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Gli istriani di Gaza

Gli istriani di Gaza

Non ci vuoi credere? Credici!

Ti pare impossibile? Invece è successo!

Ma è un’idea pazzesca, una battuta, il delirio di un malato di mente? No, è tutto vero, quel  brutto sogno si avvererà! 

Nel  colloquio di ieri l’altro con il suo mentore e protettore Donald Trump, il  premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ritirato fuori il suo progetto totalitario: “Con il presidente americano abbiamo parlato dei paesi africani dove trasferire la popolazione palestinese di Gaza”. Netanyahu è apparso ottimista, la sua idea apparentemente folle, sta guadagnando consensi (quello americano) e silenzi (l’Italia e i paesi europei) e alla fine diventerà realtà.

Trasferire due milioni di palestinesi? Non ci vuoi credere? Credici!

Anche perchè nella storia, lontana e vicina, il trasferimento, o per meglio dire l’esodo forzato, la deportazione di un popolo è già accaduto molte volte. Altre volte un popolo è stato cacciato dalla propria terra madre. La prima immagine che torna alla memoria è quella così italiana dell’ esodo istriano:  350.000 giuliani, istriani, fiumani e dalmati sloggiati con la forza dalla propria terra, dalle loro case, dalla propria storia e trasferiti nei campi profughi italiani. Guardare ancora oggi, a distanza di quasi 80 anni. quelle foto in bianco e nero, ascoltare quelle antiche voci, fa impressione. Eccoli i profughi istriani; chi non è finito nel nero delle foibe ha dovuto lasciare tutto e raggiungere un’Italia straniera.

“Gli istriani di oggi” sono sull’altra sponda del Mediterraneo. Il progetto (non è più un sogno, è un progetto concreto) di Netanyahu è quello di annettere la Striscia di Gaza allo stato ebraico. Vuole altra terra per i suoi coloni e vuole un altro pezzo di mare: 40 chilometri di spiagge da riconvertire in un lussuoso resort turistico: “la riviera di Gaza”, come ha postato due mesi fa Donald Trump. Ma per farlo bisogna sgombrare l’area, eliminare i palestinesi: i bombardamenti non bastano, ci vorrebbe troppo tempo per ucciderli tutti.

E mentre si tratta o si finge di trattare un cessate il fuoco, mentre ascoltiamo inutili appelli alla pace, sotto traccia la “soluzione finale” di Trump e Netanyahu sta prendendo corpo. Sta diventando “la soluzione migliore”, l’operazione chirurgica definitiva.
Quando succederà (e sta già cominciando  a succedere) sarà troppo tardi per opporsi all’espansionismo sionista.

Non riesci a crederci? Credici!

Cover: profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto – foto di toscananovecento.it

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Marghera, Progetto inceneritore di ENI Rewind è stato bocciato. Vittoria del Coordinamento No Inceneritori

Marghera, Progetto inceneritore di ENI Rewind è stato bocciato. Vittoria del Coordinamento No Inceneritori

Eni Rewind nel pomeriggio del 25 giugno ha commentato con una breve nota il parere negativo del comitato tecnico regionale del Veneto per la Valutazione di Impatto Ambientale, che di fatto affossa il progetto del termovalorizzatore, che già aveva avuto un parere negativo dall’Istituto Superiore di Sanità, oltre alla graduale opposizione di diversi comuni e comunità del territorio. «Eni Rewind prende atto della decisione in merito alla bocciatura del progetto per la realizzazione di un impianto per il trattamento dei fanghi di depurazione civile a porto Marghera» scrive all’inizio della nota. Proprio sul fronte del lavoro interviene la Cgil, ricordando che «quello dell’inceneritore a Fusina è sempre stato un progetto irrealizzabile, privo di basi industriali solide e totalmente inadeguato. Eni – dichiarano Daniele Giordano (Cgil Venezia) e Michele Pettenó (Filctem) – ha preso in giro l’intero territorio, presentando una proposta che non aveva alcuna reale prospettiva di rilancio industriale. Questo impianto è servito solo a distogliere l’attenzione dai veri nodi irrisolti, a partire dalla mancanza totale di investimenti e dalla chiusura silenziosa della chimica a Porto Marghera».

L’inceneritore per fanghi di ENI Rewind è stato bocciato e i comitati parlano di una vittoria e di una giornata storica. Il Coordinamento No Inceneritori ha emesso un comunicato stampa il 25 giugno in cui scrive:

“Avevamo promesso a ENI che di qui non sarebbero passati, e non sono passati!
E’ una vittoria importantissima e di portata storica per un territorio che ha pagato un prezzo altissimo, in termini di vite umane perse e di degrado ambientale, a causa di decenni di industrializzazione dissennata, che ha privilegiato il profitto sopra tutto e sopra tutti, creando la diffusa opinione che la popolazione non ha mai voce in capitolo su questioni così importanti.

Qualcuno pensava di poter continuare a sacrificare questo territorio, ma le tante mobilitazioni popolari messe in campo, non ultima la grande manifestazione dell’1 giugno con 5000 persone in piazza un anno fa, il blocco del distributore a Marghera e dell’ENI Store, il grande lavoro di inchiesta , di approfondimento scientifico, di sensibilizzazione svolto in questi anni dai comitati ha sbarrato la strada addirittura a ENI, una delle multinazionali del fossile più potenti al mondo, la stessa che fa accordi con il governo criminale di Israele e con Paesi come la Libia responsabili di torture e di gravi violazioni dei diritti umani .

E’ importante che le argomentazioni del Comitato Tecnico per la valutazione ambientale abbiano riconosciuto l’importanza del principio di precauzione e abbiano accolto i nostri rilievi sulla pericolosità degli inceneritori, impianti insalubri di prima classe, in particolare per quanto riguarda gli impatti ambientali e sanitari derivati dalla inefficace combustione dei PFAS, e per il fatto che questo territorio è già pesantemente inquinato con conseguenze sanitarie intollerabili.

Le istituzioni hanno dovuto piegarsi di fronte alla nostra mobilitazione e.ai pareri determinanti dell’Istituto Superiore di Sanità, che hanno di fatto confermato tutte le osservazioni che già avevamo posto.

Questa sentenza non vale solo per ENI, perché ora il problema della salute, dei PFAS e dell’inquinamento ambientale non potrà più essere ignorato né per l’inceneritore di Veritas, né per quelli di Padova, di Schio, di Verona e di Loreo. Il problema della gestione dei rifiuti, dei fanghi e dei PFAS sono un dato di fatto, ma la soluzione non sta nel creare un problema ancora più grave. E’ necessario aprire al confronto con i comitati, con le associazioni ambientaliste, con le popolazioni, investire in ricerca, e soprattutto assumere come paradigma che la tutela della salute e dell’ambiente vengano prima dei profitti e di ogni altra cosa”.

Il Coordinamento No Inceneritori, forte di questa vittoria ora rilancia:

“E’ necessario bloccare immediatamente la seconda linea di Veritas; chiediamo alla Regione e a ARPAV di avviare studi approfonditi intorno agli inceneritori, con il supporto di CNR e ISPRA, per verificare il livello di contaminazione da PFAS nei suoli, nelle acque, e negli alimenti. Noi non ci fermiamo, Veritas è avvisata. Il nostro territorio non è in vendita, non brucerete il nostro futuro”.

Nonostante ciò però, Eni sembra ancora essere pronta all’attacco e, proprio nella nota, prosegue: «Tali impianti sono infatti previsti nella piano rifiuti della Regione Veneto, ed Eni Rewind ritiene di aver presentato tutta la documentazione tecnica relativa a eventuali impatti sull’ambiente, la sicurezza e la salute. Eni avvierà le opportune riflessioni in merito al rilancio dell’area industriale di Porto Marghera di cui questo impianto era parte rilevante». 

Foto Coordinamento-No-Inceneritore-Fusina

Vedi: https://www.veneziatoday.it/attualita/eni-reazione-bocciatura-inceneritore.html

Cover: foto Eni-Rewind-rendering-progetto-smaltimento-fanghi

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

Caldo Killer e crisi climatica

Caldo Killer e crisi climatica

Titolo originale : L’ondata di caldo estremo in Europa

da Redazione di Valigia Blu, 1 luglio 25

Temperature oltre i 40 gradi che di solito si registrano a luglio e agosto, incendi, pericoli per la nostra salute. Una pericolosa ondata di caldo sta colpendo vaste aree dell’Europa. Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna sono tra i paesi che stanno vivendo le condizioni più severe.

In Spagna, a El Granado, nel sud-ovest del paese, sabato scorso il termometro ha sfiorato i 46 gradi. Secondo l’AEMET, l’agenzia meteorologica statale spagnola, se confermato si tratterebbe di una temperatura mai raggiunta nel mese di giugno, superando i 45 °C registrati a Siviglia sessant’anni fa. Anche in Portogallo le temperature sono salite vertiginosamente domenica, raggiungendo i 47 °C a Mora, una città nel centro del paese. In Francia le temperature hanno superato i 41 °C a Céret, nel sud-ovest, prima che violenti temporali si abbattessero su tutto il paese. L’area intorno a Parigi è stata tra le più colpite da grandine e oltre 15.000 fulmini. Météo-France ha affermato che si tratta della 50ª ondata di caldo dal 1947. In Grecia, le temperature hanno superato i 40 °C in molte zone della Grecia, con la massima registrata a Skala, in Messinia, nel Peloponneso meridionale, dove si sono raggiunti i 43 °C. Giovedì è scoppiato un incendio a sud di Atene: sono stati emessi ordini di evacuazione per diverse comunità e chiusi tratti della strada costiera che collega la capitale a Sounion, sede del Tempio di Poseidone. In Italia, il Ministero della Salute ha classificato 17 delle 27 città monitorate sotto allerta calore di massimo livello. A Roma, a Tor Vergata, le temperature hanno superato i 40 °C.

Si ritiene che le temperature estreme abbiano causato almeno tre vittime, tra cui un bambino che sarebbe morto per un colpo di calore mentre si trovava in un’auto nella provincia di Tarragona, in Catalogna, l’1 luglio. A Palermo, in Sicilia, una donna di 53 anni è morta lunedì dopo essere svenuta mentre camminava per strada. Secondo quanto riferito, soffriva di problemi cardiaci. Negli ultimi giorni, in alcune zone d’Italia, i ricoveri nei pronto soccorsi ospedalieri sono aumentati del 15-20%. La maggior parte dei pazienti sono anziani affetti da disidratazione.

Le ondate di calore sono un “killer silenzioso”, scrive Ajit Niranjan sul Guardian. Si stima che il caldo uccida circa mezzo milione di persone ogni anno. E, secondo uno studio pubblicato lo scorso anno su Lancet Public Health, i decessi causati dal caldo in Europa potrebbero triplicare entro la fine del secolo, con un aumento sproporzionato nei paesi meridionali come Italia, Grecia e Spagna. Eppure, il caldo raramente viene indicato come causa di morte principale perché le temperature estreme vanno a colpire persone fragili affette da altre patologie.

In Italia, la Lombardia e l’Emilia-Romagna, due centri industriali, hanno annunciato la sospensione del lavoro all’aperto tra le 12,30 e le 16, unendosi ad altre 11 regioni – dalla Liguria nel nord-ovest alla Calabria e alla Sicilia nel sud – che hanno imposto chiusure simili nei giorni scorsi.

Le autorità locali hanno seguito il consiglio dei sindacati dopo la morte di Brahim Ait El Hajjam, un operaio edile di 47 anni, che il 30 giugno è collassato ed è morto mentre lavorava in un cantiere vicino a Bologna, capoluogo dell’Emilia-Romagna. Martedì due operai si sono sentiti male in un cantiere vicino a Vicenza, in Veneto. Uno di loro sarebbe in coma.

I sindacati CGIL Bologna e Fillea CGIL hanno dichiarato in un comunicato: “In attesa di conoscere le reali cause del decesso, è fondamentale, in questo terribile periodo, promuovere una cultura della sicurezza. ”L’emergenza climatica ha chiaramente peggiorato le condizioni di chi lavora ogni giorno all’aperto e le aziende devono dare assoluta priorità alla protezione dei lavoratori”.

In Francia sono state chiuse le scuole dopo la segnalazione dei sindacati del surriscaldamento delle aule.

La causa del caldo persistente è un sistema di alta pressione che si trova sull’Europa occidentale, noto come cupola di calore. Agendo come un coperchio, la cupola intrappola l’aria calda e secca e intensifica il calore nel tempo. Mentre il sistema si sposta verso est, attira anche aria calda dal Nord Africa, accelerando ulteriormente il riscaldamento in tutta la regione.

L’ondata di calore di questi giorni in Europa è uno dei segni che “il continente si sta riscaldando più rapidamente a causa della crisi climaticariporta il Guardian. Sebbene sia difficile collegare singoli eventi meteorologici estremi al cambiamento climatico, le ondate di caldo stanno diventando più frequenti e intense a causa dei cambiamenti climatici. Gli scienziati del World Weather Attribution, che analizzano l’influenza dei cambiamenti climatici sugli eventi meteorologici estremi, affermano che le ondate di calore di giugno con tre giorni consecutivi sopra i 28 °C sono diventate circa 10 volte più probabili oggi rispetto all’era preindustriale.

“Il vero problema non sono tanto le temperature oltre la norma quanto l’estremizzazione dei fenomeni”spiega il climatologo Antonello Pasini. “Per esempio, al nord potrebbe esserci un leggero calo di questo anticiclone e potrebbero esserci fenomeni precipitativi estremamente violenti”.

Questa ondata di calore arriva dopo una serie record di temperature estreme, tra cui il marzo più caldo mai registrato in Europa, secondo i rilevamenti del servizio di monitoraggio climatico dell’UE Copernicus. A causa del riscaldamento del pianeta, gli eventi meteorologici estremi, tra cui uragani, siccità, inondazioni e ondate di caldo, sono diventati più frequenti e intensi.

“In qualche modo dobbiamo, da un lato, adattarci a queste situazioni anche perché pur agendo in fretta il clima ha un’inerzia e avremo a che fare con queste condizioni per i prossimi decenni: tutte le città dovrebbero avere dei rifugi climatici per le persone fragili ed economicamente vulnerabili che non hanno luoghi di refrigerazione in modo da evitare l’aggravarsi di patologie e decessi”, spiega ancora Pasini. Ma, soprattutto, aggiunge il climatologo, è fondamentale lavorare sulla mitigazione, ovvero sulle politiche di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nell’atmosfera attraverso la transizione a fonti energetiche pulite.

Ma, come ha affermato in un’intervista al Guardian la vicepresidente esecutiva della Commissione europea per la transizione energetica ed ex ministra dell’Ambiente spagnola, Teresa Ribera, sebbene gli effetti dell’emergenza climatica stiano diventando sempre più evidenti, non ci sono ancora azioni concrete. “La codardia politica sta ostacolando gli sforzi europei per affrontare gli effetti della crisi climatica, proprio mentre il continente è colpito da un’ondata di caldo record”, ha detto Ribera.

Una parte importante del problema, ha aggiunto, è che alcuni partiti politici “continuano a insistere, con veemenza, che il cambiamento climatico non esiste”, oppure affermano che prendere decisioni per adattarsi alle realtà ambientali è troppo costoso. “Mi dispiace, ma sarà molto più costoso se non agiamo”, osserva Ribera. “Lo sappiamo tutti. Non si può dire alla gente che il cambiamento climatico è il grande problema esistenziale della nostra generazione e poi dire: ‘Mi dispiace, non faremo nulla’”.

Secondo Ribera, molti politici sono riluttanti a esporsi o a chiedere azioni concrete per paura di alienarsi i consensi degli elettori, ma negare – o essere incapaci ad affrontare tutte le difficili questioni che pone l’emergenza climatica – non fa altro che contribuire all’attuale mancanza di fiducia nella classe politica.

In copertina: immagine da Icona Clima

Un haiku ci salverà. Forse

Un haiku ci salverà. Forse

Come già aveva raccontato Borges riferendosi alla bomba atomica, anche nel caso dell’intelligenza artificiale mi piacerebbe confidare in… un haiku per salvarci dall’ira degli dei nipponici.

Nel romanzo Cronache di Bustos Domecq scritto insieme a A. Bioy Casares e pubblicato nel 1967, Borges racconta la seguente storia:

“In un autunno, in uno degli autunni del tempo, le divinità dello Shinto si riunirono, non per la prima volta, a Izumo. Si dice che fossero otto milioni, ma sono un uomo molto timido e mi sentirei un po’ sperduto tra tanta gente. Inoltre, non conviene maneggiare cifre inconcepibili. Diciamo che erano otto, giacché l’otto è, in queste isole, di buon augurio.

Erano tristi, ma non lo parevano perché i volti delle divinità sono kanji che non si lasciano decifrare. Sulla verde cima di un colle si sedettero in tondo. Dal loro firmamento o da una pietra o da un fiocco di neve, avevano sorvegliato gli uomini. Una delle divinità disse:

Molti giorni, o molti secoli fa, ci riunimmo qui per creare il Giappone e il mondo. Le acque, i pesci, i sette colori dell’arcobaleno, le generazioni delle piante e degli animali, ci sono riusciti bene. Affinché tante cose non li opprimessero, demmo agli uomini la successione: il giorno plurale e la notte unica.

Concedemmo loro anche il dono di provare alcune variazioni. L’ape continua a ripetere alveari; l’uomo ha immaginato strumenti: l’aratro, la chiave, il caleidoscopio. Ha anche immaginato la spada e l’arte della guerra. Ha appena immaginato un’arma invisibile che può essere la fine della storia. Prima che accada questo fatto insensato, cancelliamo gli uomini.

Si misero a pensarci. Un’altra divinità disse senza imbarazzo:

È vero. Hanno immaginato quella cosa atroce, ma anche questa che sta nello spazio che abbracciano le sue diciassette sillabe.

Le scandì. Erano in un idioma sconosciuto e non potei intenderle.

La divinità maggiore sentenziò:

Che gli uomini perdurino.

Così, per opera di un haiku, la specie umana si salvò.”

Ora però c’è una riflessione da fare a proposito del nostro rapporto con le novità tecnologiche: nel caso della bomba atomica gli inventori di quell’ordigno di morte, quegli scienziati politici e militari che immaginarono gli scempi di Hiroshima e Nagasaki, erano pur sempre appartenenti alla medesima specie degli individui che concepirono un “semplice”  componimento di appena 17 sillabe (un haiku per chi non lo sapesse è una brevissima poesia composta da tre versi di 5,7 e 5 sillabe rispettivamente).

Ma con lintelligenza artificiale sarà possibile aspettarsi la stessa cosa? E, cioè, che la nostra specie potrà sfangarsela grazie a un haiku? E soprattutto “chi” potrebbe scrivere un tale componimento, un essere umano o un chat bot (un robot di conversazione)?

Detto in altro modo: l’Intelligenza Artificiale (IA) sarebbe in grado di scrivere un haiku capace di impietosire le divinità dello Shinto?

Mi viene da rispondere: «Spero di no!»

Se riuscisse a farlo e, per così dire, intenerisse i cuori delle divinità Shinto, verrebbe meno proprio la nostra quintessenza umana, perché se c’è una cosa che non può appartenere alla IA è l’immaginazione, cioè quella connessione profonda tra l’esperienza del poeta e quella del lettore.

Per questo occorrerà che sia un essere umano a scrivere l’haiku della salvezza, perché solo se verrà creato da un lui o da una lei della nostra specie, si potrà salvare (salvaguardare), la nostra stessa insondabile, imperscrutabile , irriproducibile “umanità”, dimostrando che esistiamo effettivamente e che non fingiamo di farlo attraverso delle nostre copie.

Ecco il nocciolo della questione.

L’originale e il sostituto (potremmo anche dire l’analogico e il digitale!) sono compagni che costantemente riappaiono nella nostra storia evolutiva, si pensi solo alla “scrittura” (o alle preistoriche pittografie rupestri:  il bovide disegnato sulla pietra “sta” per l’originale osservato e copiato) o, appunto, alla odierna IA (l’intelligenza della macchina “sta” per quella del “cervello umano”).

Ma mentre la prima operazione conserva un suo carattere di continuità che implica la presenza di tutto l’essere umano (per semplificare: sia la componente razionale che quella irrazionale che indusse Michelangelo a chiedere, tra le lacrime, al suo Mosé «Perché non parli?»), la seconda operazione “incarna” solo una parte “discreta”, quella razionale.

