suo mondo era scomparso, che mondo era quello? Un mondo opaco, incognito, diverso, opposto, un Altro mondo. C’era da averne paura?

Si incamminò lentamente. In strada non passava nessuno, era solo, avanzava nel niente di niente, attento solo a non deviare dal pezzetto di asfalto sotto i suoi piedi. Guardò il cellulare: nessun segno di vita. L’aveva caricato prima di partire ma ora era spento, provò a spingere qualche tasto, niente da fare, il telefono era morto.

Forse era passata mezz’ora, gli pareva molto di più, e aveva percorso poche decine di metri. Doveva solo camminare, camminare e non perdere la calma, e sarebbe arrivato da qualche parte, ma la calma se n’era già andata. Si sentiva agitato. No, si sentiva spaventato. Come se in quel mondo ci fosse solo lui e dovesse affrontare da solo il niente dell’universo.

D’un tratto vide una luce nella pancia scura della nebbia. Era una luce piccola, rossa, fioca e lontana. Pensò a quel lumicino che brilla nel bosco delle favole. Riprese a camminare, quella luce era la sua meta, la sua salvezza.

Proprio come nella favola, lui camminava, quasi correva ora, ma la lucina rossa sembrava allontanarsi. La strada faceva un’altra curva, la luce era scomparsa, ma infine ritornò a brillare, finalmente più grande, sospesa sopra la linea dei suoi occhi. Era l’insegna al neon di un bar, Biassanot c’era scritto. Per entrare bisognava salire tre gradini di mattoni.

In quel momento, dalla porta a vetri uscì un signore distinto vestito come a un matrimonio, un completo di lino blu, fazzoletto nel taschino della giacca, camicia di seta azzurra e un farfallino rosa. Il signore gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: Si accomodi pure, le lascio volentieri il mio posto. Fece per dire grazie, ma il signore scese di corsa i gradini sparendo nella nebbia.

Entrò. Il locale era un unico grande stanzone con un pavimento di vecchie tavole di legno, la sala era illuminata da una lampada a soffitto, emetteva una luce rossa, che lasciava la sala in penombra. Nonostante l’ora, doveva essere almeno l’una di notte, il bar era pieno, tutti i tavolini erano occupati, uomini e donne vestiti eleganti, parlavano tutti a voce molto bassa, producendo un brusio di fondo indistinguibile. Si guardò intorno, gli era venuta una gran sete.

In fondo alla sala c’era un lungo bancone. Lo affrontò subito una barista alta e gentile con un completino azzurro cielo: Anche lei questa notte non riesce a dormire? Ha voglia di parlare o di ascoltare una storia? Si accomodi al suo tavolo, qui non serviamo al banco. La barista gli indicò un tavolo in fondo a sinistra, l’unico che aveva ancora una sedia vuota.

E per l’ordinazione? Può ordinare a me, disse la barista. È che sono un po’ scombussolato, si scusò, è una notte strana. Non deve preoccuparsi, tutte le notti sono strane. Vorrei qualcosa di forte, un Americano. Avrà il suo americano, ma ora faccia il bravo, vada a sedersi al suo tavolo, quello là in fondo.

Si accorse che le gambe facevano fatica a sostenerlo, barcollava, colpa di quella piccola avventura, pensò, e della nebbia, la stanchezza, i pensieri. Si diresse al tavolino che gli era stato indicato. Si sedette senza salutare nessuno e chiuse gli occhi; ecco cos’era, era stanco morto.

Forse si era addormentato per qualche secondo, lo svegliarono le voci dei suoi vicini, o forse dormiva ancora. In quel breve sogno aveva riconosciuto la voce di sua madre e una vecchia scena famigliare, era a tavola, aveva dodici anni e arrivava il suo solito rimprovero: Fammi il favore Alberto, guarda, sembri un sacco vuoto, stai composto sulla sedia.

Aprì gli occhi, o forse no; quella voce continuava: Non mi piaci così, hai la barba lunga, i calzoni sporchi, ti sei lasciato andare in questo ultimo anno. Si raddrizzò sulla seggiola e sbatté le mani sui jeans, erano tutti sporchi di terra.

La barista vestita di azzurro gli portò al tavolo il suo cocktail. Era proprio gentile: Signor Alberto si rilassi, sta andando tutto bene. Ma come faceva a conoscere il suo nome? Quella notte le cose strane cominciavano ad essere troppe.

Sorseggiò il suo Americano e finalmente alzò gli occhi e guardò chi gli stava di fronte. Era una signora minuta con un abitino a fiori, tutta china sul piano del tavolo e con in mano un fante di denari. Tutte le altre carte erano distese sul tavolo tra un bicchiere e l’altro.

La signora non badava a niente e nessuno, era totalmente impegnata in quel solitario che alcuni chiamano Lo Zoppo, dove le carte lunghe (Bastoni e Spade) si devono alternare a quelle corte (Denari e Coppe). Con molta fortuna e un po’ di abilità, alla fine tutte le carte devono tornare ordinate nelle case dei quattro semi. Ma Lo Zoppo non è un solitario generoso.

Quasi sempre qualcosa si blocca, i Re sbarrano la strada agli Assi, le carte lunghe non trovano un compagno tra le carte corte, E allora niente da fare, non si può più andare avanti, si raccolgono le carte, si mischia il mazzo e si ricomincia da capo.

Conosceva bene quel gioco. Era il solitario preferito di sua madre, ogni sera prendeva il mazzo e giocava allo Zoppo. Se il solitario non riusciva, sua madre aiutava la fortuna con qualche mossa non consentita dal regolamento, un piccolo imbroglio, un peccato di cui sua madre si autoassolveva. Hai imbrogliato ancora, le diceva, Ma lei rispondeva con un sorriso birichino alle sue proteste.

La signora del bar seduta di fronte a lui barava al gioco proprio come sua madre, usando la stessa furbizia, gli stessi imbrogli.  Fu allora che si accorse che la signora col vestito a fiori era proprio sua madre, solo un po’ più giovane di come la ricordava e si meravigliò di non essere sorpreso da quella scoperta.

Era sempre stato convinto che un giorno l’avrebbe rivista e avrebbe di nuovo parlato con lei. Ma lei gli doveva qualche spiegazione. Che ci faceva in questo bar di nottambuli. Non era l’ora del tè e pasticcini, non era il suo posto questo.

Sua madre fece una breve risata: Ma Alberto, questo non è un bar, non te ne sei ancora accorto? Questo è un cinema. Il nostro cinema. Volevi sapere com’era dall’altra parte, e anch’io volevo saperlo. Tutti vorrebbero sapere la stessa cosa. Guardati intorno, qui è come al cinema. E durante l’intervallo ci portano anche qualcosa da bere.

Qui vediamo tutto quello che succede dall’altra parte. Non ci annoiamo mai. Sai, io vedevo anche te, ogni minuto della tua vita. Guardavo ma non riuscivo a sentirti. Il nostro cinema è a colori ma non ha il sonoro. Ti vedevo ma non ti sentivo. Fino all’ultimo, quando guidavi come un cieco nella nebbia.

Ascoltava sua madre senza capire di cosa parlava, cos’era questa storia balzana, cosa c’entrava il cinema, ma intanto sentiva il proprio respiro rallentare la corsa, i muscoli cominciavano a rilassarsi. Quel posto, quel bar o qualsiasi cosa fosse, gli sembrava un luogo sicuro. Si sentiva protetto, come non lo era mai stato. Si, stava bene, c’era un bel calduccio che invitava al sonno.

Ma si riscosse improvvisamente, pensò al suo viaggio, all’auto lasciata in strada, agli amici che lo aspettavano all’aeroporto. Si alzò e si diresse di corsa verso il bancone per pagare il suo cocktail. Ma intanto la luce rossa della sala si era spenta. Ora c’era solo un grande schermo bianco e cominciava la musica. La barista gli parlò sottovoce: Vada al suo posto, sta cominciando il secondo tempo. Vedrà, le piacerà.

In copertina: I nottambuli (Nighthawks)  di Edward Hopper

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Presto di mattina /
L’Assunta, varcar la soglia e uscire al sole

Presto di mattina. L’Assunta, varcar la soglia e uscire al sole

“È la morte un’aurora” (Turoldo)

Ecco si tendon le braccia le madri,
di gioia il grembo trasale all’anziana:
più del creato ora grandi parole
da quella soglia avvolgono il mondo.
Udì la voce per prima la sterile,
sentì la grazia il bimbo dal ventre:
quale mistero la carne nasconde,
cosa nascondono in seno le madri!
Udì la donna secondo natura,
il figlio invece secondo il mistero:
e tutto fuori appariva normale,
mentre la giovane prese a danzare:
con quale voce cantavi, Maria!
Gli antichi salmi parevan brillare
di luce nuova e fondere i colli,
e tutti i poveri ti odono ancora!
(D.M. TuroldoG. Ravasi, Opere e giorni del Signore, Paoline, Cinisello B. 1990, 1412).

Canto scaturito dall’incontro di Maria con la cugina Elisabetta, il Magnificat –sussulto di esultanza per il mistero nascente che le due donne portavano in grembo – lo si può leggere come lo spartito musicale/esistenziale in cui si sviluppa la storia e il distino dell’umanità, sulle note della vicenda del venire di Cristo, abbassato, umiliato nella morte, ed innalzato come uomo nella sua risurrezione. Così l’Assunzione di Maria comincia già con questo inno di esultanza, che diviene per noi un segno di sicura speranza, anticipazione e primizia, come il suo, di un compimento certo dell’umano.

L’Assunzione al cielo o la Dormitio Mariae (in greco “Koimesis” “sonno” o “dormizione”), così detta presso le chiese orientali, è la forma del suo morire. Dove, direbbe p. Turoldo “la morte è un aurora”, di più «un attimo d’aurora».

Ma la Morte è come varcar la soglia
e uscire al sole.
La Morte, atto d’amore,
ingresso all’universale Presenza…
È la Morte un attimo d’aurora.
che appena dispiega il nero involucro
della notte ai suoi piedi abbandonato…
O fratelli, Cristo si è incarnato
per uscire dalla vita
e assorbire la Morte,
per giudicare la vita da lontano
come una cosa perduta
e mettersi a cercarla.
Egli se n’è andato da Lui
per sentire la gioia del richiamo,
e gustare tutti i giorni
il Suo bacio fulminante.
Egli non ha lasciato più la carne
da quando è nato, d’allora
non ha lasciato un giorno di morire.
(Turoldo, O sensi miei… Poesie 1948-1988, Rizzoli, Milano 1997, 143-144).

Sulle labbra di Maria morente/dormiente l’ultimo sospiro, suo canto ultimo nei versi del suo cantore:

Tu hai voluto nascere, Tu hai scelto la Morte,
o Dio consorte dell’uomo.
Io vorrei morire come l’aurora
disfatta nel sole, come la notte
nell’ aurora, come la luce nella notte.
Sentire così
quanto dev’essere forte
l’abbraccio di Dio che mi ha fatto
per la mia Morte,
per questo spazio ricolmo
solo dal silenzio del Suo Verbo
risucchio di tutte le parole
(ivi, 142).

L’Assunta, donna dello sguardo dal basso

«Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,/ perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1, 47-48). La sua umiltà sta tutta nel suo sguardo dal basso. Lì comincia e da lì si è compiuta tutta la sua vita. L’umiltà, che equivale ad abbassarsi verso qualcuno, permette di assumere la vita nella sua interezza, perché apre lo sguardo sulla realtà più profonda; e poi come il seme nella terra, dalla terra si innalza, ma non più sola.

L’Assunta è allora colei che ha vissuto guardando con gli occhi della fede verso l’alto, ma senza mai distoglierli dal basso, dal soffrire umano. È colei che ha visto chiaramente anche là dove gli altri chiudevano gli occhi: l’umile storia dei poveri di Dio sotto e dentro i grandi eventi e le vicende sconvolgenti o salutari della storia e dei destini umani, e nel Figlio ne ha intravisto il riscatto, il cambio di sorte.

“Lo sguardo dal basso” è un inaspettato assist venutomi dalla lettura di alcune pagine di Resistenza e resa che raccoglie gli scritti della prigionia del pastore protestante e teologo Dietrich Bonhoeffer, scritte dal carcere di Flossenburg dove incontrò la morte per mano dei nazisti il 10 aprile 1945.

Egli scriveva: «Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi – in una parola: dei sofferenti.

Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vederla grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la riflessione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale», (Lo sguardo dal basso, in Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2002, 40).

Senza terreno sotto i piedi

Alla domanda che cosa volesse fare della sua vita, Bonhoeffer rispose: “Imparare a credere” (Lettera del 21 luglio 1994) seguendo Cristo. Perché la fede è sequela, avvia una relazione interpersonale, si connota come peregrinazione e beatitudine.

