Pubblichiamo il testo integrale della lettera al New York Times del 2 dicembre 1948 a firma di 28 intellettuali e scienziati ebrei sulle azioni terroristiche e sulla politica sionista del nuovo Stato di Israele “strettamente affine ai partiti nazista e fascista”.
Non è facile esercitare e diffondere un pensiero critico, cercare la verità dentro la nebbia conformista dell’informazione mainstream. Anche Periscopio, vista la nostra netta presa di posizione pro Palestina, è stato accusato di non considerare i diritti degli ebrei, o addirittura tacciato di antisemitismo.
Non sappiamo se queste accuse derivino da ignoranza, cattiva informazione o da una posizione preconcetta a favore di Israele.
La confusione peggiore (involontaria o voluta) è quella che fa combaciare l’Antisionismo all’Antisemitismo, così ogni manifestazione contro il genocidio dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania, ogni critica alla politica illegale di espansionismo territoriale dei governi (passati o presente) di Israele, ogni condanna al Sionismo fascista dello Stato di Israele, viene da alcuni giudicata come una manifestazione di antisemitismo. Come giornale rivendichiamo il nostro impegno antisionista e antifascista, mentre nulla abbiamo a che fare con l’antisemitismo, passato e presente, che continuiamo a condannare.
Allora, lo abbiamo già scritto, ma vale ripeterlo, Antisemitismo significa l’avversione, l’esclusione, la persecuzione di tutto un popolo (come è accaduto al popolo ebraico nello scorso secolo), Antisionismo significa invece la denuncia di una ideologia e di una politica, il Sionismo.
L’Antisemitismo è una piaga non ancora estinta. Sopravvive e fiorisce nelle formazioni e nei movimenti di ultradestra, in tutto il mondo: in America, in Germania, in Inghilterra, in Italia… Paradossalmente, antisemita è anche Benjamin Netanyahu e il suo governo che stanno compiendo il genocidio dei palestinesi, palestinesi che sono anch’essi semiti, condividendo con gli ebrei lo stesso ceppo storico linguistico.
Il Sionismoha più di un secolo di storia; è un movimento nato alla fine dell’800 (“il ritorno alla terra promessa”) che si impose tra gli ebrei della diaspora, prevalendo su altre posizioni di intellettuali e religiosi ebrei. Allora, anche tra i Sionisti non era scontato che la Terra Promessa, il luogo dove riunire il popolo ebraico, dovesse essere la Palestina, quindi una terra abitata dagli arabi da molti secoli. Alcuni proposero una “Terra vuota”, ad esempio in Canada, ma ben presto iniziarono i viaggi dei primi coloni in Palestina, allora sotto il protettorato britannico.
Nel 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite propose e votò a maggioranza (33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti) un piano di partizione della Palestina, tracciando di conseguenza i confini dello Stato di Israele. Alla vigilia della scadenza del mandato britannico, il 14 maggio 1948, il presidente del Consiglio nazionale ebraico Ben Gurion proclamò la fondazione dello Stato.
Al nuovo Stato, tra le proteste degli arabi, furono assegnati anche territori densamente popolati da decine di migliaia di arabi palestinesi. Già nel 1948 con azioni militari e terroristiche i palestinesi vennero sloggiati per far posto ai coloni (vedi la lettera degli intellettuali ebrei qui di seguito). Inizia così la vocazione sionista ed espansionista, che accompagna tutta la storia dello Stato di Israele. Negli anni, attraverso le guerre e gli insediamenti illegali dei coloni, Israele è cresciuto, covando in se l’assolutismo e la violenza dell’ideale sionista.
Come chiamare il Sionismo? Come chiamare la pretesa di prendersi con la forza le terre che non ti appartengono? Purtroppo gli 80 anni di storia dello stato di Israele sono stati questo. Nonostante i divieti dell’ONU e le proteste della comunità internazionale e di tanti intellettuali e scrittori ebrei antisionisti. E come chiamare l’ultimo atto dell’espansionismo sionista israeliano, la decisione di occupare ed annettersi la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, i 70.000 morti civili palestinesi, il progetto di deportare 3 milioni di palestinesi per “svuotare” Gaza?
Il Sionismo è stato ed è questo: con l’occupazione di Gaza e lo sterminio della popolazione civile giunge al suo culmine. Forse un giorno gli israeliani avranno la forza di abiurare il sionismo e la sua anima violenta e antidemocratica e di rifondare uno Stato civile. Se lo augurano in tanti, dentro e fuori Israele. Fino a quando però lo Stato di Israele proseguirà la sua linea omicida, L’Antisionismo, cioè la condanna del Sionismo, è l’equivalente dell’Antifascismo.
Quando inizia la deriva fascista dello stato di Israele
Il 2 dicembre 1948, ventotto intellettuali ebrei, tra i quali Albert Einstein ed Hannah Arendt, inviarono una letteraalla redazione del New York Times per denunciare la deriva fascista imposta dal futuro primo ministro Menachem Begin alla natura dello Stato israeliano, fondato nel maggio dello stesso anno.
Agli editori del New York Times
Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut), un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti nazista e fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, un’organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. Parecchi americani con una reputazione nazionale hanno inviato il loro saluto.
È inconcepibile che coloro che si oppongono al fascismo nel mondo, a meno che non siano opportunamente informati sulle azioni effettuate e sui progetti del Sig. Begin, possano aver aggiunto il proprio nome per sostenere il movimento da lui rappresentato.
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e antimperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
Attacco a un villaggio arabo
Un esempio scioccante è stato il loro comportamento nel villaggio arabo di Deir Yassin. Questo villaggio, fuori dalle strade di comunicazione e circondato da terre appartenenti agli ebrei, non aveva preso parte alla guerra, anzi aveva allontanato bande di arabi che lo volevano utilizzare come una loro base. Il 9 aprile, bande di terroristi attaccarono questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare, uccidendo la maggior parte dei suoi abitanti (240 tra uomini, donne e bambini) e trasportando alcuni di loro come trofei vivi in una parata per le strade di Gerusalemme.
La maggior parte della comunità ebraica rimase terrificata dal gesto e l’Agenzia Ebraica mandò le proprie scuse al re Abdullah della Transgiordania. Ma i terroristi, invece di vergognarsi del loro atto, si vantarono del massacro, lo pubblicizzarono e invitarono tutti i corrispondenti stranieri presenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la totale devastazione a Deir Yassin.
L’accaduto di Deir Yassin esemplifica il carattere e le azioni del Partito della Libertà.
All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano.
Durante gli ultimi anni di sporadica violenza antibritannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo.
La gente del Partito della Libertà non ha avuto nessun ruolo nelle conquiste costruttive ottenute in Palestina. Non hanno reclamato la terra, non hanno costruito insediamenti ma solo diminuito le attività di difesa degli ebrei. I loro sforzi verso l’immigrazione erano tanto pubblicizzati quanto di poco peso e impegnati principalmente nel trasporto dei loro compatrioti fascisti.
Le discrepanze
La discrepanza tra le sfacciate affermazioni fatte ora da Begin e il suo partito, e il loro curriculum di azioni svolte nel passato in Palestina non portano il segno di alcun partito politico ordinario. Ciò è, senza ombra di dubbio, il marchio di un partito fascista per il quale il terrorismo (contro gli ebrei, gli arabi e gli inglesi) e le false dichiarazioni sono i mezzi e uno “stato leader” è l’obbiettivo.
Alla luce delle soprascritte considerazioni, è imperativo che la verità su Begin e il suo movimento sia resa nota a questo paese. È ancora più tragico che i più alti comandi del sionismo americano si siano rifiutati di condurre una campagna contro le attività di Begin, o addirittura di svelare ai suoi membri i pericoli che deriveranno a Israele sostenendo Begin. I sottoscritti infine usano questi mezzi per presentare pubblicamente alcuni fatti salienti che riguardano Begin e il suo partito, e per sollecitare tutti gli sforzi possibili per non sostenere quest’ultima manifestazione di fascismo.
Firmato:
Isidore Abramowitz, Hannah Arendt, Abraham Brick, rabbi Jessurun Cardozo, Albert Einstein, Herman Eisen, M.D., Hayim Fineman, M. Gallen, M.D., H.H. Harris, Zelig S. Harris, Sidney Hook, Fred Karush, Bruria Kaufman, Irma L. Lindheim, Nachman Maisel, Seymour Melman, Myer D. Mendelson, M.D., Harry M. Oslinsky, Samuel Pitlick, Fritz Rohrlich, Louis P. Rocker, Ruth Sagis, Itzhak Sankowsky, I.J. Shoenberg, Samuel Shuman, M. Singer, Irma Wolfe, Stefan Wolfe
In copertina: Canada, presidio antisionista; Not in our name Jews Oppose Israel’s Wars, immagine su licenza Wikimedia Commons
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Oggi 30 agosto sono cinque anni che Andrea Samaritani ci ha lasciati. La nostra amicizia si perde nella mia memoria ed i ricordi, come ho personalmente sperimentato in più occasioni, spesso si confondono.
“Rashomon” non è solo uno dei più profondi e interessanti film di Kurosawa. È anche il tentativo di rendere con il necessario spessore e con le sue incredibili sfaccettature, il meccanismo con cui la nostra mente ricostruisce il passato. Che non è mai uno solo, ma sono tanti, quanti quelli che provano a ritrovarlo.
La prima immagine che ho di Andrea, dei suoi occhi indimenticabili, è quella di un giovane – ci separano appena sette anni – che scopre la potenza e la capacità di cambiarti dall’interno della nonviolenza. Ci siamo conosciuti a cavallo delle lotte che hanno attraversato il nostro paese in occasione di uno degli ultimi episodi della cosiddetta Guerra Fredda, ovvero la decisione della Nato di dispiegare anche sul nostro territorio, in quel di Comiso in Sicilia, i missili Cruise. Erano i primi anni Ottanta ed Andrea decise di partecipare al campo di formazione nonviolenta proprio vicino a Comiso, nell’ambito delle iniziative che si erano strutturate come forma di opposizione a questa decisione del nostro Governo. Pubblicammo sul giornalino della LOC di Ferrara e Cento, “Garabombo” – di cui ero redattore – una delle sue prime foto, scattata sul posto durante una manifestazione nei pressi del cantiere che stava procedendo alla realizzazione della base che doveva ospitare i Cruise. Mi ricordo il suo entusiasmo mentre mi illustrava il manuale ciclostilato di formazione alla gestione nonviolenta dei conflitti su cui si era tenuto lo stage che aveva seguito in Sicilia.
Ci perdemmo di vista una prima volta per qualche anno, ma verso la fine del 1984, a ridosso dell’Assemblea che a Firenze, alla Fortezza da Basso, doveva sancire la nascita anche in Italia delle Liste Verdi, ecco una sua telefonata. Mi proponeva di andare a Firenze per documentare quella “svolta storica”. Allora io collaboravo stabilmente con il quindicinale “ROCCA”, di Assisi ed Andrea aveva pensato ad un tandem: io avrei scritto un articolo sull’evento e lui avrebbe pensato a documentarlo fotograficamente. Così fu. Al ritorno mi regalò alcuni degli scatti fatti. Ed una foto in particolare la conservo ancora, quella di unAlex Langer che interviene dal palco con la sua storica introduzione ai lavori dell’assemblea.
La riutilizzai, all’indomani della morte di Alex, per corredare l’editoriale che scrissi a luglio del 1995 per “POLLICINO. Briciole di verde”,che allora usciva come inserto di “TERRA DI NESSUNO”, edito dall’Associazione Ferrara terzo mondo. Da quel felice connubio si diede vita al “Centro di documentazione Alex Langer” che grazie alla lungimiranza di Luca Andreoli e all’impegno di Daniele Lugli, Elena Buccoliero e del sottoscritto, divenne un vero crocevia della nonviolenza, della documentazione ambientalista e delle lotte terzomondiali.
Andrea nel frattempo aveva fondato con altri “La MERIDIANA IMMAGINI”. Questa importante realtà culturale aveva la sede nello stesso stabile in cui si trovava Legambiente Emilia-Romagna, la delegazione regionale della nota associazione ambientalista, di cui sono stato per anni un instancabile animatore. Ci rincontrammo. Andrea già affermato come fotografo e con stabili collaborazioni con svariate riviste nazionali, mi propose di provare ad affiancarlo in alcuni servizi. Intendeva infatti allargare il cerchio delle proprie collaborazioni professionali e pensava allo stesso tandem con cui avevamo lavorato, anche se sporadicamente, per “ROCCA”. Questa volta la cosa non funzionò per varie ragioni, tra le quali anche la mia scarsa disponibilità di tempo. Così lui prese il largo da solo. Ma ci fu ancora un’ultima occasione di collaborazione.
Nel 1998 mi propose di scrivere la prefazione al catalogo della mostra “Comacchio in pagina. 20 autori per il Parco del Delta del Po”che poi si tenne a Palazzo Bellini. Fu una piacevole esperienza. Andrea era ormai un fotografo piuttosto affermato, e il suo entusiasmo contagioso. Ritrovammo il solito affiatamento, come accade quando tra vecchi amici ci si perde di vista, ma si conserva immutata una certa comunanza di vedute e la stessa voglia di camminare ancora fianco a fianco.
Ho continuato a seguire a distanza le innumerevoli iniziative di Andrea, sempre coerenti con il suo percorso umano e culturale. In particolare, ho apprezzato le sue foto dipinte, realizzate per un anno, sul retro delle copertine di “Azione Nonviolenta”, di cui sono un vecchio abbonato. È stato l’ultimo capitolo della sua lunga militanza. Un modo per salutarci e per lasciarci un ricordo affettuoso.
Se dovessi scegliere una poesia da mettere in esérgo al manifesto del Convegno che dovrà svolgersi a novembre per porre in dialogo la chiesa di Ferrara-Comacchio e la città sulle disuguaglianze, le povertà nascoste che incontriamo e ci abitano nel quotidiano, sceglierei quella di Giuseppe Ungaretti capace di declinare al meglio il rapporto tra vangelo e condizione umana entrambi convergenti nei luoghi del patire. Il testo è un’icona cristologica non scontata, provocante anzi, che tiene insieme “La somma del dolore che va spargendo sulla terra l’uomo” e “l’amore non vano”.
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri
(Vita d’uomo, 229)
Di fronte a questa immagine testuale dell’Ecce homo non ci si può abbandonare al sentimento. Il testo, a detta dello stesso autore, va contestualizzato con altre poesie: Agonia, Pellegrinaggio, Porto sepolto che non sono state scritte per intenerire, suscitare commozione, ma per invitare ad affrontare le situazioni di dolore, a comprometterci in contesti di emarginazione, di ingiustizia ed a spingerci a lottare con autentico “sdegno e coraggio”.
Ungaretti ci trasmette così la nuda umanità dell’“uomo di pena”, nel quale pure lui si specchia. Se infatti «l’uomo di pena è l’uomo cupamente in meditazione sulla giustizia e la pietà» – ed egli sa di esserlo – e testimonia di sé: «Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare… sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte… Da qualsiasi parte la mia ispirazione si volgesse, ella mi era sempre a lato; non ha mai dubitato di me; ha sofferto con me e per me. È stata il mio coraggio» (ivi, 530; 518; 527).