Il padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, sapeva benissimo che il sistema nervoso non era una macchina a stati discreti anzi precisò : “…in senso stretto non esistono macchine di quel genere. In realtà tutto si muove in modo continuo. Ma ci sono molti generi di macchine che possono UTILMENTE essere considerate come macchine a stati discreti, per esempio il cervello…”

Considerare il cervello una macchina discreta si è dimostrata un’idea immensamente fertile, ma a rigore è un’idea FALSA, per una semplice ragione:

il cervello non è e non potrà mai essere una macchina a stati discreti, ma in varie circostanze e per motivi diversi SIMULA di esserlo e riesce a farlo efficacemente. L’IA dunque non fa altro che simulare un’entità (il cervello umano) colta nell’atto di simulare.

La macchina di Turing, fino alle recenti chat bot, simulano dunque una simulazione, quella che il cervello mette in atto per operare con efficacia entro certi ambiti. Perciò non imita il cervello, ma certe strategie usate dal cervello. Pertanto l’IA è soltanto l’efficientamento di una simulazione già attuata dal cervello.

Per concludere riporto i risultati di un esperimento che ho eseguito personalmente: ho chiesto alla IA di “scrivere un haiku per convincere le divinità dello Shinto (e in generale qualunque dio si voglia credere) a non cancellarci dalla faccia della Terra”.

Ecco il risultato:

Risa nel ruscello — petali danzano lievi, ride anche il sole.
[Copilot, assistente digitale basato su IA]

Ho paragonato poi questo (quasi)-haiku alle 17 sillabe scritte da un haijin in carne, ossa e sistema nervoso (nonché capacità di contarle per bene le sillabe):

Il tetto si è bruciato: ora posso vedere la luna.
[Mizuta Masahide]

Nell’haiku umano il poeta manifesta la “sua” volontà di cercare  in ogni situazione una nuova prospettiva, una nuova bellezza, di conservare, comunque, una labile speranza anche di fronte alla distruzione: per questo invita i suoi simile a fare lo stesso salto immaginativo, cosa che nessuna IA potrà mai fare.

Quale dei due haiku, secondo voi, potrebbe convincere le divinità riunite a Izumo a risparmiarci?

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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FERRARA: AL RIDOTTO DEL TEATRO COMUNALE UN CONVEGNO SPOT PER IL NUCLEARE

FERRARA: AL RIDOTTO DEL TEATRO COMUNALE UN CONVEGNO SPOT PER IL NUCLEARE

Si è tornati a parlare di un tema molto in voga negli ultimi tempi mercoledì 11 giugno al Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara. Organizzato dall’associazione “Guido Carli” e presenti vari esperti moderati dal capo redattore del Resto del Carlino Cristiano Bendin, si è tenuto l’incontro Il nucleare: tra sostenibilità economica e ambientale, introdotto dagli interventi di Federico Carli, presidente dell’Associazione “Guido Carli”, Alessandro Balboni, vicesindaco di Ferrara e Riccardo Maiarelli, presidente di Fondazione Estense.

Della tecnologia nucleare utilizzata per la produzione di energia ho già trattato in un recente articolo; in esso erano riportate le dichiarazioni di Nicola Armaroli[1] relativamente al DDL Energia del ministro Gilberto Pichetto Fratin, approvato recentemente dal Consiglio dei Ministri. Armaroli faceva notare che “il nucleare in Italia non si farà” in quanto il DDL “mette nero su bianco che dovranno pagarlo i privati”, e “non esiste un solo paese al mondo in cui il nucleare non sia sussidiato dallo stato, oltre a ciò il testo del decreto prescrive addirittura che le aziende energetiche si facciano carico della gestione dei rifiuti, incluso il deposito geologico”. Ma è difficile pensare, continua Armaroli, che qualcuno possa investire a queste condizioni, anche perché “essendo l’Italia uno dei luoghi più difficili al mondo per fragilità idrogeologica, rischio sismico e vincoli paesaggistici, la localizzazione diventa un rebus”, un problema di assoluta rilevanza.

Detto questo vale la pena illustrare brevemente il senso dell’incontro del Ridotto, che, a mio avviso, è stato sostanzialmente uno spot, come ce ne sono tanti in questi ultimi tempi, in cui si decantano le lodi della tecnologia nucleare. Ciò è suffragato anche dal fatto che i fautori del nucleare si considerano “pragmatici”, mentre chi non è d’accordo e si oppone è considerato portatore di “ideologie”, e questo non solo sul tema in oggetto, ma anche rispetto alle molte tecnologie che sono motivo di contrapposizione tra ambientalisti e fautori della crescita a prescindere, in particolare se ci si riferisce alle cosiddette “rinnovabili”.

Presentare gli intervenuti, tutti personaggi di assoluto livello, sia per le competenze che per i ruoli ricoperti, può servire a capire quanto ho appena sostenuto.

Marco Peruzzi è membro del comitato esecutivo del gruppo EDISON, ingegnere laureato al Politecnico di Milano, si è occupato principalmente di organizzazione e business, prima in ENI, poi appunto in EDISON dove, dal 2009, ha avviato le attività nel settore dell’efficienza energetica costituendo Edison Energy Solutions e ristrutturato il settore energie rinnovabili. Dal novembre 2019 ricopre la carica di vice-presidente di Elettricità Futura, la principale Associazione della filiera industriale nazionale dell’energia elettrica con oltre il 70% del mercato elettrico italiano e l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del settore elettrico italiano nella direzione della transizione energetica. Interessante scorrere il lungo elenco degli associati tra i quali spiccano ENEL, ENI ed EDISON.

Gian Pietro Joime, laurea in Scienze Politiche con specializzazione in economia internazionale, è componente del nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica della presidenza del Consiglio dei Ministri, e docente di economia dell’ambiente e del territorio all’Università telematica G. Marconi. Suggestivo il titolo di un articolo apparso sulla rivista Partecipazione, “La transizione ecologica? È una grande questione industriale (e nazionale)”.

Di Simone Mori si legge vanti grande esperienza nel settore dell’energia e delle infrastrutture, avendo ricoperto ruoli senior in aziende leader del settore energetico. Laureato in Fisica ha conseguito un Master in Business Administration, e, dopo essere stato dirigente ENEL, ha fondato ENEOSIS, di cui è amministratore delegato, una società che fornisce servizi di consulenza integrata, strategica ed organizzativa, in materia di tematiche regolatorie, istituzionali e strategiche nei settori energetico, ambientale e delle infrastrutture, diretti ad imprese, professionisti, persone fisiche e giuridiche, enti pubblici, associazioni e fondazioni. E’ anche docente del corso di Managing the Energy Transition, alla Luiss Guido Carli di Roma.

Pietro Maria Putti invece è AD di Gestore Mercati Energetici (GME), società che è stata costituita dal Gestore dei Servizi Energetici S.p.A., interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, organizza e gestisce i mercati dell’energia elettrica, del gas naturale e quelli ambientali. Il GME svolge le proprie attività nel rispetto degli indirizzi del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) e delle previsioni regolatorie definite dall’Autorità di Regolazione per Energia Rete e Ambiente (ARERA). E’ docente del corso di Introduzione al Diritto e all’Economia dei Mercati Energetici (laurea magistrale in Ingegneria Energetica) presso l’Università La Sapienza di Roma. E’ stato Vice Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare e membro (fino al 2010) della Commissione di esperti istituita presso il Ministero dello Sviluppo Economico per la riforma della normativa italiana in materia nucleare.

Infine Gian Luca Artizzu Laureato in Scienze Politiche è esperto di gestione e organizzazione aziendale; già manager in Sogin (società pubblica che si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi), ne è attualmente l’AD.

Dalle brevi descrizioni risultano quindi diverse le competenze legate alla organizzazione aziendale e ai ruoli manageriali, meno a quelle di tipo tecnico.

Venendo ai contributi degli intervenuti, molti di essi, come detto in apertura, sono stati caratterizzati dalla messa in rilievo delle presunte positività del nucleare con affermazioni quali “il nucleare come tema per il futuro del paese, o la “necessità del nucleare per una politica energetica che garantirebbe all’Italia competitività e riuscirebbe ad abbassare i costi dell’energia”, fino alla previsione di un “futuro luminoso per i nostri figli”.
A proposito di futuro vi è stata l’onestà di riconoscere che la maggior parte di noi, ad esclusione dei più giovani, difficilmente potrà vedere realizzate le tanto evocate tecnologie nucleari, anche di nuova generazione (Small Modular Reactors), visti i tempi e i costi di costruzione di questi impianti.

Le accuse di “ideologia” per chi si oppone o non ritiene opportuna, conveniente, o sicura la tecnologia nucleare sono state, come già accennato, il refrain per diversi dei contributi.
Viene il dubbio che ideologico sia chi la pensa diversamente senza minimamente entrare nel merito delle questioni.

L’incontro poi ha visto alcune “narrazioni” molto comuni di questi tempi a cominciare da “la domanda di energia elettrica in Europa (e quindi in Italia) è destinata ad aumentare vertiginosamente”, e “la velocità nella transizione energetica sarà inferiore alle esigenze energetiche”, o anche “le rinnovabili come tecnologie non affidabili, intermittenti, discontinue e non programmabili”, facendo riferimento per questa ultima affermazione al recente blackout spagnolo. Il tutto quasi senza fornire dati a supporto di quanto dichiarato.

Non poteva poi mancare il riferimento alla vicina Francia quale paese visto come “grande produttore di energia elettrica da nucleare”, senza però ricordare la crisi degli anni recenti e i problemi che quel settore sta vivendo. A questo proposito la rivista QualEnergia.it, fonte più che affidabile, nel settembre del 2022 pubblicava un articolo dall’eloquente titolo La Francia nucleare: da esportatore di energia a basso costo a malato d’Europa[2].

Altro contributo sul tema è del luglio 2023 da parte di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale); in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/francia-a-prova-di-scossa-elettrica-136246, si può leggere che “Tutto è cambiato nel 2022 quando la Francia ha sperimentato diverse crisi simultanee: una crisi idroelettrica con scarsa disponibilità di acqua nei bacini, una crisi di produzione nucleare con 27 reattori su 56 fermi, oltre alla crisi del gas con la Russia, e infine, ma non meno importante, le limitazioni estive al funzionamento delle centrali nucleari a causa delle temperature dell’acqua nei fiumi”. Di qualche settimane fa è invece l’articolo Un guasto a un reattore nucleare in Francia rischia di far schizzare i prezzi dell’energia in Europa, apparso su Europa Today, che tratta le conseguenze di eventuali guasti degli impianti nucleari (https://europa.today.it/economia/guasto-reattore-nucleare-francia-rischio-aumento-prezzi-energia-in-europa.html).

Ovviamente nel poco tempo a disposizione non sarebbe stato possibile sviscerare i tanti aspetti problematici che questa tecnologia presenta; ci si poteva aspettare qualche accenno esplicito al problema, di difficile soluzione, della gestione delle scorie e dei rifiuti radioattivi che derivano dal processo, a quello dei costi e della reperibilità del combustibile, o all’aspetto dello smantellamento degli impianti a fine ciclo, solo per citarne alcuni.

In conclusione credo sia legittimo chiedersi il senso di un incontro su questo tema a Ferrara. Viene da pensare che, nella eventualità di uno sviluppo della tecnologia nucleare, il nostro territorio possa essere tra quelli scelti per la installazione. Ma questo, al di là delle problematiche inerenti alla tecnologia in sé, sarebbe un problema di notevole entità vista la notevole concentrazione di impianti per la produzione di energia, come biogas/biometano e fotovoltaico (a terra o agrivoltaico), che già sono presenti e che si prevede vengano realizzati nella nostra provincia.

Centrale di Caorso. https – //www.arpae.it/it/temi-ambientali/radioattivita/centrale-di-caorso

Note

[1] Dirigente di Ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed esperto di questioni energetiche

[2] https://www.qualenergia.it/articoli/francia-nucleare-da-esportatore-di-energia-basso-costo-a-malato-europa/

La necessità di forti importazioni di elettricità da tutto il continente sta mettendo in crisi la Francia, ma anche altri paesi europei. Questa situazione, mette non solo la Francia a rischio di improvvisi blackout, ma contribuisce non poco all’aumento generalizzato del prezzo dell’elettricità nel continente, che si era abituato al grande export francese a basso costo per moderare i vari Pun (vedi I problemi strutturali del nucleare francese che inguaiano il mercato elettrico europeo).
I contributi nucleari della Francia sono stati interrotti nel 2022 a causa di prolungate interruzioni della manutenzione e di riduzioni dovute alle condizioni meteorologiche dei fiumi, che hanno portato la disponibilità nucleare francese a livelli record. Nel momento più basso, la disponibilità nucleare della Francia si è attestata intorno al 40% della capacità massima per circa un mese. Questo calo ha portato alcuni critici a mettere in discussione l’affidabilità dell’energia nucleare e il suo ruolo potenziale nella strategia di decarbonizzazione dell’Europa. https://www.catf.us/it/2023/07/2022-french-nuclear-outages-lessons-nuclear-energy-europe/

Cover: Three Mile Island è una centrale nucleate situata sull’omonima isola, vicino a Middletown, Pennsylvania, Usa.  L’incidente di Three Mile Island, verificatosi nel 1979, è stato il più grave incidente nucleare civile nella storia degli Stati Uniti. Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti – http://ma.mbe.doe.gov/me70/history/photos.htm Stato del copyright: identificato sulla pagina del DOE come “foto DOE”, ovvero non protetto da copyright

 

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Per certi Versi /
Sono figlia del vento

Sono figlia del vento

Sono figlia del vento

che asciugava la terra

nei giorni passati a cercare cicale

nel grano maturo

era estate

Sono figlia del vento

che asciuga il lamento

nei giorni passati a cercare parole

nel taglio del sole

è inverno

In copertina: Foto di charlie min kim da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

La corsa al litio. L’oro bianco che divora la vita

La corsa al litio. L’oro bianco che divora la vita

di Pedro Pozas Terrados

Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio.

Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui.

In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi.

È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse.

A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri?

La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni.

Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano.

La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore.

Proposte e percorsi alternativi

  1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione.
  2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili.
  3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo.
  4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori.
  5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti.
  6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale.

Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta.

Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta.

Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra.

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo
Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.

Parole a capo
«Poesie per una strana estate»

Parole a capo <br> «Poesie per una strana estate»

E’ arrivato il caldo
lo sento sottopelle
i pensieri vanno
per non più ritornare
nel mistero dell’altrove
se c’era luce non ti nascondevi
non temevi quella voce
raccontavi il tempo
come un ricordo muto
per me erano gli anni del racconto
ora tu non ci sei
e non c’è nessun racconto
e io divento vecchia
(Rita Bonetti)

 

*

Colonizzatori o colonizzati
È un bimbo che respinge con la mano
verdura che non ama nel piattino
e sputa l’acqua perché ‘naturale’
chiedendo quella con le bollicine
È un bimbo anche colui che raschia il fondo
di un lurido tegame e della vita,
che cerca fra i proiettili e le bombe
un goccio d’acqua e un sacco di farina
Così è da tempo, ieri e ancora prima
Dipende sempre da dove si è nati,
fra i colonizzatori o fra i colonizzati
(Sara Ferraglia)
*
 

LUGLIO

 

Nell’estate matura
quando nei brevi luminosi cieli
notturni Sirio precede e annuncia
la maestà del sole,
luglio riempie i granai e regala
i frutti freschi e dolci che consolano
l’arsura.
Luglio è un padrone di casa vanesio
gli piace
stupire all’insegna dell’eccesso.
Troppe ore di luce troppo intensa
troppo caldi i giorni e troppo
puliti i cieli e nemmeno una nuvola
a contrastare il blu troppo sfacciato.

Luglio divide il tempo della vita.

Da complice
indulgente, sorride
alla giovinezza, la corteggia
e lei si lascia bruciare la pelle
e gode e vola insonne alla stagione
della gioia, al gioco seduttivo
alla scoperta degli amori. Luglio
irride crudele agli anni
che curvano le spalle e fanno incerto
il passo e le mani tremanti.

Un velo ondeggia
sugli occhi stanchi e i ricordi
fanno più male.
I corpi si abbandonano sfiniti
senza toccarsi, senza più carezze.

 

(Marta Casadei)

*

Estate


Le cicale cantano spietate
Dove tutto il resto tace
In questa estate
Di calde luci
Di fresche stelle
Bacio la tua pelle
Bianco nettare
Poi rubo fichi
Bevo vino
Seduta a piedi nudi
Nella vigna
Ma al tramonto
Ebbra
All’improvviso malinconica mi prende
E nulla sembra più bastare
Nulla sembra più
Restare


(Silvia Lanzoni)

*
*
Dove va il sole

Il sole appena andato via,

il riverbero a dondolarsi su foglie nella brezza 
a scivolare sui coppi vecchi in una specie di slalom
a scorrere sulle cortecce come in un’ultima carezza
i muri delle case in un tepore a svaporare da tutte le parti
il suo alito caldo a lambire le braccia 
e a cingere i fianchi dei passanti
Il sole appena andato via,
il cotto dei mattoni, polpa croccante di cocomero,
biancheggiare di margherite, semafori di fragole matte
per la circolazione di colonne di lumache.
Il sole appena andato via,
a spuntare sui dorsi dei bufali d’acqua
a svegliare risaie 
e i buffi monti a cono
che si vedono nelle cartoline.   
 
(Alida Stroili)
*
Estate
Giugno s’è disciolto
nel sole,
ed il tempo ha segnato
i campi:
particole spezzate,
                 rivoltate,
                 fumanti,
sognanti il pane quotidiano.
Pietra farinosa
stelle grillate
contentezza rigata d’aurora.
(Pier Luigi Guerrini)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 292° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Intervento di Gulala Salih: “sostituire alla guerra i piani di pace e la diplomazia”

Intervento di Gulala Salih: “sostituire alla guerra i piani di pace e la diplomazia”

Gulala Salih: “sostituire alla guerra i piani di pace e la diplomazia”

(Foto di UDIK)

Intervento di Gulala Salih di UDIK alla staffetta partigiana a Mestre.(27.06.25)

Ringrazio l’ANPI per l’invito all’adesione della staffetta partigiana di oggi, sono onorata di essere qui rappresentando udik “unione donne italiane e kurde” in modo particolare come donna kurda, proveniente da una famiglia partigiana che ha lottato da sempre contro il fascismo per la difesa dei diritti di pace e di uguaglianza sociale. Per dare continuità a questa lotta famigliare dopo qualche anno dal mio arrivo e dopo che ho conosciuto meglio la costituzione, il frutto della lotta antifascista e la resistenza partigiana che hanno portato alla liberazione dell’Italia, mi sono iscritta all’ANPI e ci tengo a dire orgogliosamente che è l’unica tessera che possiedo, quindi grazie per questa opportunità.

Da anni ho presente nella mia mente la frase di Eve Merriam “Io sogno di dare alla luce un bambino che chieda: ‘Mamma, che cosa era la guerra?” questo era il mio desiderio e il mio sogno, che i miei figli e la generazione dopo di me non vedessero e non conoscessero la guerra con cui sono nata e cresciuta. Ma purtroppo mi è rimasta anche questa delusione, perché le delusioni sono tante.

Mi stupisce e mi dispiace in questo periodo sentire dire che viviamo un periodo buio, purtroppo l’avete scoperto tardi, perché la guerra, tante guerre erano già in atto, perché il periodo buio c’era già, e noi, popolo kurdo viviamo questo buio già da un secolo, per non dire tutto il Medio Oriente oltre ad altri paesi come la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea, venivano ignorati e sono rimasti nell’indifferenza totale dell’Occidente che con la guerra ha disegnato i confini del medio Oriente creando alcuni stati, e oggi sempre con la guerra vuole ridisegnare i confini ed eliminare quello che ha creato.

Tutti questi scenari di guerra non sono mai stati presi seriamente in considerazione o meglio era presa in considerazione la produzione delle armi per poi venderle, è chiaro che la pace metterebbe in crisi la vendita delle armi e l’economia di tanti paesi, e tra queste la nostra Italia.

Quindi il buio e le guerre che ci sono oggi sono il risultato del fallimento della politica dell’Occidente e della Comunità Europea che ancora oggi non ha un progetto di pace, di diritti e di una vera democrazia, non hanno una politica sociale, invece hanno solo la politica dell’economia e ora la politica di riarmare l’Europa che doveva essere garante della pace e la prevenzione dei conflitti in tutto il mondo, difensore dei principi e dei valori comuni: libertà, democrazia e uguaglianza. Ad oggi l’Europa non ci è riuscita. Un’Europa in cui vediamo la destra oscurantista che cerca di togliere diritti, seminare l’odio, la discriminazione e la diseguaglianza sociale.

Abbiamo bisogno e vogliamo un’Europa che sia capace di realizzare e concretizzare i suoi principi e obbiettivi per la quale è nata, che sia capace di sostituire alla guerra i piani di pace e la diplomazia, un Europa che garantisce i diritti del lavoro, la sanità, l’inclusione sociale e l’accoglienza degli immigrati.