E il concilio ha evidenziato questo tratto della fede in cammino, proprio in Maria, la peregrinazione della sua fede verso il tesoro nascosto, la perla preziosa: «Così anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, soffrendo profondamente col suo Unigenito», LG 58). Peregrinazioni di madre dietro le peregrinazioni del Figlio, transito della madre nella pasqua del Figlio.

Il terreno viene a mancare sotto i piedi a chi cerca nella fede un fondamento statico. La fede non è un punto inamovibile, un bene di rifugio in cui nascondersi estraniandosi dal resto; né certezza acquisita una volta per tutte. Semmai è itineranza continua, claudicante: l’altro mi manca; è rischiare tutto in avanti nell’altro e in lui sa essere certa la meta e la dimora. Speranza concreta che assume in sé il mistero del portare l’altro, solleva chi è in basso, fa suo tutto il travaglio che comporta il passare da un’umanità divisa e lacerata in frammenti a una pluralità pienamente unita.

La fede calca il sentiero che porta dall’uomo dal cuore doppio, instabile in tutte le sue vie, all’“anthropos téleios” (Bonhoeffer), all’essere umano compiuto che affronta con animo indiviso e compassionevole le frammentazioni, gli sconvolgimenti del mondo coniugando le esigenze di una spiritualità integralmente vissuta senza rinunciare ad una fedeltà alla terra e all’umanità fianco a fianco ad esse.

Suggestiva è allora l’immagine che di questa itineranza dà Bonhoeffer: «Noi ci troviamo nella stessa situazione di chi vuole camminare su un mare di lastre di ghiaccio galleggianti. Costui non può mai fermarsi, non può mai pensare troppo a lungo al prossimo passo, altrimenti gli manca il terreno e sprofonda nell’abisso; appena ha spiccato un salto deve subito pensare al prossimo, e poi ad un altro e ad un altro ancora, sotto di lui l’abisso e davanti, egli lo sa, la terra» (Cit. in A. Gallas, Anthropos téleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana Brescia 1995, 332-333).

Attraverso la Pasqua riceviamo la forza della vita

L’assunzione di Maria è il suo “transitus”, è la sua Ascensione. l’Assunta così significa, ripresenta ed attua in lei lo stesso destino del Figlio: l’itinerario che lega insieme la risurrezione con la sua ascensione.

Annota in una lettera Bonhoeffer: «È da tempo che amo in modo particolare il periodo che intero corre tra la Pasqua e l’Ascensione. Anche qui è in gioco una grande tensione. Come possono gli uomini sopportare tensioni terrene, se non sanno nulla della tensione tra cielo e terra?» (Resistenza e resa, 356).

E alla madre dal carcere (10 aprile 1944) scrive: «È stato sempre molto importante per me il tempo che intercorre tra la Pasqua e l’Ascensione. Il nostro sguardo si dirige già a quest’ultimo evento, ma restano gli impegni, le gioie e i dolori che abbiamo su questa terra, ed è attraverso la Pasqua che riceviamo la forza della vita… preparato alle cose ultime, all’eternità, e tuttavia ben presente agli impegni, alle bellezze e alle pene di questa terra. Solo su questa strada possiamo essere, gli uni di fronte agli altri, del tutto lieti e tranquilli. Vogliamo ricevere, con le mani tese e aperte, ciò che Dio ci dona, e rallegrarcene di tutto cuore; e vogliamo rinunciare con cuore pacifico a ciò che Dio ancora non ci concede o ci toglie» (Resistenza e resa, 356).

Pasqua significa vivere partendo dalla risurrezione

E all’amico Eberhard Bethge scrive: «Pasqua? Il nostro sguardo cade più sul morire che sulla morte. Per noi è più importante come veniamo a capo del morire che non come vinciamo la morte. Socrate ha vinto il morire, Cristo ha vinto la morte. Venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte. La vittoria sul morire rientra nell’ambito delle possibilità umane, la vittoria sulla morte si chiama resurrezione.

Non è dall’ars moriendi, ma è dalla resurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore. Se un po’ di persone lo credessero veramente e si lasciassero guidare da questo nel loro agire terreno, molte cose cambierebbero. Vivere partendo dalla resurrezione: questo significa Pasqua. Non trovi anche tu che la maggior parte delle persone non sanno a partire da che cosa vivono?» (ivi, 346).

Il Magnificat è come una lettera dell’Assunta anche per noi, in cui canta la sua esperienza di fede attraverso il suo sguardo dal basso, un invito che attraversa le generazioni a fare altrettanto, una porta che apre alla speranza.

Per Bonhoeffer, quando gli giungevano le lettere, era come se si aprisse la porta della prigione. Lo scriveva così ai genitori Karl e Paula: «Il bisogno di gioia è molto grande in questa casa tanto severa, dove non si sente mai ridere – e anche il personale di guardia, con le esperienze che si fanno qui, sembra aver disimparato a farlo – e ogni fonte di gioia, interiore o esteriore, la si sfrutta sino in fondo.

Oggi è la festa dell’Ascensione, un giorno di grande gioia per quanti credono che Cristo governa il mondo e la nostra vita. Il pensiero va a voi tutti, alla Chiesa, ai riti liturgici, cui da tanto tempo sono impedito, ma anche ai molti sconosciuti che in questa casa rimuginano silenziosamente sul loro destino. Questi pensieri e altri simili in fondo costantemente mi trattengono dal dare una qualche importanza alle mie piccole privazioni. Questo sarebbe ingiusto e segno di ingratitudine» (ivi, 86).

“La terra è fatta di cielo”

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
(F. Pessoa, Una sola moltitudine, v. 1, Adephi, Milano 1979, 161).

Questi versi di Fernando Pessoa (1888-1935), uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, paragonato a Luís de Camões (1524 circa – 1580), l’Omero della poesia portoghese, mi hanno fatto riandare a quelli iniziali di p. Turoldo “Ma la Morte è come varcar la soglia/e uscire al sole”.

E ho magnificato la poesia, che anche su questo è riuscita a giocare d’anticipo, ha colto prima del sentire della mia stessa fede la stessa esperienza di quando in montagna portavo i ragazzi lungo le mulattiere in salita, restavo dietro per l’età e per non perdere nessuno.

Quando li vedevo scomparire dietro le curve, più nessuno, né il loro vociare, solo silenzio e il vento tra le foglie, mi dicevo, sono oltre la curva della strada, e mi affrettavo allora – come quella volta di Maria verso la casa di Elisabetta – e al fine li vedevo di nuovo camminare svelti, svelti sul sentiero ancor più ripido verso la cima.

E in quel tempo di assenza, di vuoto, un attimo lunghissimo, pensavo ai miei cari morti e a quelli che mi avevano preceduto nella fede, nel sacrificio e nella fedeltà alla vita e li pensavo così come loro, i ragazzi, oltre la curva della strada.

Beata poesia e il suo poeta, che precorri la fede stessa e la rallegri rincuorandola con il tuo magnificat.

Il “Magnificat” di Pessoa, una teofania

E andando ancora oltre, fiducioso bracconiere tra i versi del poeta, sono rimasto in agguato tra le pagine di Una sola moltitudine. E vagando senza meta ho udito alfine il canto del suo Magnificat. Un testo che a detta della critica va oltre, trascende la moltitudine sparpagliata dell’al di qua dell’esistenza, di ieri e dell’oggi, proteso e disteso verso il domani segretamente atteso come ombra dell’aurora (la scrittrice Dalila Pereira da Costa vi ha intravisto come una “teofania”).

Pessoa nel suo ultimo pensiero, attendendo la morte scriveva: “non so cosa porterà il domani”. Domani, “Il mondo che non vedo” – titola una sua raccolta – e che ne richiama un altro del poeta “Quando mi desterò dall’essere desto?” come se la vita fosse solo un sogno, dormitio, per poi risvegliarsi; così sembrano far pensare anche le ultime parole del suo Magnificat: “Sorridi nel sonno, anima mia!/Sorridi anima mia: sarà giorno!

 

“Magnificat” di Fernando Pessoa: testo

Quando passerà questa notte interna, l’universo,
e io, l’anima mia, avrò il mio giorno?
Quando mi desterò dall’essere desto?
Non so. Il sole brilla alto:
impossibile guardarlo.
Le stelle ammiccano fredde:
impossibile contarle.
Il cuore batte estraneo:
impossibile ascoltarlo.
Quando finirà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e potrò tornare a casa?
Dove? Come? Quando?
Gatto che mi fissi con occhi di vita, chi hai là in fondo?
Sì, sì, è lui!
Lui, come Giosuè, farà fermare il sole e io mi sveglierò;
e allora sarà giorno.
Sorridi nel sonno, anima mia!
Sorridi anima mia: sarà giorno!
(Ivi, 401).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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FILASTROCCA DEL FERRAGOSTO CONTRAPPOSTO

FILASTROCCA DEL FERRAGOSTO CONTRAPPOSTO

Quando arriva il Ferragosto
per la tristezza non c’è posto;
ai mari, laghi, monti o città
il divertirsi è una necessità.
Se sia giusto così io non lo so
ma sento che c’è chi dice “No”…
È la gente che è nell’ospedale
dove si guarisce stando male,
è la gente chiusa in galera
dove è quasi sempre sera,
sono le persone sui barconi:
rischiano vita ed abbandoni,
sono quelle senza un tetto:
una vita dentro lo zainetto.
Dico io, perché per una volta
non possiamo dire: “Ascolta”
e ci proviamo tutti insieme
a non considerare blasfeme
cose che son da trasformare
se riusciremo noi a cambiare.
Non è facile, io questo lo so,
ma basta coi “Vorrei ma però”.
Se faremo tutti la nostra parte
l’altruismo diventerà un’arte.
Se penseremo pure agli altri
non diventeremo solo scaltri.
Vivendo come essere umani
saremo artigiani del domani!
Dipende da noi, non dai destini,
siamo uomini e non manichini.
A tutti, e non solo a Ferragosto,
auguro un “Buon Contrapposto”.

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Parole a capo
Sonia Tri: «Lasciami tutto il tempo per capire» e altre poesie

“Oggi vi sono parole per vendere, parole per comprare, parole per fare parole, ma sono scarse le parole per pensare”
(Gianni Rodari)

Parole a capo <br> Sonia Tri: «Lasciami tutto il tempo per capire» e altre poesie

Lasciami tutto il tempo per capire.

L’energia dei semi di sesamo
di un pane chiaro sconosciuto
e nuvole basse per partire.
Per confondere i capelli bianchi
dell’umanità.
La pronuncia buona delle parole,
mai comprese di ogni dio.
Parlami delle stagioni,
quando trascorrevano leggere,
ed io non mi accorgevo,
di quanto fosse difficile vivere.
Dimmi che non si muore di solitudine
dopo avere sognato tutta la vita,
solo un po’ d’amore.
Dimmi che i rimpianti
non faranno sempre troppo male.
Che c’è ancora tempo per cambiare,
per scoprire che la libertà
ha il colore degli occhi dei bambini.

 

*

 

E’ per te che non ascolto
ogni rumore.
Che non seguo ogni direzione
del vento,
quando strilla forte
e tutto il resto
ammutolisce.
Siamo Cosmo nel silenzio,
Tu, io e ogni altra cosa
che esiste.
Nessuna guerra
renderà più forti i silenzi.
Siamo parte di un equilibrio
sconosciuto,
affine soltanto all’amore,
alla bellezza
dell’esistenza
e noi esistiamo.
Ora qui, per caso,
per mia e tua fortuna.

 

*

 

Mi piacerebbe
essere pioggia
per sentire la terra
impregnarsi e germogliare
Cadere fitta,
sul mondo.
Nelle notti di primavera,
nelle notti di guerra.
Nei suoi immensi silenzi.
Poi libera sul tuo viso,
sulle tue mani,
sul mare.

 

*

 

E ti prometto,
accada ciò che deve accadere,
che sarò sempre
l’anima dei pioppi,
dei giocolieri d’estate,
venuti da lontano.
Il teatro delle donne di ogni tempo,
con gli uomini in guerra
ed il nascondiglio della vita
in grembo.
Sarò sempre nella giustizia
di qualche dio comprensivo
e ti prometto anche che in me,
ci sarà sempre una realtà
più furba dei sogni.
Che non invecchierò mai,
se tu non lo vorrai.

 

Foto di Roman Grac da Pixabay

 

Sonia Tri nasce a Pordenone nel 1969. Appassionata di poesia, si cimenta presto nella composizione in versi. Due, le sillogi pubblicate : “Senti come respirano gli alberi” (2013) e “Tutti i colori del cielo a settembre” (2020). Presente in molte antologie, cura la pagina Facebook: “Le parole di Sonia Tri“. In “Parole a Capo” sono state pubblicate poesie di Sonia Tri il 6 giugno 2024, il 19 ottobre 2023, il 17 febbraio 2022 e il 1 luglio 2021.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 298° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Istantanee dalla Palestina di oggi e un’ elegia per i bambini ebrei e palestinesi di domani

Istantanee dalla Palestina di oggi e un’ elegia per i bambini ebrei e palestinesi di domani

Google è un formidabile strumento di ricerca, da usare con un minimo di consapevolezza e mantenendo il gusto per l’approfondimento. Se scrivi “Francesca Albanese” uno dei primi risultati che compare è quello di  Govextra, e c’è scritto “sponsorizzato”. Vuol dire che Govextra.gov.il, sito dell’agenzia governativa di Israele che cerca di distruggere la reputazione della Albanese, paga Google perchè la maggior parte della gente legga lo sputtanamento.