Il coraggio di osare
Così metterei come titolo al Convegno, semplicemente: Il coraggio di osare. L’espressione l’ho trovata scavando nella storia passata della Chiesa italiana e in particolare quella del decennio successivo al concilio, che determinò un cambio di passo nella costruzione e nello sviluppo delle chiese locali e di quella di Roma, intesa come soggetto ecclesiale e non più come “appendice” vaticana.
Si segnava il passaggio dall’idea di Roma come “città sacra” all’immagine di una chiesa, in una città segnata da gravi disuguaglianze, vocata ad essere “esperta in umanità”. Il riferimento specifico al titolo sono state le parole del sociologo e fondatore del CENSIS Giuseppe De Rita in un’intervista: Quando la chiesa italiana ebbe il coraggio di osare in La Civiltà Cattolica, 4086, 2020, pp. 513-523).
Credo profondamente che la ricerca e lo studio di ciò che ci ha preceduto, del passato, sia un atto di giustizia verso la memoria di coloro che prima di noi hanno lavorato e faticato per il vangelo e la promozione umana. Ma costituisce pure il vantaggio per i nuovi arrivati di oggi di godere di un “deposito” di fede, affinché non manchi un retroterra di riferimento spirituale e pastorale a cui attingere, su cui sostenersi e costruire per non dover ricominciare sempre dall’inizio, ma poter disporre di esperienze e testimoni della fede e della carità che hanno preceduto ed osare così un cammino in avanti, in quel futuro presente affidato alla nostra responsabilità riconoscente e creativa.
Ho così, come quando si riapre un libro sullo scaffale, ridestato incontri, antichi e sempre nuovi con figure ed eventi attraverso una specie di esercizio sinodale delle memorie riaperte nel presente. Una “sinodalità diacronica” dunque che si lascia interpellare ancora e ci interpella proprio nell’oggi.
Se si va così indietro entrando con lo sguardo nel passato è anche per avanzare e poi inoltrarsi nell’oltre che ci chiama in avanti. Era questo il metodo del vescovo Filippo Franceschi, – in lumine fidei il suo motto – appena giunto in diocesi nel luglio del 1976 e relatore poi al I° Convegno Nazionale della Chiesa Italiana: Evangelizzazione e promozione umana tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre dello stesso anno.
Fu il vescovo Filippo che traghettò la nostra chiesa nella recezione degli orientamenti e documenti del Concilio Vaticano II. Egli principiò tra noi il rinnovamento conciliare come “nuova coscienza” di Chiesa sin dalla la sua prima lettera pastorale: Amiamo questa Chiesa. E amava citare s. Ambrogio e s. Bernardo per mostrare la dinamica interna di questo amore: «custodire le cose acquisite» e «cercarne sempre di nuove; la Chiesa, deve essere ante et retro oculata poiché la sua tradizione non è solo memoria; è anche cammino in avanti».
La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia
Ma a dare l’input, ad accendere la miccia, a fare da propulsore proprio al primo come pure ai successivi Convegni decennali della Chiesa italiana fu il Convegno sui “mali di Roma”, come venne chiamato in seguito. Voluto dal coraggio di osare della chiesa locale di Roma nel suo passaggio dalla “romanità” alla “diocesanità” e grazie all’impegno di un gruppo di credenti, laici e sacerdoti.
Quel convegno fu sollecitato fortemente, gridato da 13 preti delle periferie con una lettera inviata ai Cristiani di Roma, al Sindaco e a Paolo VI. Tra essi vie era il nostro missionario p. Silvio Turazzi che fu tra i baraccati dell’Acquedotto Felice e a Nuova Ostia dal 1971 al 1975, e all’evento si iscrissero 5000 persone.
Ci volle poi tutto il coraggio e la determinazione del cardinal vicario Ugo Poletti, così ricorda De Rita, che cambiò la squadra organizzativa capovolgendo la prospettiva iniziale che voleva solo un coinvolgimento degli assistenti sociali, un aggiustamento delle procedure e degli interventi della carità del papa in Roma. (Il Convegno era visto con preoccupazione e diffidenza da certi ambienti della curia romana e in modo particolare era osteggiato dai dirigenti della Democrazia cristiana).
Fu pure coraggio dei suoi collaboratori, il vescovo ausiliare Giulio Salimei,Luciano Tavazza giornalista ed espressione, a tutto tondo, del volontariato in Italia, Giuseppe de Rita, don Clemente Riva e don Luigi di Liegro, che era responsabile della pastorale diocesana e si dedicò alla creazione della mensa di Colle Oppio, al centro Aids di Villa Glori e poi all’ostello della Stazione Termini; fonderà la Caritas diocesana di Roma nel 1979.
L’intenzione fu quella di interloquire con la propria città, a cominciare dal prendersi cura del mondo delle periferie e delle povertà vecchie e nuove motivati pure dall’impulso suscitato dall’enciclica di Paolo VI, Populorum progressio. La questione sociale è una questione morale (26 3 1967).
Il convegno si celebrò dopo un lavoro preparatorio nelle comunità, parrocchie e movimenti e comitati di base delle periferie, presso la basilica di San Giovanni in Laterano dal 12 al 15 Febbraio 1974 ed aveva per titolo: Le responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nella diocesi di Roma.
«(Dis)uguaglianze»
A cinquant’anni da quel convegno la chiesa di Roma ha voluto celebrarlo proponendo un cammino sulle «(Dis)uguaglianze», cammino fatto in diverse tappe, con diversi avvenimenti iniziati a febbraio e conclusisi il 25 ottobre 2024 con la presenza di papa Francesco, sempre in Laterano. Per tutto questo cammino è risuonata la domanda di allora del card. Poletti: «Cosa ha da dire la Chiesa a questa società?».
Anche oggi la domanda si ripropone: “Come il vangelo può ridare coesione ad una città per un comune impegno di solidarietà a fronte del permanere di perduranti disuguaglianze?”.
Già in quel primo convegno era visibile lo stile della collegialità e poi sempre più recepito nei convegni successivi. Fu una spinta all’esercizio della sinodalità per il bene comune attraverso un agire sociale ed ecclesiale che metteva al centro le persone e la loro dignità. Da questo nostro convegno sulle povertà potrebbe riprendere un dialogo con la cittadinanza e le sue molteplici componenti per conoscere le risorse messe in campo, disponibili e le criticità ancora nascoste, per essere come lo fu il convegno del 1974, “un’offerta di speranza per la città e i suoi poveri”.
Per individuare le «(Dis)uguaglianze» l’assemblea romana del 2024 aveva indicato quattro forme di povertà emergenti dal tessuto cittadino: “La povertà educativa, che priva molti bambini di origini migranti di un accesso stabile all’istruzione; la povertà lavorativa, con impieghi scarsamente retribuiti o carenti; la povertà abitativa, per cui migliaia di famiglie restano senza alloggio popolare; e la povertà sanitaria, che nega a molti cittadini l’accesso alle cure”.
Una lettera ai cristiani della città?
Si potrebbe pensare pure ad una lettera ai cristiani della città ricordando quella scritta dai 13 sacerdoti dei “Borghetti” della periferia romana: Lettera ai cristiani di Roma, (Ora sesta edizioni, Roma 1974), dedicata a tutti i bambini morti nelle baracche romane.
La nostra potrebbe essere una lettera pensata insieme, stile don Milani, che colga il vissuto delle comunità nel loro incontro con i poveri, coinvolgendo gli uffici pastorali, i centri di ascolto Caritas, i consigli diocesani. Nel libro è pure riportato il dibattito che ha preceduto la sua stesura. Ci sono anche gli interventi di p. Silvio Turazzi che di quegli eventi ha lasciato un memoriale riportato nel Quaderno del Cedoc Sfr 55, Missionis gaudium.
Così un suo intervento: «Bisognerebbe darci una documentazione esatta del problema. Mazzetti ne ha la competenza. Io ricordo che la lettera dei salesiani fu un’accusa che poi si fermò lì. Se vogliamo impostare un discorso che poi crei dei fatti, dobbiamo avere pazienza. Sarà un discorso di lotta che potrà arrivare ad una reale conversione. Qui siamo un gruppo e si potrebbe essere di più. Bisognerebbe creare veramente la crisi, altrimenti su questa lettera alcuni ci danno un bel giudizio, altri no. Io propongo di creare degli interrogativi a cui gli altri risponderanno ciascuno secondo la propria competenza. Allora salterà fuori un giudizio molto più completo» (ivi, 20).
Un tavolo delle povertà
Ci potrà essere di grande aiuto l’Annuario socio-economico ferrarese 2024, realizzato dal CDS cultura OdV (Centro Ricerche Documentazione e Studi Economico Sociali), che ha osservato la nostra città a partire dal Goal 1 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile, definendo 17 obiettivi per un futuro sostenibile da raggiungere entro il 2030. Il primo obiettivo è quello “indubbiamente sfidante, di “porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo”.
L’annuario riporta un resoconto di Roberto Cassoli su Povertà a Ferrara e in Italia circa le seguenti aree: i lavoratori vulnerabili; distanza tra nord e sud; il reddito di cittadinanza e assegno di inclusione; la crescita dei senza dimora; la piaga dello spopolamento; povertà e infanzia.
Si evidenzia poi che dal 2019, il Comune di Ferrara non ha effettuato “L’indagine statistica triennale sulle famiglie residenti nel comune (su un campione di 1.000 famiglie)”, con cui si analizzavano “le condizioni abitative ed economiche, gli stili di vita e di consumo dei residenti e la valutazione dell’incidenza di povertà”. Inoltre, nota ancora Cassoli, “il ‘Tavolo Povertà’ istituito nel 2018 non è stato ancora convocato”. Nel report infine, di seguito, sono indicate le attività e i dati delle Associazioni di volontariato, dell’Emporio Solidale Provincia di Ferrara Il Mantello e della Caritas diocesana e dei Centri di ascolto (Cf. ivi, 41-71).
Povertà di ieri e di oggi
La storia avvincente, quella del Convegno sui “mali di Roma”, può essere approfondita attraverso alcuni riferimenti bibliografici: Augusto d’Angelo, “Il convegno del febbraio 1974”, in Dalla romanità alla diocesanità. Storia recente della Chiesa di Roma, san Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2022, 23-53; Id., “Verso il 50° del Convegno sui “mali di Roma” del febbraio 1974”, in Studi politici, vol. 1/2023, 31-50).
Secondo D’Angelo, nell’intervista citata sopra, il convegno del 1974 «non rappresentava un’iniziativa all’interno di un progetto ben definito, non aveva uno scopo predeterminato. Doveva rappresentare un’occasione di ascolto della città, di quanti operavano nelle periferie, di tutti coloro che avessero a cuore i problemi di Roma. Si immaginò una grande assise, insomma, che rappresentasse un momento di discussione e di interlocuzione tra soggetti attivi nel tessuto connettivo della città – il mondo della cultura, le parrocchie, i centri di impegno sociale, le emergenti realtà ecclesiali post-conciliari, le tradizionali congregazioni religiose, il mondo sindacale… per dare voce alle attese di giustizia della capitale e trarne un’assunzione di responsabilità.
Un’occasione, dunque, per conoscere come fosse cresciuta in città la disuguaglianza, per come la vedevano le migliaia di occhi di preti, laici, religiosi che ne percorrevano periferie, ospedali, scuole, fabbriche, i grandi luoghi di vita e aggregazione, e per generare una prospettiva di rinnovamento dell’azione dei cristiani alla luce del Concilio… Fu un convegno per creare un’occasione di edificazione del tessuto comunitario attraverso l’ascolto della realtà» (“A 50 anni”, 38; 42).
Collaborare è la keyword quando in gioco sono l’uomo e le sue necessità
Non va dimenticato poi, con lo stessa visione prospettica ante e retro oculata, il Seminario di Studi Le nuove povertà nell’area ferrarese tenutosi a Ferrara il 25 giugno 1988 sull’invito della Caritas diocesana. Vi avevano aderito anche la Camera di Commercio della nostra città, e l’Amministrazione della nostra provincia, rendendo possibile una ricerca sulle nuove povertà nel nostro territorio.
Fu questa una tappa del Sinodo diocesano voluto dal vescovo Luigi Maverna dal 1985 al 1992. Relatori Umberto Melotti, Leila Ziglio, Giovanni Scarpellon con un intervento anche del vescovo Luigi dal titolo significativo: “Una lunga battaglia civile ancora da vincere”.
Questo un passaggio del suo intervento: «Era doveroso, per noi, Chiesa. La Chiesa deve collaborare quando è in gioco l’uomo e le sue necessità, e le necessità del mondo… Ma le povertà nuove e nascoste? Mi sia consentito indicarne una, esistente anche nella nostra città. È quella degli immigrati del terzo Mondo, che sono anche tra noi, in cerca di lavoro e di studio, e verso i quali, se non in minima parte, le varie Istituzioni sembrano essere interessate» (La Pianura, Rivista Trimestrale della Camera di Commercio, 2/1988, 8).
L’indagine fa ancora riferimento all’Agenda 2030 dell’ONU, che al Goal 11 “Città e comunità sostenibili” «stabilisce l’obiettivo di “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili” tramite 10 diversi indicatori, e conseguenti risultati, da raggiungere entro il 2030, precisando nel dettaglio: accesso agli alloggi e servizi di base adeguati, ammodernamento dei quartieri poveri, trasporti, pianificazione e gestione partecipata degli insediamenti, salvaguardia del patrimonio naturale e culturale, protezione dei poveri e delle persone in condizioni di vulnerabilità, riduzione degli effetti delle calamità, inclusi i disastri provocati dall’acqua e poi, ancora, qualità dell’aria, gestione dei rifiuti, accesso universale a spazi verdi, politiche di inclusione e sostegno di rapporti positivi fra aree urbane».
Viene ricordata pure la zona del “disagio abitativo”, senza dimenticare le persone che fanno parte «dell’area del “rischio di esclusione sociale”, i bisogni della popolazione immigrata con redditi bassi, quelli delle persone senza fissa dimora, o dei disabili soli che cercano soluzioni abitative permanenti. Rientrano in questa categoria di bisogni, ma con soluzioni temporanee, anche gli ospiti in uscita da comunità di recupero, madri sole con bambini, anziani non autosufficienti in attesa di uscita da ospedali o RSA ecc. In altri termini bisogni abitativi fortemente intrecciati con i bisogni socio-assistenziali». Il tutto inquadrabile nel Report statistico nazionale 2025 della rete Caritas “La povertà in Italia”.
“Una Chiesa per i poveri, una Chiesa dei poveri, una Chiesa povera”
Per il Convegno sarà bello ricordare o riportare almeno i titoletti del n° 61 del libro del Sinodo diocesano (1985-1992): “Una Chiesa per i poveri, una Chiesa dei poveri, una Chiesa povera”.
Vi si legge: «Il vangelo della carità mette in chiara evidenza il necessario rapporto del messaggio evangelico con la realtà storica. La carità è un contenuto della fede che, per sua stessa natura, deve incarnarsi nella storia. Tuttavia la carità non è riducibile alla dimensione storica, ma la fermenta nella prospettiva trascendente del Regno.