Continuerò a impegnarmi e a lavorare con l’ANPI, così lavorerò per l’Europa, ma anche per il mio popolo.

Cover: Gulala Salih, da Buonenotizie.it

Vite di carta /
Galeotto di una vita

Vite di carta. Galeotto di una vita

Senza retorica, il progetto Galeotto fu il libro a cui ho lavorato per quasi vent’anni rappresenta il cuore della mia vita professionale al Liceo Ariosto. Sono stata e sono un’insegnante di Materie letterarie e il Galeotto occupa parte della mia identità.

Nel dire questo non parlo solo di me. Siamo al giorno che precede l’evento di giovedì 26 giugno: alle ventuno nel giardino del Liceo si terrà la terza edizione del Galeotto di sera che chiude un altro anno di vita del Progetto proponendo la presentazione di un libro e del suo autore.

La novità è che quest’anno gli autori siamo noi. E spiego questo noi.

Prima di tutto include l’ospite che arriva da Torino, dove dirige la Scuola Holden: Martino Gozzi. Studente indimenticato di questo Liceo, dove ha realizzato il numero 16 dei Quaderni del Liceo Classico Ariosto – Prima serie scambiando lettere dagli States con i compagni e con l’insegnante di italiano. Faceva l’anno di scuola all’estero e intanto osservava la vita in America e ne parlava alla sua classe. Warehouse, ‘magazzino’, è la parola che ha usato per definire gli USA.

In modo non dissimile li ha ritratti Francesco Costa, il vincitore del Premio Estense 2024, con il suo libro costruito come un puzzle, Frontiera.

Un bel po’ di anni dopo Martino Gozzi viene a festeggiare insieme a studenti e insegnanti almeno due altri traguardi: il suo quarto romanzo, Il libro della pioggia, bellissimo. Viene anche a condividere l’inizio della seconda serie dei Quaderni del Liceo Classico e il volume numero 1 titola Galeotto fu il libro al Liceo Ariosto. I primi vent’anni 2003-2023.

Il noi si completa con le curatrici, Maria Calabrese, Roberta Mori e io, e con Sara Hamado, una ex studentessa del Liceo nonché Galeotta appassionata anche dopo l’uscita da questa scuola e la brillante carriera universitaria. Tre docenti e una studentessa che hanno raccolto i contributi di altri insegnanti e ragazzi sulle loro esperienze dentro al Progetto, in tutto oltre una quarantina di testimonianze.

Martino non poteva mancare: è stato il primo autore invitato a dialogare con i ragazzi sul suo primo romanzo, Una volta mia, nell’anno scolastico 2003.2004.

Come libro per lui Galeotto, che lo aveva segnato nella sua vita di lettore, scelse La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata di Gabriel Garcia Márquez.

Domani sera possiamo immaginare che abbia scelto il nostro Quaderno come libro Galeotto.

Una decina di ragazzi del gruppo ci porranno domande e leggeranno passi dal libro. Mi pare di vedere l’erba dalla parte delle radici ma andiamo pure avanti. Per una volta  dovrò rispondere anziché fare domande.

Spero che leggano alcune delle parole bellissime che ci hanno dedicato gli autori, negli anni. Facevamo percepire la forza della nostra lettura condivisa, il ruolo paritetico di lettori che esercitavamo in libertà e onestà intellettuale. Studenti e docenti.

Spero che colgano e facciano cogliere il senso che a posteriori abbiamo compreso, lavorando al Quaderno. Il senso di una navigazione dentro la letteratura di questi anni e dentro l’immaginario del tempo che viviamo, ma con l’orecchio teso verso il classico e con la voglia di restare in ascolto rispetto al passato.

Ora siamo al giorno successivo.

La malinconia che provo ogni volta quando un evento mi ha appagata mi dice che i ragazzi, bravissimi, hanno animato la conversazione con performance vivaci.  Hanno appeso cartelloni esplicativi agli alberi. Sul mega video allestito accanto a noi scorrono testi e immagini a corredo della presentazione.

E hanno fatto domande, alternando in modo sapiente l’interlocutore. A Martino Gozzi molto è stato chiesto sul suo libro, sulla carriera e sulla vocazione alla scrittura. Hanno scavato nel merito delle regole di composizione e chiesto un suo parere.

A noi quattro a turno le domande hanno permesso di raccontare al numeroso pubblico con quale metodo abbiamo lavorato per incontrare gli scrittori, su quali libri, a volte anche scomodi, abbiamo diretto la nostra attenzione. A quali manifestazioni librarie abbiamo partecipato, permettendoci di ricordare le “audaci imprese” del volontariato a Mantova, o al Salone di Torino.

La malinconia che provo segnala tuttavia qualcosa di irrisolto, che mi frena al di qua del pieno appagamento.  Non sono arrivate le domande che più mi aspettavo e con ciò imparo a occupare il posto dell’ospite che viene interpellato sul proprio libro. Comprendo a distanza di anni perché mai alcuni autori mentre guidavo verso la scuola dopo averli accolti alla stazione si dicessero in ansia. Saprò dare le risposte? Sono davvero così impegnative le domande dei ragazzi del Gruppo Galeotto?

Sono domande libere, che mettono in risalto le diverse prospettive della lettura. A volte, come è accaduto a me, sono spiazzanti. Pongono al centro del discorso un aspetto inatteso, oppure assegnano pesi diversi alle componenti tematiche e formali del testo in questione. Alla sua capacità di fare sintesi e di parlare del mondo.

Se il lettore è un lettore attivo, è questo che può succedere all’autore. Memento.

 

Nota bibliografica:

  • Martino Gozzi, Il libro della pioggia, Bompiani, 2023
  • Gabriel Garcia Márquez, La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata, Mondadori, 2005
  • Roberta Barbieri, Maria Calabrese, Roberta Mori, Galeotto fu il libro al Liceo Ariosto. I primi vent’anni 2003-2023, I Quaderni del Liceo Ariosto – nuova serie, 1, Grafiche Nuova Tipografia – Corbola, 2025

Cover e foto sono dell’autrice e ritraggono momenti della serata del 26 giugno.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

800° Anniversario del Cantico delle Creature: una mostra al Convento del SS.mo Redentore di Giudecca, Venezia

Le voci da dentro /
Un sorriso in carcere

Le voci da dentro. Un sorriso in carcere

di F.

 Fra tutte le attività rieducative che si svolgono presso la Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara, quella della scuola e dell’università è sicuramente una fra le più importanti. In particolare i corsi universitari sono ben organizzati ed i ragazzi ristretti iscritti alle varie facoltà sono seguiti molto bene da tutor che hanno scelto volontariamente di dare un aiuto. Ne scrive per noi un componente della redazione di Astrolabio che ci racconta la sua esperienza, ci parla delle sue aspettative e anticipa le sue intenzioni future.
(Mauro Presini)

 

Molto spesso qui le giornate non trascorrono mai, con mille pensieri che affollano la mente, che cerchi di scambiare con chi trovi nei corridoi delle sezioni, come se fosse il corso di una città di sabato pomeriggio.

Purtroppo spesso sono discorsi che possono ripetersi abitualmente e, per questo, stancanti e non costruttivi.

Altra opportunità dello stare in corridoio sono i vari tavoli che nascono come funghi frequentati dai gruppetti che giocano a carte ma, anche questi, col tempo sono abbastanza stancanti.

Fortunatamente vi sono opportunità, che non solo aiutano a passare il tempo in maniera costruttiva, ma sono un importante arricchimento per la vita al di fuori di qua.

Spesso sono corsi che arricchiscono il lato culturale o religioso, oppure vere e proprie opportunità che possono aiutare conferendo nuove competenze.

Sono corsi che rilasciano dei veri e propri attestati professionali, che aiutano a trovare un lavoro fuori di qua, oppure ad anticiparlo con un’opportunità che riguarda misure alternative, come ad esempio l’articolo 21 con il lavoro esterno oppure la semilibertà o l’affidamento al lavoro.

Oltre ai corsi vi sono poi opportunità inerenti lo studio che aiutano non solo a passare il tempo, ma a completare un percorso formativo non terminato per vari motivi e, in alcuni casi, a riprendere in mano il progetto lavorativo considerato da ragazzi e poi abbandonato.

In questo contesto è ben strutturata un’area pedagogica dove si spazia dai corsi base di alfabetizzazione, alle scuole elementari e medie, fino ad arrivare ad alcuni indirizzi di scuole superiori e addirittura all’università. Personalmente ho deciso di aderire iscrivendomi ed immatricolandomi al corso di laurea triennale in scienze giuridiche, proposto insieme a molti altri corsi e indirizzi dall’Università di Ferrara.

Con diploma di scuole superiori, con corso di laurea conseguito a suo tempo a Bologna in lettere filosofia, questa mia nuova immatricolazione è dovuta al desiderio di un arricchimento personale con eventuale nuova opportunità lavorativa o come integrazione nel mio lavoro, che potrebbe essere arricchito da un grado di professionalità superiore.

La mia iscrizione è dovuta anche alla curiosità che ho sempre avuto, non perché mi trovi qua, per la giurisprudenza e in buona parte per poter avere la mente concentrata su un qualcosa che occupi in maniera costruttiva le mie giornate in attesa di uscire… spero a breve.

L’organizzazione tra l’università ed il carcere è ben strutturata; è coordinata dalle educatrici, dagli appuntati dell’area pedagogica e dalle tutor universitarie coordinata dalla dottoressa Carnevale.

Ogni studente universitario viene affidato ad un tutor per il proprio percorso di studio; le tutor sono dottoresse volontarie che con professionalità, cortesia ed umanità dedicano parte del proprio tempo per gli iscritti reclusi, aiutando a strutturare un metodo di studio che più si confà al corso di studio individualmente scelto.

Per quanto mi riguarda, aspetto per me fondamentale, è poter quotidianamente immergermi nello studio, potendo usufruire delle sale studio messe a disposizione dal carcere in accordo con UNIFE.

Questi spazi sono “rigeneratori” perché, nel silenzio e nella concentrazione assoluta, si può “volare”, studiando due ore al mattino, due ore al pomeriggio, aspetto questo che nelle sezioni non sarebbe possibile da portare avanti, almeno per me.

Nelle sale universitarie, inoltre, sono messi a disposizione molti testi di varie discipline e quelli non disponibili vengono reperiti dalle tutor in facoltà. Un’importante menzione su cui mi pare fondamentale soffermarmi, è la figura degli e delle tutor: giovani dottoresse e dottori che decidono di impegnare un po’ del loro tempo qui con noi. Questo fa di loro delle grandi persone senza preclusioni mentali, sempre con il sorriso e con la buona volontà nel praticare l’altruismo verso il prossimo.

Il percorso legato ai tutor si potrà portare avanti anche fuori di qua, con una guida nello studio che non ti abbandonerà mai, lavorando al tuo fianco per il raggiungimento dei risultati importanti mirati ad un riscatto nella società che potremmo mettere in pratica una volta usciti.

Grazie allora a questo importante progetto, a questa enorme opportunità che ci arricchisce personalmente e crea nuove opportunità lavorative (che, per chi è stato qua, non sono mai troppe) e ci permette di trascorrere le giornate concentrandoci su di un obiettivo importante, potendo studiare in luoghi appropriati che favoriscono la concentrazione massima.

Questo percorso non lo abbandonerò anche quando sarò fuori di qui e cercherò di integrarlo sicuramente con le mie esigenze lavorative.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

La lucida follia di Donald Trump: pericolosa ma perdente

La lucida follia di Donald Trump: pericolosa ma perdente.

Sembra stia prendendo piede una lettura per cui il presidente Trump sia imprevedibile, contradditorio, indeciso, alla fin fine persino pazzo. Oppure “Taco” (Trump always chickens out), un acronimo diffuso da un editorialista del Financial Times, che sembra abbia fatto infuriare il presidente USA, e che viene usato per indicare chi si ritira all’ultimo momento. Così parecchi commentatori sembrano interpretare le oscillazioni nelle scelte di Trump, che un giorno annuncia un certo livello di dazi e il giorno dopo li annulla, oppure dice che vuole negoziare con l’Iran e il giorno dopo procede ad un irresponsabile atto di guerra.

Mi permetto di vederla in modo diverso. A me pare, invece, che, come afferma Polonio nell’Amleto di Shakespeare, “ci sia del metodo nella sua follia”.
Detto in altri termini, Trump introduce una rottura profonda nel paradigma del sistema del panorama politico americano e della presunta supremazia occidentale nel mondo, e lo fa scientemente.
Questa rottura emerge non solo nei confronti delle impostazioni politiche dei democratici americani, ma anche rispetto a quella che era la politica tradizionale del conservatorismo dei Repubblicani statunitensi.

Sul piano internazionale, siamo di fronte ad un superamento dell’idea degli USA come gendarme del mondo per assicurarne la stabilità, approccio che anche nel passato metteva in conto la possibilità di interventi militari preventivi se giudicati finalizzati ad affermare quella prospettiva.
L’idea di fondo, ancora peggiore, che guida la politica trumpiana è quella di un’unilateralismo di carattere imperiale e mercantilista, che significa mettere al primo posto gli interessi nazionali ( il Make America Great Again) e ragionare unicamente in termini di rapporti di forza economico-militari. Non si può che vedere così la suggestione della politica dei dazi o quella relativa agli interventi militari o, ancora, quella di pretendere l’aumento selle spese militari alla cifra folle del 5% sul PIL per gli stati europei.

Sul piano interno e degli assetti istituzionali poi, assistiamo al venir avanti di una logica per cui esiste solo l’autorità del presidente.
Il Congresso degli Stati
Uniti è marginalizzato (non viene interpellato neanche sugli atti di guerra, come nel caso degli attacchi alle centrali nucleari iraniane), il potere giudiziario considerato un intralcio di cui non tenere conto e le forze armate sottoposte ad un comando personale.

Non a caso, tutto ciò si porta dietro una svolta repressiva senza precedenti, sia rivolta nei confronti degli immigrati sia, più in generale, rispetto a tutti i dissenzienti, a partire dalle Università, viste come luogo principe che li produrrebbe. E che si vuole diffondere all’insieme della società: da poco è stata costruita un’ app prodotta da Iceraid, società privata che si propone di affiancare l’Immigration and Customs Enforcement di emanazione governativa nel segnalare gli immigrati irregolari o sospetti a fronte di una retribuzione in criptovalute per gli utenti che svolgono questo “servizio”.

Persino un attento politologo di ispirazione liberaldemocratica come Sergio Fabbrini arriva a concludere che siamo in presenza di una vera e propria autocrazia, di una “repubblica illiberale dove conta solo il presidente”. Parole un po’ forbite e un po’ contorte per non esplicitare che la presidenza Trump, ormai, si avvia a costituire un regime dittatoriale, di ripristino della figura del Sovrano, come giustamente ha evidenziato il significativo movimento di protesta popolare in atto negli Stati Uniti, che si è battezzato No kings Protests.

Sul piano delle politiche economiche e sociali, tutto ciò si traduce in una spinta fortissima alla crescita delle disuguaglianze, come si nota bene nell’ultima legge di bilancio approvata. Lì non solo ritroviamo una classica ed estremizzata impostazione della destra volta alla riduzione delle tasse per i redditi medio-alti e al contemporaneo taglio alla spesa sociale, ma viene sancita, con un massiccio intervento di smantellamento dell’intervento e del personale pubblico, una nuova grande alleanza tra Esecutivo decisionista e il complesso monopolista industrial- militare-informativo, che sta operando una rivoluzione privatizzatrice che ha pochi precedenti. Affidando al secondo i nuovi settori emergenti, dallo spazio alla sicurezza, dall’innovazione tecnologica all’intelligenza artificiale, fino a delineare quasi una nuova forma di governo, di un nuovo intreccio tra politica ed economia che vorrebbe prefigurare il futuro del mondo.

Questo “vasto programma”, questa nuova rivoluzione conservatrice, però, non può funzionare e ho idea che il tempo si incaricherà di dimostrarlo.

 

Gli Stati Uniti non sono più da tempo l’unica superpotenza mondiale, né il cosiddetto Occidente può invocare una sua primazia nel mondo: per dirla in sintesi, basta pensare che il PIL a parità di potere di acquisto dei Brics, i Paesi guidati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, rappresentano il 41,4% del PIL mondiale, mentre quello dei Paesi del G7 vale meno del 30% (nel 1990 tale valore era del 52%).
Ancor più, gli Stati Uniti soffrono di un deficit pubblico e di un indebitamento con l’estero
( il primo superiore a 1,900 miliardi di $, pari al 6,3% del PIL, il secondo arrivato a più di 26.000 miliardi di $) strutturali e crescenti, che vengono ulteriormente aggravati dalle ultime scelte di bilancio pubblico. A partire dal 2024, la spesa per interessi è risultata pari al 3,1% del pil, quindi superiore a quella per la difesa che è pari al 3%: 881 miliardi di spesa per interessi contro 850 miliardi di dollari di spese militari, entrambe superiori a quelle per l’istruzione.

Nel futuro la situazione peggiorerà: secondo le ultime proiezioni fa sì, del Congressional Budget Office (l’agenzia federale che fornisce i numeri sul bilancio statunitense), nel 2035, la spesa per interessi sarà il 70% in più rispetto alle spese militari: 1.783 contro 1.053 miliardi.
Il peso dei pesanti “deficit gemelli” fa sì, peraltro, che il dollaro progressivamente venga sempre meno riconosciuta come moneta di riferimento per tutti gli scambi commerciali e, di fatto, moneta che governa il mondo. Dentro il mondo dei Brics si levano voci importanti rispetto alla possibilità di mettere in discussione la signoria del dollaro e pensare ad altre alternative per regolare gli interscambi commerciali. Tendenze che è facile pensare possano rafforzarsi nel momento in cui l’imposizione dei dazi diventa inevitabilmente foriera di guerra commerciale.

Accanto al depotenziamento del ruolo di primato economico, le scelte di unilateralismo nei rapporti internazionali determina, com’è purtroppo sotto gli occhi di tutti, in particolare nelle vicende di Gaza e del Medio Oriente, la messa da parte del diritto internazionale e il ricorso alla guerra come strumento normale di regolazione dei conflitti. Ma, anche qui, in una realtà multipolare come quella del mondo di oggi, ciò non porterà a nessun nuovo ordine o equilibrio.

Il punto di fondo, dunque, è che le scelte trumpiane sono destinate a creare non una nuova egemonia, né l’affermazione di un dominio imperiale, ma un grande disordine mondiale sistemico e, che diventa il terreno fertile per la terza guerra mondiale, condotta a pezzi o in modo più diretto. I tentennamenti e le apparenti giravolte di Trump stanno dentro quest’orizzonte, di chi vorrebbe affermare un nuovo dominio di un’unica superpotenza e l’impossibilità di realizzarla in un mondo che strutturalmente non lo consente più.

Qui sta la grande pericolosità della deriva trumpiana e anche la necessità di fermarla.
Sarebbe bene che l’Europa si rendesse conto di questo dato di realtà e non mettesse la testa sotto la sabbia, come sta facendo, e, invece, ragionasse sul fatto di relazionarsi con altri soggetti statuali che avversano l’unilateralismo di Trump. Potendo avvalersi anche del dispiegarsi di un grande movimento di massa europeo contro il riarmo e le guerre, che sta iniziando a delinearsi e di cui abbiamo grande necessità.