Govextra è un sito fantastico, ti invito a visitarlo. L’impronta coloniale si coglie subito dal simpatico sottomenù, questo, curato dal Ministero per l’immigrazione: che ti invita, se sei un ebreo nel mondo che magari sta bene dov’è, a sceglierti il posto giusto dove “tornare alla Terra Promessa” (aliyah), con l’indicazione del numero di insediamenti di immigrati israeliani già presenti per ogni luogo. Tra le opzioni ci sono diverse città israeliane, e fin qui nulla di strano: inoltre però c’è il Golan, che è in Siria; Shomron, che è in Cisgiordania; Ariel, anch’essa in Cisgiordania, presa a colpi di missili e cannoni nel 1967 ma non riconosciuta da nessuno come territorio israeliano. Come se un’agenzia immobiliare ti dicesse “vieni, questa è casa tua, è la tua terra, che aspetti?”. Pensano loro a tutto. Tanto, se la terra è occupata, si trova fuori da Israele e ci vivono altre famiglie, non c’è problema: a farle sloggiare dalle loro case ci pensano i coloni e l’esercito. Tutto questo sul sito ufficiale del governo. (Nota: qualcuno sta iniziando a preoccuparsi anche a Cipro, leggi qui).

 

Archeologia coloniale

Nonostante tutto, i ragazzi israeliani continuano a farmi sperare. O almeno alcuni ragazzi.

Questo video merita di essere visto.

E’ stato postato da un ragazzo bianco, ebreo, residente a Tuwani, insediamento palestinese in Cisgiordania, che si vede piombare in casa di notte dei soldati israeliani armati, classico fare gentile, con al seguito dei coloni, che mettono a soqquadro il villaggio con il pretesto che lì un tempo c’era una antica sinagoga e quindi è terra ebraica, da colonizzare. Questo ragazzo spiega come stanno le cose: “se anche fosse vero, perchè assaltare il villaggio di notte con le armi? Se il vostro argomento è che qui gli ebrei non sono al sicuro, mi presento. Ciao, io sono ebreo, vivo qui. La “sicurezza degli ebrei” è una stronzata che Israele usa per colonizzare le terre palestinesi. Ad ogni modo, qui non c’era un’ antica sinagoga. E’ stata designata come tale da un colono “archeologo”, che è una vera e propria professione. I coloni pagano qualcuno per venire, osservare qualcosa e affermare che è di origine ebraica. Normalmente è un cumulo di pietre, ma si tratta di una scusa per rivendicare la proprietà della terra. Se chiedi a un sionista di spiegarti la storia di questi luoghi, sarà come se gli ebrei avessero vissuto qui fino a duemila anni fa, quando furono espulsi e poi non accadde nulla finché non tornarono alla fine del diciannovesimo secolo. Ovviamente non è così, nel frattempo ci sono state dozzine di civiltà che hanno contribuito alla cultura di questa terra. Ma la storiografia israeliana non è interessata a questo, perché il suo interesse è giustificare il progetto coloniale. Questo porta alla distruzione della storia. Ad esempio, nel sito archeologico di Silwan (Gerusalemme sud-est) stanno distruggendo interi strati di dati e manufatti solo per arrivare alla parte ebraica. Ho imparato che la storia, l’antropologia, l’archeologia e le scienze sociali possono essere utilizzate al servizio del progetto coloniale”. Con la sua testimonianza audio e video di 2 minuti, questo ragazzo ebreo ha mostrato la realtà in maniera più lampante di quanto possa fare un reportage o un saggio di storia.

 

Un’elegia per i bambini ebrei e palestinesi di domani

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-statunitense, che tocca le corde più intime dell’ umanità sepolta nei recessi della nostra anestesia. La si può reperire facilmente sul web superando la pigrizia e la sciatteria del nostro cazzeggio inutile. Invitata alcuni mesi fa a Oxford nell’ambito di un dibattito su Israele e Palestina, Susan Abulhawa ha fatto un discorso straziante e altissimo. Qui lo puoi vedere e ascoltare per intero, mentre a questo link puoi leggerlo integralmente. Su youtube ha 26.000 visualizzazioni, mentre dovrebbe averne 260 milioni. Se lo ascolti dalla sua viva voce, cosa che ti consiglio, fa ancora più impressione che leggerlo. Depurato dalle descrizioni più crude e intollerabili, sono irragionevolmente convinto che sarà il testo scolastico sul quale i bambini israeliani, palestinesi, caucasici, africani, asiatici riuniti nella stessa classe studieranno tra vent’anni la storia di questi orrendi mesi, e del tempo che li ha preceduti.

 

“Non capirete mai la sacralità degli ulivi, che avete tagliato e bruciato per decenni solo per farci dispetto e per spezzarci un po’ di più il cuore. Nessuno nativo di quella terra oserebbe fare una cosa del genere agli ulivi. Nessuno che appartenga a quella regione bombarderebbe o distruggerebbe mai un’eredità antica come Baalbak o Battir, o distruggerebbe antichi cimiteri come voi distruggete i nostri, come il cimitero anglicano a Gerusalemme o il luogo di riposo degli antichi studiosi e guerrieri musulmani a Maamanillah. Coloro che provengono da quella terra non profanano i morti, ecco perché la mia famiglia per secoli è stata custode del cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi, come atto di fede e cura per ciò che sappiamo essere parte della nostra discendenza e della nostra storia…. Non siamo le rocce che Chaim Weizmann pensava avreste potuto spazzare via dalla terra. Siamo il suo stesso suolo. Noi siamo i suoi fiumi, i suoi alberi e le sue storie, perché tutto ciò è stato nutrito dai nostri corpi e dalle nostre vite nel corso di millenni di continua e ininterrotta abitazione di quel pezzo di terra tra il Giordano e le acque del Mediterraneo, dai nostri antenati cananei, ebrei, filistei e fenici, da ogni conquistatore o pellegrino che è venuto e se n’è andato, che si è sposato o ha violentato, amato, ridotto in schiavitù, si è convertito, insediato o ha pregato nella nostra terra lasciando pezzi di sé nei nostri corpi e nella nostra eredità. Le storie leggendarie e tumultuose di quella terra sono letteralmente nel nostro DNA. Non potete ucciderlo o portarvelo via con la propaganda, non importa quale tecnologia di morte usate o quali arsenali di Hollywood e società di media schierate. Un giorno la vostra impunità e arroganza finiranno. La Palestina sarà libera, sarà restaurata alla sua gloria multireligiosa, multietnica e pluralistica, ripristineremo ed estenderemo i treni che vanno dal Cairo a Gaza, a Gerusalemme, Haifa, Tripoli, Beirut, Damasco, Amman, Kuwait, Sanaa e così via, porremo fine alla macchina da guerra sionista-americana di dominazione, espansione, estrazione, inquinamento e saccheggio. … e voi o ve ne andrete, o imparerete finalmente a vivere con gli altri come pari.”

Susan Abulhawa

 

photo cover tratta da https://www.invictapalestina.org/archives/42302

Chi è Susan Abulhawa: https://www.anbamed.it/2025/01/01/intervista-a-susan-abu-alhawa/

Sono stato l’uomo della guerra


Sono stato l’uomo della guerra

Ho vissuto due vite. La prima non l’ho scelta, mi è capitata. Solo adesso, dopo una lunga lotta l’ho addomesticata, riesco a tenerla a bada e mi fa meno paura.”

Così nel prologo del libro Ero l’uomo della guerra. La mia vita da fabbricante di armi a sminatore uscito nel 2023 per Laterza.
Incontro l’autore, l’ing. Vito Alfieri Fontana lo scorso 20 luglio, ad una presentazione del suo libro, nel gremitissimo Auditorium di un piccolo comune montano della provincia di Trento, Pellizzano. Ho scoperto l’iniziativa quasi per caso, passando per questo piccolo, ma vivace paesino, durante la mia breve vacanza in Val di Pejo.

Ad intervistare Vito, c’è Emanuela Arcaleni della Rete Insegnanti Italia, poiché la serata si inserisce nel percorso formativo di una Scuola interuniversitaria promossa da diversi Enti, tra cui il Dipartimento di Scienze Cognitive dall’università di Trento, la Cattedra UNESCO della Cattolica di Milano, l’istituto universitario Salesiano di Venezia, il Centro Studi CARE della Cattolica di Piacenza, l’NGO.
Dell’incredibile storia dell’Ing. Fontana, si è parlato e scritto solo qualche anno fa, in concomitanza dell’uscita del libro, ma credo che il nostro presente, così deprimente e negativo, abbia bisogno di ritrovare una bella storia con il suo carico di ottimismo e di speranza.

Vito Alfieri Fontana (foto A. Poggi)

Vito seguiva la costruzione e la progettazione di mine antiuomo nell’azienda di famiglia, la Tecnovar, in Puglia, una delle due aziende italiane che sul finire degli anni Settanta si spartiva il business di questi micidiali ordigni. Come ha ricordato all’inizio del suo intervento, lui stesso aveva progettato la mina TS-50 forse quella più micidiale e innovativa. Quindi la più richiesta, perché poteva entrare in azione anche a distanza di dieci anni dalla posa, mutilando e sfregiando senza pietà chiunque entrasse nelle sue vicinanze.
Il sofferto e travagliato percorso di redenzione da questo destino di morte Vito lo identifica in un preciso momento, nel 1993, quando aveva poco più di quarant’anni.
Suo figlio, che allora ne aveva circa otto, in auto, si trova casualmente a sfogliare uno dei depliant che pubblicizzano le TS-50 e comincia a tempestarlo di domande…

Papà tu costruisci armi ?
Alla sua inevitabile risposta affermativa, ecco il primo macigno che si stacca dal suo cuore.
Perché proprio tu ?! Sei un assassino !!
Anche se Ludovico, suo figlio, immediatamente si ritrae, spaventato egli stesso dalla gravità di quello che ha detto al padre, il dado è tratto.

Di lì a poco, arriverà la telefonata di Gino Strada, che al rientro da una missione umanitaria in Kurdistan, lo interpella brutalmente:
Ingegnere, è una carneficina. Bisogna fare qualcosa !”
Emergency arriverà dopo, ma la montagna comincia a franare, diventando una valanga inarrestabile quando Don Tonino Bello, con Pax Christi, lo invita ad un dibattito sull’argomento a Bisceglie, nell’ambito di quella campagna per la messa al bando delle mine che di lì a poco raggiungerà il suo obiettivo. Accetta e la discussione diventa inevitabilmente un atto di accusa. Ma come racconta, quando si è attaccati, ci si difende e così fa anche lui. Una domanda però arriva a segno:
Ma lei cosa sogna la notte ? Che scoppi un’altra guerra per produrre tante mine e guadagnare un sacco di soldi ? Ma che razza di vita è la sua ?”
È la frana. Da allora la decisione è interiormente presa, ma cosa non semplice, va trasformata in atti concreti, contro la contrarietà del padre e con le difficoltà che la chiusura dell’attività pone in termini di posti di lavoro. Erano circa cinquanta i dipendenti della Tecnovar e la sua decisione inevitabilmente li coinvolgeva.

La seconda vita

La riconversione civile, anche se tentata, non è risultata praticabile. I margini operativi dichiara nel corso della serata, sono insostenibili, perché come confessa, il guadagno dell’industria bellica è fuori mercato e dove lavorano dieci operai, nel civile, ci si deve accontentare di uno solo e spesso non è sufficiente, perché la concorrenza al ribasso è la regola. Vito ha però il sostegno della moglie e dei figli. Tutto il contrario di quello che succede in un vecchio film di Alberto Sordi “Finché c’è guerra c’è speranza” del 1974, la cui scena cardine – proiettata durante la presentazione – mostra come la coscienza si possa tacitare pur di continuare a fare la bella vita, visti i margini di profitto che il settore bellico assicura a chi lo frequenta. Lo ricordiamo tutti: “Pecunia non olet”.
È il 1997, anno in cui il Senato italiano ratifica la Convenzione di Ottawa per la messa al bando delle mine antiuomo e Nicoletta Dentico, anima della Campagna internazionale che ha portato a questo straordinario risultato viene insignita del Premio Nobel per la Pace. Vito è senza lavoro, quando viene invitato proprio dalla Dentico a partecipare ai lavori conclusivi della Convenzione ad Oslo. La sua esperienza professionale nel settore diventa infatti preziosa per seguire i famosi dettagli in cui si nasconde il Diavolo. Lo rivela lui stesso, raccontando di come la sua conoscenza tecnica abbia scongiurato una serie di “tranelli” normativi che rischiavano di inficiare la scrittura di alcune importanti prescrizioni. La sua seconda vita inizia di lì a poco, nel 1999, quando sente uno spot di INTERSOS che ricerca sminatori per il Kosovo. Il 15 settembre dello stesso anno atterra a Pristina e comincia quella che definisce la sua “terapia”. E’ stato in Bosnia ed in Serbia. Quasi vent’anni a sminare territori fortemente compromessi, restituendo la tranquillità di tornare a vivere nelle proprie case a migliaia di persone. Adesso dorme meglio, ma il peso di quello che ha fatto nella sua prima vita continua a pesare.