Il vangelo della carità (chiave del rapporto tra fede e storia) affida alla nostra Chiesa alcune priorità. L’amore preferenziale per i poveri ha un carattere teologico, e dunque non è una scelta pastorale opzionale o dettata dalla necessità; essa scaturisce dal vangelo, riguarda un atteggiamento fondamentale del Signore che nell’ annuncio della buona novella a tutti gli uomini, assunse l’amore di predilezione per i poveri, costituendoli primi destinatari e portatori privilegiati dei valori del Regno.
Elementi qualificanti del vangelo della carità sono il principio della destinazione universale dei beni, il rispetto e la promozione della libertà di ogni uomo, l’orientamento alla solidarietà universale e al bene comune. La scelta degli ultimi dunque esige la denuncia delle strutture sociali ed economiche di peccato, e la paziente ricerca di un diverso e più giusto ordine sociale, politico ed economico. …
Le grandi questioni della pace, dello sviluppo e della ecologia, che sollecitano le coscienze degli uomini di oggi, sono una sfida che la Chiesa deve cogliere» (Sinodo diocesano [1985-1992], Corbo editore, Ferrara 1993, 147-148). Dopo 33 anni, a partire da questa pagina sarà il caso che le comunità cristiane tornino a interrogarsi per verificare e ricentrare le priorità del loro stile e impegno di evangelizzazione, di pastorale, di attuazione del vangelo della carità».
Osare, a fare storia di “promozione umana”
Nell’intervista a Giuseppe De Rosa, viene chiesto da Antonio Spadaro quali criticità di quel convegno sui “mali di Roma” sono presenti anche oggi come sfide sul cammino della chiesa italiana?
«La criticità più grande della chiesa oggi se mi è permesso, credo fermamente che la maggiore criticità fra quelle indicate sia venuta dalla tendenza a chiudersi nel recinto del mondo cattolico – i preti e la loro «gente» – senza avere il senso della complessità esterna, concentrandosi ad “affermare” (verità, valori, intenti, indicazioni programmatiche), senza mai avere il coraggio di entrare nella dialettica sociale quotidiana, mediandone aspettative e conflitti.
Solo il vigore delle diverse realtà socioculturali, da troppo tempo in letargo, può chiamare le Chiese che vivono in Italia a farsi loro carico del faticoso cammino che dobbiamo intraprendere. E mi permetto di dire che quel vigore può essere chiamato a esprimersi nel richiamo a osare, a fare storia di “promozione umana” e di risposta alle attese di giustizia delle nostre singole comunità ecclesiali» (“Quando la chiesa italiana ebbe il coraggio di osare”, 522; 523).
Ora si svegli l’angelo del povero
Le considerazioni fatte all’inizio per il testo poetico di Ungaretti valgono anche per questa seconda lirica: L’angelo del povero. Si evidenzia inoltre come per le poesie della raccolta Il Dolore qui non si tratta di un dolore inattivo, che paralizza, ma reattivo, un modo per attingervi forza e per fare coraggio agli altri ad osare ancora cammino.
L’uomo di fatica e di pena è il povero, colui che è abitato dalla debolezza di quando si nasce e di quando si muore; e nondimeno egli è anche forte perché nella sua fragilità testimonia che «vive solo colui che vede l’angelo» (Ungaretti, Il povero nella città, SE SRL, Milano 1993, 18). Vede l’angelo colui che è in attesa di un cambiamento e agisce di conseguenza per farlo germogliare; vede l’angelo chi scorge oltre la sofferenza, la pena e la fatica e si fa errante tra gli invisibili e nell’invisibile immediato e futuro.
Ora che invade le oscurate menti
Più aspra pietà del sangue e della terra,
Ora che ci misura ad ogni palpito
Il silenzio di tante ingiuste morti,
Ora si svegli l’angelo del povero,
Gentilezza superstite dell’anima…
Col gesto inestinguibile dei secoli
Discenda a capo del suo vecchio popolo,
In mezzo alle ombre…
(Vita d’uomo, 235).
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
«Quantificare l’afflusso del pubblico è praticamente impossibile, proprio per la peculiarità della manifestazione che non richiede spazi chiusi né tributi pecuniari». Così scriveva Monica Forti, addetta stampa del Ferrara Buskers Festival (FBF), in un articolo del 23 luglio 1988 uscito su “La Voce di Ferrara-Comacchio”. Cosa – quindi – contraddistingue questa rassegna musicale di cui tutti andiamo fieri? L’apertura e la gratuità. Caratteristiche ormai dimenticate.
ZONA ROSSA PER 6 ORE AL GIORNO
Per la quarta volta in sei anni, il Ferrara Buskers Festival (FBF) prevede infatti l’accesso a pagamento: nel 2020 la formula era di tre concerti a sera per ognuno dei cinque luoghi del centro selezionati. Costo del biglietto, 12 euro. L’anno dopo, sarà di 10 euro, col Festival chiuso dentro Parco Massari. L’anno scorso l’ancor più nefasta scelta: Quadrivio degli Angeli e Parco Massari a 11 euro (+ eventuali costi di prevendita). Quest’anno tra i 10 e i 12 euro (8-10 euro per l’ultima giornata) a seconda del periodo di acquisto del biglietto (+ 2 euro su Ticket Master per avere il biglietto digitale).
In seguito alle critiche ricevute, il FBF ha deciso di riportare in pieno centro la manifestazione. Fino a sabato il festival inizia alle ore 19 con letture dal vivo in piazza Trento e Trieste e musica dalle 20. Ieri (mercoledì) la musica è iniziata alle ore 22 (tra due giorni lavorativi!). E fino a sabato il centro viene chiuso dalle 18 fino a mezzanotte: ben 6 ore. Domenica inizio alle 16, musica dalle 17, con chiusura del centro dalle 15 ca. Risultato: il Festival non torna ad essere gratuito e in più a essere chiuso per cinque pomeriggi e cinque sere di fila è buona parte del centro storico. Una vera e propria privatizzazione del cuore di Ferrara, e per un appuntamento che per sua natura non dovrebbe conoscere limitazioni alla libertà di movimento. Insomma, fuori tutti: la nostra piazza non è davvero nostra, ma solo di chi conclude una transazione finanziaria col Ferrara Buskers Festival. E il tutto in nome della “cultura” e della “libera espressione artistica”. Termini svuotati del loro reale significato. A dominare è la logica dello scambio (“vuoi accedere liberamente al cuore della tua città? Paghi”), oltre che della competizione (si veda il Premio “Gianna Nannini”).
DIVIETI, GENTIL CONCESSIONI E…SDRAI
Fino a domenica, chi abita nella “zona rossa FBF” deve dimostrare a vigilantes privati di abitare effettivamente a casa propria o di lavorare in una delle attività all’interno. A questo si è ridotto il festival degli artisti di strada: a un’operazione selettiva, con la quale si decide chi può o non può andare in piazza.
«Tutti i residenti avranno libero accesso ed ogni lavoratore dell’area potrà entrare ed uscire senza problemi», è scritto sul sito del FBF. Già il solo sentirsi in dovere di specificarlo provoca un brivido lungo la schiena. Sui controlli all’ingresso è scritto (sempre sul sito FBF): è vietato introdurre – oltre ad armi, droghe e materiale esplosivo – anche… «bottiglie e lattine», «bottiglie di plastica»! E biciclette o monopattini… Inoltre: «Per gentile concessione (sic!) sono ammesse borracce vuote in plastica o alluminio, misura standard max 0,75 cl» e «bottigliette d’acqua da 0,50 cl APERTE [in maiuscolo nel sito], cibo solo in contenitori in plastica o carta» e «anche le vesciche ma solo vuote» (!).
L’unico momento gratuito del Festival sarà dopo mezzanotte col “Buskers Night”: sono già state dimenticate le mille critiche al Ferrara Summer Festival sull’occupazione di piazza Trento e Trieste (e di piazza Ariostea) con gravi disagi per il sonno dei residenti. Da mezzanotte «si va avanti fino alle 3» del mattino sul Listone con altra musica dal vivo, djset e bevute libere. Ma sempre sul sito del FBF si sottolinea come «al Dopofestival non è consentito portare proprie bevande per questioni di sicurezza»! E dimenticati sono i discorsi sul Buskersgarden nel sottomura di Baluardi, nato nel 2000 come luogo dove dopo mezzanotte continuare a divertirsi lontano dal centro. Infine, due mesi e mezzo dopo la “Bike Night Emilia-Romagna”, per dar nuovo lustro alla vetusta piazza Patrimonio Unesco, tornano a gran richiesta gli sdrai nell’Oasi del Festival in p.zza Trento Trieste…
«I BUSKERS? SON COME I MANAGER»
È quindi l’anima stessa delbusking a essere snaturata con un Festival che da cinque anni è sempre più dominato da logiche aziendali: “conviene ai commercianti del centro?”, è in sintesi ciò su cui si discute ogni anno. “Come fare in modo che la città (tradotto: alcuni commercianti) ne traggano sempre più profitto?”. L’arte di strada a Ferrara è diventata una mucca da mungere. Detto meglio, è diventata mero terreno di estrazione di profitto (naturalmente a favore di pochi).
Ormai gli organizzatori ne parlano in modo sfacciato: “La strada è bellissima. Strategie e sfide del management: tra musica, arte e cultura” è il nome del Seminario svoltosi lo scorso 5 luglio a Palazzo Diamanti, promosso da FBF e Manager Italia (il «sindacato dei manager») in collaborazione con Confcommercio Ferrara. “Lo spirito dei buskers? È quello dei manager!”: a quella che sembra una battuta si son dedicate ore di riflessione: «La strada rappresenta il contesto dinamico in cui un manager opera ogni giorno. È uno spazio aperto (sic!), mai del tutto prevedibile, dove coesistono sfide e opportunità, direzioni chiare e incroci imprevisti», recita la presentazione dal sito di Manager Italia. Apertura e imprevedibilità: caratteristiche del busking castrate dalla formula “entri-se-paghi” del nuovo FBF. «I partecipanti – è scritto ancora sul sito di Manager Italia – saranno omaggiati con 1 accesso gratuito a una serata del Ferrara Buskers Festival». Insomma: sei un manager e hai partecipato all’evento a Diamanti? Entri gratis. Sei un “normale” cittadino? O paghi o stai fuori.
E rimanendo nell’ambito economico, sempre sul sito del FBF, alla voce “Trasparenza” risulta come il Festival nel 2024 abbia ricevuto 242mila euro di contributi pubblici (Mibact, Regione, Comune Ferrara, Comune Comacchio, Camera di Commercio), con un aumento di quasi 50mila euro rispetto al 2023. Senza contare le erogazioni liberali (Art Bonus), pari a 42200 euro da inizio 2023 a inizio 2025.
L’ANIMA SMARRITA FRA LE TRANSENNE
In un articolo uscito su “Il Resto del Carlino” del 20 agosto 2000, Beppe Boron e Fabio Koryu Calabrò spiegavano così la loro idea del “Grande Cappello”, la possibilità – cioè – di donare una piccola cifra che sarebbe andata per 2/3 a progetti solidali, mentre 1/3 restava nelle casse del FBF: si chiede «solo mille lire a testa perché non vogliamo entrare in concorrenza con gli artisti di strada». Artisti che, inoltre, con gli ingressi selezionati dai biglietti perdono in buona parte il “gusto” della sfida di attirare l’attenzione di chi passa davanti a loro diretto ad altra destinazione. Della stessa idea era Giancarlo Petrini, esperto di teatro popolare e di strada: «Lo spettacolo di strada è contemporaneamente spettacolo di “cappello”. Nella piazza non si paga un regolare biglietto per assistere alle singole esibizioni» (in “La piazza delle meraviglie”, Trapezio, Udine, 1999).
(ph. Andrea Musacci)
L’organizzazione del FBF dovrebbe tornare ad essere “leggera”, “minima”, far cioè dimenticare a chi si vuol godere il contatto con gli artisti di strada, il trovarsi all’interno di una manifestazione, dandogli invece l’“illusione” che tra sé e il busker non ci sia nessuna sovrastruttura. Le transenne di 2 metri con teli neri che in questi giorni demarcano e occultano il nostro centro sanno invece di separazione, di area protetta, di zona rossa, non di libertà. Quella libertà che ognuno di noi ha vissuto in questi decenni di Festival, libertà di poter entrare e uscire un numero indefinito di volte dall’area buskers. Area – appunto – porosa, permeabile. Come la città, che è di tutti. Che è – soprattutto nel suo cuore, nel suo centro – apertura, luogo di incontro e condivisione, senza barriere. Il FBF ha sempre rappresentato – quindi – un evento simbolo dello spirito della città e della piazza, luogo ora – con il nuovo FBF – trasformato in recinto che divide i “privilegiati” dagli “altri”.
Alcuni anni fa su una transenna che segnava il confine dell’area buskers, qualcuno al posto di “Comune di Ferrara” scrisse ironicamente “Comune di Stefano Bottoni”. Ora che il centro storico è davvero privatizzato, il nostro anonimo amico cosa dovrebbe scrivere?
«Partecipare al Ferrara Buskers Festival è stato «un brivido e, insieme, un ritorno al passato, ai motivi più diretti e intensi della mia attività: fuori dai dischi, dalle sale d’incisione, dai biglietti a pagamento». (Edoardo Bennato, intervista rilasciata a “L’Informazione”, 27 agosto 1994)
Cover: Ferrara Buskers Festival 2025, ingresso a pagamento da via Garibaldi (ph. Andrea Musacci)
Manifestazione Sabato 30 agosto ore 14,30, Piazza Municipale. Ferrara
All’attenzione delle associazioni del territorio
Invito adesione a manifestazione 30 agosto ore 14:30 – Piazza Municipale
In quanto Ferrara per la Palestina denunciamo un grave attacco ai diritti democratici e alla libertà al dissenso. Il sindaco di Ferrara, Alan Fabbri, ha chiesto al prefetto di vietare le nostre manifestazioni; dal Parlamento arrivano minacce di provvedimenti tramite la figura di Mauro Malaguti.
Per queste ragioni abbiamo organizzato un corteo che partirà da Piazza Municipale sabato 30 agosto alle ore 14:30; denunciamo inoltre che la Questura di Ferrara da oltre una settimana tenta di vietare questo corteo, prima ci è stato comunicato che era impossibile svolgerlo nelle modalità da noi indicate a causa del “Buskers Festival”, successivamente che bisognava spostarlo alla mattina ed infine che non era possibile manifestare di fronte al Comune di Ferrara.
Il “Buskers Festival” inizia alle ore 19:00, inoltre abbiamo anche contattato gli organizzatori e ci è stato confermato che il nostro corteo non interferisce con l’evento.
Nonostante queste pressioni, ribadiamo con forza: manifestare è un nostro diritto, le piazze appartengono al popolo, non possono essere negate e sabato 30 il corteo si svolgerà anche grazie alla nostra determinazione.
Intanto a Gaza è in corso una nuova offensiva via terra: altri 60.000 riservisti israeliani sono stati schierati con l’obiettivo dichiarato di cancellare Gaza entro ottobre e occuparla. Parallelamente si annuncia la frammentazione definitiva della Cisgiordania. Di fronte a questo, i governi occidentali mostrano indignazione di facciata ma continuano a fornire armi e sostegno politico, con l’Italia in prima linea.
Abbiamo governi complici di crimini di guerra, e devono ascoltare la nostra rabbia.