Cover: Donald Trump – FILE PHOTO: U.S. President Donald Trump speaks, as he signs executive orders and proclamations in the Oval Office at the White House in Washington, D.C., U.S., April 9, 2025. REUTERS/Nathan Howard/File Photo

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Non sorridete, gli spari sopra sono per voi

Non sorridete, gli spari sopra sono per voi

 

Da molti giorni sento l’esigenza di scrivere, di sfogare la mia rabbia nei confronti dei padroni del mondo, ma non so come farlo. Mi è capitato molte volte di iniziare un file di word, scrivere poche righe, accartocciarmi su me stesso e cancellare tutto. La situazione mondiale e locale, la distruzione di parti di mondo non degne di esistere e l’evaporazione della mia squadra di calcio (SPAL) mi causano un blackout cognitivo che non riesco a sbloccare. Già questo accostamento è irrispettoso nei confronti di chi viene ucciso in coda per un sacco di farina, di chi muore sotto le bombe, delle migliaia di persone a cui viene negata la dignità umana. Forse è pure per questo che non riesco a scrivere, per questo assurdo e ingiusto accostamento.
Vorrei gridare e argomentare il mio antico antiamericanismo, un sentimento limpido, di cui non mi vergogno minimamente, un sentimento che nasce con me. Da bambini io e mio cugino, in Via dell’Assiderato, giocavamo coi soldatini, alla guerra, facevamo mille analisi tecnico tattiche su partite di calcio immaginarie, sognavamo di creare dal nulla una squadra di calcio a partire da vecchie maglie di lana a
manica lunga con lo sponsor Rex Ferrioli. E nei nostri giochi gli americani erano quasi sempre i cattivi, a parte quando giocavamo coi soldatini della seconda guerra mondiale. Un popolo nato da avventurieri europei che in pochi secoli annulla la cultura millenaria delle popolazioni indigene del nuovo mondo. La frontiera, una Colt per ogni americano, la corsa all’Ovest, le guerre nei confronti dei nativi, fino alla soluzione finale del “problema” indiano tra il 1860 ed il 1890, ben descritta nel libro di Dee Brown “Seppellite il mio Cuore a Wounded Knee”. L’ispirazione da cui prese spunto Adolf Hitler nel progettare e realizzare il genocidio degli Ebrei nel corso della seconda guerra mondiale.
Che sia faciloneria nel paragonare diversi genocidi, che sia eccessiva semplicità di analisi per situazioni e periodi storici così lontani e così differenti, tuttavia non ho intenzione di porre limiti ai pensieri che sgorgano da questa tastiera. Poi magari sono sempre in tempo a cancellare tutto. Ma non a ritrattare. Sto dalla parte dei più deboli per vocazione, un missionario ateo che non si muove di un metro dai suoi luoghi natali, un pavido comunista, fuori tempo, fuori dallo spazio, e forse pure fuori di testa.

Ma lasciatemi odiare i bulli. Anche quello è un sentimento che ho dai tempi del cortile di Via Ungarelli, quando ruppi il naso a uno di loro che mi aveva bloccato contro una inferriata, perché ero più piccolo (anagraficamente), oppure ai tempi della naja quando i nonni facevano i fenomeni con noi burbette. Non è un risentimento, non è repulsione, è qualcosa di più, non riesco a sopportare chi, facendosi scudo della propria forza, del proprio potere, dei propri soldi, delle proprie armi, utilizza il mondo per nascondersi e provocare il male agli altri. In questo il Tycoon e il demolitore della mia squadra sono identici, hanno pure intrattenuto rapporti di lavoro a causa di questa loro similitudine. Ma pure il genocida a capo di Israele è un esempio tipico del drogato di potere: forza distruttrice, l’annientamento dei nemici come missione, l’azzeramento di chi non la pensa come loro, la salinizzazione di tutto ciò che rappresenta l’altro. L’opposto contrario di empatia, l’opposto di solidarietà, l’opposto di pietà, l’opposto di essere umano.
Continuo a vergognarmi di paragonare una situazione locale e qualsivoglia tragedia reale, ma la mia provocazione è più forte di me, mi sta prendendo la mano. Ditemi voi, buoni cristiani, credenti nella trinità di Dio, patria e famiglia, in che modo il Nazareno, che non dimentichiamolo era Palestinese, può stare dalla vostra parte? Dalla parte di quell’occidente che nella narrazione comune, totale e totalitaria rappresenta i valori di giustizia, libertà e fraternità, quella stessa parte che in nome suo ha compiuto i peggiori delitti della storia dell’uomo.

Israele, avamposto della democrazia in una terra di barbari (dicono i sedicenti democratici), Israele dove non esiste una opposizione abbastanza forte da porre un freno alla sete di sangue del “popolo eletto”.
Occorre ribellarsi ai bulli, come fece Tano, spesse volte, tra i cortili di borgata, come ha fatto la Curva Ovest nei confronti dell’ avvilente palestrato.

E se si girano gli eserciti e spariscono gli eroi
Se la guerra poi adesso cominciamo a farla noi
Non sorridete, gli spari sopra sono per voi

Smettiamo di essere turbati, sgomenti e confusi, cominciamo ad incazzarci proprio, citando il maestro Altan.

 

Cover: Nazareno_Iglesia_de_Mazapil_Zacatecas_- Wikimedia commons

La storia del Golem: una favola moderna

La storia del Golem: una favola moderna

Secondo la Kabbala (volgarizzazione della mistica ebraica) la creazione del mondo è avvenuta per un processo di emanazione di ogni cosa dal nome divino.

Il principio fondamentale di tale concezione mistica considera ogni elemento del creato come derivato dalla composizione e scomposizione dei numeri e delle lettere dell’alfabeto ebraico, in particolare di quelle che compongono il nome di Dio.

La parola è quindi considerata come elemento di base e principio creativo dell’universo.
Questo
si ricollega direttamente al Golem: esso prende vita dal nome di Dio o da altre lettere con valore e significato particolare che gli vengono o scritte in fronte, o scritte su un foglio, o infilate in bocca; col procedimento inverso è possibile invece farlo ‘morire’, togliergli vita e movimento.

Nel XIII secolo esisteva una tradizione che si richiamava al IV secolo A.C. secondo cui il Golem, che aveva scritto in fronte il nome di Dio, prendeva vita aggiungendo ad esso la parola “verità”, cosicché ne risultava la frase “Dio è verità (emeth). Cancellando dalla frase una delle lettere, la aleph, la parola che restava significava “morto” (meth) la frase diventava “Dio è morto” e il Golem diventava inerte.

Sulla base di questi precedenti della tradizione sono sorte nel corso dei secoli diverse leggende, talvolta versioni diverse della stessa leggenda. Nelle sue diverse interpretazioni il Golem è stato ora un fedele servitore domestico e difensore del suo padrone, ora un difensore degli ebrei dalle persecuzioni, per arrivare alle sue derivazioni più moderne: l’automa robotico, o il mostro alla Frankenstein.

“Io sono il Golem”

Il Golem e Robbin Loew ben Bezalei in un disegno di Mikoles Ales (1852-1913)

Sono Il Golem, un gigante d’argilla. Non possiedo intelligenza, sono incapace di pensare e di parlare. In compenso sono dotato di una straordinaria forza e resistenza e so eseguire alla lettera gli ordini del mio creatore.

Sono nato dagli studi di un sapiente europeo Rabbi Löw, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel che mi ha plasmato dall’argilla. Mi ha risvegliato dalla terra inerte scrivendo dentro ad un pendaglio che mi porto addosso la parola “verità” ( emeth). Purtroppo ciò non era sufficente per farmi provare qualsiasi tipo di emozione, perché ero privo di un’anima e nessuna magia è in grado di fornire un anima.

Rabbi Löw con ll Golem, la sua creatura.

Il mio compito era difendere il mio padrone e il suo popolo da tutti i suoi nemici e distruggerli.

Ma un giorno, fuori dai confini del ghetto, in una delle sortite comandate, ho incontrato una bellissima ragazza, non so cosa mi è successo ( ricordate non ho emozioni) ma ho perso il controllo e ho cominciato a distruggere tutto ciò che incontravo, non solo fuori ma anche dentro il ghetto. Una forza bruta, un senso di ribellione cieca verso tutto, persino verso il mio padrone.

Non riuscivo più a distinguere tra amici e nemici. Non sono stato dotato di libero arbitrio e, senza una volontà saggia, più grande che mi guidasse, non potevo distinguere il bene dal male.

Non era da me ma non riuscivo a fermarmi . Da protettore a devastatore, da servo a tiranno.

Si è scatenata nel ghetto una caccia spietata.

Allora il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel, per riprendere il controllo della situazione, ha deciso di smettere di servirsi dei me, bastava rimuovere il pendaglio contenente la scritta emeth .

Non volevo essere distrutto e così ho difeso strenuamente il mio pendaglio.
Sono scappato finché nel mio girovagare mi sono imbattuto in un gruppo di bambini festosi, non avevano paura di me e si sono avvicinati. Sono stato colto dallo stupore erano così diversi dai miei inseguitori furiosi. Preso da un moto sconosciuto ( si chiama forse innocenza? tenerezza? compassione?) la rabbia e la forza sono venute a mancare, al loro posto, in maniera automatica mi è venuto da alzare con gentilezza verso di me una piccola bambina sorridente. La bimba, continuava a sorridermi, ha afferrato per gioco il pendaglio al mio petto e me lo ha tolto.

Immediatamente e inaspettatamente sono morto.

Così il sortilegio è finito tra il sollievo generale dei rabbini nel frattempo accorsi, pentiti di aver voluto sostituirsi al dio creatore e onnipotente che, solo, dà e toglie la vita.

Il pendaglio è stato preso, sigillato e nascosto. Spero che nessuno lo trovi mai più.

Cover: Reinhard Dietrich, Golem_Judisches_Museum_Worms – Wikimedia Commons

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Per certi Versi / Poi succederà

Per certi Versi / Poi succederà

Poi succederà

E poi succederà qualcosa

che muoverà la terra e il cielo

sprofonderà il senso della ragione

saranno salvi i sentimenti puri

strariperanno le illusioni

sarà come raccogliere rose

in un giardino in fiore

Le spine pungeranno

a far sentire lo scorrere dei giorni

 

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Refezione scolastica: a rischio la salute delle giovani generazioni

Da qualche giorni gli studenti hanno raggiunto le sospirate vacanze (al netto di chi è alle prese con gli esami di maturità), ma chi deve lavorare per il nuovo anno scolastico resta in piena attività.

Due recenti contributi possono essere utili a quanti si dovranno confrontare con il servizio della mensa scolastica che si intende offrire ai nostri ragazzi quando a settembre ritorneranno sui banchi di scuola.

I servizi di ristorazione scolastica hanno un valore stimato di oltre 5,7 miliardi di euro nel quadriennio 2019-2022, rappresentano, quindi, un settore del mercato dei contratti pubblici di servizi di rilevante interesse economico.

Per questo, l’ ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione)  ha deciso di effettuare un’indagine conoscitiva sulle mense scolastiche, con particolare riferimento alle scuole primarie, al fine di individuare i prezzi di riferimento.

Riguardo alle caratteristiche delle stazioni appaltanti campionate, emerge una domanda che vale 1,4 miliardi di euro, espressa prevalentemente da stazioni appaltanti comunali, anche nel caso di contratti di importo rilevante, senza ricorrere alle centrali di committenza.

La fetta di domanda pubblica analizzata vede l’Emilia-Romagna esprimere la domanda economicamente più rilevante (circa 400 milioni di euro), seguita dalla Lombardia (138,1 milioni di euro), la cui domanda è la maggiore in termini numerici, e dal Lazio (96,1 milioni di euro).

Tra le principali caratteristiche degli aggiudicatari dei contratti esaminati emerge che 19 operatori economici ne detengono il 95% del valore, corrispondente a oltre 1,1 miliardi di euro, mentre il restante 5% del mercato esaminato, con un valore di 64,3 milioni di euro, è polverizzato su 70 operatori economici.

Il principale aggiudicatario è la CAMST SOC. COOP. A R.L. (19,8%), seguita dalla VIVENDA S.P.A. (15,3%), e, con analoghe quote (oltre l’11%), dalla CIRFOOD S.C. e dalla DUSSMANN SERVICE S.R.L.

I servizi di ristorazione domandati agli operatori economici del mercato dalle stazioni appaltanti campionate si contraddistinguono, in generale, per l’attenzione richiesta all’aggiudicatario sui temi della sostenibilità ambientale, dell’inclusività (mediante menu a carattere religioso/etico o vegetariano/speciale/leggero), e del miglioramento qualitativo. Meno frequentemente l’accento è, invece, posto sui menu sociali e solidali.

I servizi si caratterizzano, inoltre, per la preparazione dei pasti presso la cucina esterna (con successiva veicolazione dei pasti), la proprietà del centro di produzione dei pasti della società e la sua manutenzione ordinaria e sanificazione, generalmente, posti a carico dell’operatore economico.

I servizi di mensa scolastica domandati agli operatori prevedono, nella maggior parte dei casi analizzati, l’utilizzo delle attrezzature di proprietà della stazioni appaltanti e, indipendentemente dal soggetto proprietario, la loro manutenzione, sia ordinaria sia straordinaria, è tendenzialmente a carico dell’operatore economico.

Di norma, i servizi sono connotati dal legame fresco-caldo, dal confezionamento del menu ordinario in multiporzioni con scodellamento e dalla distribuzione dei pasti al tavolo nel refettorio.

Inoltre, di regola, l’erogazione del servizio ricomprende le attività di allestimento del tavolo, di rigoverno post consumo, di sanificazione e derattizzazione/disinfestazione dei locali di refezione.

Sul fronte dei prezzi unitari dei pasti (pranzo) nelle scuole primarie, questa ristretta indagine conoscitiva evidenzia una marcata variabilità, con un ampio range di prezzo che varia da 2,88 euro a 8,03 euro e un prezzo medio di 5,05 euro

(Qui per scaricare la ricerca dell’ANAC: https://www.anticorruzione.it/-/news.04.06.2025.indagine-ristorazione-mense-scolastiche#p1).

Intanto, nei giorni scorsi un’indagine Coldiretti/Ixe’ ha rilevato che il 40% degli alunni e degli studenti italiani acquista abitualmente prodotti come snack dolci e salati e bevande energetiche per fare merenda a scuola, con un impatto potenzialmente devastante sulla loro crescita e sulla loro salute.

Non solo, l’indagine evidenzia anche che nelle mense scolastiche, soprattutto in quelle gestite da grandi appalti industriali, vengono serviti cibi ultra-formulati, spesso per ragioni di costo, conservazione e praticità.

Questi alimenti subiscono numerosi processi industriali e contengono additivi, conservanti, coloranti, emulsionanti e ingredienti artificiali che li rendono poco salutari, soprattutto per i bambini.

Si va dai bastoncini di pesce industriali, che spesso contengono più panatura e additivi che vero pesce, alle polpette con carne ricostituita e aromi artificiali, fino al purè liofilizzato.

Ma ci sono anche formaggini fusi spesso addizionati con sali di fusione e conservanti, pane in cassetta pieno di conservanti, dolci come merendine, budini pronti, biscotti confezionati ricchi di zuccheri, oli vegetali raffinati (spesso palma), aromi e coloranti.

Senza dimenticare i piatti pronti surgelati. Non sorprende, sottolinea Coldiretti, che solo un genitore italiano su tre (32%) sia pienamente soddisfatto della qualità del cibo servito nelle mense scolastiche.

“Ancora più impattante sulla salute delle giovani generazioni, si legge nel Report, sono i distributori automatici con il loro carico di prodotti ultra-formulati.

Secondo un’analisi della Fondazione Aletheia sulla base di un’indagine del sistema di sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità, la categoria di prodotto più presente nelle “macchinette” onnipresenti nelle scuole italiane sono gli snack dolci (nel 77% dei casi analizzati) davanti a snack salati (76%) mentre la presenza di yogurt o latte è appena del 2% e quella della frutta all’1%.

Un fenomeno che mette a rischio la salute delle giovani generazioni e dinanzi al quale occorre intervenire da subito, anche per rispondete al grido d’allarme che viene dalle famiglie italiane, sempre più preoccupate per il futuro dei propri figli”.

Qui il Manifesto di Coldiretti per l’educazione alimentare nelle scuole: https://www.coldiretti.it/wp-content/uploads/2025/06/manifesto-EDUCAZIONE-ALIMENTARE-35×50-PRIMA-VERSIONE-1.pdf.

In copertina: refezione scolastica – immagine icareviareggio.it

 

Presto di mattina /
Allarga lo spazio della tua tenda

Presto di mattina. Allarga lo spazio della tua tenda

Sotto questa tenda
di cielo imporrito
la terra
sloga
in un grande arco teso
e brilla poi
dissetata
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Garzanti Milano 1996, 382)

L’immagine della tenda, già presente nel periodo dell’infanzia del poeta quando abitava nel quartiere di Moharrem Bey – al limite del deserto egiziano, “in una zona a quei tempi ancora deserta, colla tenda del beduino a quattro passi da casa” – riaffiora potente nelle liriche del tempo di guerra, evocativo dell’esperienza di precarietà dei soldati, di fragilità e indigenza estrema. Accerchiato dalla quotidiana presenza della morte, con la vita costantemente appesa a un filo, la tenda diventa espressione di un riparo, di un provvisorio rifugio, ma pure della inconsistenza e caducità di una “vita d’uomo”.

Al pari di altre poesie di quel periodo, come Veglia, Soldati e Preghiera, anche Sotto questa tenda esprime l’angoscia e la perdurante precarietà dell’esistenza esposta all’imprevisto in agguato – “come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie/ – ma al contempo la capacità di trovare nell’insensatezza della guerra qualcosa di fugace, eppure non ostile: la tenda appunto, che ridesta l’attimo di un bagliore di luce nell’orrore della trincea, un resto di senso e di bello che ti fa sentire come non mai “attaccato alla vita”.

E quando avverrà il cambiamento, la fine della guerra, “quando il mio peso mi sarà leggero” vi sarà un risveglio e una preghiera: “Il naufragio concedimi Signore di quel giovane giorno al primo grido”. Il naufragio: che non è per Ungaretti un termine negativo, ma un’esperienza di rinascita in cui perdersi, e “principia in un grido”.

Non meravigli allora di trovare questo testo inserito nella raccolta intitolata Allegria – anche se il primo titolo era Allegria di naufraghi. A detta dei critici qui si intende quel che resta di senso, nel nulla che sta quando si è risucchiati nel gorgo della guerra.

La parola esprime quell’attimo fugace in cui si coglie la presenza insperata di un momento di vitalità, una momentanea via di uscita, di sospesa serenità. La tenda allora è come il legno per un naufrago: è un senso si sollievo, un respiro, un altro respiro ancora possibile, attimo di quiete tra un’onda di tempesta e la successiva.

Sotto la tenda del cielo che, perduta la plumbea durezza, appare come sporgersi di escrescenze – “cielo imporrito” scrive Ungaretti, un ribollire o tumefarsi come di legno imbevuto d’umidità – la “la terra sloga”, letteralmente cambia luogo, forma, immagine: per l’inarcarsi dell’orizzonte qualcosa brilla oltre la linea del fronte, una resistenza all’annientamento che basta a dissetare la terra.

Tenda di argilla

Precaria stabilità: così il libro della Sapienza parla della condizione umana. «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (Sap 9,14-17).

È qui presentata anche la condizione del nomade della fede, nel luogo non luogo del deserto del vivere, sul bordo tra credenza e incredulità. La tenda è vista così come il limite, ma pure come superamento, luogo in movimento verso un altrove.

Tuttavia la tenda di argilla screpolata e polverosa per la canicola, o fangosa poltiglia per le inondazioni, non è lasciata sola, né abbandonata alla deriva di sé stessa. Vita condivisa, invece, raccolta e presa con sé da Colui che si è fatto nomade con i nomadi in umanità: «Certo, non abito in una casa dal giorno che trassi i figli d’Israele dall’Egitto fino ad oggi, ma sono andato vagando in una tenda… Ho detto mai a uno dei giudici d’Israele: Perché non mi avete costruito una casa di cedro?» (2Sam 7,6-7).

Ma la Parola invece discese
a volo d’aquila sopra la preda:
lui era solo attesa e silenzio,
sotto la tenda da anni in silenzio.
E come turbine esplose la voce:
alla sua eco tremava il deserto:
pareva il grido di tutti i profeti,
voce venuta dal fondo dei secoli.
(D. M. TuroldoG. Ravasi, Opere e giorni del Signore Commento alle letture liturgiche, Cinisello Balsamo MI 1990, 975).

Allora scendesti dapprima
sole sulle grandi macerie
poi penetrasti nel seno alla Donna
indi bambino a giocare e piangere …
D’allora ti cerco negli occhi degli uomini.
in case e prigioni: qui sulla terra
nuova ha piantato la tenda
(D. M. Turoldo, O sensi miei… Poesie 1938-1988, 224)

Il segreto della tenda d’argilla

Il segreto che custodisce la tenda d’argilla è l’ospitalità, quella di un’intimità senza sponde, personale, planetaria e cosmica: «Chi sarà dunque tuo ospite, / Signore, nella tua tenda? Egli mi nasconderà / nella sua dimora quando giungeranno / i giorni della sventura; mi mette al sicuro / nel segreto della sua tenda» (Sal 27, 5).

Faccio spesso lo scambio, quasi fosse un sinonimo, tra la parola santità e ospitalità, perché la santità di Dio si è manifestata tutta nella santità ospitale di Gesù. Questi è la sua tenda tra noi (Gv 1,14) per tutti i popoli, il luogo del suo convenire ospitale. “E il Verbo si fece carne/ e venne ad abitare in mezzo a noi”. Dove il verbo “venne ad abitare” nel greco ha un singolo termine, eskénosen, che deriva della stessa radice di skéne il cui significato è appunto tenda.