L’attualità

Qualcuno dal pubblico gli chiede come giudica la recentissima decisione del Presidente dell’Ucraina di uscire dalla Convenzione di Ottawa, a cui il suo Paese ha aderito a differenza della Federazione Russa, che con Stati Uniti, Cina, Israele e Vietnam sono attualmente gli unici grandi attori internazionali che non l’hanno sottoscritta. Pur riconoscendo la palese asimmetria della situazione e l’utilizzo che la FR sta facendo di questi ordigni micidiali, pensati solo ed esclusivamente per far ‘male’ in modo indiscriminato soprattutto alla popolazione civile, Vito ha ricordato che sul piatto della bilancia da una parte ci sono le regole, ma dall’altra i fondi per lo sminamento. L’Ucraina ne ha fortemente bisogno, perché ci sono vaste aree del paese interessate da questo flagello. Ha raccontato che nella sua attività di sminatore ha trovato mine piazzate nei frigo, negli sciaquoni e via discorrendo. Scelte letali e totalmente amorali, se si vogliono usare queste categorie concettuali. Uscire dalla Convenzione dunque, secondo lui ha un’esclusiva valenza politica. I tempi materialmente sono lunghi e quindi Zelensky punta probabilmente sull’effetto annuncio, come ulteriore estrema forma di pressione internazionale.

Ma la legalità internazionale è ormai in caduta libera. Come conferma, semmai ce ne fosse bisogno, l’uso spregiudicato che si sta facendo della nuova arma che sta soppiantando come amoralità estrema, quello delle mine antiuomo. Sono sicuro che avete già capito che sto parlando dei droni. Ho fatto una domanda specifica su questo argomento a Vito. Gli ho chiesto se la Convenzione di Ottawa o qualche altro Accordo internazionale, prevede una qualche forma di regolamentazione sulla costruzione, la commercializzazione e soprattutto l’uso dei droni a fini bellici. Ci sono discussioni, ma non esiste al momento alcun accordo sui droni in scenari di guerra.
L’argomento è estremamente complesso e vale la pena riprenderlo in altro momento. Con Vito ci siamo lasciati con la promessa che avrei cercato le risorse per invitarlo a Ferrara, perché la sua storia deve essere ancora raccontata.

In copertina: Vito Alfieri Fontana,  immagine Vicino/Lontano

Vasco Rossi, il premio per la tutela dell’ambiente e i concerti in programma al Parco Urbano

VASCO ROSSI PREMIATO DA LEGAMBIENTE PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE

“Sono i valori che condivido” 
Il cantante ha ringraziato con un video sui social: “Sono i valori che condivido”

(Dal Sito ufficiale di Vasco Rossi)

QUINDI I DUE CONCERTI AL PARCO URBANO DI FERRARA SONO  TUTELA DELL’AMBIENTE?

SCRIVIAMO A LEGAMBIENTE E A VASCO UNA LETTERA COLLETTIVA DI PROTESTA.
Caro Vasco Rossi, Cara Legambiente
Sono felice che a Ripescia sia stato attribuito a un autore tra i più amati in Italia un premio per la cultura della pace e la tutela dell’ambiente, tutti noi fans ne siamo orgogliosi, ma i premi non si vincono con le dichiarazioni , quelle non costa niente farle, ma soprattutto con la coerenza nelle pratiche e nelle azioni che si svolgono nel proprio lavoro, e nei comportamenti individuali, specie quando la persona premiata è assunta a simbolo da tante e tanti, giovani e meno giovani
Per un musicista queste praticano si identificano anche i concerti e con il modo con cui questi si organizzano e nei luoghi dove si svolgono. A Ferrara sono stati programmati e annunciati in pompa magna i due concerti di apertura del Vasco nel Parco urbano Giorgio Bassani di Ferrara. Per chi non lo sa è un parco pubblico ed un un luogo ricco di biodiversità ed ha un valore simbolico forte, usato dai cittadini e non adatto a ospitare eventi che porteranno più di 100.000 persone. Vi è già stato un precedente: il concerto di Brice Springsteen del 2023 che ha coinciso con la prima alluvione in Romagna, viste anche le abbondanti piogge che richiesto di riempire l’area del concerto di paglia per drenare l’impatto dei campi bagnati. Il parco ne è uscito devastato e ancora non si è ripreso. Questa vicenda ormai in Italia è diventata paradossale e riguarda le amministrazioni sia di destra che di sinistra e riguarda l’abuso degli eventi come attività necessarie per il rilancio economico, culturale e internazionale di città e di territori che non sono in grado di pianificare il proprio sviluppo.
La vittima prima di tutto è la città come bene pubblico e di conseguenza il diritto alla città per tutti. La politica devastante degli eventi ad alto impatto musicale sta: determinando la privatizzazione di porzioni ampie della città con vantaggi a favore delle agenzie private che promuovono gli eventi; rende impossibile la vita quotidiana delle persone che abitano attorno ai luoghi degli eventi come nel caso della piazza rinascimentale Ariostea di Ferrara; si danneggiano e si degradano luoghi storico-monumentali; si devastano luoghi ambientalmente delicati quali sono i parchi e i giardini come il parco urbano di Ferrara, il parco reale di Monza, nel parco mediceo di Pratolino o l’esedra di Palazzo Te a Mantova. Luoghi molto diversi ma accomunati dalla delicatezza che può essere patrimoniale o ambientale, associata anche alla biodiversità.
Il tour di Vasco Rossi si svolge in gran parte in stadi: perché non a Ferrara visto che abbiamo uno stadio di serie A senza squadra? E l’aeroporto, visto i soldi pubblici che spenderemo, non lo potremmo utilizzare anche per questo evento? Certo che si potrebbe, ma il potere che comanda ha bisogno di rivendicare continuamente la sua autorità e siccome il Comune di Ferrara ha deciso, stoltamente, di farlo nel parco urbano non si prendono nemmeno in considerazione i rilievi dei cittadini e delle associazioni preoccupate per l’impatto di questi eventi.
Vasco Rossi visto che hai ricevuto un premio per la tutela ambientale questi piccoli problemi te li poni? Sei disposto a discuterne?
AMICI DI LEGAMBIENTE DI FERRARA E DELLA EMILIA-ROMAGNA CHE NE PENSATE DI QUESTO PREMIO E DI QUESTA VICENDA ?
Forse sarebbe opportuno indirizzare una lettera collettiva all’artista, visto che le istituzioni sono sorde ricordandogli che il rapporto tra tutela dell’ambiente e legalità si esercita anche nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini, e anche dell’ambiente. Gli spazi per fare concerti non mancano, basta solo la buona volontà.
Cover: Il laghetto del Parco Urbano Bassani a Ferrara (foto Valerio Pazzi)

PIROMANI POMPIERI DELLA PALESTINA

PIROMANI POMPIERI DELLA PALESTINA.

“Un giorno quando sarà sicuro,
quando non ci sarà alcun rischio personale
nel chiamare le cose con il loro nome,
quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro”.

Dopo tre settimane di devastanti bombardamenti su Gaza, Omar El Akkad il 25 ottobre 2023 ha pubblicato queste parole dal tanto valore profetico quanto quello espresso un anno prima da Alpha Blondy in Pompier pyromane (pompiere piromane), una canzone contro la guerra che denuncia la manipolazione delle masse e tutti coloro che, ipocritamente, pretendono di risolvere conflitti che hanno volontariamente creato e dai quali traggono vantaggio.

“Tu vendi le armi che fanno soffrire le nostre anime
Tu attizzi le fiamme che spegni con le nostre lacrime.
Il padrone dell’universo spezzerà il tuo cuore di pietra.
Egli sente le nostre lacrime, egli sente le nostre preghiere.
Parli della crisi, ma sei tu la crisi.
Bombardi le moschee, bombardi le chiese.
Le moschee corrono in aiuto delle chiese Oh!!! Le chiese corrono in soccorso delle moschee. Le Nazioni Unite non sono più credibili !!
E le nostre lacrime non sono udibili !!”.

L’ultima frontiera del trash televisivo: Temptation Island

L’ultima puntata del reality Temptation Island è stata seguita da 4 milioni e seicentomila telespettatori, con uno share che ha sfiorato il 33%.

Anch’io faccio parte del cospicuo gruppo, che sta per raggiungere il numero degli italiani caduti in povertà assoluta, che sono circa 6 milioni. Devo ammettere che è stata un’esperienza interessante, a tratti tragica, a tratti di una comicità esilarante.

Per chi si fosse sdegnosamente rifiutato di assistere al “viaggio nei sentimenti” in diretta, riporto brevemente lo schema della trasmissione: alcune coppie in crisi per vari motivi si recano su un’isola dove vengono separati: le fidanzate vanno nel villaggio femminile e i fidanzati in quello maschile con l’assoluta impossibilità di comunicare fra loro. Entrambi i gruppi sono circondati dai “tentatori”; per i maschi ventenni in perizoma di conturbante bellezza, le fidanzate sono invece tentate da giovani maschi palestrati, ipertatuati e galanti. Nei due villaggi giochi, apertivi, feste e piscina rallegrano i fidanzati/e che appaiono ben presto consolarsi della lontananza del partner, circondati come sono da ogni comfort. Il tutto viene ripreso h24 da una telecamera, con l’aggiunta della registrazione di alcune interviste sul partner ai componenti della coppia . Quando viene ripreso qualcosa di compromettente il video viene mostrato alle fidanzate e ai fidanzati.

E qui è scattato l’aspetto tragi-comico della trasmissione: la reazione dei fidanzati nel vedere la partner sedotta, sfiorata se non toccata, abbindolata dal tentatore è stata quasi sempre di una violenza spropositata: tavoli e porte sfasciate, corse all’impazzata sulla spiaggia, urla isteriche e minacce.

Il tutto appariva realmente ridicolo, se non fosse in preoccupante linea di continuità con la ferocia dimostrata da giovani esecutori di recenti femminicidi e stupri.
In sintesi è stata messa in scena la totale mancanza di autocontrollo emotivo maschile di fronte anche solo al rischio dell’infedeltà e del rifiuto femminile. Non una parola su questo da parte del conduttore/moderatore della trasmissione.

La reazione delle fidanzate al contrario è stato quello, altrettanto stereotipato e pericoloso, della negazione: di fronte ai comportamenti “adulterini” del fidanzato, piangevano, non volevano vedere, volevano andarsene.

Un altro aspetto che procurava ilarità, se non facesse realmente piangere, è stato il livello di conoscenza dell’italiano dei partecipanti; alcuni parlavano esclusivamente in un dialetto incomprensibile che avrebbe avuto bisogno dei sottotitoli, altri inventando espressioni bizzarre nel tentativo di parlare un italiano “forbito”, tutti, a parte il conduttore, con scambi linguistici che hanno il solo merito di essere la vera rivincita degli immigrati.

All’analfabetismo linguistico si sono aggiunte alcune perle culturali: un fidanzato, oltre ad aver detto che nessuna donna gli ha mai resistito, si è proclamato terrapiattista, credente nell’esistenza dei dinosauri mai estinti e negazionista sul fatto che l’essere umano sia approdato sulla luna. L’unico dato certo è che neanche la sua maestra gli ha resistito, abbandonandolo alla soglia della terza elementare.

Il livello culturale dimostrato dal reality più seguito dagli italiani conferma i preoccupanti risultati delle prove  INVALSI del 2025, che attestano che solo il 60% degli alunni conseguirebbe la sufficienza nella comprensione dei testi scritti al nord, mentre al sud la percentuale scende sotto il 50%.

Senza entrare nel merito se fidanzati e tentatori siano pagati o meno, se la trasmissione sia già preparata, si sa con certezza che rappresenta il trampolino di lancio per avere visibilità ed entrare nel circuito televisivo, ora che l’Italia offre ben poche possibilità di ascesa lavorativa e sociale. Motivo in più per utilizzare criteri di selezione dei concorrenti che rispettino i livelli minimi della decenza, dell’educazione e della cultura in una trasmissione seguita da milioni di italiani.