A livello internazionale cresce la mobilitazione: il 31 agosto partirà la Global Sumud Flotilla per rompere l’assedio, mentre in tutto il mondo le proteste si moltiplicano. Anche a Ferrara non possiamo e non vogliamo mollare: Gaza non deve essere abbandonata.
Se a Ferrara si tenta con tanta ostinazione di vietare le nostre iniziative, significa che la nostra voce fa paura. Non ci faremo intimidire: siamo sotto attacco, ma risponderemo con più forza.
Oggi più che mai chiediamo la partecipazione e adesione di tutte e tutti, singoli cittadini, associazioni, società civile: Ferrara per la Palestina ha bisogno di voi. La Palestina ha bisogno di voi. Questo è il momento di agire e di farci sentire con forza!
Ci vediamo sabato 30 agosto alle 14:30 in Piazza Municipale.
NB: I partiti non possono aderire visto che il nostro obiettivo è quello di manifestare come cittadine dal basso.
DA FERRARA A NORIMBERGA, PER UN PONTE FATTO AD ARTE
Chi ha avuto occasione di leggere su Periscopio, nella rubrica dal magnifico titolo Suole di vento, qualche mio reportage, sa che in genere mi faccio affiancare da testi letterari nella descrizione degli itinerari alla scoperta delle città.
Anche in vista del viaggetto a Norimberga ho cercato… e ho trovato soltanto Viaggio a Norimberga di Hermann Hesse, apparso per la prima volta nel 1927. Certo, non è quello che cercavo, giacché non è una storia ambientata nelle strade della città, però alcuni spunti me li ha offerti ugualmente.
Principalmente il riferimento all’occasione del viaggio: nel mio caso, una mostra di opere che sarebbe stata inaugurata in una prestigiosa galleria d’arte, nel caso di Hesse, una serie di pubbliche letture in varie città (Ulm, Augusta, Norimberga), a cui lo scrittore decide di aggiungere altre tappe che diano un senso al lungo (due mesi) viaggio dal Canton Ticino a Blaubeuren, la meta conclusiva prima del rientro.
«Norimberga si conciliava a meraviglia con il mio viaggio. – scrive – Era il completamento ideale di Ulm e Augusta, di cui difficilmente poteva fare a meno un colto visitatore di città.» Non nascondo che mi ha attratto particolarmente l’idea di poter attribuire anche a me questa definizione…
Purtroppo, circa novanta pagine dopo, soprattutto perché paragonata alla magnifica Augusta, «Norimberga – scrive Hesse – si rivelò per me una grossa delusione…in cuor mio mi ero aspettato meraviglie di ogni sorta in quella città gotica, avevo sperato di imbattermi nello spirito di E.T.A Hoffman e di Wackenroder, ma non accadde nulla di tutto ciò.
La città mi fece un’impressione orribile, della qual cosa naturalmente non fu la città ad avere colpa. La colpa era tutta mia. Vidi una città antica veramente incantevole, vidi St. Lorenz e St. Sebald, vidi il Municipio e il suo cortile, con la fontana di ineffabile grazia.
St. Lorenz Norimberga
Vidi tutto ciò, e tutto era assai bello, ma stretto d’assedio dai fabbricati di una grande città commerciale, fredda, squallida, assordata dallo scoppiettio dei motori, avvolta nelle spire delle automobili, tutto tremava leggermente al ritmo di un tempo diverso, un tempo incapace di costruire volte a costoloni e di ambientare fontane incantevoli come fiori in silenziosi cortili, tutto sembrava sul punto di rovinare l’attimo seguente, giacché non aveva uno scopo, un’anima….»
La lunga citazione mi permette di fare, circa duecento anni dopo, un confronto piuttosto interessante: nelle passeggiate entro le mura e per le strade del centro storico, l’impressione comune, scambiata tra i componenti del gruppo di visitatori, è stata di ammirazione per la vastità dell’area pedonale, che ci ha permesso di scoprire la bellezza dei medesimi monumenti citati da Hesse (molti dei quali ricostruiti dopo le distruzioni operate dai bombardamenti che nella seconda guerra mondiale hanno punito la ‘città del nazismo’) e edifici moderni, ben più avveniristici di quelli odiati da Hesse, ma perfettamente inseriti nel tessuto urbano pedonale. Il tutto senza gli odiosi ed assordanti rumori del traffico delle macchine che tanto avevano disturbato lo scrittore.
E ora è arrivato il momento di inquadrare questa visita nell’evento che ha fornito l’occasione di incontrare la città. E ci arrivo partendo da un punto di vista particolare. In letteratura mi ha sempre colpito un elemento: il topos letterario (dal greco τόπος, luogo), che raffigura un motivo, un tema, una situazione o uno schema narrativo ricorrente, luogo metaforico o schema predefinito, ma anche, spesso, un luogo fisico, determinante, a volte, nella vicenda narrata (la locanda, l’osteria, la foresta…).
Ecco, in questo breve soggiorno a Norimberga, due τόποι hanno segnato i percorsi: der Kreis (il Cerchio) e die Brücke (il Ponte). La Kreis Galerieè lo spazio espositivo a cui afferisce l’omonimo gruppo di artisti (un cerchio, appunto, formato rigorosamente e unicamente da 30 soggetti) operanti dal 1949 nella città tedesca.
Locandina della mostra
Qui è allestita la mostra collettiva di artisti italiani presentati dalla Galleria del Carbone di Ferrara e tedeschi, per effetto del Ponte nato circa venti anni fa, come ha raccontato nella inaugurazione la mattina del 10 agosto l’artista Christoph Gerling.
«Il ponte con Ferrara – ha detto – è nato ancora prima della vera e propria collaborazione tra gallerie d’arte. Ero in Sardegna con un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Norimberga per visitare una Accademia italiana e il pittore ferrarese Giorgio Cattani mi invitò nella sua città. Nel 2008 ha inizio la frequentazione, molto proficua, con la Galleria del Carbone, concretizzata in alcuni fondamentali momenti espositivi a Ferrara, a Hersbruck e a Norimberga. In particolare questa mostra, che alla Kreis Galerie rimarrà sino al 7 settembre, si sposterà a gennaio appunto a Hersbruck, così che il Ponte sarà realizzato compiutamente.»
Dopo il saluto agli organizzatori, agli artisti e a tutti i presenti da parte della presidente della Kreis Galerie, Beate Babersk, Paolo Volta ha sottolineato il particolare significativo del 2000, sia come anno di collocazione della Kreis in questo luogo significativo, che della nascita della Galleria del Carbone a Ferrara.
Facciata della Kreis Galerie – Norimberga
Un angolo della mostra
Inaugurazione. B. Baberske, C. Gerling e P. Volta
Ha poi aggiunto: «è una relazione che dal 2008 si costruisce e rafforza di anno in anno, grazie agli incontri e agli scambi che consentono di sommare ogni volta dei mattoni di conoscenza e di esperienza che mescolati fra di loro creano un’opera unica.»
Ho poi voluto intervistare la Presidente sulle caratteristiche della Kreis Galerie, che mi è apparsa, nelle sue parole, come una realtà culturale ed espositiva molto vivace e ricca di attività in collaborazione con altri Paesi, Europei e non, a creare una rete che mette in evidenza anche l’importanza della collocazione, in un punto strategico della Via dei Diritti.
La Via dei Diritti – Norimberga
La Galleria, infatti, si trova: quasi di fronte al Germaniches Nationalmuseum in un angolo della Via dei Diritti Umani progettata nel 1988 dall’artista israeliano Dani Karavan e inaugurata il 24 ottobre 1993. Una installazione dedicata alla Dichiarazione Universale ONU dei Diritti dell’Uomo del 1948 e costituita da 30 elementi come il numero degli articoli della Dichiarazione: 27 colonne, due lastre nel terreno e una quercia colonnare, distanziati regolarmente a 5 metri lungo un asse.
In ogni elemento è inciso un articolo della Dichiarazione, prima in lingua tedesca e in seguito in un’altra lingua per evidenziare l’universalità dei diritti umani. Alle estremità della via da una parte vi è un suggestivo portale in marmo che indica l’inizio della camminata, e dall’altra vi sono le mura medievali della città, sopravvissute ai bombardamenti.
La mostra raccoglie quadri, disegni, sculture, installazioni, opere di grafica in un percorso che si articola nei tre livelli dell’edificio, lungo le pareti e ai lati della scala che conduce al soppalco, con una stretta, affascinante scala a chiocciola che porta al livello inferiore ed è un bel viaggio per gli occhi e la mente quello che è dato compiere tra questi spazi.
Il gemellaggio artistico ha avuto anche un gradevolissimo risvolto conviviale la sera del 9 agosto, quando, su iniziativa di Christoph Gerling e Barbara Henning, siamo stati accolti splendidamente dalla Comunità di Deckersberg, a pochi chilometri da Norimberga, con ottima birra e squisiti manicaretti della cucina tipica e simpatia ed allegria e canzoni italiane e tedesche accompagnate da una deliziosa ukulele e da percussioni improvvisate.
Al rientro, ho voluto approfondire con Paolo Volta eLucia Boni alcune tappe significative del percorso fatto insieme tra la Galleria del Carbone e i due spazi espositivi in territorio tedesco coinvolti nel gemellaggio: il Deutsches Hirtenmuseun di Hersbruck e la Kreis Galerie di Norimberga.
Un percorso segnato da stimolanti ed interessanti mostre ed esibizioni: nel 2008 prima a Norimberga poi a Ferrara Kunst in der Tasche, una serie di piccoli lavori 10×10; nel 2009, al Carbone, mostra personale di Christoph Gerling, Kopf; nel 2013 in primavera Ferrara a Norimberga e in autunno Norimberga a Ferrara; nel 2014 a Ferrara Nei meandri della bellezza (titolo ispirato alle molte anse del fiume Pegnitz che bagna le città di Hersbruck e Norimberga); nel 2018 una suggestiva mostra di lavori dentro quel fiume, Kunst im Fluss e diverse altre…
W. Uhlig – bozzetto Olimpia Morata
E dai loro ricordi è emersa una ‘chicca’: Wilhelm Uhlig, famoso scultore tedesco in mostra al Carbone nel 2013, rivela il suo grande interesse per la figura di Olimpia Morata, in relazione alla realizzazione, allora in corso, di un suo bozzetto ritraente la fanciulla ferrarese e naturalmente scatta la ricerca relativa alle ragioni che legano Olimpia a Norimberga e scopriamo che fu costretta a fuggire da Ferrara col marito, il giovane medico Andreas Grunthler dopo gli anni proficui anche di studi vissuti come damigella presso la corte di Renata di Francia, a causa della crescente intolleranza religiosa entro il ducato Estense nei confronti degli stranieri a partire dal 1550.
Dopo un breve soggiorno a Kauferen nei pressi di Augusta, i due si spostarono a Schweinfurt, libera città imperiale, ma nel 1553 la situazione di Schweinfurt divenne molto pericolosa a motivo delle guerre che devastavano la Germania.; quando la città fu attaccata dalle truppe dei vescovi di Bamberga, Würzburg e Norimberga, dovettero fuggire prima a Hamelburg e poi a Heidelberg, dove Olimpia si ammalò di tubercolosi, e morì il 26 ottobre del 1555. Legame sottile, quindi quello di Olimpia con Norimberga, ma sufficiente a far sì che in suo onore nel 2013 venisse bandito il concorso al quale si trovò a partecipare lo scultore Uhlig.
Libri e siti consultati:
Hermann Hesse, Viaggio a Norimberga, Adelphi Milano 2019
“Credo che compito del poeta sia quello di far nuove le parole o di sfuggire le insidie del luogo comune” (Ennio Flaiano)
“Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti.” (Arthur Schnitzler)
Quando Francesco Monini e Giampaolo Benini iniziarono a parlarne, io non facevo parte della partita. Era il gennaio 2020 e FerraraItalia si stava ristrutturando/trasformando in Periscopio. Si progettavano nuove rubriche e la forma espressiva della poesia era già una caratteristica del giornale. C’era “Per certi versi “, la rubrica domenicale con le poesie di Roberto Dall’Olio ma c’era anche l’esigenza di uno spazio dove dare voce alle tante sensibilità poetiche con cui si avevano contatti, rapporti.
Poco tempo prima dell’esordio di “Parole a capo“, sono stato coinvolto nel progetto.
Maggio 2020: si parte. Poeti e poete locali e da tutta Italia.
Sicuramente, l’utilizzo dei “social” (Facebook in primo luogo) ha favorito la conoscenza della rubrica, dei tanti siti dedicati alla poesia e dei tanti autori e tante autrici di poesia. Ogni volta che si contattava un/una poeta, c’era in me una forma di timore. “Chissà se mi risponde”, mi dicevo. In realtà, le risposte ci sono quasi sempre state e nell’80% positive.
Altro versante, fonte di espansione poetica, sono stati i reading, gli incontri di poesia organizzati dal collettivo/Associazione Ultimo Rosso in centro a Ferrara. In “Parole a capo” si sono date notizie, immagini delle mostre foto-poetiche organizzate, degli incontri in trasferta (circolo ARCI San Lazzaro a Bologna; Conselice (RA); Lagosanto; Cà Cornera – Porto Viro; Guarda Ferrarese; Voghiera). Le anteprime, di libri di poesia, sono state numerose e, sinceramente, ne vado umilmente orgoglioso.
La risposta di poete e poeti, alla mia proposta di un numero speciale di “Parole a capo”, è stata notevole e certamente vi sarà una seconda uscita. Poi, chissà…
Grazie e buona poesia.
“Egli tace”
Infine morti chiedono vendetta
nella terra di Cristo
ma la tua Trinità tace nel credo
che dal silenzio ha piano di rinuncia.
Solo polvere! Mentre il sangue sporca
Le vesti consuete e non consola
al fuoco che sfilaccia fratricidi.
Cercano quelle scuse indifferenti
fra le rovine, non un grido d’assedio
mentre il guinzaglio del potere
immobilizza la fede.
Eppure mi sta stretto l’universo
così zeppo di refoli defunti,
sparsi dovunque in docili filari
che affollano le stelle.
Ecco un pannello ricco di mitraglie
ricamato nell’ardire di rinunce
come assenza di Dio.
E’ Babele che incombe in questo mondo
di lingue frantumate
e dove l’odio è capace
d’inchiodare il fratello a nuova Croce.
Mettere a tacere la stanchezza del rifiuto
è il vero prezzo di opposte resistenze
nel logorante segno degli inganni
capaci di corrompere ogni traccia
dell’umana pietà,
tra sguardi brulicanti di burrasca.
(ANTONIO SPAGNUOLO)
*
Verde colore delle fate, come
le piane dei tuoi luoghi scellerati —
come il cuore scambiato tante volte
per un deserto, un’allucinazione —
verde segno di terra, il tuo cognome,
la firma estesa con tutti i tuoi lati
celati e già visibili, le volte
bianche d’orgoglio senza rifrazione —
gli scossoni del sonno, dell’umore,
il dittongo del nome, la certezza
che siamo insieme denti di leone —
disumana dolcezza, sospensione.