Il mestiere di Paolo, l’apostolo delle genti, era quello di fabbricatore di tende skénopoios, costruttore di luoghi di ospitalità evangelica, che annunciassero e testimoniassero il segreto dell’ospitalità di Dio per l’uomo.

È stato proprio questo verbo ad aver suggerito a don Tonino Bello (1935-1993), un vescovo fatto nomade di pace sulle strade dei Balcani, questa riflessione: «Se oggi San Paolo, l’infaticabile costruttore di tende, tornasse in mezzo a noi, che cosa ci direbbe? Anzitutto, ci esorterebbe a riscoprire lo spirito della tenda, che è lo spirito del cammina, cammina.

Ci farebbe recuperare in termini più convinti lo stile di chiesa missionaria, inviata non ad “annunciarsi addosso”, ma a proclamare Cristo morto e risorto in un mondo che non lo conosce, o non lo accetta, o lo combatte o, peggio, se ne infischia. Iniziandoci ad una coscienza veramente planetaria, sniderebbe dalle nostre abitudini concettuali l’idea di una Chiesa pacifica, rannicchiata, introversa, autosufficiente, sedentaria” (Luce e vita, Testimoni nel tempo, 19 aprile 2009).

La tenda sinodale

Don Tonino ha ricordato poi che è fondamentale abitare sotto la stessa tenda, condividendo una vita in comune. E ricorda il sostantivo plurale contubernales con cui i latini indicavano i partecipanti insieme ad una tenda, come i soldati romani o i compagni di campo, i chiamati a praticare la comunione di tenda:

“Dallo stile di San Paolo è lontanissimo il desiderio di lusingarci col proverbio “l’unione fa la forza”! Il suo anelito non ha nulla a che fare né con la convulsione propagandistica né col proselitismo di chi vuole annettersi spazi o sogna scenografie di potenza. Ci parlerebbe di comunione perché la Chiesa, maturando sull’albero della Trinità che è mistero di comunione, essendo cioè icona della Santissima Trinità, agenzia periferica della Santissima Trinità, punto vendita dei beni che si producono all’interno della Santissima Trinità che sono beni di comunione… non può vivere al suo interno la sindrome della scomunica: la disgregazione delle persone, il molecolarismo dei progetti, la frantumazione degli sforzi» (ivi).

Infine don Tonino ha messo in guardia dal pericolo di isolarsi dal mondo, e rinchiudersi nella tenda. Lo stesso pensiero di Pietro sul monte Tabor quando esclamò “è bello stare qui, facciamo tre tende”, senza sapere – commenta l’evangelista – “quel che diceva”. La tenda del vangelo-chiesa-mondo invece è spazio di speranza, movimento, incontro dell’altro, poiché la speranza viene dal camminare umilmente insieme. Grazie alla tenda si può procede oltre lo schema fisso che costringe a vivere in un loop che condanna all’immobilismo la vita girando su se stessa, bucando la trama del si è sempre fatto così e impedendo che «la sequela di Cristo si riduca a intimistico sedentarismo spirituale».

Allarga la tua tenda

Il sogno e la missione di Paolo è stata quella di una chiesa come tenda sempre aperta. Luogo di intimità e di socialità per una comunità inclusiva ed estroversa insieme.

Non sorprende allora che lo stile di Paolo e la profezia di don Tonino siano state recepite nel recente sinodo ecclesiale, che nel documento di lavoro presentato alla tappa continentale – quella che ha raccolto gli orientamenti di tutte le chiese sparse nel mondo – ha posto come titolo un brano di Isaia: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti» (Is 54,2).

Ai nn. 27-28 leggiamo: «Ascoltate oggi, queste parole di Isaia ci invitano a immaginare la Chiesa come una tenda, anzi come la tenda del convegno, che accompagnava il popolo durante il cammino nel deserto: è chiamata ad allargarsi, dunque, ma anche a spostarsi…

Allargare la tenda richiede di accogliere altri al suo interno, facendo spazio alla loro diversità. Comporta quindi la disponibilità a morire a se stessi per amore, ritrovandosi nella e attraverso la relazione con Cristo e con il prossimo: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

La fecondità della Chiesa dipende dall’accettazione di questa morte, che non è però un annientamento, ma un’esperienza di svuotamento di sé per lasciarsi riempire da Cristo attraverso lo Spirito Santo, e dunque un processo attraverso il quale riceviamo in dono relazioni più ricche e legami più profondi con Dio e con l’altro».

Così il tempo della tenda nel deserto diventa il tempo della disponibilità totale all’ascolto, all’accoglienza e alla condivisione, del prendere con sé, al fine di giungere a decisioni comuni di maggiore coerenza della vita al vangelo.

«In questo percorso, le Chiese si sono rese conto che il cammino verso una maggiore inclusione – la tenda allargata – si realizza in modo graduale. Inizia con l’ascolto ed esige una più ampia e profonda conversione degli atteggiamenti e delle strutture, nonché nuovi approcci di accompagnamento pastorale e la disponibilità a riconoscere che le periferie possono essere il luogo in cui risuona un appello a convertirsi e a mettere più decisamente in pratica il Vangelo. L’ascolto richiede di riconoscere l’altro come soggetto del proprio cammino» (n. 32).

Tenda dell’amicizia fraterna tra i popoli

Nel suo viaggio in Mongolia papa Francesco ha notato la caratteristica delle tende del popolo ger, e ne ha colto il loro significato simbolico. Non sono tende chiuse ma aperte perché la finestra è posta in alto, il suo soffitto è lo spazio infinito del cielo e la porta sconfina nelle infinite pianure e deserti dell’Ordos e dei Gobi:

«Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger…

Le ger, poi grazie alla loro adattabilità agli estremi climatici, consentono di vivere in territori molto variegati… Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è…

Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto» (Discorso del 2 settembre 2023).

Una ger è un luogo di relazione poliedrica, multiforme, sconfinata, che attraversa i confini non solo tra cielo e terra ma del cuore; lo apre ad altre intimità verso i punti cardinali terresti ed esistenziali, verso il segreto delle stelle nella notte, lo stesso che abita la tenda di Dio.

Tu sei il Dio del vento e del tuono,
sei la colonna di fuoco la notte,
nube e riparo del sole nel giorno:
un Dio che ancora ci parla dal rogo!
Dio vagabondo con noi nei deserti,
che nella tenda hai voluto abitare
condividendo la sorte dei poveri
sempre in cammino avanti al tuo popolo.
(Turoldo, Opere e giorni del Signore, 586).

La tenda del “Padre nostro”

La mia tenda è la preghiera del Padre nostro, il dono di Gesù ai suoi amici, il dono della sua preghiera. Preghiera che è il dono di sé stesso al Padre e a noi. La tenda di quando pregava di notte sul monte e il Padre suo era là; là pure sotto la tenda del loro inaudito e spirante amore quando nella pianura dispiegava la sua umanità abitata dallo Spirito di Dio, ospitando poveri, esclusi, guarendo i malati, riconoscendo essere tenda di Dio quella stessa degli uomini e delle donne delle beatitudini, e rivelandolo a loro come il Padre nostro dei cieli.

Perché il Padre nostro, come la ger delle Mongolia, ha sì una finestra verso il cielo e le sue stelle, le Pleiadi. Quelle che invece brillano sotto il cielo della tenda, nel Padre nostro, sono le Beatitudini del Regno, e quando le hai imparate a memoria ti fanno uscire dalla tenda per la sua porta sempre aperta e ti guidano all’incontro con le persone. È proprio allora che le senti mormorare dentro di te e nel respiro della gente:

Abbattete i reticolati di queste
città-lager
dove ognuno è cintato
dal sospetto perfino del fratello…
Una tenda vi basti a riparo
dalle bufere,
e Dio ritorni
vagabondo
a camminare sulle strade,
a cantare con voi
i salmi del deserto.
Vi basti leggere il vostro
nome nel vento
e nel cielo azzurro:
mormorato
sotto una palma
nelle pause dei canti.
(Turoldo, O sensi miei, 572).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Dietro le quinte della guerra e pace di Trump

Dietro le quinte della guerra e pace di Trump

Dietro le quinte della guerra e pace di Trump

Per comprendere la guerra lampo e il cessate il fuoco tra Iran e Israele imposto da Trump, è bene capire ciò che sta accadendo ai tre principali Stati del mondo: il capitalismo degli Stati Uniti, i capitalismi monopolistici di Stato cinese e russo. Membri permanenti del consiglio di sicurezza ONU insieme a Francia e UK (anch’esse potenze nucleari) che hanno perso però ogni ruolo statuale immersi nella palude della incompiuta UE.

Il capitalismo Usa ha avviato dal 1999 una nuova fase di accumulazione in cui finanza e de-localizzazione delle manifatture Usa in Cina, avrebbero aumentato molto i profitti. Per questo serviva abolire (1999) il Glass-Steagal Act che Roosevelt volle nel 1933 proprio per far fronte alla crisi del 1929. La finanza ora domina le manifatture (delocalizzate in Cina) per estrarre più profitti.

Profitti, borse e miliardari come mai visti ma con effetti collaterali sottovalutati:
a) la crescita della povertà in America;
b) far alzare in piedi il mostro cinese (che dormiva) e che ora spaventa non poco.
Trump è stato votato per svoltare, rifare “grande un’America” che non ha più fabbriche, anche solo per rifornire di munizioni in una guerra convenzionale con la Cina.

Trump sa che solo con l’aiuto della Russia (potenza euro-asiatica rinata in un’ottica imperialista con Putin) la Cina si può tenere a bada. Ciò spiega il suo interesse ad accordarsi con la Russia (non solo sull’Ucraina ma sull’Artico e il Grande Medio Oriente), la quale, sfruttando gli errori della politica estera neocon americana e l’allargamento ad est della NATO, ha aggredito l’Ucraina. L’avrà concordato con la Cina? E’ probabile.

Giulio Sapelli spiega Nella storia mondiale. Stati, mercati, guerre (Guerrini e associati, 2021) come il modello americano di esportazione della sicurezza e del dominio economico con le armi e i regime change sia stato non solo disastroso ovunque (America latina, Africa, Medio Oriente, Afghanistan) andando incontro a severe sconfitte militari, ma avrebbe dato l’opportunità a Russia e Cina di “sconfinare” (oggi in Ucraina, domani a Taiwan).

L’errore di non stabilizzare il mondo, dopo il crollo dell’URSS, con un accordo degli americani che avrebbe dovuto coinvolgere anche la Russia e la Cina, è alla base dell’attuale disordine, tanto più che dal 2009 Cina e Russia si sono messi “in proprio” costruendo un’alternativa agli USA coi BRICS.

Sappiamo quanto Trump sia oggi pressato dal suo stesso movimento MAGA a cui aveva solennemente promesso “mai più gli Stati Uniti in guerra”. Per questo Trump ha ripreso la politica estera basata sul realismo (à la Kissinger) e abbandonato quella dei “diritti umani” dei Dem (Obama, Biden). iran, in quanto i sunniti (guidati dall’Arabia Saudita) sono da anni in affari con gli americani e sostengono coi loro fondi finanziari molte multinazionali (e di recente hanno fatto accordi per mille miliardi) e l’Iran (sciita) è comunque un alleato della Russia con la quale non si vuole rompere, sperando che in futuro le mire della Cina sull’Artico e la Siberia possano portare a un conflitto tra i “grandi amici”. Così come non vuole abbandonare Israele in quanto enormi sono le pressioni negli Stati Uniti della lobby ebraica sulla politica estera americana.

E poi l’Iran non è così isolato come si vuol far credere. Oltre ai suoi 90 milioni di abitanti ha un Iraq vicino dove un terzo del suo territorio è controllato dai miliziani dello Stato islamico e una volta che l’Iraq avrà sconfitto l’ISIS, sarà alleato dell’Iran. I ribelli Houthi (sciiti appoggiati dall’Iran) potrebbero conquistare lo Stato Yemen e comunque dispone di migliaia di fanatici esaltati disposti a farsi saltare in aria nelle piazze europee. La futura probabile alleanza Iraq-Iran-Yemen mette a rischio gli equilibri del Grande Medio Oriente.

Trump è più interessato a rilanciare il capitalismo americano (in crisi) che ha prodotto povertà diffusa nel suo stesso paese e spera in una nuova fase di ricostruzione immobiliare (dal Grande Medio Oriente all’ Ucraina) ad occupare l’Artico con l’amico Putin.

Per questo serve più la pace che la guerra. A distanza segue quanto accade nel Grande Medio Oriente (dove non ha un ruolo) la Cina che tesse la sua tela di ragno di alleanze per indebolire l’attuale imperatore (USA) e in aprile 2024 a Qingdao (Cina) ha ospitato 20 eserciti navali per “prevenire conflitti” (incluse Russia e USA) secondo la sua teoria del multilateralismo.

A Trump serve riarmare la UE, con alla testa una Germania, che per riarmarsi abbandona la storica austerità che ha imposto per 25 anni a se stessa e alla UE, impedendo gli eurobond e quello sviluppo della domanda interna che ha scassato il welfare. Oggi, indebolita dalla rottura dei rapporti con Russia e Cina, potrà riarmarsi come Stato (e con acquisti consistenti dagli USA).
Trump è convinto che non conterrà nulla sul piano internazionale come la UE, evirata dagli stessi americani, come entità statuale. Il riarmo porterà a nuove divisioni tra Stati europei (benvenute per gli americani) che hanno come alleato più fedele la Polonia col suo nazionalismo anti-russo. Poco importa a Trump (anzi) se non è una democrazia (come aveva dichiarato il commissario Ue Didier Reynders nel 2020).

E l’Europa? Non ha carte, per usare il linguaggio ruvido di Trump, è fuori da ogni gioco e qui sta il suo grande peccato di omissione da servo sciocco. Perché solo un’Europa unita e indipendente può stabilizzare il mondo. Obnubilata dalla guerra di aggressione imperialista russa all’Ucraina è ormai al seguito degli Stati, come la Polonia, anti-russi. Il disegno lungimirante di Charles De Gaulle era di un’Europa che va fino agli Urali (e include il dialogo con la Russia), la quale, potenza euroasiatica, se non guarda all’Europa si sposta verso la Cina. Per questo sarebbe importante ristabilire un dialogo con la Russia, che non sarà sempre Putin.
Ma si va in direzione opposta. Ce ne pentiremo quando sarà troppo tardi.

Cover: immagine di mastercoachitalia.com

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L’Assemblea di Banca Etica: 2 liste a confronto

ASSEMBLEA DEL 17 MAGGIO A BOLOGNA: BANCA ETICA ELEGGE IL NUOVO PRESIDENTE E IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE 

Il 17 maggio scorso, in presenza a Bologna e a Madrid, e a distanza in diretta streaming, si è svolta l’assemblea delle socie e dei soci di Banca Etica, con una partecipazione particolarmente significativa: erano infatti presenti circa 7.500 persone che hanno rappresentato oltre il 15% dei soci della banca (https://www.bancaetica.it/assemblea-2025-eletto-il-nuovo-consiglio-di-amministrazione-con-presidente-aldo-soldi/), che, al 31 dicembre 2024, mostrava, tra persone fisiche e giuridiche, un numero di soggetti superiore a 48.700.

Sono stati rinnovati gli organi direttivi, Presidente e Consiglio di Amministrazione, il collegio sindacale e quello dei probiviri, ed è stato approvato il bilancio 2024, che si è chiuso con un utile consolidato pari a 16,1 milioni euro, e un patrimonio netto pari a 196,4 milioni di euro, in aumento del 9,5% rispetto all’annata precedente.

In crescita i numeri della banca, spesso in controtendenza ad altri istituti di credito, a cominciare dai crediti a favore dell’economia sociale che hanno registrato un +4,4%, mentre nello stesso anno il sistema bancario ha mostrato una diminuzione del 1,6%. A tassi quasi doppi cresce invece la raccolta diretta di risparmio, raggiungendo i 2.609 milioni di euro a fine 2024 (+4,6% rispetto al +2,4% registrato nello stesso periodo dal sistema bancario).

I soci e le socie di Banca Etica hanno votato in presenza nelle sedi di Bologna e Madrid, oppure da remoto online. Due le liste in competizione con 8 componenti ciascuna e 5 candidati singoli indipendenti. La lista più votata, Lista partecipativa per una Banca Etica, inclusiva e dialogante, ha ottenuto l’87,06% dei voti espressi, ed è quella che ha portato alla elezione di Aldo Soldi come nuovo presidente di Banca Etica, mentre quella sconfitta, la Lista autonoma Re:start Banca Etica 2025 guidata da Alessandro Messina si è fermata al 12,94%. Nel nuovo Consiglio di Amministrazione, che vede una maggioranza di donne, e che guiderà Banca Etica per i prossimi tre anni, sono entrate come candidati più votati, Beatriz Fernández Olit, Lucia Cagnazzo e Gaetano Giunta.

Aldo Soldi prende il posto di Anna Fasano che è stata presidente per sei anni e prima vicepresidente e consigliera di amministrazione.

ALTRECONOMIA, in un articolo del 19 maggio a firma del direttore Duccio Facchini (https://altreconomia.it/banca-etica-per-non-mettere-la-polvere-sotto-il-tappeto/), scrive senza mezzi termini che “Restano a terra i cocci di una campagna elettorale che definire velenosa è eufemistico. È stata orribile e ci si chiede come si possa pensare di disarmare la finanza e l’economia se poi si è così feroci al proprio interno”.

ALTRECONOMIA, scrive Facchini, si era “impegnata a seguire il processo assembleare e a proporre occasioni di confronto e dibattito aperte”. In un articolo apparso sul numero di marzo, sempre a firma di Duccio Facchini (https://altreconomia.it/banca-etica-verso-lassemblea-le-liste-in-campo-e-il-nodo-etica-sgr/), erano state presentate le due liste che avrebbero concorso alla elezione del nuovo CDA e del presidente: la prima – Per una Banca Etica, inclusiva e dialogante – era spiegato nell’articolo, “vuole «costruire il domani» nel segno delle «alleanze», in continuità con la governance uscente, mentre la seconda – Re:start Banca Etica 2025 – propone invece “un rilancio radicale perché «qualcosa non sta funzionando», come dimostrano la partecipazione appassita, i prestiti in flessione, i prodotti finanziari non ripensati, il clima interno e la cultura manageriale in sofferenza”.
Per Facchini si sta vivendo “un momento chiave per l’economia e per la finanza”, volendo considerare sia quanto avviene in ambito bancario a livello europeo e nazionale ma anche tenendo ben presente i gravi problemi che il mondo odierno è chiamato ad affrontare; in poche parole quella che Serge Latouche chiama una «guerra economica generalizzata» quale conseguenza del modello di sviluppo oggi imperante”.

La proposta di Altreconomia non ha però sortito gli effetti sperati. Il previsto confronto online tra i candidati previsto verso la fine di marzo che avrebbe dovuto affrontare in particolare il tema molto scottante, per la base sociale, di Etica Sgr, la società di gestione del risparmio fondata nel 2003 che, scrive la rivista, “con i suoi sette fondi etici è arrivata a raccogliere e investire in titoli di Stato e di società quotate a metà febbraio 2025 qualcosa come 7,2 miliardi di euro.” Banca Etica, che beneficia ogni anno di lauti profitti, ha il compito in quanto socio di maggioranza, di indirizzarne l’operato.

Ma SGR fa discutere. Innanzi tutto, si legge su ALTRECONOMIA, “il primo e più dibattuto motivo ha a che fare con il suo assetto proprietario: accanto a Banca Etica, che ne detiene il 51%, ci sono infatti Banco Bpm, con il 19%, e poi Bper banca, Banca popolare di Sondrio e Cassa centrale banca con il 10% circa a testa. Bpm, Bper e Bps rientrano nell’ultimo elenco della campagna sulle cosiddette «banche armate», dove si descrivono gli importi delle esportazioni di materiale d’armamento dall’Italia nel 2023. Bper banca, inoltre, è coinvolta nell’affaire degli «War bond» emessi da Israele dopo il 7 ottobre 2023. (https://altreconomia.it/le-banche-e-i-titoli-di-guerra-israeliani-il-caso-dellitaliana-bper/)

Se tutto ciò ha indubbiamente creato disagio e preoccupazione tra i soci, l’assemblea del 17 maggio, attenta e partecipata, e il modo in cui è stata condotta, ha dato ottimismo e fiducia. Si è scelto di guardare avanti, senza dimenticare, come augurato da Nicoletta Dentico in una lettera circolata tra i soci prima del voto che “dal giorno dopo l’assemblea i vertici di Banca Etica non mettano la polvere sotto il tappeto”, perché, scrive il direttore di ALTRECONOMIA, “Questa volta non possiamo proprio permettercelo, la “nostra” banca era e resta Banca Etica. La campagna elettorale è finita, non facciamo finire anche i ragionamenti, sono quelli a tenere insieme le persone.”