Cover: Temptation Island: Siria si separa da Davide – immagine di Heute.at

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I numeri non… contano più

I numeri non… contano più

In un suo recente articolo sul Financial Times, Stuart Kirk lancia una provocazione che merita attenzione: “I numeri non contano più nulla”. La tesi è semplice quanto inquietante: viviamo in un’epoca in cui i dati, pur essendo ovunque, non orientano più le decisioni, non convincono, non generano reazioni proporzionate.

Il numero, da strumento di verità, è diventato simbolo vuoto, ornamento retorico, merce di scambio emotivo: il caso recente dei dazi americani ne è un esempio lampante.

Kirk elenca alcuni esempi emblematici: il debito pubblico statunitense cresce vertiginosamente, ma i mercati restano impassibili; le stime sui droni distrutti in Ucraina oscillano senza suscitare scandalo; le cifre sulla crisi del fentanyl vengono gonfiate senza conseguenze politiche; la valutazione di OpenAI si moltiplica senza che i ricavi la giustifichino. Il numero, insomma, non produce più realtà, ma la simula.

Questa diagnosi, pur centrata sul mondo finanziario e mediatico, apre a una riflessione più ampia: la crisi del numero è la crisi di un intero paradigma conoscitivo. Il dato, che avrebbe dovuto garantire trasparenza e oggettività, si è trasformato in strumento di opacità, in maschera ideologica. Non è più ciò che illumina, ma ciò che nasconde.

E dunque chi pensano di impressionare? Chi credono di poter continuare a convincere i signori (politici in testa) del cosiddetto infotainment?

Davvero si continua a pensare che siamo tutti condizionati o sedotti dal numero di followers o da quello dei downloads? In poche parole: i numeri contano ancora?

La cifra – anche il famigerato numerone detto gooogol (10100) – non riesce più a far presa come una volta. Non cattura. Non innesca alcuna reazione emotiva. Non incuriosisce.

Non conta più.

I morti a Gaza possono arrivare a 100.000. Chi si scandalizza?

I bambini morti per denutrizione oggi sono stati “appena” 21. Chi valuta (valorizza) o percepisce questo dato come UN fatto?

Che valore effettivo hanno oggi 100.000,21, il gooogol?

Zero.

Siamo vissuti e ci siamo “adattati” a un ambiente in cui il dato è stato (e vorrebbe continuare ad essere) la misura di tutte le cose: ogni aspetto dell’esistenza viene macchinalmente tradotto in numeri, e da questi derivano poi grafici, algoritmi con la promessa (o forse l’illusione) di una conoscenza più oggettiva, più precisa, più efficace. Più “utile”.

Ma oggi si avverte un senso diffuso di smarrimento, di disconnessione, di stanchezza. I dati abbondano e ci abbandonano subito, il significato dei numeri sembra sfuggire.

In questo scenario, due pensatori contemporanei – Byung-Chul Han, filosofo della società digitale, e Tim Ingold, antropologo della percezione e dell’abitare – offrono una critica radicale al dominio del dato numerico.

Pur provenendo da ambiti disciplinari differenti, entrambi mettono in discussione l’idea che la realtà possa essere compresa, governata o vissuta attraverso la sola quantificazione.

Nel pensiero di Byung-Chul Han, il dato, nella sua apparente neutralità, diventa lo strumento privilegiato di una nuova forma di controllo: la psicopolitica. Secondo questa analisi ognuno di noi è auto-sfruttato. Si misura, si monitora, si ottimizza. Il dato diventa il linguaggio della performance: passi, battiti, like, produttività, attenzione.

Han denuncia anche l’ideologia della trasparenza, che pretende di rendere tutto visibile, quantificabile, accessibile. Ma ciò che è completamente trasparente è anche piatto, privo di profondità, incapace di generare fiducia o mistero. La trasparenza, lungi dall’essere un valore democratico, diventa un dispositivo di sorveglianza e di conformismo.

Nel suo libro Infocrazia, Han mostra come l’eccesso di informazione non emancipi, ma disorienti. Il dato, isolato dal contesto, perde la sua capacità di orientare l’azione. La verità si dissolve nel rumore. La conoscenza si riduce a gestione dell’informazione, e il pensiero critico viene sostituito da reazioni immediate, da “click”.

Riflettendo su questa smaterializzazione del mondo, Han ci apre lo sguardo su quei simulacri digitali, come i dati appunto, che ci allontanano dal reale, dal corpo, dalla relazione. Il dato, in quanto astrazione, non ci coinvolge, non ci trasforma, è  semplicemente un sapere senza esperienza.

E per Han il dominio del dato è il volto contemporaneo del potere: un potere che seduce invece di reprimere, che misura invece di comprendere, che isola invece di connettere. Contro questo dominio, Han invoca un ritorno alla lentezza, alla contemplazione, al corpo, come luoghi di resistenza e di verità.

Tim Ingold, antropologo britannico, ha dedicato gran parte della sua ricerca a mettere in discussione le modalità con cui le scienze sociali e naturali rappresentano il mondo. La sua critica al data-centrismo nasce da una profonda attenzione al modo in cui gli esseri umani vivono, percepiscono e apprendono nel mondo.

Ingold rifiuta l’idea che la conoscenza consista nell’estrazione di informazioni da un oggetto esterno. Al contrario, propone una “dwelling perspective”, una prospettiva dell’abitare, in cui conoscere significa essere coinvolti, immersi, trasformati dalla relazione con ciò che si studia. In questa visione, il sapere non è una mappa, ma un sentiero; non è una rappresentazione, ma un’esperienza.

Uno dei concetti chiave del suo pensiero è quello di linea: la vita non è fatta di punti (come i dati), ma di trame, percorsi, intrecci (meshworks). Le linee sono i segni del movimento, dell’interazione, della crescita. I dati, al contrario, sono statici, isolati, privi di tempo. In questo senso, il data-centrismo è una forma di reificazione, che congela il fluire della vita in istanti misurabili.

Questa visione ha profonde implicazioni per la scienza, l’educazione, la politica. Ingold ci invita a riscoprire la corporeità, la manualità, la lentezza, contro l’astrazione e la velocità del dato. La conoscenza incarnata è una conoscenza che si fa nel fare, che si costruisce nel gesto, che si trasmette nel contatto.

In sintesi, Ingold ci propone una via alternativa alla conoscenza come dominio: una conoscenza situata, relazionale, processuale, che non cerca di possedere il mondo, ma di abitare il suo mistero.

Pur provenendo da tradizioni e discipline differenti, sia Han che Ingold convergono su questo punto essenziale: la conoscenza non può essere separata dal corpo, dal tempo, dalla relazione.

Insieme, Han e Ingold ci offrono una doppia lente per leggere il presente: una che smaschera le illusioni del data-centrismo, l’altra che ci invita a riscoprire la conoscenza come esperienza incarnata, relazionale, trasformativa.

In un mondo che misura tutto ma non sente più nulla, queste analisi sono un invito a resistere con la lentezza, con la cura, con la parola. A rifiutare la riduzione della vita a dato, e a riscoprire la conoscenza come forma di attenzione, di responsabilità, di trasformazione reciproca.

Perché solo una conoscenza che tocca può ancora salvarci dal dominio del dato e dal gelo di una… intelligenza e una coscienza artificiali.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, che la sua polvere si depositi sul male del mondo

Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, che la sua polvere si depositi sul male del mondo

Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, nato 29 anni fa nel campo profughi di Jabalia è stato, insieme ai chirurghi di guerra ed agli unici giornalisti presenti in Gaza – cioè quelli che già ci vivevano – il giornalista/testimone che ha riportato nelle climatizzate case in piedi del mondo anestetizzato le immagini e voci delle case distrutte nello sterminio che il governo israeliano sta compiendo. On the ground, esattamente in mezzo alle macerie e alla polvere delle bombe. Questo, fino al 10 agosto 2025.  Uso il passato prossimo perché da oggi, undici agosto 2025, il corpo di Anas è anch’esso polvere nel deserto, portata dal vento di Gaza. E’ stato polverizzato, dentro la sua tenda montata vicino all’ospedale Al-Shifa, da un aereo israeliano, insieme ad altri quattro colleghi che lavoravano per Al Jazeera. 

Gli avevano costruito addosso l’etichetta di militante di Hamas: un po’ come se ogni giornalista occidentale che riportava i fatti da Afghanistan, Iran, Iraq, Libano, Siria, fosse considerato un agente della CIA. Gliela avevano giurata diverse volte, intimandogli di andarsene da Gaza, ma avevano commesso l’errore di ammazzare suo padre malato bombardando la sua casa a Jabalia, a dicembre 2023. Se c’era una possibilità su un milione che Anas decidesse di mettersi in sicurezza uscendo da Gaza (non per paura, ma per salvaguardare la possibilità di continuare a raccontare in futuro), quella possibilità se la sono giocata ammazzando suo padre. A quel punto non gli restava che farlo fuori, cosa che hanno puntualmente fatto. Immagino lui sapesse di avere il tempo contato, ma niente gli ha impedito di continuare a fare reportage in mezzo alle macerie. Nemmeno il fatto di avere due bimbi da riabbracciare fuori da Gaza. A questo link il ricordo di Anas da parte del suo editor di Al Jazeera, rilasciato oggi alla BBC. A questo link il servizio di Al Jazeera con il commento del giornalista, saggista e sociologo di Betlemme Marwan Bishara sull’assassinio di Anas, che lui non esita a definire opera di un primo ministro “bugiardo ed assassino psicopatico”.

E’ forse la prima volta che avere addosso un giubbotto con scritto “PRESS” ti rende un obiettivo, invece di conferirti una protezione. Il governo israeliano ha passato un ulteriore segno oggi. Ed è incredibile quanto poca pressione Israele patisca ancora, nonostante tutti i tabù che infrange. Immagino dipenda dal fatto che il mondo occidentale non riesce a fare i conti con il suo tabù, il suo gigantesco senso di colpa per un Olocausto maturato proprio nel cuore dell’Europa. Certo, ci sono anche i grandi intrecci geopolitici ed economici che rendono il potere israeliano molto più influente sul mondo rispetto a quello che denuncerebbero le sue modeste dimensioni come Stato. Tuttavia, la scura percezione è che, per una volta, tutto questo potere militare ed economico non sia la causa prima dell’intollerabile tolleranza verso il colonialismo messianico e omicida israeliano, quanto piuttosto una mostruosa conseguenza del tabù mai elaborato dell’Olocausto.  La prospettiva peggiore immaginabile, è che il mondo stia preparando un futuro nel quale un governo fanatico che si dichiari rappresentante di un popolo perseguitato dalla storia rischia di diventare il prossimo persecutore psichiatrico collettivo di un altro popolo, o di una civiltà. In realtà l’Occidente ha già sofferto i danni di questa follia: a partire dall’11 settembre, a seguire con gli attentati suicidi di stampo islamico. Non c’è proprio niente oggi che faccia sperare in un futuro migliore.

Ai link seguenti alcune testimonianze del lavoro di Anas Jamal Mahmoud al-Sharif. L’esercito israeliano ha appena rivendicato la sua uccisione. Che la sua polvere si depositi sul male del mondo.

 

photo cover da palestinechronicle.com

“Lezioni dalle rovine”
(Io l’ho letto tre volte)

Lezioni dalle rovine è un libro di 150 pagine. La durata della lettura non si può stabilire, ma certo interromperla è arduo: questo è un libro che, quando inizi a leggerlo, affonda e compie un’opera dentro di noi.

In copertina c’è una foto dell’autore da giovane, ritratto nel parcheggio di un supermercato: Davide Bregola (Vedi anche su Periscopio), nativo di Bondeno come mia madre. L’editore è Avagliano da Roma, il libro è uscito quattro mesi fa. Nell’aletta posteriore è scritto che si tratta di un memoir, e poi “Conversazioni con Vitaliano Trevisan, Umberto Bellintani, Ivano Ferrari, Marosia Castaldi”.

Io, questo libro lo ho letto tre volte. La prima senza quasi fermarmi. La seconda ho fatto segni a matita, la terza ho colorato attorno ai segni. Poi ci ho dormito su. Al risveglio ero certa che Trevisan, Bellintani, Ferrari e Castaldi, e il narratore che di loro scrive – il narratore è sempre un narratore, un’entità narrante, in questo caso è l’autore Davide Bregola, sì, ma anche una sua voce altra – insomma, ciò che sognai è che tutti e cinque avevano scritto e pubblicato una plaquette.

Una plaquette, cioè uno di quei libri di poesia che combattono come ogni libro con lo spazio e il tempo, la composizione, la qualità di carta e caratteri – i costi, insomma – ma in più con il periglio delle poche pagine, della legatura, del discorso poetico. E queste cinque plaquettes – formato lungo, copertina in bristol avorio – stavano dentro il sogno, dentro un sacchetto di tela bianca con la scritta Fosse Venturi Stagionatura Formaggi, Sogliano al Rubicone (FC): è la sacca in cui tengo il mouse quando non lo attacco al portatile, quando non scrivo. Perché io scrivo a mano, oppure mi serve un mouse – il touchpad mi confonde e non lo tocco.