(LARA PAGANI)
*
Solo per te
Ho sbucciato le parole
Ad una ad una
I tuoi occhi nei miei bruciano
Capita di perdersi
Cadranno
Le futili promesse
Come foglie in autunno
Aspetterò la primavera
E ne farò buon uso
Se ti sembrerò incauta
Tu fidati
(SILVIA LANZONI)
*
Adiacenze
Secco il suolo custode del luogo
censura i gradi
sulle tacche del termometro
inesorabile teste d’uggioso fenomeno
Mi stempero nella punta di un desiderio
assonnato dal fresco
e mi rinfranco
Applico alle inesattezze la stessa premura
rivolta alle erbe di campo
Contigue al prato le bacche non lesinano
promesse
Giurano sul nubifragio
A breve
(CARLA FORZA)
*
Viene il vento del sud
tiepido e forte
cantano i pioppi
come in una cura naturale,
le foglie hanno voce
dolce e intensa
nella carezza che le muove.
Intreccio queste voci
con le mie parole silenziose
come onde in onde
sincrone,
navigo e volo
in questo mare
guardando, guardando…
(ANNARITA BOCCAFOGLI)
*
Il grande leccio
Il grande leccio cadendo non ha emesso alcun gemito
solo il tonfo sordo del tronco tra le felci
e qualche lacrima di linfa a profumare la scure…
Eppure è ancora così verde di giovani foglie
e le radici, profonde, sono ben salde al suolo.
Resta a memoria il moncone del fusto reciso:
è un grido disperato che non emette suono,
ma a sera nel camino i rami parlottano tra loro
e una canzone triste si leva dalla fiamma:
ha la forma di una silfide che danza,
avvolta da scintille, e geme con quella voce antica
a cui più nessuno crede eccetto poeti e boscaioli.
(VALENTINA MELONI)
*
E’ la carne
del tuo collo
a piegarsi nelle sere
dove pare finisca
il mondo.
La tua mano
scioglie l’aria,
in fondo al muscolo
del braccio
staccato dal cielo
bruciato dal rosseggiare
di uno sfondo
di un conato
accanto ad un’illusione.
(GIORGIO BOLLA)
*
SOSTA
Qui
Sotto un maestrale stranamente aggraziato
Sotto un sole che non randella
Con la valigia aperta dei pensieri
temporaneamente ben ordinati
Senza rimpianti o guizzi di rimorsi
Ecco, ora
Potrei felicemente cambiare campo e
Cambiare dimensione e consistenza
Così capirei bene
A chi poter raccontare storie e leggende
Dell’al di qua.
(ELENA VALLIN)
*
SILVIA
Poco oltre,
il grande leccio chiamava il nostro nome.
Dalle sue ali, come madre, si levava un fiato di vita.
Ci mostrava il tempo che non abbiamo conosciuto.
Poco oltre, poco oltre ancora,
ci attendeva un crepitio di fate
narranti di gioie e di fugaci speranze.
Poco oltre, poco oltre, ma così vicino
– se capovolgi lo specchio lo puoi vedere –
ci appare ora
il verde sogno che non abbiamo sognato, ancora.
(FRANCESCA TOTARO)
“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236
La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 300° numero.Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Flow, Oscar 2025 come Miglior film d’animazione: una vittoria storica
Il piccolo film del regista lettone Gints Zilbalodis ha ottenuto la statuetta degli Oscar 2025 come Miglior film d’animazione, battendo titoli ben più blasonati e mega-prodotti di grandi studi americani, come Inside Out 2 dei Pixar Animation Studios e Il robot selvaggio di DreamWorks Animation.
Home made
Non solo budget basso rispetto ai colossal animati ma uso di strumenti che possono avere tutti, una vera democrazia dell’immagine e della creatività. Per creare il film è stato, infatti, utilizzato Blender, un software di grafica computerizzata 3D open-source, accessibile a tutti e non un prodotto proprietario come quelli usati dai grandi studi. Tutto libero, no alle licenze.
Certo i personaggi hanno un aspetto meno ‘artistico’ dei disegni i delicati del vecchio stile Disney, a tratti quasi sfuocato, e sicuramente un po’ meno realistico, con contorni che ricordano la favola. Questo contrasto tra sfondi dettagliati e personaggi stilizzati è, però, una delle innovazioni visive più evidenti del film. Può piacere o meno. De gustibus.
Inizialmente ci ha lasciato perplessi, forse aspettandosi altro di più, visto l’Oscar, poi, ripensandoci, abbiamo colto: “Flow” è un film muto, che comunica la storia e le emozioni unicamente tramite l’azione veloce, spesso travolgente, prorompente e dirompente, e, soprattutto, con le immagini e i suoni ambientali e dei versi degli animali, scelti per riflettere il carattere delle creature. La natura nella sua più essenza più pura.
L’emozione è tutto
Siamo davanti a un film di animazione adatto a tutti, forse più ai grandi, che crea, nello spettatore un vero senso di immersione, con grande empatia.
Eccoci davanti a un gatto nero che vede salire pericolosamente intorno a sé il livello dell’acqua, come in un diluvio universale che mira a sommergere il suo mondo.
Il gattino inizia a saltellare, nuota a fatica, quasi affogando, fino a che salta a bordo di una vecchia barca che ospita un gruppetto di simpatici, e molto diversi, animaletti in fuga. Sono un labrador, un capibara, un lemure e uno strano uccello gigante che potrebbe rivelarsi un pericoloso predatore ma che, alla fine, sarà il fido e impavido timoniere. Lezione uno.
Subito si pensa alle alluvioni, alle catastrofi legate al cambiamento climatico, all’Arca di Noè, dove a salvarsi sono solo gli animali. L’Uomo, d’altronde, nel film, è totalmente assente. Restano solo rovine abbandonate e deserte di civiltà antiche, forse scomparse.
Tutto è lasciato all’immaginazione. C’è spazio per pensare e immaginare.
Tempo e luogo sono indefiniti, bisogna sopravvivere, come gli animali sanno ben fare.
Il gatto, indipendente per natura, e inizialmente preoccupato solo di salvare sé stesso, dovrà imparare a fare squadra, volente o nolente. Altra lezione.
Acqua ovunque, mentre tutto scorre
L’acqua che invade lo schermo precorre parla di impotenza di fronte alle inondazioni, di una Natura dove tutto scorre, come la vita. Un mondo dove la Natura sopravvive anche senza l’Uomo. Sensazione che abbiamo vissuto anche recentemente.
Nessun catastrofismo ma eventi che scorrono sotto la mutevole forma dell’acqua.
Ill film è di certo un’ammonizione di ispirazione ecologista ma, di fonte ad un mondo animale che, alla fine si aiuta comunque e sempre, nonostante la diversità naturale, è, soprattutto, un’ode potentissima alla solidarietà e alla cooperazione, necessarie per sopravvivere anche agli eventi che rischiano di annullarci per sempre.
Meraviglioso invito a tendere una mano, sempre. Lezione finale.
Flow, di Gints Zilbalodis, Lettonia, Francia, Belgio, 2024, 80’
Toni Servillo e Jane Campion incontrano i detenuti degli istituti penitenziari di Venezia
Progetto teatrale Passi Sospesi: l’attore Toni Servillo alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia e la regista Jane Campion alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, nell’ambito della 82a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
La Biennale Cinema 2025 nelle Carceri di Venezia: arte e cultura per l’inclusione sociale
La proficua collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia e La Biennale di Venezia prosegue anche quest’anno in occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, con il sostegno e l’impegno della direzione delle carceri. Le attività sono coordinate dal progetto teatrale “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro, attivo dal 2006.
L’impegno congiunto del direttore della Casa Circondariale maschile, Enrico Farina, e della direttrice della Casa di Reclusione femminile, Maria Grazia Bregoli, è fondamentale per sostenere queste iniziative che mirano a guardare a una prospettiva culturale, utilizzando l’arte, il teatro e il cinema come strumenti per affrontare le tematiche della reclusione e dell’esclusione sociale. La cultura viene considerata come un elemento essenziale per la testimonianza, la memoria e la creazione di una rete sul territorio, promuovendo la tutela delle fasce più deboli della società e favorendo l’inclusione.
Incontri di spicco con artisti del cinema.
Le iniziative, avviate nel 2008, si svolgono sia all’interno che all’esterno della Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore e della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Negli anni, sono stati organizzati incontri e proiezioni di documentari. Michalis Traitsis, coordinatore del progetto, ha invitato registi e attori ospiti della Mostra per confrontarsi con la popolazione detenuta. Tra le figure di spicco che hanno visitato le carceri veneziane si annoverano Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio, David Cronenberg, Paolo Virzì, Daniele Luchetti, Leonardo Di Costanzo, Silvio Orlando, Susanna Nicchiarelli, Matteo Garrone, Pupi Avati, Francesca Comencini, Fabrizio Gifuni.
Programma nell’ambito della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
Nell’ambito della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, sono stati confermati due appuntamenti di rilievo:
Venerdì 29 agosto 2025: alle ore 10:00, presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, si terrà un incontro tra i detenuti e l’attore Toni Servillo, presente alla Mostra del Cinema con il film “La Grazia” di Paolo Sorrentino.
Venerdì 5 settembre 2025: alle ore 10:00, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, le detenute incontreranno la regista cinematografica Jane Campion, ospite speciale della Mostra del Cinema.
Questi eventi, coordinati e moderati da Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, sono un momento cruciale di scambio e riflessione culturale tra il mondo del cinema e la realtà penitenziaria.
L’importanza della rete di partner. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e La Biennale di Venezia continua a essere un punto di riferimento per diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari. Questo è reso possibile anche grazie al supporto di una solida rete di partner, che include il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’International Network for Theatre in Prison, il Teatro Stabile del Veneto, la Fondazione di Venezia tra gli altri.
Digiuno e Presidio per Gaza, anche la Comune di Ferrara aderisce.
Anche La Comune di Ferrara aderisce alla giornata di digiuno collettivo per Gaza, indetta dagli operatori sanitari per oggi giovedì 28 agosto su tutto il territorio nazionale.
Insieme alla consigliera Anna Zonari digiunano anche Giuliana Andreatti, Daniela Cataldo, Andrea Firrincieli, Cinzia Pusinanti, Giovanna Tonioli e Marcella Ravaglia.
Parteciperemo al Presidio organizzato presso la Cittadella di San Rocco per il 28 agosto alle ore 14.
Oramai i numeri prodotti dai crimini orribili che Israele consuma ai danni di chi vive e porta soccorso a Gaza e in Cisgiodania, i numeri del genocidio della popolazione palestinese in corso da 23 mesi, rischiano di creare una carestia delle coscienze. Proviamo a gettare un seme in questo deserto di umanità prendendo a prestito le parole di Susan Abulhawa, scrittrice palestinese-statunitense, che si rivolge agli oppressori sionisti:
“Non capirete mai la sacralità degli ulivi, che avete tagliato e bruciato per decenni solo per farci dispetto e per spezzarci un po’ di più il cuore. Nessuno nativo di quella terra oserebbe fare una cosa del genere agli ulivi. […] Non siamo le rocce che Chaim Weizmann pensava avreste potuto spazzare via dalla terra. Siamo il suo stesso suolo. Noi siamo i suoi fiumi, i suoi alberi e le sue storie, perché tutto ciò è stato nutrito dai nostri corpi e dalle nostre vite nel corso di millenni di continua e ininterrotta abitazione di quel pezzo di terra tra il Giordano e le acque del Mediterraneo, dai nostri antenati cananei, ebrei, filistei e fenici, da ogni conquistatore o pellegrino che è venuto e se n’è andato, che si è sposato o ha violentato, amato, ridotto in schiavitù, si è convertito, insediato o ha pregato nella nostra terra lasciando pezzi di sé nei nostri corpi e nella nostra eredità. Le storie leggendarie e tumultuose di quella terra sono letteralmente nel nostro DNA. Non potete ucciderlo o portarvelo via con la propaganda, non importa quale tecnologia di morte usate o quali arsenali di Hollywood e società di media schierate. Un giorno la vostra impunità e arroganza finiranno. La Palestina sarà libera, sarà restaurata alla sua gloria multireligiosa, multietnica e pluralistica, ripristineremo ed estenderemo i treni che vanno dal Cairo a Gaza, a Gerusalemme, Haifa, Tripoli, Beirut, Damasco, Amman, Kuwait, Sanaa e così via, porremo fine alla macchina da guerra sionista-americana di dominazione, espansione, estrazione, inquinamento e saccheggio. … e voi o ve ne andrete, o imparerete finalmente a vivere con gli altri come pari.”
Da mesi aderiamo o semplicemente partecipiamo alle numerosissime iniziative che sono nate per denunciare il genocidio della popolazione palestinese, portandone l’eco in Consiglio comunale. Continuiamo a chiedere che Governo e istituzioni agiscano da subito per mettere fine ai crimini di Israele.
Il film “The Truman show” racconta la storia di Truman Burbank, un lieto cittadino sulla trentina che vive fin dalla culla immerso inconsapevolmente in un set televisivo, in cui si svolge un serial di enorme successo incentrato appunto sulla sua vita. Quindi tutto attorno a lui è finto, ma al contempo per lui profondamente reale perché é la sua vita, l’unica che ha mai conosciuto. Tutte le persone, genitori compresi, dalle quali è circondato sono attori; il suo ambiente naturale – un’isoletta – è del tutto artificiale, compreso il cielo, la luna, la pioggia. Tuttavia, fino a che non precipita accidentalmente un riflettore dal cielo, lui non si accorge di nulla. Da quel momento in avanti, la presa di coscienza dell’incredibile inganno in cui consiste ab origine la sua vita progredisce fino a sconvolgerlo completamente (e a chi non accadrebbe la stessa cosa?). Alla fine Truman fugge dal serial e comincia a vivere finalmente un’esistenza “normale”.
Chi è nato e vive in Israele subisce un condizionamento educativo e culturale tambureggiante fin dalla scuola materna. In questovideo una insegnante israeliana racconta il lavaggio del cervello degli studenti che avviene attraverso la sistematica caricatura e disumanizzazione dell’ etnia palestinese, dai libri di testo all’affermazione continua che colpire i palestinesi serve a prevenire un altro Olocausto. Ronnie Barkan è un insegnante di matematica nato e cresciuto a Raanana, vicino a Tel Aviv. E’ divenuto uno dei più attivi intellettuali di denuncia della politica educativa sionista: sionismo che tra l’altro, operando una indebita identificazione tra ebraismo e stato coloniale, diventa secondo Barkan uno dei principali nutrienti del rigurgito di antisemitismo nel mondo, creando per opposizione l’idiota e pericolosissima identificazione tra ebrei e stato israeliano. In questo video puoi vedere una sua intervista in cui Barkan descrive chiaramente il processo di indottrinamento e di brainwashing cui viene sottoposto ogni bambino israeliano fin dalla scuola d’infanzia.