Cover: Assemblea di Banca Etica, Bologna 17 maggio 2025  – foto dell’autore.

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L’accoglienza dei migranti in Italia

L’accoglienza dei migranti in Italia

di Luca Galli
pubblicato il 13 giugno 2025 da il Mulino

L’attenzione è stata attirata sull’Albania, ma le trasformazioni sono avvenute in Italia: il decreto Cutro ha minato il sistema di accoglienza, trasformando l’immigrazione in una questione di sicurezza nazionale

A maggio, più di 7.000 migranti sono sbarcati sulle coste nazionali, portando l’ammontare complessivo di arrivi via mare, da gennaio 2025, a circa 24 mila unità. Nello stesso periodo, nel centro albanese di Gjadër, il totale di migranti ospitati ha raggiunto le 100 persone, con 32 rimpatri, secondo le più recenti affermazioni del ministro degli Interni (il quale ha parimenti ammesso che più numerosi sono stati i rientri in Italia dall’Albania, avvenuti in 36 casi, quale conseguenza delle decisioni della magistratura). Il tutto in un contesto più ampio, dove alle quasi 160 mila richieste di asilo presentate presso le Commissioni territoriali nel 2024 hanno fatto da contraltare soli 5.414 rimpatri dall’Italia.

Appare dunque evidente come l’attenzione politica e mediatica che in questi mesi ha catalizzato il Protocollo Italia-Albania del 6 novembre 2023, per quanto giustificata dalle serie problematiche di civiltà giuridica che solleva (affrontate anche sulle pagine online di questa rivista), abbia principalmente operato quale strumento di “distrazione di massa”, avvalorando l’idea che i muri si possano effettivamente costruire, che i porti si possano veramente chiudere e che i non-cittadini si possano efficacemente allontanare in massa, essendo questa l’unica e la migliore soluzione perseguibile (in tal senso va anche il cosiddetto Remigration summit tenutosi il 17 maggio in provincia di Varese).

Così facendo, però, si decide di ignorare l’incontrovertibile trasformazione dell’Italia da terra di emigrazione a terra di immigrazione, una delle cui priorità dovrebbe essere quella di confrontarsi in modo compiuto con l’oramai stabile porzione migrante della propria popolazione, nell’ottica di implementare – più che politiche di deterrenza – adeguati percorsi di accoglienza e integrazione che esaltino le potenzialità sociali ed economiche dei non-cittadini.

“Siamo in presenza di un malato in gravi condizioni, per quanto riguarda sia i diritti dei suoi fruitori immediati (i migranti), sia i pubblici interessi sottesi (e, quindi, il benessere dei fruitori indiretti, ossia la collettività tutta)”

Ma qual è l’attuale stato di salute del sistema di accoglienza e integrazione in Italia? Limitando l’attenzione ai meccanismi rivolti ai richiedenti e titolari del diritto d’asilo – per quanto, ed è sempre bene sottolinearlo, rappresentino solo una ridotta percentuale della ben più vasta popolazione di non-cittadini presenti nei confini italiani – siamo in presenza di un malato in gravi condizioni, per quanto riguarda sia i diritti dei suoi fruitori immediati (i migranti stessi), sia i pubblici interessi sottesi (e, quindi, il benessere dei fruitori indiretti, ossia la collettività tutta).

Ed ecco, appunto, la distrazione di massa, laddove l’attenzione di tutti è stata attirata altrove, in Albania, quando le vere trasformazioni sono avvenute in Italia. Il decreto Cutro del 2023 ha infatti riportato le lancette dell’accoglienza al 2018, riproponendo (meglio, amplificando) le scelte compiute con il “decreto sicurezza Salvini”, il cui impatto sulla sorte dei richiedenti asilo presenti nel territorio italiano era stato però oggetto di una significativa risonanza mediatica, rivelatasi principale forza motrice del suo successivo superamento nel 2020.

In estrema sintesi, il modello tradizionale di accoglienza e integrazione in Italia era quello di un meccanismo progressivo. Si andava dall’erogazione delle prime indispensabili cure negli hotspot, per poi passare attraverso destinazioni temporanee quali i Centri di prima accoglienza (Cpa) e i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) governativi, il cui approccio “quantitativo” – in termini sia di capacità ricettive, sia di servizi erogati agli individui – risultava ammissibile alla luce della loro natura di soluzioni di breve periodo.

Obiettivo ultimo era infatti l’avvio dei percorsi di inclusione “qualitativi” in seno alle comunità locali, grazie al Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) gestito a livello comunale.

Oggi, invece, l’accesso al Sai è riservato ai soli titolari del diritto d’asilo, ai minori stranieri non accompagnati e, “possibilmente” (così il decreto Cutro), ai soggetti in condizione di vulnerabilità. Invece, i richiedenti protezione (cioè coloro la cui domanda d’asilo è pendente, davanti all’amministrazione o davanti ai giudici, con tempistiche che possono protrarsi anche per alcuni anni) restano confinati nei Cpa e nei Cas, i quali perdono il ruolo di “aree di transito” per divenire luoghi ordinari di lunga permanenza dei migranti umanitari giunti in Italia o, meglio, “non luoghi” dell’accoglienza.

Si tratta infatti di strutture destinate a ospitare anche centinaia di richiedenti protezione, collocate sovente nelle periferie cittadine, ai margini delle società, in cui l’allontanamento dai percorsi di inclusione non è solo spaziale, ma è confermato da una riduzione dei servizi offerti, limitati a prestazioni minime, essendo stati invece eliminati l’assistenza psicologica, i corsi di lingua italiana e i servizi di orientamento legale e al territorio.

La condizione è ancora peggiore nei Casp, i Centri di accoglienza straordinari provvisori, introdotti ex novo dal decreto Cutro, la cui natura “iper-eccezionale” non solo conferma la “normalizzazione” dei Centri di accoglienza straordinari, ma legittima l’ulteriore riduzione dei servizi al loro interno, con l’eliminazione anche dell’assistenza sociale, per quanto le ricerche condotte dimostrino tutto fuorché la brevità dello stanziamento degli individui in queste strutture.

Va detto che anche precedentemente al decreto Cutro il sistema Sai si era dimostrato incapace di assorbire integralmente la richiesta di accoglienza nazionale, con percentuali elevate di migranti che permanevano nei Cpa e nei Cas, ma ora il cambio di indirizzo è netto: se prima rimaneva viva la tensione legislativa e politica verso il modello dell’accoglienza “qualitativa”, oggi tale proposito viene meno, con l’accoglienza a livello comunale che diventa ipotesi residuale ed eventuale piuttosto che obiettivo ultimo del sistema.

Né può considerarsi notizia positiva l’aumento della spesa giornaliera per migrante all’interno di Cpa, Cas e Casp disposta con il decreto ministeriale del 4 marzo 2024: è infatti un aumento “apparente”, causato essenzialmente dall’adeguamento agli indici Istat delle spese fisse (per esempio, i costi di affitto delle strutture), mentre a ridursi sono le risorse destinate al personale dei centri, laddove l’assistenza agli individui non può che essere un’attività in cui l’apporto di operatori qualificati gioca un ruolo essenziale.

D’altronde, ai pericoli per i diritti dei singoli si assommano anche i rischi per gli interessi pubblici sottesi all’implementazione di corretti meccanismi di accoglienza e inclusione. Oltre al fatto che l’integrazione sociale è un percorso complesso, le cui chance di successo aumentano con l’aumentare della tempestività del suo avvio (così da confliggere con lo “stipamento” in centri isolati da tutto e da tutti), l’approccio tracciato dal decreto Cutro mette a repentaglio l’attuazione di principi quali il corretto utilizzo delle risorse pubbliche, la trasparenza dell’agire delle amministrazioni e l’adeguato coinvolgimento dei vari livelli di governo. Elementi che dovrebbero invece animare l’azione della macchina amministrativa, anche in materia migratoria.

L’avere normalizzato quella che avrebbe dovuto essere una forma di gestione straordinaria dell’accoglienza, infatti, consente ora un più stabile ricorso a procedure emergenziali per la realizzazione e l’affidamento in gestione a soggetti privati dei centri di accoglienza governativa.

In altre parole, se prima del 2023 la costruzione delle strutture e l’appalto dei servizi, in deroga alle procedure previste dal Codice dei contratti pubblici, erano ammessi alla luce della straordinarietà del ricorso a tali centri di accoglienza, avere oggi trasformato i Cas e i Casp in soluzioni stabili, senza però escludere questa facoltà di deroga, ha normalizzato la possibilità per il ministero dell’Interno di aggirare le regole preposte all’efficiente e trasparente spesa delle risorse erariali. Regole da seguirsi ogni qualvolta i soggetti pubblici si rivolgono al mercato per acquistare beni, lavori o servizi.

Ancora, il ruolo preminente ora riconosciuto ai centri governativi opera in danno delle strutture affidate alle amministrazioni comunali, con il Sai che, come detto, perde la sua natura di momento apicale dei percorsi di inclusione, comportando così il sacrificio delle realtà locali – veri contesti in cui si verifica l’integrazione –, le quali non sono più attrici, ma mere destinatarie passive del sistema di accoglienza e delle sue innegabili esternalità negative, laddove mal gestito.

Forte è il messaggio simbolico di questo intervento normativo, che si spinge oltre alla “sola” criminalizzazione del fenomeno migratorio, riconducendolo a una realtà capace di minare l’integrità della nazione, innanzi a cui reagire militarmente

A conclusione del quadro, va poi sottolineato come hotspot, Cpa, Cas e Casp siano stati inseriti nell’elenco delle “opere destinate alla difesa e alla sicurezza nazionale”… assieme a basi navali, caserme, depositi di munizioni e basi missilistiche.

Da un lato, questo amplia ulteriormente l’accentramento della gestione, stante il coinvolgimento anche del ministero della Difesa, oltre che i margini di derogabilità dell’ordinaria disciplina appalti, considerata l’emergenzialità intrinseca a tali categorie di strutture.

Dall’altro, forte è il messaggio simbolico di questo intervento normativo, che si spinge oltre alla “sola” criminalizzazione del fenomeno migratorio, riconducendolo a una realtà capace di minare l’integrità della nazione, innanzi a cui reagire “militarmente”, come in presenza di un aggressore esterno.

Tale scelta diventa così pietra angolare del nuovo approccio all’immigrazione nel nostro Paese, come ci ricordano le parole di Zygmunt Baumann. La politica del “nemico”, infatti, «aiuta a tacitare preventivamente i rimorsi di coscienza che ci assalgono, come spettatori, alla vista dei bersagli sofferenti di quella [stessa] politica […]. Una volta riclassificati dall’opinione pubblica come presunti terroristi, i migranti si ritrovano oltre la sfera della responsabilità morale, irraggiungibili a quest’ultima; e soprattutto, al di fuori dello spazio della compassione e dell’istinto di cura» (cfr. Stranieri alle porte, Laterza, 2016).

Solo in questo modo, d’altronde, pare possibile rivolgere lo sguardo altrove e accettare in silenzio lo svuotamento dell’accoglienza in Italia.

Luca Galli
è ricercatore di Diritto amministrativo nel Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università di Milano. I suoi temi di ricerca riguardano principalmente l’amministrazione condivisa e il diritto amministrativo delle migrazioni.

In copertina: centro-accoglienza per minori non accompagnati (https://www.aibi.it/ita/accoglienza-dei-minori-stranieri-non-accompagnati1800-famiglie-in-italia-pronte-ad-aprire-le-porte-di-casa-ma-ferme-al-palo-perche/)

Parole a capo
Francesca Totaro «Canto d’acqua». Alcune poesie.

Francesca Totaro «Canto d’acqua». Alcune poesie. 

Per Bertoni Editore (novembre 2024), Francesca Totaro ha pubblicato «Canto d’acqua». E’ una silloge che ti prende per mano e, in un turbinio di emozioni, ti invita a con – fluire come un ruscello che, a mano a mano che scende a valle, si riempie d’immagini, di parole che ci aiutano a riprendere un cammino nuovo aperto al futuro. Di seguito, pubblichiamo alcune poesie da questa bella raccolta.

PAROLE

Non c’è molto tempo, contrariamente a quanto credevamo.
Rincasiamo i cani ed i bambini che è ora di tenerci stretti.

Dovremmo anzi inventare parole nuove,
voci mai sgualcite dalla consuetudine.
Parole che sappiano di eterno e di follia.

Perché di questo abbiamo bisogno:
di un sogno da appendere alla parete,
di ombre danzanti e di musiche assolute.

La notte pesante non ci rende tregua,
soli avanziamo a tentoni cercando sollievo.
Teniamoci per mano e intoniamo un canto nuovo,
di quelli che sappiano salvare.

 

*

 

SINE DIE

 

Io non sto nel cuci-cuci del tempo.
Nella spietata arsura del ricordo.
Occorre sentire lo strappo.
E allora resto.
Oltre l’oro della porta.
Nel coro delle cicale.
Nel pispiglio del passero.
Nel drappeggiare del vento.
Rimango.
Ad attendere l’affondo del gatto.
E ad origliare eco di perduti addii.
Sine die.

 

*

 

SENZA PELLE

 

Sono senza pelle
Sono carne viva
Sono la bestia cui hanno dilaniato i cuccioli
Sono la dimora bombardata
Sono l’oceano avvelenato a morte
Sono la sete che non conoscerà l’acqua
Sono il buio che non saprà luce.

Non voglio più denti
Non voglio più mani
Cavatemi gli occhi
Strappatemi le braccia
Mai più riderò
Mai più stringerò
Non avrò figlio da guardare
Non avrò figlia da cullare
Non avrò amore da difendere.

Sono senza pelle
Sono carne viva
Prendetevi tutto
Conservate voi ogni cosa
Io non voglio più
La morte non possiede.

 

*

 

NOSTALGIA

 

Eppure qualcosa mi manca
forse solo la sera
quando nel buio si confondono gli sguardi
forse solo sulla punta delle dita
come nostalgia per l’ultimo frammento che ormai scivola.

Eppure indugiamo prima della dimenticanza
e volgiamo in un istante eterno
qualche sorriso dietro l’ultimo passo.

Poi pacati riponiamo i rimpianti
ed è di nuovo domani.

 

*

 

A J. C.  IL GIORNO DI PENTECOSTE 2024

 

Tu sei nelle lingue del mondo,
nella pietra arsa di parole liete,
nello scorrere lento di tremule preghiere.

Sei nel fruscio della buonanotte di bambino,
nelle mani sussurrate di madre,
nel varco all’infinito ove culmina il canto.

Sei nella terra bianca del nostro sonno quieto.
Sei ovunque noi saremo un giorno,
tra astri e ricordi,
confusi tutti nella parola Amore.

Francesca Totaro (Bologna, 1968), diploma di maturità linguistica, ha vissuto e lavorato a Londra, laureata in Giurisprudenza, lavora in contesti aziendali moderni, aperti e di respiro prevalentemente internazionale e in ambito pubblico. Ospite al Salone del Libro di Torino 2024 e 2025, ha ricevuto menzioni e riconoscimenti in vari concorsi, tra cui il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, il Festival “Poesia Trasimeno” e la prima edizione del Premio Letterario Agartha, classificandosi al secondo posto assoluto.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
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La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 291° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
“L’anniversario” di Andrea Bajani

Vite di carta. L’anniversario di Andrea Bajani

“Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro?” chiede il narratore-figlio del romanzo L’anniversario, che Andrea Bajani ha pubblicato nel gennaio di questo 2025 vincendo pochi mesi dopo lo Strega giovani.

La doppia domanda, così estrapolata, trova in me una risposta pronta, a patto di invertire l’ordine e rispondersi innanzitutto che sì, si può e si deve sottrarsi ai propri genitori. A un certo punto della crescita vanno lasciati. Messi a distanza, in una geografia familiare che garantisca a ognuno autonomia e libertà di movimento. In una geografia degli affetti che allarghi gli spazi e vada al passo con le fasi intanto avanzate nelle vite di tutti.

L’anniversario di cui parla l’incipit del romanzo ha, tuttavia, un valore sinistro: nasce da una sofferenza intrappolata nelle viscere del narratore-figlio che intende festeggiare dieci anni dal suo distacco definitivo dal padre e dalla madre.

Dieci anni dal cambio di numero telefonico, per evitare le rade ma insopportabili conversazioni a distanza che lo connettevano violentemente al clima distopico che aveva subito per tutta la vita nella sua famiglia. Dopo, a lungo, lo percorreva un tremito.

Nulla al confronto con gli spasmi intestinali che lo percorrevano nell’infanzia e poi nella giovinezza durante le sfuriate di suo padre.

La storia è storia del controllo totale esercitato dal padre sui familiari, prima di tutti sulla moglie che si piega a lui fin dalle prime righe del romanzo, grazie alla sua natura di persona “sopraffatta da una forma di timidezza molto prossima alla negazione di sé”.

Quindi sui figli, esposti al radar del controllo paterno in ogni aspetto della giornata. Il cosmo familiare perpetuato in una dinamica concentrazionaria. La violenza, anche quella ordinaria dei silenzi carichi di tensione, che lo ha dominato.

Il figlio che scrive non ha protestato in modo diretto, come la sorella. Ha cercato nella distanza una soluzione che lo salvasse, oppure ha cercato nella mansuetudine un anestetico bastante a portarsi avanti nel tempo.

Ha osservato sempre la madre ma ne scrive solo ora lungamente, parlandole attraverso il filtro del romanzo. Anzi, forgiando il romanzo come interfaccia della propria liberatoria ricostruzione di sé. La scrittura come forma di esilio da se stesso, mentre racconta gli anni vissuti in famiglia e gli anni successivi all’abbandono di ogni rapporto con padre e madre.

Di un romanzo iperletterario come questo, che accompagna il merito della storia con puntuali riflessioni sul metodo che intanto adotta, e sulla forma narrativa, mi chiedo cosa possa aver convinto  la giuria dei giovani a votarlo come vincitore.

Qual è la fascia d’età dei giurati? Hanno tra i sedici e i diciotto anni, frequentano la scuola superiore e forse, come ha ammesso l’unico con cui ho scambiato due parole riguardo al libro, sono rimasti colpiti dalla tematica complessa della violenza incistata nelle dinamiche della famiglia. Colpiti anche dalla durezza della lotta che porta gli adolescenti a darsi una identità, prima di tutto prendendo le distanze dai genitori.

Il che conferisce ai contenuti del libro una sorta di valore paradigmatico su entrambi i piani. Se questo è o può essere il senso del loro voto, hanno riconosciuto alla narrativa di qualità il tentativo di  affrontare il nodo della comunicazione intergenerazionale e della formazione.

Nel libro c’è un di più di profondità introspettiva nella lettura della realtà, c’è la ricerca di un posizionamento salvifico. Ben oltre i dettagli spiccioli con cui la televisione attira l’audience giornaliera, indugiando sul raccapriccio di consumo quando espone fatti violenti di cronaca. Suscitando una lunga onda emotiva che amplifica gli episodi fino a confonderli gli uni negli altri e lasciandoli esposti in superficie.

È la forma, tuttavia, a dare la cifra del libro. E su questo piano non so quanti abbiano potuto cogliere la forza stilistica di Bajani. La capacità di dare espressione al fuoco della sofferenza con parole definitorie rese oggettive dal registro formale della lingua, dalle incursioni in una varietà di lessici specifici, dalla psicologia al sindacalismo e perfino alla medicina.

Il porsi a pezzetti sopra i vetrini del microscopio e acquisire consapevolezza  su come è andata la propria vita familiare, senza un perché definitivo che dia senso al dominio paterno. Solo una totale capacità di descriverlo e di prevederlo.

E poi l’osservazione minuta, fin nelle pieghe più riposte, del comportamento materno. Riconoscendone gli stati d’animo da segnali anche minimi nella voce, nella mimica e nei gesti. Ora, “vista con gli occhiali della scrittura“, appare dolorosamente al figlio come “una donna a perdere”.

Nota bibliografica:

  • Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, 2025

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/famiglia%20felice/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

Decreti legge e voti di fiducia, il governo svuota la democrazia

Decreti legge e voti di fiducia, il governo svuota la democrazia

di
da Collettiva del 25 giugno 2025

 

Decreti legge a rafficadi

Il primo dato allarmante è l’abuso dei decreti legge, strumenti previsti dall’art. 77 della Costituzione per casi “straordinari di necessità e urgenza”, ma che nella prassi sono diventati la norma. Secondo i dati elaborati da Openpolis, oltre la metà delle leggi approvate in questa legislatura è di origine governativa e, nella maggioranza dei casi, si tratta proprio di decreti da convertire in legge entro 60 giorni. In pratica il Parlamento è chiamato ad approvare, sotto scadenza, provvedimenti scritti interamente dall’esecutivo.