Touchpad, portatile, plaquette – sembreranno roba da cremin, da ragazzi cresciuti a Nutella e skipass, da fighetti, insomma? E leggere tre volte lo stesso libro, di questi tempi, per una zdòra della mia età, sembrerà un privilegio? E avere avuto in regalo un formaggio di fossa? Non cercherò argomentazioni, a favore né contro. Non voglio argomentare. Voglio dire, o più spesso non dire – argomentare, questa volta, no.

Dopo la terza volta che ho letto Lezioni dalle rovine, non ero più sicura che si trattasse di un memoir, e nemmeno di conversazioni. Poi ho sognato le plaquettes, nella sacca di Fosse Venturi, e ora mi sta bene che il libro sia un memoir e che si tratti di conversazioni. Non saprei argomentare su questo passaggio – prima del sogno, dopo il sogno. Lo sento, non lo so.

Il sottotitolo del libro è stampato tra parentesi (Leggere, scrivere, vivere).
E in corsivo e tra parentesi sono i titoli dei quattro capitoli, ciascuno dedicato a uno dei quattro autori. Rispettivamente

(resoconto)

(elaborazione da un’immagine)

(nostri ragni)

(cavi)

Sulla soglia dei quattro capitoli stanno quattro citazioni in exergo, quattro  frammenti. Rispettivamente Albert Camus, Iosif Brodskij, Cees Nooteboom e Franz Kafka – un frammento ciascuno. (Solo a me, che sono ferrarese fuori sede, vengono in mente le statue dei quattro santi sul ponte di San Giorgio?)

Un capitolo dopo l’altro appaiono, nel libro, il narratore e attore e regista Vitaliano Trevisan, vicentino; il poeta e scultore e applicato di segreteria Umberto Bellintani, e il suo paese – Gorgo, San Benedetto Po, un nome che è già topografia; il poeta Ivano Ferrari, prima macellaio poi bibliotecario, e custode, da Mantova; la narratrice, pittrice e scultrice, e insegnante di scrittura, Marosia Castaldi da Napoli.

Con loro, il narratore intesse conversazioni.
Cioè: di loro racconta. Dei suoi incontri con loro, racconta. Delle loro scritture, racconta. Con loro parla, a volte, nel libro.
Trevisan e la sua ringhiosa rettitudine, certe presentazioni di suoi libri in città e paesi, asprezze e scazzi, morose, il cane Dean Martin, scritture e rovine;
Berto Bellintani conosciuto in un’antologia, poi in un bar di paese a giocare a carte, ma ancor prima al vernissage di uno scultore di land art, in campagna, tra Mantova e Cremona;
Ivano Ferrari, anche lui conosciuto in antologia, anche lui mantovano, anche lui in disparte, “infastidito da qualsiasi etichetta, norma o cerimoniale”;
Marosia Castaldi e i suoi romanzi, a partire dal libro che lo stesso Bregola le chiese, poi curò e pubblicò per un piccolo editore indipendente, almeno quindici anni fa, e i rari incontri tra loro due, autrice e responsabile di collana, nel ricordo che si sfoca e sfuma.

Nessuno dei quattro capitoli è solo conversazione, incontro, racconto, con un autore o un’autrice. Eppure tutto il libro – centocinquanta pagine – è tramato di racconti, incontri e conversazioni.

C’è infatti il racconto – in frammenti, legati però con un filo invisibile – della vita del narratore: un adolescente che scopre un poeta in un’antologia – un poeta proletario, un poeta della bassa mantovana come lui; che va a scuola in treno, va in biblioteca, poi pensa a quale facoltà iscriversi e a come rinviare il servizio militare; lavora come manutentore elettromeccanico stagionale in una ferrovia locale, lavora nella filiale locale – prossima alla dismissione – di un’industria casearia, in un’agenzia editoriale di provincia, come venditore di libri, come organizzatore di eventi culturali, come responsabile di collana.
Da autore si fissa su temi come verità e felicità, poi si perde; scrive, non scrive, diventa padre, poi scrive questo libro di cui sto dicendo, Lezioni dalle rovine.

C’è la pianura e c’è il Po, in questo libro, e gente che gravita sull’argine, c’è Ferrara città ducale e surreale (e la gente che vive assieme al narratore e attorno a lui, pagine davvero indimenticabili), Mantova citt e c’è la terra in sé, la terra come campagne e paesi, linee ferroviarie e fiumi, canali e strade – la terra lontana dalle città.à ducale e i suoi laghi, il Mincio, e Verona e Cremona e Pesaro

E ci sono cisterne e binari, officine e valvole e pompe, compagni di lavoro e capireparto, attrezzi e vestiti; e uffici e magazzini e librerie, utilitarie, furgoni e vagoni. E libri. Dagli autori narrati – tre autori e un’autrice, tutti e quattro già morti da anni – alle vite di amici e colleghi e alla lettura, alla scrittura, tutto esonda in tutto. La vita e la lettura e la scrittura, come dice il sottotitolo tra parentesi, stanno assieme. Certo. Mai sono state separate. C’è chi le intende separate, affari suoi.

 

Poi c’è un capitolo finale: che si intitola

Capitolo fantasma

(la fine)

e qui il narratore si avvicina più che mai all’autore, infatti parla con il tu a Marosia Castaldi: le racconta di sé stesso a cinquant’anni, della sua bambina piccola, della sua vita ora, e dice a Marosia quanto sono importanti i libri di lei, di Marosia. Lei è morta già da anni, ma noi a chi parliamo di noi stessi, della nostra vita? E dei libri importanti, di questa cosa misteriosa che è la lettura, cioè della vita?
E cosa fanno i poeti se non morire e tornare di qua a parlare, come scrisse Bassani?

E infatti il narratore non si ferma, e nemmeno “passa oltre”: va dentro, più indietro e più oltre, ma dentro un’oltranza. Dice a Marosia di quei romanzi straordinari, i romanzi di Marosia difficili da trovare e impossibili da dimenticare, poi le racconta del suo proprio lavoro: non il lavoro letterario, però, ma il lavoro in una struttura psichiatrica. Racconta delle persone che stanno là, al diurno e in reparto. Poi diventa le loro voci, perché è un narratore. E un autore.

Stupefacente in questo libro è quante cose e persone – oltre a libri, titoli e autori e voci – quanti abiti e tute e scarpe, storie di sesso e compagnie, di lavori e di incontri, di amarezza e allegria, possano stare in centocinquanta pagine.
E senza mai perdere il filo. E stupefacente è una qualità del testo che è assieme forma e sostanza – che forse poi capirò meglio, ma ora non so dire che così: non c’è mai autocompiacimento, non sento mai vanità in questo raccontare, in questa voce, in questo libro. C’è leggere, c’è scrivere e c’è vivere. Tra parentesi. C’è aver messo in parentesi tante cose e aver posto attenzione ad altre solo, ma attenzione profonda e spietata. C’è una cosa che mi riempie di stupore: quando il narratore passa al tu, all’improvviso, e parla con uno dei quattro e anche con me, con noi, con chi sta leggendo.

E c’è una cosa che mi fa saltare sulla sedia, ed è quando di colpo, all’improvviso, il narratore dice il suo mondo interno: una riga sopra diceva di un tizio sulla spiaggia del Po, di cefali e canoe; poi va a capo, e all’improvviso ecco “una sensazione di espansione totale”, “un sentimento oceanico”.

Ho messo tra virgolette questi frammenti, i ritagli della sua voce. L’immensità del Po la conosco anch’io, e riconosco quando viene menzionata a titolo strumentale, o retorico, per far tornare i conti del racconto. E grazie a quella visione, quella della pianura e del fiume largo, riconosco quando la scrittura è asservita all’ego, quando gli eventi vengono stirati a modo di tener tutto assieme con un fine, e i personaggi e gli incontri fatti servi dell’io narrante.
E in queste 150 pagine, mai e poi mai ho visto accadere queste cose: perché qui nulla è strumentale a nulla, e tutto sta assieme nella luce, tra le rovine, su una spiaggia fluviale.

E perché due volte, nelle centocinquanta pagine di queste Lezioni, salta fuori che il narratore si era messo, anni fa, a leggere l’Imitazione di Cristo come un manuale di scrittura. Non di scrittura narrativa, non di scrittura creativa. Di scrittura, dice, e basta. (Il corsivo qui è mio. E tra parentesi, lo ho fatto anche io).

In copertina Fiume Po vicino a Ferrara, Foto di Paolo Panni

Per leggere i contributi di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

La "nuova" estate, tra caldo torrido e piogge violente

La “nuova” estate, tra caldo torrido e piogge violente

La “nuova” estate, tra caldo torrido e piogge violente

Di Antonello Pasini – Fisico climatologo del Cnr
articolo originale su lavialibera del 6 agosto 2025

Un tempo, l’anticiclone delle Azzorre proteggeva il nostro Paese per quasi tutta la stagione e quando si ritirava, intorno a ferragosto, cominciavano i temporali estivi. Ora il clima si è estremizzato, tra eventi caldi e freddi, come in un punching ball climatico

In un mondo in preda al riscaldamento globale non è difficile aspettarsi temperature superiori a quelle medie dei decenni passati. Ma ogni regione della Terra ha le sue peculiarità e l’Italia non fa eccezione, anzi. Il Mar Mediterraneo è considerato, infatti, un hot spot (un “punto caldo”) per il cambiamento climatico: si risente di un riscaldamento doppio rispetto a quello globale, in parte dovuto a un cambio di circolazione atmosferica, che favorisce eventi di caldo estremi e, al contempo, precipitazioni violente.

Cosa sta accadendo alle nostre estati?

Le osservazioni degli ultimi anni ci mostrano che l’anticiclone delle Azzorre è sostituito sempre più spesso dagli anticicloni africani. Il primo è un cuscinetto di aria stabile e mite che ci protegge dalle perturbazioni che passano al nord Europa e dal forte caldo africano. I secondi, invece, ci portano aria molto più calda dal deserto del Sahara.

Le osservazioni degli ultimi anni ci mostrano che l’anticiclone delle Azzorre è sostituito sempre più spesso dagli anticicloni africani

Il perché accada questa sostituzione è ancora oggetto di studio, ma sembra che il riscaldamento globale di origine antropica abbia fatto espandere verso nord la circolazione equatoriale e tropicale e al contempo la circolazione si sia messa sempre più spesso lungo le direttrici sud-nord e nord-sud, mentre prima era quasi sempre nella direzione ovest-est. Quest’ultimo fatto pare sia favorito dalla fusione dei ghiacci artici che non consentono più un confinamento continuo sul Polo Nord dell’aria fredda, che ogni tanto scende verso latitudini inferiori.

Il clima estivo in Italia è profondamente cambiato

Un tempo l’anticiclone delle Azzorre ci proteggeva per quasi tutta la stagione e quando si ritirava, intorno a ferragosto, cominciavano i temporali estivi. Adesso, invece, gli anticicloni africani salgono prepotentemente a impulsi di grandi ondate di calore, ma poi talvolta si ritirano, almeno dalla parte settentrionale del Paese, lasciando la strada aperta a correnti più fresche che creano un grande contrasto termico con l’aria calda e umida preesistente in loco, con i suoli caldi e soprattutto con un Mediterraneo molto surriscaldato.

La conseguenza sono i temporali violenti anche a giugno, luglio o inizio agosto, con alluvioni lampo spesso foriere di veri e propri disastri. Insomma, il clima estivo si è quindi  estremizzato: eventi caldi e siccitosi si alternano a eventi più freddi e piogge violente. Come quando il pugile tira un pugno al punching ball e il palloncino gli torna indietro.

Cover: Foto di marian anbu juwan da Pixabay

Per certi Versi / Non sto aspettando nessuno

Non sto aspettando nessuno

Non sto aspettando nessuno

nemmeno il tempo che passa

sto solo guardando il cielo

che piano scivola giù

 

non sto aspettando nessuno

il treno è passato da un po’

ha lasciato l’odore del viaggio

sui caldi binari e nel vento

 

non sto aspettando nessuno

mi basta questo momento

lo schienale di una panchina

e un brivido che mi scorre dentro

 

In copertina: Foto di Christelle Olivier da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Stefano Ferri, pittore: “Cerco i miei colori”

Stefano Ferri, pittore – Ho trovato i miei colori

Stefano è un maestro d’Arte, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, è un pittore ma dice di sé “ero bravo, avevo talento ma riproducevo il codice espressivo degli artisti che mi piacevano”. Non sfonda né come pittore, difficile carriera senza pigmaglioni, e neanche come insegnante. Si accontenta, barcamenandosi per lavorare come tanti, ma sempre continuando a dipingere.