Questo rovesciamento della prospettiva di realtà è tale per cui, come afferma il giornalista israeliano di Haaretz Gideon Levy, lo Stato israeliano è l’unico Stato oppressore e segregazionista che rappresenta costantemente se stesso come la vittima, anzi come l’unica vittima. Ma l’evento che mostra il salto di qualità dall’indottrinamento interno al Truman Show è l’ingaggio di una decina di influencers, incaricati di mostrare ai cittadini israeliani e al mondo che a Gaza City i ristoranti sono pieni, si fa la fila per entrare e chi non mangia lo deve ad Hamas. Ricordo che per la striscia di Gaza l’ONU ha appena dichiarato lo stato di carestia, che non è una semplice quanto grave penuria di cibo. Cito dal sito Unicef, qui: “Solo a luglio, oltre 12.000 bambini sono stati identificati come affetti da malnutrizione acuta – la cifra mensile più alta mai registrata e sei volte superiore all’inizio dell’anno. Quasi uno su quattro di questi bambini soffriva di malnutrizione acuta grave (SAM), la forma più letale, con conseguenze gravi sia a breve che a lungo termine. Dall’ultima analisi IPC di maggio, il numero di bambini che entro giugno 2026 si prevede saranno ad alto rischio di morte per malnutrizione è triplicato – da 14.100 a 43.400. Analogamente, per le donne in gravidanza e in allattamento, i casi stimati sono triplicati, da 17.000 a maggio a 55.000 entro metà 2026. L’impatto è evidente: un neonato su cinque nasce prematuro o sottopeso.”
A fronte di questa indescrivibile e indifendibile situazione, non è che Israele decide di far entrare giornalisti indipendenti da tutto il mondo per dimostrare quello che afferma ogni giorno, e cioè che non c’è carestia e che il cibo manca perchè lo sequestrano “quelli di Hamas”. No: paga dei prostituti intellettuali social israeliani e statunitensi – gente che per ragioni a me sconosciute ha accumulato un certo seguito di sfigati digitali – che dichiarano esservi abbondanza di cibo, girando in un piazzale pieno di derrate o in giro con la jeep: stando però alla larga dai punti di distribuzione dove i soldati sparano come al luna park sulla folla accalcata per il cibo. Trasalite di fronte a questo video, trumaniano quanti altri mai, in cui si vede un montaggio di immagini di gente che affolla i ristoranti in quella che viene indicata essere come Gaza City. Peccato che il famoso cuoco pluristellato Josè Andrès abbia interrotto il lancio di derrate alimentari su Gaza attraverso la sua ONG dopo che sette dei suoi collaboratori sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, e dichiari che non riesce più a cucinare pasti in loco da quando Israele non fa più passare le materie prime per la preparazione dei pasti (leggi qui).
Oltre a preoccuparsi di sfamare la popolazione, l’esercito si preoccupa di tutelare i giornalisti(che sono tutti arabi free lance che lavorano per varie testate tra cui Reuters, Associated Press e Nbc). La preoccupazione di Israele per la loro incolumità la puoi apprezzare inquesto video di 35 secondi che mostra come, il 25 agosto, cinque di loro sono stati dilaniati da un drone, assieme ad alcuni soccorritori, sulle macerie di quel che restava dell’ospedale Nasser, nel sud della striscia di Gaza, già bombardato prima.
Israele fa vivere i suoi cittadini in un Truman Show, e adesso sta cercando di esportare il prodotto in giro per il mondo. Per renderlo appetibile ricorre a figuranti dall’immagine smart perché non può più utilizzare rappresentanti istituzionali: ministri, ambasciatori, corifei, senatori statunitensi a libro paga dell’AIPAC vengono dileggiati in ogni consesso pubblico, contraddetti da decine di giornalisti, compresi coloro che avevano sempre preso le parti di Israele (il caso più eclatante è quello di Piers Morgan), smentiti persino da ex ministri e agenti segreti di Israele. Sempre più persone gridano la loro indignazione in faccia ai deputati e senatori eletti col loro voto e comprati dalle lobby israeliane per negare l’evidenza, o il loro schifo ai convegni della Microsoft intitolati “informatica ed etica” quando la Microsoft è dichiarata, anche nel rapporto di Francesca Albanese, come la fornitrice dei servizi di sorveglianza a scopo militare per Israele: le inchieste pubblicate dal Guardian e dalla rivista israeliana +972 Magazine, hanno rivelato che l’unità di intelligence israeliana Unit 8200 avrebbe archiviato milioni di conversazioni telefoniche usando il software Azure (Microsoft si difende e promette “revisioni urgenti” della sua prestazione di servizi). Contestualmente, aumentano le persone che vogliono uscire dal Truman Show: famiglie israeliane in fuga da uno Stato nel quale non si sentono più al sicuro, giovani israeliani che rifiutano di essere arruolati per collaborare alla mattanza, soldati IDF (guarda qui) che confessano di ricevere l’ordine di sparare a qualsiasi cosa si muova, persino rabbini ortodossi che rifiutano pubblicamente di essere associati al suprematismo criminale imperante al governo.
Se Israele ha deciso alfine di mettere in scena un Truman show alle porte di Gaza, dipende dal fatto che, nonostante le potentissime connessioni tra politica, economia e propaganda, che tengono gli Stati Uniti abbracciati mortalmente allo stato israeliano; nonostante la censura social prezzolata che mostra solo una piccola parte dei contributi pro Palestina postati; nonostante tutto questo i video, le immagini, le testimonianze circostanziate, i racconti del sopruso, del massacro, del sadismo, tutti questi granelli di informazione diffusa e di base scagliati sul set fake dietro cui si consuma l’orrore, stanno facendo crollare il teatro di posa. Sono del resto i soli strumenti che ciascun attivista, operatore dell’informazione, della sanità, intellettuale o cittadino comune, dalla propria posizione priva di qualsiasi protezione istituzionale, può agire per far uscire più gente possibile dal Truman Show e denunciare l’inaccettabile realtà di uno Stato che predica e pratica l’omicidio su larga scala e su base etnica. Sono anche i soli strumenti cui il cittadino può attingere per comprendere e chiedere di fermare la follia suprematista, mentre gli stati dell’occidente continuano a non fare assolutamente nulla per arrestarla (comincia a muoversi qualcosa per adesso solo in Norvegia e Australia). In questo quadro, che alimenta uno stato d’animo personale e collettivo di rabbia, frustrazione e disperazione, corro con la memoria ad un precedente che è stato per decenni l’ epitome del regime oppressivo, segregazionista e razzista, ed è sembrato per decenni immodificabile: il Sudafrica dell’apartheid. Alla fine l’avvocato Nelson Mandela, dopo 27 anni di carcere, ne è diventato il presidente. A volte, proprio quando la via di uscita sembra più lontana, possono succedere cose che spostano gli equilibri, e ciò che sembrava impossibile diventa all’improvviso possibile. Insistiamo: parliamo, scriviamo, dipingiamo, filmiamo, fotografiamo. Ognuno utilizzi la propria voce, il proprio mezzo di espressione preferito. Ognuno ci metta il proprio briciolo di responsabilità. Tra dieci anni questo scempio dell’umanità sarà sui libri di storia, ma adesso accade in streaming: non fatevi dire dai vostri figli che non avete mosso un dito.
“Come un albero”, edito da Rizzoli: con i testi di Maria Gianferrari e le illustrazioni di Felicita Sala, una celebrazione delle creature più sorprendenti della natura.
Forse non ci avete mai fatto caso, ma siamo come un albero: la colonna vertebrale è il tronco che dà forma e sostiene, la pelle è come la corteccia, morta fuori ma a protezione di quanto si ha dentro, il cuore pulsante dà forza e sostegno, come la linfa.
E poi ci sono le chiome multiformi, i capelli più o meno arruffati, più o meno folti e diversi. Pronte a ricevere la luce, a filtrare la polvere e a offrire ombra alle radici nei giorni più caldi. Protezione alla protezione.
Attaccati, ancorati alla terra, saldi, solidi, sicuri, proiettati verso il cielo, con o senza nubi.
Come gli alberi, dobbiamo sentire le nostre radici affondare ed espandersi nel terreno per sostenerci, puntare in alto, tendendo i rami/le braccia verso il sole. Magari ringraziandolo, di tanto in tanto, per la luce e l’energia che ci infonde.
Muovere le foglie al vento per respirare l’aria, bere il sole e dare energia a noi stessi e al mondo intero, scrutando l’orizzonte.
Siate alberi! Fermi sotto le intemperie, capaci di piegarsi ma senza spezzarsi. Anche se può capitare, di spezzarsi, magari sotto le furie di un fulmine che non guarda in faccia nulla e nessuno. Ma poi ripararci e ripartire. Ricucire le ferite.
E, come tutti gli uomini, anche gli alberi sono esseri sociali. Comunicano tra loro, condividono cibo e risorse, si sostengono, si avvisano in caso di pericolo, si prendono cura l’uno dell’altro e, quando sono insieme, sono più forti. Empatia.
In una grande rete sotterranea di informazioni, rallentando i venti impetuosi, casa indispensabile di uccelli, mammiferi e insetti.
Come gli alberi, anche noi non siamo soli, siamo alberi in mezzo ad altri alberi.
Degli alberi dobbiamo ammirare la bellezza e la maestosità, e imparare da loro come diventare una persona migliore. Possiamo farcela?
Siate alberi, allora, e insieme saremo foresta!
FELICITA SALA è un’illustratrice autodidatta. Nata a Roma, si trasferisce in Australia all’età di sette anni. Qui si laurea in Filosofia, e dopo qualche anno torna in Italia, dove scopre il mondo dell’illustrazione. Decide di intraprendere questa strada e dopo tanta ricerca, pubblica il suo primo libro illustrato con Walker Books, e due anni dopo il primo albo illustrato in Italia con Zoolibri. Da allora ha illustrato libri per editori di tutto il mondo. Nel 2018, il New York Times ha inserito il suo libro ‘She Made a Monster’ tra i migliori dieci dell’anno, e, di nuovo nel 2023, con il libro ‘As Night Falls’. Il suo libro ‘Una festa in Via dei Giardini’ è stato tradotto in più’ di 18 lingue. Nel 2020, ha vinto il Premio Andersen in Italia come miglior illustratrice. Nel 2023 ha vinto la medaglia d’oro alla Society of Illustrators di New York. Oggi vive a Roma con la sua famiglia.
MARIA GIANFERRARIè cresciuta a Keene, nel New Hampshire e scrive libri illustrati sia di narrativa che di saggistica. Trae ispirazione dal legame tra uomo e animale. Adora i cani e la maggior parte dei suoi libri illustrati di narrativa li ha come protagonisti principali, ispirati dalla amatissima cagnolina Becca, scomparsa nel 2017. I libri illustrati di saggistica si concentrano sul mondo naturale. Ama gli alberi, gli uccelli e ogni tipo di creatura selvatica, affascinata dal tema dell’ecologia urbana e dai modi in cui gli animali selvatici si sono adattati alla vita e alla coesistenza con gli esseri umani.
Abbiamo forse l’impressione di vedere un buon numero di messaggi postati sui social media a favore della resistenza palestinese, ma in realtà, secondo un gruppo di whistleblower (informatori) impiegati presso Meta – la Big Tech che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp – i messaggi che vediamo effettivamente sono solo una piccola parte di tutti i messaggi pro-Palestina che sono stati postati. La maggior parte non la potremo mai vedere perché è svanita nel nulla, censurata. E, sempre secondo questi informatori, a promuovere la massiccia censura dei post contro il genocidio in corso a Gaza c’è lo Stato sionista di Israele, con la piena complicità dei dirigenti di Meta.
Milioni di post spariti nel nulla
La denunciaappare in due documenti bomba che rivelano come oltre 90.000 post pro-palestinesi siano stati indebitamente rimossi da Facebook e da Instagram su richiesta specifica del governo israeliano. I documenti offrono persino un esempio delle email che Israele ha scambiato con Meta per far sopprimere tutti quei post che Tel Aviv giudica «pro-terroristi» o «antisemiti» (in realtà, dicono gli informatori, si tratta di normali messaggi di solidarietà per la causa palestinese.) Inoltre, a causa dell’effetto a cascata insito negli algoritmi usati da Meta per vagliare in automatico i messaggi postati sulle sue piattaforme, altri trentotto milioni di post pro-Palestina sarebbero spariti nel nulla dal 7 ottobre 2023. In pratica, si tratta della più grande operazione di censura di massa nella storia moderna, concludono questi informatici militanti che ora, con il loro sito ICW (International Corruption Watch), hanno indossato anche i panni di giornalisti investigativi alla Julian Assange.
Ma non si tratta soltanto di denunce di atti di censura. Le rivelazioni dell’ICW mostrano come l’Intelligenza Artificiale (IA) possa essere facilmente manipolata per dare risposte tendenziose: proprio quelle volute da chi abbia avuto i mezzi per “avvelenare il pozzo” dei dati, come, in questo caso, Israele. Si tratta di una denuncia che ci deve far riflettere tutti. Perché se l’IA può essere manipolata, allora anche noi possiamo essere manipolati ogni volta che leggiamo una cosiddetta risposta “obiettiva” generata dall’IA in una ricerca su Google, ogni volta che poniamo un quesito a un’app IA che si professa “imparziale” come ChatGPT o, infine, ogni volta che scegliamo di guardare un video segnalatoci da una lista creata dall’IA di YouTube in base a sedicenti criteri di “popolarità”. (In un precedente studio, l’ICW ha mostrato come, in realtà, gli algoritmi di YouTube – in maniera estremamente sottile – spingano a visionare video politicamente orientati a destra.) In altre parole, l’apparente neutralità degli algoritmi usati non solo da Meta ma da tutte le Big Tech è puramente illusoria e dobbiamo esserne consapevoli.
In foto: Una protesta pro-palestinese contro la censura di Meta
Per Meta i meccanismi sono imparziali
Meta sostiene, invece, che i meccanismi che usa per censurare determinati messaggi postati sui suoi social media siano imparziali. Infatti, spiega Meta, in alto a destra di ogni post che appare su Facebook o su Instagram c’è un tasto «Report» («Segnala») per consentire a chiunque di segnalare che quel post andrebbe rimosso – perché, ad esempio, sprona alla violenza, usa la calunnia o costituisce bullismo. Quindi tutti gli utenti possono fare una “proposta di rimozione” (takedown request) riguardante qualsiasi post che essi giudicano offensivo; saranno poi gli algoritmi di Meta a decidere se un post è davvero da rimuovere o meno, in base a una valutazione “obiettiva”. In conclusione, secondo Meta, se spariscono tanti post pro-palestinesi dalle sue piattaforme, è soltanto perché molti utenti li hanno segnalati come offensivi e l’algoritmo “obiettivo” di Meta ha convalidato questo giudizio.
Ma chi abbia usato il tasto «Report» sa benissimo che solo in alcuni casi una richiesta di rimozione fatta da un utente qualsiasi viene accettata. La procedura illustrata da Meta non può spiegare la sparizione di trentotto milioni di post pro-palestinesi.
Ciò che Meta non dice pubblicamente, infatti, è che esiste anche un secondo canale per far rimuovere post indesiderati ed è proprio quello che ha usato Israele. Si tratta di un indirizzo email riservato, divulgato solo a governi o a grossi enti internazionali, che consente loro di presentare richieste di rimozione che verranno prese in carico prioritariamente, non da un algoritmo, ma da un essere umano (un “verificatore”). Molti governi, infatti, ricorrono a questa procedura per far censurare messaggi postati dai loro cittadini malcontenti. Meta accoglie le loro richieste, almeno in parte, sia per compiacenza, sia per evitare che le sue piattaforme vengano oscurate in quei Paesi.