Il problema non è solo quantitativo. L’effetto di questa dinamica è che il governo impone i propri tempi, restringendo lo spazio per l’iniziativa parlamentare. Le proposte di legge di deputati e senatori vengono accantonate, mentre l’aula si trasforma in una catena di montaggio per provvedimenti già confezionati.

Il trucco della fiducia

Ma c’è di più. Il meccanismo dei decreti legge viene reso ancor più stringente attraverso il ricorso sistematico alla questione di fiducia, che costringe il Parlamento a votare sì o no a scatola chiusa. Nessuna discussione sugli articoli, nessun voto sugli emendamenti. Solo un sì o un no al testo così com’è. Nel periodo analizzato da Openpolis, su 71 decreti già convertiti in legge, il 95% ha visto l’imposizione del voto di fiducia. Un dato che non ha precedenti nella storia repubblicana recente.

Non si tratta solo di un record numerico. L’uso sistematico della fiducia altera profondamente l’equilibrio tra poteri. Il Parlamento, che dovrebbe controllare e indirizzare l’azione del governo, si trova ridotto a passacarte. Il ricatto implicito è evidente: o approvi il testo così com’è, o il governo cade. E nessuna forza politica, nemmeno quelle di opposizione, è immune da questo gioco, che quando si è al potere diventa comodo quanto pericoloso.

Le riforme che non arrivano

Openpolis sottolinea anche un altro nodo critico: la mancata riforma dei regolamenti parlamentari, che oggi consentono al governo di porre la fiducia anche su maxi-emendamenti che riscrivono interamente il testo di legge. È un’aberrazione, si finge un dibattito in commissione, si fanno lavorare i parlamentari su un testo, salvo poi sostituirlo integralmente in aula, imponendo il voto di fiducia su un nuovo documento mai discusso.

Le riforme necessarie sono note da anni: limitare per legge i casi in cui è possibile porre la fiducia; restringere l’uso dei decreti legge alle vere emergenze; restituire centralità alle commissioni; garantire tempi certi per l’esame delle proposte parlamentari. Eppure, nonostante i proclami, nulla si muove. Perché chi ha il potere di cambiare le regole è lo stesso che oggi le sfrutta.

Un bilancio preoccupante

Il rapporto mette anche in luce che il governo Meloni è quello con il più alto tasso di decreti legge per ogni mese di attività rispetto alle tre legislature precedenti. E anche per numero di questioni di fiducia, si è già superato il primo governo Conte in appena metà tempo.

Questa centralizzazione del potere esecutivo ha un prezzo alto: l’indebolimento strutturale del ruolo del Parlamento, la compressione delle minoranze, la perdita di trasparenza nel processo legislativo. A essere penalizzati sono soprattutto i cittadini, che vedono ridotto il pluralismo e svuotata la funzione rappresentativa delle Camere.

Il potere va sempre bilanciato

La democrazia vive di contrappesi. Nessun potere, nemmeno quello legittimamente eletto, può agire senza controllo. Il Parlamento è nato per questo: per rappresentare, discutere, modificare, approvare. Quando questa funzione viene compressa, svuotata, aggirata, non è solo una procedura che salta. È l’intero edificio democratico a scricchiolare.

L’allarme lanciato da Openpolis non va archiviato come un esercizio accademico. È un segnale politico forte. A chi siede in Parlamento, a chi osserva da fuori, a chi ogni giorno si confronta con una democrazia che si restringe, poco a poco, nel silenzio delle aule.

 

Cover:  Senato 2016, voto di fiducia al governo Gentiloni – flickr.com -Copyright Tiberio Barchielli

 

Rendere obbligatori i test alternativi all’uso di animali, una petizione al Parlamento Europeo.
Intervista a Massimo Terrile

Rendere obbligatori i test alternativi all’uso di animali, una petizione al Parlamento Europeo. Intervista a Massimo Terrile


Nella primavera del 2024 è stato dato l’avvio ad un Comitato promotore per l’ICE ‘USE NAMs NOT ANIMALS’, coinvolgendo persone dedite alla causa antispecista e ovviamente antivivisezionista come la biologa Susanna Penco. All’ICE  è stata poi preferita una petizione al Parlamento Europeo, inviata ad aprile 2024 tramite il
“Portale delle petizioni al P.E.”, con richiesta di interessarne la Commissione Europea. La petizione fu però accettata troppo tardi, a ottobre 2024, dopo la costituzione del nuovo P.E. e quando la Commissione Europea era ormai sciolta. Per questi motivi – sebbene accettata – la petizione fu archiviata e inviata solo alle commissioni del P.E. competenti, sottraendola così alla pubblicazione sul portale e rendendo impossibile l’accesso ai possibili ‘like’ dei cittadini europei. Sulla base della risposta (incoraggiante) ricevuta – sebbene relativa alle posizioni in merito delle precedenti due istituzioni – le associazioni hanno pensato di proporne un’altra, più precisa e più documentata. Prendendo atto che i metodi alternativi validati dalla UE e dall’OCSE non sono considerati obbligatori nei relativi regolamenti UE, si è ora voluto evidenziare che anche quelli validati nella UE dall’ECVAM di Ispra (centro comune europeo per la validazione dei metodi alternativi, che peraltro costa molti soldi pubblici) non sono inseriti nei rispettivi regolamenti UE per i test di tossicità, ma archiviati in attesa dell’approvazione dell’OCSE (38 paesi), causando in tal modo l’utilizzo, evitabile, di migliaia di animali non umani. Ovviamente, tutto questo, per ragioni commerciali, dato che i prodotti testati utilizzando metodi approvati dall’OCSE, dopo anni, possono essere venduti anche in tali paesi, e non solo nella UE. A questo il Comitato promotore ha aggiunto la richiesta – precedentemente limitata all’inserimento nelle etichettature dei prodotti della dicitura ‘testato solo su animali’ – che sia indicato se le sostanze chimiche usate siano o meno testate anche clinicamente (sugli umani), cosa che avviene solo per i farmaci (ma non nota al pubblico) per poterne informare i cittadini e consentire loro una maggior possibilità di scelta in relazione alle proprie convinzioni etiche e a salvaguardia della propria salute. Sulla nuova petizione al Parlamento Europeo intitolata TUTELA DEGLI ANIMALI, DELLA SALUTE E DELLA LIBERTA’ DI COSCIENZA, abbiamo intervistato Massimo Terrile, attivista, membro del Movimento Antispecista e coordinatore del Comitato promotore della Petizione presso il Parlamento Europeo.

Da dove nasce questa proposta di petizione al Parlamento Europeo?

L’iniziativa di predisporre ed inviare la Petizione ‘TUTELA DEGLI ANIMALI, DELLA SALUTE E DELLA LIBERTA’ DI COSCIENZA’ al Parlamento europeo il 24 maggio 2025, tramite il Portale delle petizioni al P.E., anziché promuovere un’I.C.E. (Iniziativa dei Cittadini Europei) destinata quindi solo alla Commissione europea, procedimento molto più complesso, lungo e costoso (richiede almeno 1 milione di firme tra tutti i Paesi aderenti alla UE e non coinvolge direttamente i membri del P.E.), nasce da un gruppo di cittadini italiani, costituitosi come ‘Comitato per le petizioni al Parlamento europeo’. Questo comprendente artisti, biologi, filosofi, giuristi, giornalisti, medici, scrittori, veterinari, ecc., impegnati da tempo contro quella che veniva chiamata ‘vivisezione’. Questa è ora detta ‘sperimentazione animale’ (termine introdotto dalla direttiva CE 2010/63 sulla protezione degli animali usati a scopo scientifico). Il testo della Petizione, per ora non ancora pubblicato, in sintesi, su tale Portale, in attesa della dichiarazione di ‘ricevibilità’ da parte della ‘commissione per le petizioni’ del P.E. che deve verificarne i requisiti per l’ammissibilità, è disponibile in versione integrale sul sito di alcune associazioni, quali il Movimento Antispecista (v. Petizioni) e SOS Gaia.

Vale tuttavia soffermarsi sul termine ‘vivisezione’, che trae origini dai crudeli esperimenti effettuati dal vivo, anche pubblici, senza anestesia, effettuati nei secoli passati (dal ‘500 al ‘700 circa), per studiare e dimostrare la biologia degli animali non umani. Lo studio di quella umana si effettuava  di nascosto, sui cadaveri, fino a quando è stata legalizzata; in Italia è avvenuto nel 1961.

Dopo la suddetta direttiva, dal 2010 in poi, si sente spesso affermare che intervenire dal vivo su un animale non umano, senza anestesia, non sia più permesso. Questo non è vero. L’art.14 delle direttiva stabilisce infatti le relative eccezioni, ad esempio ove l’anestesia sia ‘incompatibile con lo scopo dell’esperimento’. Inoltre, l’Allegato VIII (VII nel Dlgs n. 26/2014), in particolare, elenca  gli esperimenti (ora detti ‘procedure’), autorizzabili dietro giustificazione col bilancio danni/benefici (naturalmente ipotizzati dal proponente, senza sentire il parere dei ‘diretti interessati’), che possono causare sofferenze classificate anche come ‘gravi’. Ad esempio: gli interventi chirurgici o biologici invasivi (es.  l’induzione di tumori), l’inalazione forzata di agenti chimici in cui la morte è il punto finale, la riproduzione di animali con alterazioni genetiche suscettibili di generare distrofie o nevriti croniche, l’irradiazione o chemioterapia in dose letale, l’uso di gabbie metaboliche con limitazione grave del movimento per lungo periodo, le scosse elettriche, l’isolamento completo di specie socievoli per lunghi periodi, lo stress da immobilizzazione per indurre ulcere gastriche o insufficienze cardiache, o la generazione di anticorpi monoclonali tramite la provocazione di ascessi, il nuoto forzato o altri esercizi fino allo sfinimento, gli xenotrapianti, la somministrazione di sostanze stupefacenti (così dette d’abuso), ecc.

Gli esperimenti ‘in vivo’, senza anestesia, sono quindi ancora autorizzabili sia a scopo di ricerca, sia di prove tossicologiche richieste dalle normative Ue, e non si può dire che molti di questi non siano assimilabili a vere e proprie torture o ‘vivisezioni’. Usiamo oggi tuttavia il termine ‘sperimentazione animale’ (s.a.) sia per adeguarci a tale dizione della direttiva, sia in quanto il termine ‘vivisezionista’ è stato considerato un reato (v. Corte di Cassazione, 14694/2016), essendo inteso come un insulto, passibile di querela. Il nuovo termine, tuttavia, è in parte corretto, almeno dal lato scientifico, in quanto non tutti gli esperimenti oggi autorizzabili sono assimilabili a vere e proprie ‘vivisezioni’, ma anche in quanto la nuova dizione, meno emotivamente impattante sulla sensibilità umana, consente di non mettere sullo stesso piano chi oggi effettua esperimenti ‘in vivo’ autorizzati, rispetto a chi, nel passato, operava senza autorizzazione e senza alcun controllo. Benché gli effetti possano essere simili.

A che punto si trova l’Unione Europea sul tema della vivisezione e della sperimentazione animale? Per cosa vengono ancora usate?

Nel quadro internazionale, la Ue si trova in una posizione avanzata, dal lato legislativo,  per quanto riguarda la s.a. grazie alla suddetta direttiva 2010/63, che non trova riscontro in altre legislazioni extra europee. Questa ha posto dei limiti (sebbene contenuti) a tale pratica, stabilendo il principio che gli esperimenti devono essere prima approvati dalle rispettive autorità sanitarie nazionali (leggi Ministeri della salute) in base ai parametri posti da tale direttiva. La precedente, la 86/609 richiedeva infatti solo la comunicazione degli esperimenti in corso, non specificamente condizionati a tali principi. Per contro, la direttiva 2010/63 vieta agli Stati membri di adottare una protezione ‘più estensiva’ degli animali (art. 2), ovviamente allo scopo di livellare la concorrenza tra gli Stati membri, mentre la precedente la auspicava. Il che ha sollevato molte critiche, non potendosi mettere sullo stesso piano etica ed interessi economici. Infine, la direttiva demanda alla legislazione specifica (i ‘regolamenti’ Ue) le prove da effettuarsi per la sperimentazione così detta ‘regolatoria’, ossia quelle approvate  dall’OCSE, di cui la Ue fa parte, anche al fine di poter vendere tali prodotti nei 38 Paesi ad essa aderenti.

Nella Ue, peraltro, esiste da tempo l’ECVAM a Ispra, quale Centro Comune di Validazione dei Metodi Alternativi, che invia periodicamente all’OCSE, per la ri-convalida, i nuovi metodi scoperti nella Ue, pur dovendo averne eseguito la validazione nell’osservanza delle apposite Linee guida dell’OCSE stessa. La Commissione europea però non li inserisce nei regolamenti fino all’approvazione dell’OCSE, che richiede circa 2 anni, impedendo così agli Stati membri di utilizzarli subito. Peraltro, non risulta che la legislazione Ue in materia obblighi la C.E. a seguire tale procedura, bensì solo ‘a tener conto’ degli aspetti internazionali al riguardo. A ciò si aggiunge il ritardo nella pubblicazione nei regolamenti Ue di tali metodi da parte della C.E. , che richiede altri 2 o 3 anni. Per cui un nuovo metodo alternativo viene recepito nei regolamenti Ue anche tre o quattro anni dopo essere stato scoperto e validato nella Ue. Inoltre, nei regolamenti Ue tali metodi non sono ancora stati resi obbligatori, lasciando spesso allo sperimentatore la scelta del metodo ‘in vivo’ o ‘in vitro’, se presenti entrambi per una prova specifica (detta end-point). Almeno 1,4 milioni di animali non umani (v. rapporto ECVAM 2025) vengono pertanto ‘sacrificati’ nella sola UE, ogni anno, per le prove tossicologiche regolatorie, mentre moltissimi potrebbero essere salvati se la UE consentisse l’uso dei metodi validati dall’ECVAM nel mercato interno, prima della ri-convalida dell’OCSE.

A latere della direttiva 2010/63, esistono pertanto nella Ue diversi regolamenti (obbligatori per i Paesi membri) per effettuare i test ‘preclinici’ sugli animali non umani e quelli ‘clinici’ sugli umani. Negli USA, ad esempio, esistono leggi specifiche per entrambi tali tipi di test, sotto il controllo di due diverse istituzioni, l’FDA per farmaci e alimenti,  e l’EPA per le sostanze chimiche, ma non risulta esista una normativa assimilabile alla direttiva 2010/63 per la protezione degli animali usati a scopi scientifici che imponga dei limiti agli esperimenti.

Le finalità per le quali tali prove (o test) possono essere effettuate, nella Ue, riguardano sia la ricerca così detta ‘di base’ a puro scopo scientifico investigativo, sia quella ‘traslazionale’ (prove di efficacia verso gli umani) sia quella ‘regolatoria’ o ‘applicata’ riguardante test di tossicità previsti di routine per nuovi farmaci e sostanze chimiche (v. regolamento REACH) costituiti da 70 e più prove  su mammiferi, pesci e molluschi.

In particolare, per i farmaci, la sperimentazione ‘preclinica’ è obbligatoria prima di passare a sperimentarli (davvero) sugli umani nelle 4 fasi della sperimentazione ‘clinica’ (volontari a titolo gratuito ‘rimborsati dalle spese’, ammalati ospedalizzati e pazienti ‘consenzienti’ delle ASL, e infine, in quella commerciale, sui pazienti, quali ‘consumatori’, dove si scopre che i test effettuati (su centinaia di ‘volontari’) spesso non bastano a escludere gravi effetti collaterali.

Per le sostanze chimiche, è invece obbligatoria solo la fase preclinica sugli animali non umani (anche per gli ingredienti riguardanti i cosmetici, nonostante quanto si dica), con gravi rischi poi per gli umani nell’utilizzo di tali prodotti, sia per evitare stragi (anche) ecologiche all’atto della commercializzazione, sia infine in quanto non si ha il coraggio di renderne obbligatori i test sugli umani. Non essendo tali prodotti utili a guarire dalle malattie,  ne manca infatti la giustificazione ‘etica’, senza contare che è molto più difficile trovare, come per i farmaci, i volontari. Molti di questi test prevedono la morte dei soggetti, usati a centinaia di migliaia, come l’LD50 o l’LC50, nei quali la tossicità è misurata dal superamento di una determinata soglia di animali morti (50%). Ovviamente senza possibilità di ricorrere ad anestesia.

La ragione posta dalle autorità scientifiche della UE e dell’OCSE per i test ‘in vivo’ è che non tutte le prove per testare tali prodotti possono essere effettuate su parti del corpo esposte, come l’epidermide. Alcune (tossicologia acuta, a prove ripetute, tossicità genetica e riproduttiva, farmacocinetica, ecc.), dette ‘a livello sistemico’, richiedono infatti che il test sia effettuato su un organismo animale integro e sano, senza interferenze con altre sostanze (come gli analgesici), al fine di scoprire i ‘meccanismi di azione biologica’ per i quali l’organismo reagisce a determinate  sostanze, ancora molto poco noti.

Tali informazioni non sono peraltro riportate sulle confezioni di farmaci, prodotti alimentari o prodotti per uso domestico che contengono tali sostanze, impedendo ai cittadini di mettere in atto le proprie scelte etiche e salutistiche, anche quali consumatori. Una tale consapevolezza può infatti solo provenire dal riportare sulle confezioni di tutti tali prodotti l’informazione di come sono stati testati, sia dal lato clinico (umano) sia preclinico (non umano), essendo il diritto alla salute e all’informazione garantito dai Trattati dell’Unione (Trattato sul Funzionamento dell’Unione e Carta dei diritti fondamentali).

Spesso, sul tema della sperimentazione animale, c’è chi afferma ancora che è eticamente ammissibile a condizione che non avvengano maltrattamenti. Siamo sicuri che è così ben delineato il confine tra “maltrattamento” e “sperimentazione animale”? Se la sperimentazione animale implica l’uso di un corpo animale e la sua medicalizzazione, può essere considerata diversa da una condizione di maltrattamento? E’ veramente etico usare gli animali per fini puramente umani?

Le gerarchie delle leggi, dal lato giuridico, sono tali per cui una ‘legge speciale’ ha la prevalenza su una ‘legge generale’, e le ‘leggi speciali’ non possono essere in conflitto tra loro in merito al campo di applicazione. Per cui, direttive e regolamenti Ue, essendo normative comunitarie ‘speciali’, sono prioritarie, anche a livello costituzionale (v. art. 117 della Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”). Di conseguenza una legge nazionale, come la 189/2004 così detta ‘sui maltrattamenti’ che istituisce il Titolo IX bis del c. penale, non è applicabile, salvo dichiarazione esplicita, ad altre leggi ‘speciali’ nazionali, né a quelle ‘speciali’ comunitarie (es. caccia, macellazione, allevamenti, trasporti, sperimentazione animale, ecc.). Il rispetto degli animali non umani, nonostante l’art. 13 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (T.F.U.) che invita a tener conto degli animali quali esseri senzienti, viene quindi ancora negato (e lo si riscontra paradossalmente anche nelle encicliche papali, v. Papa Francesco in ‘Laudato sì …’ : la s.a. è giustificabile se contribuisce a salvare vite umane), in funzione dell’umano, perpetuando il mito antropocentrico della filosofia occidentale.

Perché ancora oggi la sperimentazione animale trova ancora così tanti sostenitori tra politici e scienziati, nonostante l’avvento dei metodi sostitutivi human-based? Cosa è che fa propendere ancora per l’uso della sperimentazione animale piuttosto che per i metodi alternativi? E’ una questione economica?

Da alcuni anni si stanno scoprendo sempre più nuovi approcci metodologici (detti NAMs) che possono condurre a simulare le reazioni di organi animali umani e non umani alle sostanze farmacologiche e chimiche, utilizzando parti di organi fatte sviluppare da cellule staminali o da prelievi ex-vivo inseriti su ‘chips’, o mini organi sviluppati da colture cellulari, detti ‘organoidi’. Negli USA ad esempio è stata modificata a gennaio 2023 la legge per le prove precliniche sui farmaci, rinominate ‘non cliniche’, ammettendo il ricorso a tali nuove metodologie, sebbene manchino le diposizioni per caratterizzarle e validarle, lasciato per ora alla valutazione della FDA. Ad oggi, tali metodi per sostituire le prove ‘in vivo’ a livello ‘sistemico’ sono quindi ancora allo stadio sperimentale.