Succede che nella sua vita intorno ai 50 anni, la madre, con cui vive, gli fa notare, lui non ne aveva consapevolezza pare, che ha atteggiamenti “strani”. È preoccupata, lui sa solamente che è sempre più isolato socialmente. Si presenta al servizio territoriale di psichiatria e la diagnosi è schizofrenia.

Me lo racconta quieto, come parlasse di una qualsiasi influenza. Mi rendo conto che la paura di tale evenienza è più nella mia mente che nella realtà dei fatti. Eppure sono un’addetta ai lavori, eppure dovrei saper prendere le distanze dallo stigma, eppure dovrebbe essere nella mia prospettiva il nuovo costrutto di One Health e di One Mental Health.

L’ho conosciuto grazie ad una mostra a S. Bartolo nelle giornate del FAI. Io, che ci ho lavorato, non avevo mai visto il convento nelle sue bellezze architettoniche, solo gli spazi più moderni e nello stupore di quella dimenticata e dismessa bellezza trovo anche una piccola stanza dedicata ai suoi dipinti.

Stefano è di poche parole, parlano per lui le sue tele.

Gli chiedo un’intervista, mi interessa approfondire il suo stile. Spero di non cadere nella retorica del malato psichiatrico talentuoso.

Lo incontro un pomeriggio di maggio, è gentile, la sua casa è piena delle sue opere artistiche. Mi spiega che, dopo la schizofrenia, i farmaci, il ricovero e il progressivo miglioramento, un giorno passeggiando nel centro della città si è accorto di percepire quello che osservava con uno sguardo inaspettato, nuovo. Nuovi colori, colori mai visti, “colori che mi appartengono. Sento di essermi trovato”.

Ecco, da quel momento, i suoi dipinti non sono riproduzioni, anche se belle, sono interpretazione della realtà secondo un codice espressivo che è solo suo.

Stefano non desidera fare mostre, anche se ne ha fatte e, soprattutto, non vuole vendere i suoi lavori. Credo di capire: come si può vendere l’anima?

Ripercorro nella mia mente le correnti artistiche che mi pare possano aiutarmi per una lettura più approfondita. Stefano non si concentra specificatamente sulla riproduzione fedele del mondo esterno come facevano gli Impressionisti ma è vero però che la realtà è il suo imprescindibile modello. Penso allora sia più calzante la corrente degli Espressionisti che cercano di trasmettere reazioni emotive e interiori attraverso l’arte, ma Stefano rimane sulla sua estetica senza volerla caricare emotivamente.  Escludo la definizione di Art Brut, un’arte spontanea, perché qui c’è tecnica, conoscenza, scelta consapevole.

Poi un pensiero malizioso, di nuovo dettato da un pregiudizio relativo ai sintomi che si vivono nelle psicosi e gli effetti degli psicofarmaci. Tali esperienze potrebbero aver determinato una sorta di esplorazione non cercata volutamente ma che avrebbe potuto determinare stati alterati di coscienza e immagini oniriche. A far nascere questa convinzione, probabilmente, ha contribuito la conoscenza di alcuni artisti che dichiaravano che l’artista, quasi per definizione, generalmente, non presenta particolari preclusioni mentali o tabù. Ma di nuovo devo constatare che Stefano preferisce di gran lunga una vita quieta e normale. Stefano non è un’artista che desidera evadere dalle regole dell’arte, le usa e le piega dolcemente al suo progetto artistico. Come fa della sua vita.
Inoltre
, da uno stato di confusione mentale non è scontato che abbia origine l’arte intesa quale espressione di creatività, alle volte, anzi, induce uno stato di paura e di rimozione.

Lo provoco bonariamente ma lui glissa educatamente, non gli piace parlare di questo. Alle mie elucubrazioni ribadisce semplicemente: “ad un certo punto, la realtà mi è apparsa diversa, nuova più intensa”.

Non insisto.

Mi cattura la sua disposizione a reinterpretare la realtà (dipinti dal vero, riproduzioni di cartoline), sono paesaggi, fiori, oggetti esistenti nella loro tangibile concretezza, ma trasformati nella loro estetica. Guardando, sembra di non averli mai visti prima. Originali, unici.

Mi attrae la sua idea deontologica per cui si dipinge per esprimersi, non per fare mercato, si dipinge per raccontarsi e non per accontentare il pubblico o una moda.

No, i suoi quadri non sono in vendita, afferma deciso.

Lui non è in vendita, penso io.

Non sono i soldi o l’affermazione che gli interessano, è sentirsi autentico, in sintonia con il suo essere così come è oggi.

Mi permette di fotografare i suoi lavori artistici, prima quando era “mediocre”, dopo quando la sua anima si è rivelata.

I quadri sono effettivamente ovunque e in ogni stanza, in ogni parete di ogni stanza. Mi sento privilegiata che mi accompagni in questa esplorazione estetica-espressiva.

Non sempre, neppure con il mio lavoro di psicoterapeuta, mi è concesso un simile privilegio.

Guardiamo queste opere più da vicino. Qui sono io che parlo. Parlo di ciò che ha risuonato in me. Stefano è in pace, non c’è da commentare, quello che lui voleva esprimere è nelle sue tele, nelle pennellate, nella scelta dei colori, nell’azzardo surreale dei colori.

Non smetterà di dipingere, ha nuovi progetti per raffigurare la natura, i paesaggi, non tanto le persone. Quelle, se ci si pensa, sono effettivamente più circoscritte, sono quello che sono, magari sono come uno specchio emotivo, ma non lasciano spazio alla metafora universale.

Stefano riproduce fiori, mari, montagne che attraverso il suo pennello diventano luce, colore vivido, potenza, vita, bellezza.

Attualmente ha un po’ di più 60 anni, ne dimostra molti meno, appare sereno, vive con la mamma  che mi ha accolta con cordialità e naturalezza.

Stefano sorride poco e con parsimonia ma sembra in pace. Un uomo che ha trovato la sua dimensione esistenziale e non ha pretese. La sua casa , che raccoglie i suoi lavori artistici, é il suo portfolio ma anche la sua autobiografia.

Spero che il contesto sociale lo risparmi dalla competizione, dal mito dell’essere performante e gli dia la possibilità di vivere con la stessa dignità con cui lui si racconta.

Ci siamo incontrati dopo la scrittura dell’articolo, la stesura finale è quella che abbiamo condiviso. Mi ha dato cortesemente la liberatoria per la pubblicazione dei propri lavori artistici, fiducioso che il suo contributo sarebbe stato utile per la divulgazione delle Arti Terapie e del potere espressivo e curativo, sicuramente per l’anima, dell’ arte in cui entrambi crediamo e siamo testimoni.

L’arte, la sua almeno, non è commercio o il volto positivo, in certa prassi psichiatrica di ciò che, paradossalmente, pur sostenendo il diritto alla stravaganza, alla singolarità di ogni individuo, , argina tutto ciò che può sembrare troppo divergente , inaccettabile, strano, alimentando, indirettamente, lo stigma sociale che pretende di poter definire la normalità.

La produzione artistica di Stefano non è neppure un ritorno, del Perturbante, come lo chiamerebbe Freud, di  qualcosa che sappiamo esiste ma viene rimosso, allontanato dalla consapevolezza, perchè la sua presenza ci rende inquieti.

Stare nel marasma è una conquista, Stefano ci è riuscito, io, come psicoterapeuta e come persona continuo a lavorare per essere capace di non aver paura.

Stefano Ferri: “Cerco i miei colori”. ” I miei colori sono in rapporto con la realtà ma più belli del reale”

Tutte le tele ad olio che illustrano l’articolo sono di Stefano Ferri.
In copertina: Stefano Ferri, Autoritratto dell’artista da giovane.

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice. Oppure visita la sua rubrica L’arte che cura

Mediterranea: Cadenti Armonie
12 agosto 🕡 Dalle ore 18:45 📍 Oasi dell’Alma – Via Traversa 6, Codrea (Ferrara) :

Mediterranea: Cadenti Armonie: una serata insieme.
📅 Martedì 12 agosto
🕡 Dalle ore 18:45
📍 Oasi dell’Alma – Via Traversa 6, Codrea (Ferrara)

Ti aspettiamo per condividere un momento di bellezza, consapevolezza e solidarietà!

Aiutaci a diffondere, inoltrando la locandina alle tue reti e contatti!

Con gratitudine,
Mediterranea Saving Humans – Ferrara

PS ti sei già associato a MEDITERRANEA Saving Humans APS?
Contattaci per tesseramento 2025 (prima iscrizione o rinnovo) quota associativa 10 euro annue
Visita il sito di Mediterranea Saving Humans:
https://mediterranearescue.org/it
Cover: Stelle cadenti – immagine  gratuita da pexsels

Presto di mattina /
L’aurora voglio svegliare

Presto di mattina. L’aurora voglio svegliare

Il Risveglio (“El Desperar”)

 Entra la luce e salgo goffamente
dai sogni fino al sogno condiviso
e le cose riprendono il dovuto
e atteso loro posto, e nel presente
converge soverchiante e vasto il vago
ieri: le secolari migrazioni
dell’uccello e dell’uomo, le legioni
che il ferro dilaniò, Roma e Cartagine.
Ritorna anche la quotidiana storia:
la mia angoscia, il mio viso, la mia sorte.
Ah se quell’altro risveglio, la morte,
mi riservasse un tempo senza memoria
del mio nome e di ciò che sono stato!
Se in quel mattino ci fosse anche oblio!
(Jorge Luis Borges, Poesie 1923-1976, Milano 1980, 177).

Scrive Domenico Porzio nell’introduzione a Tutte le opere di Borges, che i sogni hanno sempre rappresentato per il “bibliotecario argentino”, sia a livello esistenziale, nella quotidianità, sia per la sua scrittura creativa, una parte attiva, un ambiente di meditazione e forza propulsiva.

Tanto che lo commuoveva un testo di J.W. Dunne in cui si diceva che «il sogno è la piccola parte di eternità che l’uomo possiede e che spende ogni notte, giacché sognando può vivere il suo recente passato prossimo futuro:

“Tutto questo il sognatore lo vede con un unico sguardo, come Dio, dalla sua vasta eternità vede tutto il divenire cosmico”. Per i bambini e per i selvaggi i sogni sono forse parti della veglia, nel senso che li confondono con una esperienza realmente vissuta, ma è certo che “per i poeti e i mistici non è impossibile che tutta la veglia sia un sogno”» (ivi, XCIV- XCV).

Così ho pensato che ai bambini, ai selvaggi, ai poeti e ai mistici, è affidato il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte, perché per loro il sogno è una veglia e, sognare insieme designa la realtà che inizia, un precorrere, incalzando l’aurora.

Anche Borges, al venire della luce − così interpreto i versi dell’esergo − passa dai sogni al sogno condiviso nel presente; dal risveglio al morire; ma questo è inteso come l’ultimo risveglio, un nuovo mattino che si auspica abitato dall’oblio.

Per lui, infatti, l’oblio è sempre preferibile alla memoria intollerabile del passato cui spera di sottrarsi per sempre: “le secolari migrazioni dell’uccello e dell’uomo, le legioni che il ferro dilaniò, Roma e Cartagine”. Nell’oblio invece si stempera “la quotidiana storia: la mia angoscia, il mio viso, la mia sorte”, (Poesie, 177). Come la morte l’oblio cela enigmi: della morte “Voglio bere il suo cristallino Oblio,/ essere per sempre, ma non essere stato», (ivi, 195).

Un indecifrabile risveglio

Itineranza claudicante, la mia. Tra le sue poesie mi è sembrato di intuire che per Borges l’oblio sia come un nulla mistico, “Io che sono colui che adesso sta cantando/ sarò domani il misterioso, il morto,/ l’abitatore di un magico e deserto/ orbe senza prima né dopo né quando. Così afferma la mistica» (ivi, 195). Ombra in attesa di essere permeata e sopraffatta dalla luce è pure la mistica: un nulla aurorale, dunque, al modo di “lasciare un verso per l’ora triste/ che sul confine del giorno ci attende… e voglio che l’oblio/ restituisca ai giorni la tua leggera ombra (“A un poeta minore del 1899”, ivi, 181).

Per Borges “l’oblio/ è una delle forme della memoria, il suo vago/ l’altra faccia segreta della moneta” (ivi, 257): è el desperar, un inspiegabile, trasparente e finissimo risveglio. Egli, infatti, scrive ancora che “l’oblio, è il modo più povero del mistero”, un velo che tuttavia non lo occulterà per sempre lasciando trasparire alfine la cangiante sua immagine: “Dio o Forse o Nessuno, io ti chiedo la sua inesauribile immagine, non l’oblio”, (ivi, 307).