Israele, invece, è un caso a parte. Inoltra a Meta richieste di censurare i commenti critici postati dai propri cittadini solo nell’1,3% dei casi. (A titolo di paragone, il 95% delle richieste di rimozione fatte dal governo brasiliano riguarda messaggi postati dai cittadini brasiliani.) Ciò significa che nel 98,7% dei casi il governo israeliano chiede a Meta di censurare messaggi pro-Palestina postati sui social da cittadini che abitano fuori da Israele. E lo fa attraverso una sua Cyber Unit creata appositamente. Così Israele risulta il Paese con il maggior numero di richieste di rimozione pro capite – tre volte di più di qualsiasi altro Paese.
Non solo, ma a differenza di altri Paesi, Israele beneficia di un tasso di accettazione delle sue richieste del 94%, cifra che l’ICW giudica palesemente forzata e anche pericolosa. Infatti, siccome le accettazioni dei verificatori umani vengono poi usate per addestrare gli algoritmi di IA, quegli algoritmi subiscono un “avvelenamento” anti-palestinese e cominciano poi a censurare in automatico ogni futuro post con contenuti simili ai post rimossi dai verificatori umani su richiesta della Cyber Unit. In questa maniera, Israele riesce a censurare il resto del mondo.
Un dato sorprendente emerge poi dalle rivelazioni dei whistleblowerdell’ICW. Il Paese con il maggior numero di richieste di rimozione fatte dalla Cyber Unit non sono gli Stati Uniti o un paese europeo, bensì l’Egitto, che vanta il 21% del totale delle richieste di rimozione israeliane. Perché questa attenzione particolare all’Egitto? I documenti sul sito dell’ICW non lo dicono ma è facile indovinare: Facebook è il primario strumento di comunicazione tra gli egiziani ed è stata proprio una valanga di post su Facebook che ha innescato, nel gennaio e febbraio del 2011, manifestazioni antigovernative gigantesche in piazza Tahrir al Cairo (alcune con due milioni di partecipanti) e la conseguente caduta del regime del dittatore Mubarak. Oggi, un simile massiccio tam-tam di post su Facebook contro il blocco degli aiuti umanitari per Gaza al valico di Rafah potrebbe innescare un assalto popolare a quel varco. Infatti, esso si trova a sole cinque ore di macchina dal Cairo. Chiaramente, dunque, Israele ha ogni interesse a prevenire una simile protesta: se i manifestanti fossero due milioni come nel 2011, il loro assalto al varco sarebbe incontrollabile. Donde l’assoluta priorità data alla rimozione dei post egiziani pro-palestinesi.
In foto: Hosni Mubarak, l’ex dittatore egiziano dal 1981 all’11 febbraio 2011. È stata proprio una valanga di post su Facebook che ha innescato manifestazioni antigovernative gigantesche in piazza Tahrir al Cairo e la conseguente caduta del regime
I documenti fatti trapelare dai whistleblower di Meta sono stati elaborati da un informatico specializzato in IA, che si fa chiamare “nru”, per creare due documenti che egli ha poi pubblicato sul sitoICW: Meta Leaks Part 1 l’11 agosto 2025 e Meta Leaks Part 2 il 15 agosto 2025. I due documenti esistono anche in formato pdf: la prima parte si trova qui e la seconda parte qui. Una bozza della prima parte è apparsa l’11 aprile 2025 su DropSite News ma senza provocare reazioni. Ciò non significa, tuttavia, che la censura dei post pro-palestinesi da parte di Meta sia passata inosservata o che non susciti interesse.
Non si tratta del primo caso
Anzi, già un anno e mezzo fa (21 dicembre 2023), Human Rights Watch (HRW)ha formalmente accusato Meta di censurare con sistematicità una buona parte dei commenti pro-palestinesi postati su Instagram e Facebook. Come prove, HRW ha raccolto e analizzato le lamentele di un migliaio di utenti di queste piattaforme i cui post sono stati fatti sparire da Meta. Purtroppo, si tratta di prove necessariamente indirette perché HRW non ha accesso agli algoritmi usati; quindi Meta ha potuto attribuire le soppressioni dei post a non meglio precisati “bug” che ha poi promesso di correggere col tempo. E così, tutto è finito lì. Fino ad oggi.
Infine, grazie alla loro denuncia della tecnica di “avvelenamento del pozzo” dei dati praticata da Israele, abbiamo un’idea più chiara dei limiti dell’Intelligenza Artificiale. L’IA è palesemente un “pappagallo stocastico”, ovvero una creatura che “parla” usando calcoli di probabilità al posto di una vera consapevolezza di quello che dice. Questo pappagallo può essere ammaestrato, poi, a presentare prioritariamente le informazioni che i suoi padroni hanno voluto con maggiore insistenza fargli incamerare. In altre parole, apprendiamo che chiunque controlli l’addestramento di un’IA controllerà le basi e influenzerà le possibilità di deduzione grazie a cui quell’IA creerà le sue risposte. Oggi chi controlla l’IA in Occidente è una manciata di miliardari della Silicon Valley legati alla lobby sionista ma anche a tutte le più grosse lobby.
In conclusione, l’IA è da usare sì, ma con cautela; in quanto ai prodotti Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp), meglio smettere di usarli. Per quanto riguarda la vicenda Meta Leaks, essa svela soltanto una parte degli intrighi sionisti per soffocare il grido che sale da Gaza.
Patrick Boylan Californiano di nascita e italiano di adozione, cofondatore delle associazioni Rete NoWar, U.S. Citizens for Peace & Justice e Free Assange Italia. Formato come giornalista all’allora International Herald Tribune (Parigi), è autore dei libri Free Assange e Progressisti con l’elmetto: la Sinistra pacifista viene arruolata. Già professore di Inglese per la Facoltà di Comunicazione Interculturale all’Università Roma Tre, svolge training interculturali per enti ed aziende.
Cover: Benjamin Netanyahu, immagine Heute.at su licenza Creative Commons
Il Ponte sullo Stretto, un progetto irrealizzabile e un costosissimo imbroglio
Non è cambiato molto, in realtà, anche con il passaggio dell’approvazione da parte del CIPESS: il Ponte sullo Stretto è una partita che si gioca soprattutto, anzi quasi esclusivamente, sul piano propagandistico-finanziario, più di diverse altre grandi opere che pure presentano medesima propensione.
Questa però ha sempre posseduto una caratteristica in più: quella di dover rappresentare la figurina (o figurona) da agitare per ingannare e sottrarre risorse al Sud – e soprattutto alle due regioni Interessate.
Indirizzando ad arte attenzione e dibattito, subito rigonfiato dal fanfaronismo mediatico, alimentato dal più grande gruppo editoriale della Calabria e della provincia di Messina, primo beneficiario di gran parte dei fondi spesi nei 55 anni di sopravvivenza della procedura, nonché da diversi ministri dei Lavori Pubblici prima e delle Infrastrutture più di recente. Spesso politici lontanissimi dai reali bisogni e interessi di Sicilia e Calabria che credevano di risolvere tutto, almeno in termini di consensi, urlando le tre parole di Cetto la Qualunque (”Facciamo il Ponte”).
Salvo poi scoprire di aver riaperto una nuova puntata di una telenovela che non fa più nemmeno ridere (se non si fa parte della ristretta consorteria dei grand commis di stato che la gestisce); anzi nel tempo ha trasformato l’ovvio scetticismo dei territori interessati in opposizione vasta e tuttora crescente, di chi ormai sa bene che allorché si agita di nuovo la figurina ponte , in realtà si preparano fregature
I precedenti
Peraltro lo stesso partito dell’attuale Ministro delle Infrastrutture era ben consapevole di questo se nel 2011, allorché Berlusconi, dopo aver confermato il “Prosieguo della procedura” doveva annunciare le dimissioni del suo Dicastero per i noti problemi economici della fase (in una di quelle giornate la Prealpina, organo della Lega, titolava beffardamente “Il ponte porta sfiga!”.
Qualche tempo dopo, allorché era Renzi a rilanciare il progetto (salvo prodursi presto in una brusca ritirata, consigliatagli dai suoi luogotenenti calabri e siculi, ben consci del dissenso diffuso sull’operazione dovuto, tra l’altro, alla consapevolezza degli inganni di un progetto irrealizzabile), fu proprio Salvini a farsi intervistare dal giornale leghista che titolava a tutta pagina: “Renzi vuole finanziare un progetto che gli stessi progettisti dichiarano irrealizzabile!”.
Salvini primo sponsor
Oggi, da sponsor del Ponte, Matteo Salvini dichiara di aver cambiato idea. Ma qui c’è una forte contraddizione: si può cambiare idea, per scarsa conoscenza o disinformazione, su temi i cui elementi certi sono di difficile comprensione: i problemi economici e finanziari, l’impatto ambientale e paesaggistico, le ricadute e i dissesti indotti urbanistici e territoriali, le questioni socioculturali. Ma come si fa a cambiare idea sulla fattibilità -problema eminentemente tecnico- se gli stessi superesperti di allora, massimi conoscitori del progetto, in quanto coordinatori del comitato tecnico scientifico di Progettazione, confermano ancor oggi ripetutamente il giudizio di incostruibilità dell’opera?!
Infatti, anche in questi giorni i Tecnici delle Costruzioni di fama internazionale, consulenti del nostro come di altri governi e grandi imprese, già coordinatori -e per periodi non brevi- del gruppo di progettazione del ponte – in primis Remo Calzona, hanno spiegato perché questo progetto è irrealizzabile: troppi parametri critici, e non solo sulla sismologia; ma anche proprio sulla fattibilità della Struttura del manufatto principale. In quanto ancora non esistono i materiali che servirebbero per molte delle prestazioni ad esso richieste, almeno nelle condizioni dimensionali e ambientali di fattispecie. Come confermato da molti altri esperti ed ex progettisti del ponte, tra cui Emanuele Codacci Pisanelli.
Il Ministro e la società quindi mentono quando sostengono che il nuovo comitato tecnico-scientifico avrebbe superato tali problemi: negli stessi documenti progettuali è registrato che l’apposita commissione tecnica ha solo rinviato alla futura progettazione esecutiva -mai effettuata perché secondo i citati esperti avrebbe dimostrato l’esatto contrario del necessario, ovvero la NON COSTRUIBILITÀ dell’opera– la fondamentale dimostrazione di fattibilità.
I tecnici della stessa commissione, con questo comportamento tanto singolare quanto anomalo, hanno invero assunto una posizione assai discutibile, non solo perché hanno contraddetto colleghi di grandissimi spessore tecnico-scientifico ed esperienza anche proprio sul ponte, ma perché hanno evaso una regola da manualistica d’ingegneria: si procede con la progettazione esecutiva, che tra l’altro copre una quota assai rilevante del totale -nel caso il 14%, circa due miliardi di euro- solo allorché con il progetto definitivo si è dimostrata la fattibilità certa del progetto, di cui l’esecutivo esplicita per l’impresa che opera solo le migliori modalità di realizzazione. Nel caso in questione tale dimostrazione non c’è mai stata, anzi l’elaborazione tecnica prevalente indicava l’esatto contrario!
Potrebbe bastare questo a spiegare perché siamo ai limiti della truffa, certamente ai danni dei cittadini italiani, in primis siciliani e calabresi, ma anche dello stato stesso. Ma ci sono altri elementi che confermano il colossale eterno imbroglio.
In primissi annuncia l’avvio dei lavori nei prossimi mesi, ma ad oggi non esiste ancora giuridicamente il General Contractor, cioè il raggruppamento di imprese che dovrebbe effettuare i lavori.
Il General ContractorEurolink Group
Dal sito Ufficiale di Webuild Group – l’ammagine è corredata dallo slogan: “Ponte sullo Stretto di Messina. Il Ponte che unisce l’Italia all’Europa”
Proprio per il dettato del decreto del maggio 2023 infatti, che “resuscitava il programma di attraversamento stabile con relativa procedura”, pure con molti passaggi molto dubbi, oggetto di indagini dalla magistratura amministrativa, civile e penale, anche per la pioggia di esposti e ricorsi che è caduta su questo e molti altri atti relativi al progetto. Esso infatti, stabiliva che il General Contractor Eurolink (mandatario allora l’impresa Impregilo, poi Salini/Impregilo, adesso Webuild S.p.A.): già il cambio di natura giuridica del mandatario obbligherebbe a nuova gara, ennesima irregolarità della procedura; mandanti due imprese italiane fallite e rivendute a pezzi e due straniere oggi rappresentate solo dai legali ) non poteva giuridicamente ricostituirsi, se e finché le imprese non avessero rinunziato al contenzioso legale aperto con lo Stato, al momento di cancellazione di progetto e procedura, caducazione dei contratti e messa in liquidazione della società concessionaria, SDM, operata dal governo Monti nel marzo 2013. Contenzioso ulteriormente complicatosi con la bocciatura in primo grado delle imprese ricorrenti (“Sapevano dai loro tecnici dell’irrealizzabilità del progetto, ma hanno seguitato con l’azione giudiziaria”) e relativo appello, corredato da mutue denunce di inadempienza tra Ministeri e imprese.
Nonostante il passaggio al CIPESS ad oggi tale rinuncia non è avvenuta: il relativo appuntamento è confermato al tribunale di Roma per il prossimo ottobre. Ma non è detto che allora la controversia sarà risolta. Quello che è certo è che le imprese hanno richiesto una cifra pari al 10% del costo totale dell’opera, quindi circa 1,4 miliardi di euro, alla concessionaria, che l’avrebbe concesso (vedi Il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2025) in caso di recesso, ovvero di interruzione della procedura –more solito– inevitabile per quanto già detto sopra. Anche se oggi la società smentisce sostenendo che avrebbe in questi giorni fatto firmare i contratti alle imprese per una penale pari a poco più della metà della cifra indicata: il mistero è costituito da contratti firmati da imprese che ancora non esistono. Forse si dovrebbe stare più attenti a non autosmentire le proprie balle già mentre le si dice. Quel che è certo è che la penale scatterebbe in ogni caso all’atto di interruzione della procedura “qualsiasi siano i motivi e gli attori che hanno determinato la stessa”. Della serie: “qualche mese di ammoina e ci spartiamo un bel bottino!” Si rischia di andare ben oltre la truffa ai danni della collettività e dello stato.
La Corte dei conti dovrà vagliare tra i molti elementi incerti un altro aspetto critico fondamentale, sollevato da più parti tra cui la stessa ANAC: il decreto del maggio 2023 ha resuscitato l’affidamento di un appalto a privati -rappresentati da un contraente generale- che non esisteva giuridicamente al momento dell’approvazione del decreto stesso e non esiste tuttora- aggiudicato nel 2005, allora per un valore di 4,5 Mld di euro.
Oggi il valore dell’appalto è triplicato (13,5 Mld di euro) e -a parte le bizzarre singolarità di questa vicenda- sarebbe vietato da diverse norme, tra l’altro da una precisa direttiva comunitaria che stabilisce che non si possono riaffidare direttamente appalti senza nuovi bando e gara, nel caso di aumenti del valore del contratto superiori al 50%, qui ampiamente superato. Il governo si giustifica su questo con il progressivo aumento dei prezzi, che peraltro resta lontano dal valore del nuovo contratto.
I decreti di “rappezzamento” di questo e delle molte altre falle programmatico-normative e dei molti buchi procedurali sono assai sciatti e anche per questo spesso inattuabili, tra emendamenti e cancellazioni. Certamente però servono per l’obiettivo principale dell’operazione: l’annuncio propagandistico al momento dell’emanazione.