E’ però fondamentale, per garantire il successo delle nuove metodologie, superare un’ultima barriera. Ossia eliminare il ‘paradosso della validazione’ del metodo alternativo stesso. Oggi l’OCSE, nelle Linee guida emesse per regolamentare la validazione dei metodi alternativi alla s.a., stabilisce che questi, per essere convalidati (dalla stessa) e quindi applicati nelle prove ‘regolatorie’ a livello internazionale, devono essere testati ‘sugli animali’ e dare gli stessi risultati delle prove effettuate ‘in vivo’ (o verso i test precedenti) su altri ceppi di animali. pur non essendo vietate le prove di confronto sugli umani, almeno in base al regolamento Ue 2014/536 sui test clinici. In tal modo, è impedito di verificare l’oggetto stesso della ricerca: la validità di tali metodi a fini umani. Occorre quindi, per superare tale ‘paradosso’, che i test dei nuovi metodi siano effettuati (anche) clinicamente, sugli umani. Si dovrebbero quindi studiare metodi human-based separatamente da quelli animal-based, orientandosi a metodi specie-specifici, così come la nuova medicina di genere si orienta a testare e produrre farmaci per sessi diversi, bambini, anziani, donne in gravidanza, e gruppi etnici. Per le popolazioni di colore ad esempio è noto che alcune tipologie di farmaci non sono interscambiabili con quelle per i bianchi. La ‘propensione’ all’uso degli animali non umani è quindi per ora imposta dalle normative internazionali e comunitarie causa l’assenza di metodi sostitutivi (ossia né ‘in vivo’ né ‘in vitro’) validi per le prove a carattere sistemico. E’ quindi sia una questione scientifica e normativa, che coinvolge anche aspetti economici.

Perché oggi la ricerca scientifica si ostina ad utilizzare maggiormente i test su animali per farmaci umani, quando l’essere umano è completamente diverso – per esempio – dai murini? E’ una questione economica?

La scienza ha ormai riconosciuto che le prove effettuate sugli animali non umani, a fini umani, sono inutili, in quanto le differenze biologiche tra le due categorie sono profonde (es. differenza di DNA, metaboliche, epigenetica, ecc.) e l’alta variabilità dei risultati delle prove effettuate sui non umani impedisce di considerare attendibili i risultati, rappresentando pertanto un inutile dispiego di tempi e risorse, a parte l’aspetto etico. Per di più tali prove non garantiscono i volontari umani dai rischi nelle prove cliniche.  Tuttavia, fino a quando le nuove metodologie non saranno ‘validate’ come sopra descritto, e non solo per alcune prove specifiche, le attuali normative non potranno essere modificate, salvo eccezioni. Peraltro, le prove precliniche dei farmaci e delle sostanze chimiche servono, eccome, anche a fini veterinari. A tali fini non è peraltro applicabile, per disposizione espressa, la direttiva 2010/63 e infatti il relativo regolamento Ue per le prove a scopo veterinario si limita da ‘auspicare’ che vengano utilizzati i metodi alternativi.

I metodi sostitutivi human-based sono oggi certificati ed applicati in alcuni ambiti di ricerca? Se sì, che riscontri abbiamo in termini di efficacia e precisione? 

Non mi risulta esistano metodi sostitutivi ‘human-based’ validati a fini regolatori, salvo per alcuni specifici test (es. OCSE 458, Androgen Receptor TransActivation Assay using the stably transfected human AR-EcoScreen™ cell line, o OCSE 431, Skin corrosion). Essendo questi validati, si suppone sia  stata dimostrata la loro efficacia. Purtroppo non sono qui disponibili i risultati.

Quale esiti potrebbe avere la vostra petizione al Parlamento Europeo, qualora dovesse  avere consenso?

Nel presente, è stato ritenuto opportuno concentrarsi, per ridurre sofferenze e morti, sia umane sia non umane, sulla necessità che i metodi alternativi già validati (dalla UE e/o dall’OCSE) relativi  alle prove in vitro o con nuovi altri metodi senza uso di animali non umani (NAMs), siano sempre realmente applicati, ossia siano resi ‘obbligatori’, ovvero autorizzati nella Ue, a fini del mercato interno, ove validati solo dall’ECVAM, tenuto conto che per le prove a livello sistemico non esistono ancora metodi alternativi. Inoltre, che siano fortemente promosse ad ogni livello le nuove metodologie (NAMs), e che siano riportati, nelle confezioni dei prodotti farmaceutici e chimici, i metodi con i quali sono stati testati, sia a livello preclinico, sia clinico.

Gli scopi cui si mira con le richieste effettuate (2) sono quindi essenzialmente:

  1. Chiedere ai Membri del P.E. di impegnare la Commissione europea a proporre le modifiche legislative per soddisfare le richieste effettuate nella Petizione;
  2. Informare i cittadini europei dei rischi per la loro salute dovuti all’inefficacia degli attuali test regolatori sugli animali non umani per la sicurezza di farmaci e sostanze chimiche, e del loro diritto ad essere portati a conoscenza dei metodi di test utilizzati per la commercializzazione di tali prodotti, onde poter esercitare il loro diritto, anche quali consumatori, ad effettuare le proprie scelte etiche e salutistiche.

Nota 2

  1. a) Includere, nei regolamenti riguardanti le prove precliniche di tossicità ed efficacia per farmaci ad uso umano o veterinario, prodotti biosimilari, dispositivi sanitari, cosmetici e sostanze chimiche prodotti nella UE, l’obbligo dell’utilizzo dei metodi alternativi in vitro o senza l’uso di animali accettati dall’OCSE o ritenuti scientificamente validi dalla Ue.
  1. b) Includere, nei regolamenti riguardanti le prove precliniche di tossicità ed efficacia per farmaci ad uso umano o veterinario, prodotti biosimilari, dispositivi sanitari, cosmetici e sostanze chimiche prodotti nella UE, i metodi alternativi in vitro o senza uso di animali validati nell’Unione e trasmessi all’OCSE per accettazione, consentendone l’utilizzo in alternativa ai metodi in vivo ai fini della commercializzazione nell’Unione.
  1. c) Promuovere fortemente ad ogni livello la ricerca di nuovi approcci metodologici in vitro e/o senza uso di animali, mirando alla qualificazione e standardizzazione di metodi computazionali, tecnologie ‘organo-su-chip’, organoidi e similari basate sulla specifica specie biologica e favorire l’utilizzo a tali fini di materiali provenienti dalla donazione di corpi umani.
  1. d) Includere, nei regolamenti riguardanti l’etichettatura dei prodotti di cui ai punti precedenti, ove commercializzati nella Ue, l’obbligo di riportare sulle confezioni le diciture: ‘sostanza testata su animali /non testata su animali’ e ‘sostanza testate clinicamente / non testata clinicamente’, per ogni componente, a seconda delle prove effettuate.

 

Associazioni firmatarie della petizione

-A.mici Randagi Odv, Enrica D. Miraglia, via Nicoloni 2, 21100 Varese (VA), Italia.
-A.N.T.A. Massa Carrara Odv, Cristina Bruschi, Via Aurelia Ovest, 182 , Massa (MS), Italia.
-AIDAA Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente, Lorenzo Croce, via Roma 62, 20006 Pregnana Milanese (MI), Italia.
– Animal Law Italia ETS, Alessandro Ricciuti, via Rocco Dicillo 1, 70131 Bari (BA), Italia.
-Animal Friends of Croatia, Luka Oman, Jurisiceva 25, 10 000 Zagreb, Croatia.
-Animal Liberation Odv, Lilia Casali, via Polese 34, 40127, Bologna (BO), Italia.
-Asociación Defensa Derechos Animal – ADDA, Carmen Méndez, c/ Bailén, 164 bajos, 08013 Barcelona, Spagna.
-Associazione Gabbie Vuote Odv Firenze, Mariangela Corrieri, via Giorgio Pasquali 26, 50135 Firenze (FI), Italia.
-Associazione OSA (Oltre la Sperimentazione Animale) ETS, Maria Concetta Digiacomo, via Piero Martinetti 28, 20147 Milano (MI), Italia.
-Associazione Vegan Animalista APS, Franco Libero Manco, via Cesena 14, 00182 Roma (RM), Italia.
-Comitato Europeo Difesa Animali Odv, Roberto Tomasi, via Pietro e Maurizio Monti 53, 22034 Brunate (CO), Italia.
-Doctors Against Animal Experiments, Corina Gericke, Lustheide 85, 51427, Bergish Gladbach, Germany.
-Gr. I. AYUSYA, Eugenia Silvia Rebecchi, via D. Cuneo 682, 16140 San Colombano Certenoli (GE), Italia.
-LAC Lega per l’Abolizione della Caccia, Raimondo Silveri, via Ernesto Murolo 11, 00145 Roma (RM), Italia.
-LAV Lega Anti Vivisezione, Gianluca Felicetti, viale Regina Margherita 177, 00198 Roma (RM), Italia.
-LEAL Lega Antivivisezionista ETS, Gian Marco Prampolini, via De Andreis 13, 20137 Milano (MI), Italia.
-L.I.D.A. Sezione Firenze, Stefano Corbizi Fattori, via Empolese 37B, Scandicci (FI),Italia.
-LIMAV Italia Odv, Maurilio Calleri, via Lamarmora 162, 18038 Sanremo (IM), Italia.
-Movimento Antispecista, Valerio Pocar, via Principale 11, 20856, Correzzana (MB) Italia.
-OIPA Italia Odv, Massimo Comparotto, via Gian Battista Brocchi 11, 20131 Milano (MI), Italia.
-Partito Animalista Europeo, Stefano Fuccelli, Via Casole d’Elsa 11 – 00139 Roma (RM), Italia.
-S.O.S. GAIA, Rosalba Nattero, Via Principi d’Acaja 2, 10143 Torino (TO), Italia.

Associazioni firmatarie dopo il 24 maggio 2025

-Tierschutz Austria (Wiener Tierschutzverein), Madeleine Petrovic, 2331 Vösendorf, Triester Straβe 8, Austria.
-Centro Ricerca Cancro Senza Sperimentazione Animale, Maria Grazia Barbieri, via San Martino 2/14, 16131 Genova (GE), Italia.
-Irish Antivivisection Society, Catherine Morrow, PO Box 13713 , Dublin 14, Ireland.
-LNDC Animal Protection, Piera Rosati, Via Adolfo Wildt 19/5, 20131 Milano (MI),Italia.
-Progetto No-Macello, Maria Grazia Barbieri, via Rino Mandoli 115/13, 16139 Genova (GE), Italia.

Legenda sigle usate:

EPA: Environmental Protection Agency (USA)

FDA: U.S. Food and Drug Administration (USA)

OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (38 Paesi)

ICH: International Council for Harmonization of Technical Requirements for Pharmaceuticals for Human Use.

REACH: Registration, Evaluation and Authorization of Chemicals (regolamento CE 1907/2006 e successivi).

In copertina: Foto di LAV – sperimentazione-su-macachi

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

 

Povera Italia!

Povera Italia!

Il rapporto Caritas 2024 sulla povertà in Italia è un documento completo e pieno di tristi sorprese (ne consiglio la lettura integrale al seguente link: rapporto_poverta_2024 )

Leggere tutti i dati e le tabelle lascia un senso di stupore e di  sconcerto. È come scoprire un’altra Italia, un’Italia esclusa da tutto, un’Italia completamente diversa, senza nessun legame con l’Italia ufficiale, con quella della cronaca politica quotidiana, ma anche quella dell’informazione mainstream: L’Isola dei famosi, Delitto di Garlasco eccetera.

Non sarebbe questo un fenomeno nuovo: da sempre “il Paese reale”, i suoi problemi, le sue sofferenze, vengono occultati o snobbati dal “Paese ufficiale”, sommersi dalla chiacchiera televisiva e dei social media.
E mentre mezza Italia arranca, e milioni di cittadini (anche se lavoratori) sperimentano una povertà senza futuro, l’Italia ufficiale ha tutte altre priorità da inseguire.

Oggi però la spaccatura tra le due Italie si è allargata a dismisura.
L’Italia assomiglia sempre più a una mela spaccata in due e se hai la sfortuna di stare nella mela sbagliata, non hai nessuna possibilità di saltare nella mezza mela buona. Sei povero, e domattina sarai ancora più povero. Puoi solo coltivare la speranza in una “crepa di salvezza”, un miracolo, un’Italia di tutti.

Cover: Foto di Claudia da Pixabay

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Il rifiuto di combattere è il vero patriottismo

Il rifiuto di combattere è il vero patriottismo

La guerra la dichiarano coloro che non la combattono, e la combattono coloro che non la dichiarano. Quasi sempre, i figli dei poveri. Con un corollario magnifico: nelle guerre contemporanee, nove vittime su dieci non stanno combattendo. Sono civili, bombardati, bruciati o uccisi a sangue freddo nelle proprie abitazioni. A questa costante si aggiunge (ma anche questa non è una novità) il valoroso esempio dei potenti: dall’ayatollah capo che si dilegua tra rifugi e stati salvacondotto mentre la sua nazione muore sotto le bombe, al primo ministro israeliano che cita il rinvio del matrimonio del figlio come disagio della guerra, mentre centinaia di testimoni (pediatri d’emergenza soprattutto) che ritornano da Gaza raccontano l’orrore delle migliaia di famiglie arabe, bambini compresi, affamate e massacrate dal suo esercito. Questa merda è la guerra. Eppure la specie umana adora la guerra. Se ne allontana per brevi periodi, per poi lasciarsene fatalmente sedurre. Lontanissimi da Kant, vicinissimi a Freud: una pulsione di morte.

L’ impotenza nostra, mia, tua, dell’ uomo della strada di fronte agli eventi tragici, inenarrabili ormai, di queste settimane, è dannatamente frustrante: più di manifestare in piazza contro gli ayatollah, contro i rabbini assassini e contro un puttaniere palazzinaro divenuto Presidente (vi ricorda qualcosa?), di firmare appelli, di gridare il dissenso, di dare denaro a Emergency o a MSF, non sai cosa fare. Se dovessi imbarcarti su una nave per provare a portare cibo in Palestina, verresti bloccato e rimandato indietro, e nessun cibo sarebbe comunque arrivato ai disperati. Eppure, questo senso di inutilità del tuo agire è strettamente legato al tuo (attuale) e confortevole ruolo: quello di spettatore. Inorridito, ma spettatore. Qualora da spettatore dovessi diventare attore o bersaglio: qualora l’incendio che divampa attorno, sulle colline, portato dal vento arrivasse a casa tua, allora ti troveresti nella condizione di dover fare qualcosa. Non in mio nome è una frasetta bella ma comoda, finché ci fai un post seduto in poltrona. Quando il Potere, la Nazione, la Patria arriva a casa tua e ti ordina di combattere anche se non sei un soldato, è allora che dissentire, obiettare diventa pericoloso. E tu non sei abituato a correre un rischio. Noi non siamo abituati a rischiare sul serio. Qualcosa, intendo, che metta a repentaglio la permanenza nella nostra casa, nella nostra città, che potrebbe obbligarci a lasciare il nostro lavoro e la nostra nazione, a varcare le porte di una prigione, ad abbandonare le relazioni con le persone care, a salutare la nostra vecchia vita. A dire addio a tutto.

In alternativa, puoi obbedire agli ordini. Se la tua Nazione ti ordina di andare in guerra per difenderla, o perchè semplicemente è stata dichiarata una guerra e la tua nazione partecipa, puoi scegliere di farlosempre una scelta: ti diranno che è un dovere verso la Patria). In quel caso, rischi di dover ammazzare degli sconosciuti che non ti hanno fatto niente perchè la tua nazione ha deciso che sono dei nemici (se poi sono militari dovrai farlo per non farti ammazzare a tua volta). Per riuscire a sopportare questa dimensione contronaturale in cui diventi un assassino autorizzato dallo Stato, dovrai disumanizzarle, le persone. Come se fossero una infestazione di blatte. A me persuade molto l’esempio del nido di vespe in casa, perché mi sono simpatiche. All’inizio potrà anche dispiacere di doverle sterminare, ma se non lo fai loro ti pungeranno e pungeranno i tuoi figli, quindi devi farlo, e lo fai. Dovrai azzerare in loro (gli ebrei, i curdi, i palestinesi, gli armeni, gli iraniani, rendiamoci conto) ogni traccia di umanità, e quindi progressivamente azzerarla in te. Fino a che qualcuno che ha fatto lo stesso percorso dall’altra parte, ma inglobando molto più odio di te, non ti farà saltare in aria. Potrà succedere che ti faccia esplodere mentre guardi una vetrina lungo una strada, ad un concerto, mentre mangi un gelato coi tuoi figli. Nulla di personale, proprio perchè non sei una persona, per il tuo omicida suicida.

Il male estremo è banale. Lo ha mostrato mirabilmente Hannah Arendt nel descrivere la figura di Adolf Eichmann, uno dei funzionari delle SS che prima deportarono, poi mandarono a morire più ebrei di ogni altro nel periodo nazista. Eichmann (peraltro affascinato, come molti psicotici, dalla civiltà che tentò di eliminare) non si pentì mai, perchè riteneva non vi fosse nulla di cui pentirsi. Eseguì in modo zelante gli ordini che gli vennero impartiti. Ecco, uno di questi giorni ti potrebbe essere ordinato di essere un certo tipo di individuo: non voglio dire esattamente quel tipo di individuo, ma uno che esegua degli ordini perchè glielo chiede la sua Patria. A quel punto dovresti fare una scelta: eseguire gli ordini, anche quelli manifestamente criminosi. Oppure potresti fare come i centomila ucraini (cinque ogni uno che ha imbracciato i fucili) che si sono rifiutati di combattere. Come i ventimila russi, sicuramente sottostimati, che scappano dal processo per diserzione cercando asilo politico in un altro paese. O come i diecimila riservisti dell’esercito israeliano, che stanno disobbedendo al richiamo alle armi. Max Hirsch, pur essendo giovane (29 anni), è un veterano dell’esercito israeliano, ed è uno degli iniziatori di questa obiezione collettiva. Ha dichiarato: «Il rifiuto di combattere è il vero patriottismo».(leggi qui)

Quante volte, nei dibattiti su questi tragici mesi, abbiamo pronunciato o ascoltato l’epiteto di “criminale di guerra” per questo o quel primo ministro, o presidente. Eppure, se ci pensi un attimo, nessun criminale di Stato ha mai bisogno di ammazzare la gente con le proprie mani. C’è sempre qualcuno che lo fa per lui. Un enorme braccio militare e burocratico che si lordi le mani del sangue che lui invoca come il sacrificio necessario per il Bene Supremo della Nazione, lo trova sempre. Parliamo di migliaia e migliaia di impiegati del Male. Ci può essere nella psicopatologia del potente persino un’idea originaria, che assomigli alla profondità di un pensiero, per quanto pervertito e malato. Ma il male di coloro che eseguono il male, negli apparati militari, scientifici, amministrativi, spionistici, giudiziari, carcerari, non è profondo, rifugge il pensiero. La psicologia collettiva di chi applica il male rimane sulla superficie, ma si allarga come una macchia d’olio. E’ pura esecuzione, è meccanica, è funzionamento. Io, te, tutti noi, possiamo scegliere se fare parte di questo meccanismo e diventare assassini funzionali o militi, ignoti e caduti, per la Patria o per la Nato. Con una vecchiaia da reduci in disturbo post traumatico, se ne usciamo vivi. Oppure possiamo scegliere di non farne parte. Rifiutare. Obiettare. Disertare. Rischiando la fuga, la clandestinità, il ludibrio, il carcere, in casi estremi la vita. Io ho già scelto.

In piena facoltàegregio presidentele scrivo la presenteche spero leggerà
La cartolina quimi dice terra terradi andare a far la guerraquest’altro lunedì
Ma io non sono quiegregio presidenteper ammazzar la gentepiù o meno come me
Io non ce l’ho con leisia detto per incisoma sento che ho decisoe che diserterò.
Ho avuto solo guaida quando sono natoi figli che ho allevatohan pianto insieme a me.
Mia mamma e mio papàormai son sotto terrae a loro della guerranon gliene fregherà
Quand’ero in prigioniaqualcuno mi ha rubatomia moglie e il mio passatola mia migliore età
Domani mi alzeròe chiuderò la portasulla stagione mortae mi incamminerò.
Vivrò di caritàsulle strade di Spagnadi Francia e di Bretagnae a tutti griderò
Di non partire piùe di non obbedireper andare a morireper non importa chi.
Per cui se serviràdel sangue ad ogni costoandate a dare il vostrose vi divertirà
E dica pure ai suoise vengono a cercarmiche possono spararmiio armi non ne ho.
Le déserteur
Boris Vian
Immagine di copertina: il disertore di Octav Băncilă, 1906, da wikipedia.org