Forse è l’apparizione dell’inesauribile e di nuovo risorgente immagine della “storia dello spirito umano”, levatrice di ogni risveglio, impulso di ogni movimento, dell’orologio o dell’uccello dormiente che sogna l’aurora, precedendola oltre l’orizzonte.

Così anch’io vado cercando, non senza timore, tra i versi del poeta il nome che non ha nome, una bussola nel gravitare ai confini della sua ombra, quel “Qualcuno o Qualcosa” che senza posa “notte e giorno” va scrivendo con zelo nelle cose il loro senso nascosto e nel groviglio umano della storia il suo sogno da condividere con noi.

Una bussola (Una brùjula)

Tutte le cose sono parole della lingua
in cui Qualcuno o Qualcosa, notte e giorno,
scrive quell’infinito guazzabuglio
che è la storia del mondo. Nel suo vortice
passano Cartagine e Roma, io, tu, lui,
la mia vita che non capisco, quest’agonia
di essere enigma, caso, criptografia
e tutta la discordia di Babele.
Dietro il nome c’è quel che non si nomina;
oggi ho sentito gravitare la sua ombra
su questo ago azzurro, lucido e lieve,
che verso il confine di un mare tende il suo zelo,
con qualcosa di un orologio visto in sogno
e qualcosa di un uccello addormentato che si muove, (ivi, 167).

“Io l’aurora voglio svegliare”

Per il salmista del salmo 57 è un cuore pronto, paratum, come coscienza e decisione, quello capace di svegliare l’aurora: «Saldo è il mio cuore, o Dio, saldo è il mio cuore. Voglio cantare, voglio inneggiare: svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora».

È lo stesso cuore dell’amata nel Cantico dei cantici: «Dormivo,/ vegliandomi il cuore l’attesa/ Stropiccio di passi,/ del mio amore al battente», si esprime anche qui lo stato interiore della coscienza che abita e precorre l’attesa dell’incontro», (Ct 5, 2; trad. poetica di A. V. Reali). L’ora del risveglio antelucano è ricordata come immagine della veglia orante; nell’«ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami» (Paradiso X, 140-141), Così «io sveglierò l’aurora, non sarà essa a svegliarmi» (trad. di D. Kimchi).

Sveglia l’aurora chi aspetta con impazienza nella notte l’avvento del giorno; chi conosce il desiderio del cuore nell’attesa dell’altro. L’attesa è quel barlume (par-vum- lumen/piccolo lume) che anticipa nella speranza la luce aurorale. Le stesse espressioni le troviamo ripetute nel salmo 108.

San Girolamo coglie l’aspetto cristologico di questo salmo. Cristo stesso è infatti l’intero salterio, il libro di tutte le preghiere che attendono nella notte del mondo. Quel salterio della supplica e della lode cosmiche, salterio che, rinchiuso nel sepolcro, è stato capace il mattino di Pasqua di anticipare e svegliare proprio l’aurora:

«Déstati, salterio e cetra! Perché siete stati fatti, come il cuore, per cantare Dio. È nella luce che si canta Dio ed anche se noi cantiamo di notte, è in piena luce che noi benediciamo Dio… Ma io vedo un senso più profondo. È il Signore stesso che canta: Paratum cor meum, Il mio cuore è pronto! Canta per il presente e per il futuro, per la terra e per il cielo, per gli angeli, per gli uomini. Meglio: egli parla al suo corpo, questo “salterio” che è stato messo nella tomba» (Patrologia Latina, PL 26,1150).

La stessa interpretazione è presente anche in Ruperto di Deutz (PL 169,1484-1485), un monaco del XII sec., che interpreta svegliati con egerthènai uno dei verbi del Nuovo Testamento usati per indicare la risurrezione come “svegliarsi”.

“Missio migrantium”

È un versetto del monumentale salmo alfabetico sulla parola di Dio; quello che è in grado di darci al vivo l’immagine della missione dei migranti: «Precorro l’alba, precedo l’aurora e grido aiuto, spero sulla tua parola, i miei occhi prevengono le veglie, per meditare sulle tue promesse» (119 [118], 147).

Leggendo il messaggio di papa Leone Migranti, missionari di speranza, scritto per il Giubileo dei Migranti che si terrà il 4 e 5 ottobre 2025, mi viene spontaneo aggiungere a coloro cui è indirizzato lo scritto il potere di svegliare l’aurora sull’umanità e nella coscienza delle persone, proprio nel cuore della notte, come i bambini, i selvaggi, i poeti e i mistici, ché i migranti, più di ogni altro, hanno il cuore pronto per mettersi in viaggio, nel cuore il sogno condiviso e l’attesa di «un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani».

Il cuore pronto a svegliare l’aurora della dignità umana rende palese il legame inscindibile tra migrazione e speranza. Tanto che «in un mondo oscurato da guerre e ingiustizie, anche lì dove tutto sembra perduto, i migranti e i rifugiati si ergono a messaggeri di speranza. Il loro coraggio e la loro tenacia è testimonianza eroica di una fede che vede oltre quello che i nostri occhi possono vedere e che dona loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee».

Il sogno di Dio

Lo troviamo nel capitolo 8 del libro di Zaccaria così lo interpretava e lo chiamava negli incontri biblici con grande convinzione don Francesco Forini. Vi si immagina come, dopo la deportazione del popolo nella città di Sion devasta e vuota, Dio si addormentasse, seduto sulle sue rovine, sognando la città come era prima: le piazze piene di bambini chiassosi presi dai giochi e del parlare degli anziani.

Poi come risvegliandosi d’improvviso tra quelle tristi e mute rovine, ricordandosi del suo amore giurato per sempre, diceva a se stesso che quel sogno non sarebbe restato tale e mutata sarebbe stata tale sorte, dall’esilio al ritorno: «se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi? Oracolo del Signore».

E proprio a questo testo fa riferimento anche papa Leone nel suo messaggio: «Di fronte alle teorie di devastazioni globali e scenari spaventosi, è importante che cresca nel cuore dei più il desiderio di sperare in un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani. Tale futuro è parte essenziale del progetto di Dio sull’umanità e sul resto del creato. Si tratta del futuro messianico anticipato dai profeti:

“Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. […] Ecco il seme della pace: la vite produrrà il suo frutto, la terra darà i suoi prodotti, i cieli daranno la rugiada” (Zc 8,4-5.12). E questo futuro è già iniziato, perché è stato inaugurato da Gesù Cristo (cfr. Mc1,15 e Lc17,21) e noi crediamo e speriamo nella sua piena realizzazione, poiché il Signore mantiene sempre le sue promesse».

Essere ‘civitas pellegrina’, nella città sedentaria e muta

«I migranti e i rifugiati ricordano alla Chiesa la sua dimensione pellegrina, perennemente protesa verso il raggiungimento della patria definitiva, sostenuta da una speranza che è virtù teologale. Ogni volta che la Chiesa cede alla tentazione di “sedentarizzazione” e smette di essere civitas peregrina – popolo di Dio pellegrinante verso la patria celeste (Cfr. AgostinoDe civitate Dei, Libro XIV-XVI), essa smette di essere “nel mondo” e diventa “del mondo” (cfr. Gv 15,19)».

Occorre allora che i cristiani e le comunità si lascino evangelizzare da quella che possiamo definire una vera missio migrantium, missione realizzata dai migranti. A fronte della loro testimonianza «anche le comunità che li accolgono possono essere una testimonianza viva di speranza. Speranza intesa come promessa di un presente e di un futuro in cui sia riconosciuta la dignità di tutti come figli di Dio. In tal modo migranti e rifugiati sono riconosciuti come fratelli e sorelle, parte di una famiglia in cui possono esprimere i loro talenti e partecipare pienamente alla vita comunitaria».

Oggi sarai con me

Vi è un testo del vangelo di Luca 23, 39-43, commentato poeticamente da Jorge Luis Borges, che abbozza ancora una volta l’identità di colui che ha il potere di svegliare l’aurora. È colui o coloro, a qualunque nazione o popolo appartengano, che osano prende con sé l’altro/gli altri, vivendogli fianco a fianco, rendendo così reale il sogno condiviso con un Dio che muore accanto a noi. Di questo, mi sembra parli la convinzione di Borges secondo cui «la Storia non permetterà che si estingua la memoria di quella sera”.

LUCA, XXIII

Gentile o ebreo, o soltanto un uomo
il cui volto col tempo si è perduto;
più non riscatteremo dall’oblio
i silenziosi segni del suo nome.
Della clemenza conobbe quel che può
conoscere un bandito che la Giudea
inchioda a una croce. Il suo passato
è ormai inaccessibile. Nel compito
finale di morire crocifisso,
apprese, fra lo scherno della gente,
che chi stava morendo accanto a lui
era Dio, e gli disse ciecamente:
«Ricordati di me quando verrai
nel tuo regno», e la voce inconcepibile
che un giorno giudicherà tutti gli esseri
gli promise, dalla Croce terribile,
il Paradiso. Nient’altro dissero
fino a che giunse la fine. Ma la Storia
non permetterà che si estingua la memoria
di quella sera in cui morirono fianco a fianco.
Oh, amici, l’innocenza di quest’amico
di Gesù Cristo, quel candore che gli fece
chiedere e ottenere il Paradiso
dalle ignominie del castigo
era lo stesso che tante volte nel peccato
lo gettò e nel rischio insanguinato
(ivi, 145).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Diario in pubblico /
Monogoduria contro Pavlova

Diario in pubblico. Monogoduria contro Pavlova

Chinando il capo e seguendo la transumanza anche quest’anno mi sono recato al Lido-Laido degli Estensi per passare le vacanze(!) in quel luogo sempre più scosso dai lavori che dovrebbero concludersi fra un anno del monstrum, che s’innalza ormai minacciosamente trionfante con i suoi 14 piani di altezza, chiudendo di fatto l’infelice via Zanella, dove ho casa e dai nipoti chiamata, vista la frequente visita dei cani numerosissimi che hanno bisogno di depositare le loro feci, “la via merdaiola”.

L’appartamento è ben tenuto, anche se la solitudine lo rende ancor più triste. Decido di approfittare subito del buon cibo che offre il mio bagno “blu” anche se devo recarmici ad personam. Scelgo i piatti preferiti e tra i dolci m’imbatto in una novità chiamata Monogoduria alla fragola. Squisito e m’inchino a tanta bontà.

Il giorno dopo decidiamo di passare la giornata a Comacchio dove nella trattoria da sempre frequentata tra i dolci m’imbatto nella Pavlova, un dolce di tradizione che vanta una lunga storia. Si dice e si scrive, infatti che nel 1926 a Wellington in Nuova Zelanda un cuoco inventò questo dolce formato da una meringa con al centro la panna montata e adornato da frutta candita per festeggiare la bellissima ballerina Anna Pavlova.

Monogoduria alla fragola
Pavlova

Altri invece suggeriscono che il dolce fu inventato in Australia, dove la bella Pavlova era in tournée nei due paesi oceanici, mentre sembra più realistico che il pasticcere Berth Sachse di un hotel a Perth usasse per omaggiare la ballerina ingredienti avanzati da alcune preparazioni. Resta il fatto che la Pavlova diventò nel tempo un dolce popolare, particolarmente gradito nel periodo estivo.

Una conclusione sembra dunque imporsi, cioè che il vecchietto che scrive dedica il suo tempo a mangiare. Si certo non lo nego, ma devo ricordare che tra i miei iter di lavoro risalta un’attenzione al cibo, indotta anche dal fatto che sono stato membro dell’Accademia della Cucina Italiana e per quella importante organizzazione ho pubblicato testi fondamentali tra cui il Messisbugo il più importante trattato sulla cucina rinascimentale.

Gli sbalzi del tempo meteorologico in questo periodo provocano trombe d’aria che abbattono pini ed altri incidenti. Il mare è infido e le spiagge libere si coprono di divieti di balneazione, così non resta altro che accomodarsi sul balcone per vedere e sentire i comportamenti dei passanti dominati dalla voce stentorea di un vicino di casa che sembra assumere toni da generale Vannacci che consiglia/ordina come posteggiare le macchine e come esibire le piante fiorite comprate al mercato del sabato.

Passeggio la mattina nel viale principale per incontrare Maia, una cagnona stupenda, che vuole con tutti giocare con il frisbee e che viene galantemente ossequiata dai suoi simili. Ospito Benny, sempre più amato, che aspetta con ansia la trasferta mattutina al bar perché sa perfettamente che in quella occasione potrà gustare qualche pezzetto di brioche, poiché il suo cibo mattutino si compone di mezza mela o una carota.

Insomma, il Laido rimane immutato nei suoi ritmi ed io, tra una “monogoduria” e una Pavlova, aspetto che il tempo concluda il suo ciclo. E assieme ai giornali quotidiani leggo Singer poi vado a scambiare due chiacchere “fruttifere” con Luca e infine a degustare la sera la frittura nella trattoria spagnola.

Sic transeunt tempora laidenses.

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