Il progetto del ponte peraltro fa acqua da tutte le parti: costituisce la riproposizione con qualche aggiornamento di elaborati redatti nel 2011, o ancora prima nel 2003 e in qualche caso addirittura nel 1993!
Infatti nell’aprile 2024 la Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE)l’aveva sostanzialmente bocciato, con oltre 260 tra prescrizioni e richieste di modifiche. Per superare tale scoglio il governo ha pensato bene di…. cambiare la commissione: sostituendo la gran parte di tecnici esperti con “yes man” di partito.
Nonostante questo, il VIA/MASE non ha potuto dare approvazione piena, ma altre raccomandazioni e il rinvio all’UE per alcuni problemi. Per proseguire nella procedura, aggirando il giudizio UE, il governo ha allora dichiarato il Ponte “Infrastruttura di emergenza senza alternative”: un’altra solenne balla. E per sovrammercato l’ha dichiarata “necessaria a fini bellici”: ancora un falso subito contestato.
Si agitano gli espropri, ma delle opere complementari da realizzare prioritariamente in aree soggette ad esproprio non esistono nemmeno progetti di massima, solo schemi.
Si procede soprattutto per annunci. Che devono coprire non solo magagne e strafalcioni del progetto, nonché sottrazione di risorse a siciliani e calabresi, ma anche ciò che in realtà è successo finora.
650 milioni di euro in pubblicità
Per le diverse puntate della telenovela, compresa quella in corso, sono stati spesi ad oggi ca 650 milioni di euro (si legge negli atti della società), dovuti soprattutto a spese di gestione societaria e presentazioni con pubbliche relazioni del progetto. Con straordinari emolumenti dei componenti del CdA della stessa concessionaria. Ad ogni puntata il Ministro di turno, allorché capisce che non può fare molto altro, si concentra sulla pubblicità e nell’inserire almeno qualche suo cliente e sodale nel CDA societario.
Anche in questo, come in quasi tutti i casi di grandi opere, le spese reali superano di gran lunga quelle ufficiali.
A fine 2024 l’Ufficio Studi della Camera dei Deputati in un suo rapporto sulla programmazione Infrastrutturale ha dichiarato che negli ultimi 25 anni, dalla legge Obiettivo in avanti, sono stati stanziati per grandi opere “di emergenza e somma urgenza” 483 Mld di euro, di cui oltre 390 effettivamente spesi. Si è però tradotto in lavori, anche solo iniziati o interrotti o in qualche caso completati, solo il 44% di tale somma!
Quindi oltre 250 Mld di euro sono stati trasferiti dalle risorse pubbliche soprattutto al mercato finanziario e finalizzati ad altro , alle spalle della società italiana. Su questo e altre simili contraddizioni e distorsioni nel comparto Grandi Infrastrutture, non solo sui disastri ambientali e sociali, il Coordinamento contro le Grandi Opere Inutili e Imposte organizza un convegno nazionale ad ottobre in Valle Susa per criticare e denunciare tali situazioni.
In copertina: Il ministro Matteo Salvini e il ponte sullo stretto – immagine tratta da lavialibera.it
Parlare di “neutralità della scienza” significa ignorare la società che viviamo
Il recente caso Serravalle-Bellavite e la sua strumentalizzazione con gogna mediatica annessa, ci potrebbe far riflettere su molte cose, ma soprattutto su una cosa in particolare: la non-neutralità della scienza.
La narrazione dominante propone la “scienza” come un’entità superpartes dogmatica portatrice di una verità imparziale e incontrovertibile che trascende le ideologie e i conflitti. Secondo tale visione, la scienza seguirebbe un cammino lineare e sarebbe il risultato di un processo unico, immutabile, deterministico, unidimensionale, astorico, vincolato sull’asse nuovo-vecchio/tradizionale-moderno e totalmente avulso dalla realtà sociale nella quale viene partorita. La scienza sarebbe capace di rimanere incontaminata dal contesto sociale in cui viene concepita, come se fosse mossa da una propria dinamica interna.
Questa tesi fa emergere la profonda ignoranza epistemologica di chi la sostiene. Ogni accademico serio ed ogni epistemologo degno di nota smentirebbe questa concezione, a partire dal fatto che la scienza è un sapere pensato, discusso e come tale non può essere incontaminato.
Oltre alla dinamiche epistemologiche, se dobbiamo ragionare su come procede la scienza in campo medico oggi, non si può negare che la ricerca biomedica proceda per dinamiche economiche, ovvero si sviluppa laddove c’è uno sviluppo di mercato.
In questi trent’anni di globalizzazione neoliberista, di deregulation di mercato e di politiche di privatizzazione a discapito dei beni comuni, si è evidenziato che la ricerca biomedica è diventata sempre più uno strumento il cui fine ultimo non è il diritto alla salute, ma il mercato. La ricerca biomedica è diventata uno strumento del mercato, mentre la salute – da diritto umano – diventa sempre più una merce.
Nel mio libro “La guerra all’idrossiclorochina al tempo della Covid-19” cerco di spiegare come un tempo l’investigazione scientifica consistesse principalmente nella ricerca disinteressata in tutte le direzioni, facendo della scienza l’oggetto principale della propria opera. I finanziamenti, per lo più pubblici e statali, non costringevano a investigare in una determinata direzione e necessariamente con un obiettivo.
Quando si intraprendevano direzioni di ricerca che non erano realmente utili o non avevano alcun reale beneficio a servizio della collettività, tali rami venivano abbandonati per concentrarsi su altro. La scienza era ancora patrimonio di tutti e proprietà comune in quanto finanziata per la gran parte dallo Stato.
Oggi il contesto in cui la “scienza” si sviluppa è radicalmente cambiato. Si è passati dal concetto di ricerca – finalizzato alla scienza e al suo insieme di scoperte – al concetto industriale di produzione di ricerca e sviluppo, ovvero contestualmente alla ricerca si deve per forza produrre qualcosa che abbia poi un ritorno economico.
La scienza oggi non deve produrre per forza qualcosa di utilealla collettività, ma qualcosa di utile al profitto economico, soprattutto se privato.
Coloro che oggi finanziano la ricerca sono per lo più privati, ovvero banche, fondi d’investimento, multinazionali, grandi aziende e grandi corporations di aziende. Tutto ciò che viene finanziato nell’ambito della ricerca deve portare alla produzione di un prodotto vendibile e con un ritorno economico. Non sono più previsti i “rami morti” della ricerca e nemmeno è previsto fare marcia indietro qualora una certa direzione non porti a niente di utile o addirittura possa potenzialmente arrecare un danno.
Fa impressione oggi l’ingenuità con cui gli scientisti dogmatici che parlano in difesa della scienza come “bene comune”, quando oggi la scienza è il deus ex machina del capitale finanziario, uno strumento tecnico – si parla sempre più di tecnoscienza – dipendente dall’accumulo capitalistico e, in quanto tale, finanziato per la gran parte da privati che vogliono un ritorno produttivo e proficuo. Poco importa se viene sviluppato un prodotto che poi, in definitiva, realizza più danno che beneficio – il famoso e ignorato principio di precauzione –, importa invece che il finanziamento in termini di ricerca porti comunque allo sviluppo di un prodotto vendibile e che in un modo o nell’altro sia accettato e abbia successo sul mercato.
Ciò che sconvolge è che non importa se i mezzi per ottenere tale successo si incentrino su una rigorosità metodologica o su una obiettività dei dati disponibili. Oggi, queste ultime due componenti sono del tutto secondarie, poiché primario è lo sviluppo produttivo-industriale, mentre la ricerca scientifica si deve adeguare di conseguenza. Una volta finanziata una ricerca, questa deve per forza concretizzarsi in produzione e una volta avviata una determinata produzione, questa deve essere per forza “buona” a prescindere che lo sia veramente.
Il sistema industriale è riuscito a sdoganare il più basso livello di rigorosità e di obiettività nella ricerca scientifica, soprattutto quella biomedica.
La ricerca scientifica, dipendente dall’industria, ormai ha acquisito moltissime delle semplificazioni proprie del modo di operare industriale: viene meno il rigore, l’obiettività e la neutralità e lascia spazio alla grande produzione industriale e al marketing, dando poca importanza alla qualità del prodotto. Ciò che realmente importa è la percezione del prodotto che si riesce a ingenerare sul mercato e a livello mediatico. Su questo l’industria è imbattibile: può tranquillamente vendere qualsiasi cosa facendola passare per il suo contrario.
Un documento ufficiale del Comitato Nazionale di Bioetica approvato in seduta plenaria l’8 giugno 2006, dal titolo Conflitto d’interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica (1), ha definito la medicina come «una scienza polimorfa e complessa, che intrattiene rapporti di vario tipo, con la Società e con le istituzioni che questa produce», sottolineando come la ricerca biomedica moderna può essere effettuata, nel suo complesso, «soltanto con l’impiego dei capitali di enormi dimensioni». Nel documento addirittura si afferma come «la storia della scienza testimonia ampiamente come nell’ultimo secolo siano stati compiuti numerosi e cospicui falsi descrittivi». I falsi scientifici e le distorsioni metodologiche in medicina possono dipendere dal fatto che «gli orientamenti di un ricercatore possano essere diretti e motivati non solo dai problemi conoscitivi […], ma anche da interessi personali o da quelli connessi con le istituzioni di cui quel ricercatore fa parte».
In sostanza viene descritto come le case farmaceutiche decidano il brutto e il cattivo tempo, essendo in grado di manipolare e falsificare studi al fine di un profitto privato e a discapito dell’interesse pubblico e del diritto alla salute. Il campo della salute, sia nei suoi aspetti reattivi sia nella prevenzione e promozione, così come nella ricerca, costituisce oggi un mercato gigantesco, che dà molto peso agli interessi finanziari (Stamatakis, 2013; Ioannidis, 2016) a discapito della medicina intesa come campo del sapere.
Ce ne sarebbero tanti di esempi plateali, ma uno su tutti sicuramente è lo scandalo che coinvolse l’allora Ministro De Lorenzo che all’epoca ricevette una tangente di 600 milioni di lire – insieme a Poggiolini – dalla casa farmaceutica SmithKline per far diventare obbligatorio, con la legge 165 del 1991, il vaccino anti-epatite B già in uso dal 1981 in forma facoltativa. Nessuna prova scientifica – inesistente tuttora – che provasse la necessità dell’obbligatorietà del vaccino anti-epatite B, ma esistevano invece cause economiche che ancora oggi plasmano le scelte di medici che invece, in nome della “scienza” e di un ambiguo concetto di “prevenzione”, consigliano normalmente un vaccino reso obbligatorio tramite tangente.
Ci viene da chiedere se di questo e di molto altro ne siano a conoscenza i membri del Patto Trasversale per la Scienza, o se ne siano a conoscenza tutti coloro che credono che la scienza sia un discorso puro sempre indipendente.
Riflettere su questo ci potrebbe aiutare forse ad abbandonare qualunque tipo di fideismo scientifico fine a se stesso per capire che non è troppo diverso da qualunque altro fideismo religioso.
In oltre 9 casi su 10 le tasse e i contributi pagati dalle famiglie dei lavoratori dipendenti vengono prelevati alla fonte, ovvero sono defalcati dalla busta paga lorda o sono inclusi negli acquisti quotidiani di beni e di servizi.
Stiamo parlando di tasse prelevate “alla fonte” (Irpef o contributi Inps) o “nascoste” (Iva, accise, etc.).
Solo in poco meno di un caso su dieci, l’operazione avviene consapevolmente, vale a dire per mezzo di un pagamento cash od online o presso uno sportello bancario/postale.
A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che per l’anno in corso ha stimato in 20.231 euro il peso fiscale complessivo che grava su una famiglia italiana tipo composta da due lavoratori dipendenti (marito e moglie) con un figlio a carico.
Alle tasse prelevate alla “fonte” (ritenute Irpef, contributi previdenziali e addizionali Irpef), il cui gettito è pari a 12.504 euro (il 61,8 per cento del totale), vanno quindi aggiunte quelle “nascoste” (Iva sugli acquisti, accise, contributo al Sistema Sanitario Nazionale dall’Rc auto, imposta Rc auto, canone Rai, etc.), che fanno finire nelle casse dello Stato altri 7.087 euro (pari al 35 per cento del totale).
“In altre parole, sottolinea l’Ufficio studi della CGIA, l’importo complessivo sottratto dalla busta paga lorda di questi due coniugi è pari a 19.591 euro (il 96,8 per cento del prelievo totale). Pertanto, la coppia presa in esame deve tirar fuori fisicamente dal portafoglio poco meno di 640 euro all’anno di tasse (bollo auto e Tari) che ha una incidenza sul totale praticamente irrisoria (il 3,2 per cento)”.
L’indagine della CGIA snocciola i dati dei contribuenti Irpef in Italia, che sono 42,5 milioni, di cui 23,8 milioni sono lavoratori dipendenti, 14,5 milioni sono pensionati, 1,6 milioni sono lavoratori autonomi e altri 1,6 milioni sono percettori di altri redditi (affitti, terreni, buoni del tesoro, etc.) e conferma che, purtroppo, rimaniamo tra i più tartassati in UE.
“Nel 20243, si legge nel Report, la pressione fiscale in Danimarca era al 45,4 per cento del Pil, in Francia al 45,2, in Belgio al 45,1, in Austria al 44,8 e in Lussemburgo al 43.
Tra tutti i Paesi dell’UE, l’Italia si posizionava al sesto posto con un tasso del 42,6 per cento del Pil.
Se tra i nostri principali competitor commerciali solo la Francia presentava un carico fiscale superiore al nostro, gli altri, invece, registravano un livello nettamente inferiore.
Se in Germania il peso fiscale sul Pil era al 40,8 per cento (1,8 punti in meno rispetto al dato Italia), in Spagna addirittura al 37,2 (5,4 punti in meno che da noi).
Il tasso medio in UE, invece, era al 40,4, 2,2 punti in meno della media nazionale italiana”.
Il bicchiere infinito di Italo Calvino
La ventiduesima maratona di lettura presso la Biblioteca Bassani.
“Il sogno più inatteso è un rebus che nasconde”: questo è il titolo dellaventiduesima maratona di lettura che si svolgerà il prossimo 28 Agosto presso la Biblioteca Bassani di Ferrara e che sarà dedicata a Italo Calvino.
La frase di Italo Calvino che dà titolo alla maratona, oltre a descrive semplicemente un sogno, ne svela la struttura segreta. Il sogno non è un’immagine da contemplare, ma un enigma da attraversare.
Non si offre, si cela. Non si spiega, si decifra. È una forma che contiene altre forme, un linguaggio che si piega su se stesso per generare senso.
Calvino ha sempre cercato il punto in cui il visibile si fa soglia dell’invisibile. Il sogno, per lui, è una macchina combinatoria, un dispositivo poetico che non rivela ma costruisce. Come nei rebus, dove l’immagine e la parola si intrecciano in un cortocircuito semantico, anche il sogno calviniano è un gioco di specchi, una grammatica dell’ombra.
In Le città invisibili, ogni città è un sogno che si finge racconto. Zaira, che è memoria; Fedora, che è possibilità; Berenice, che è desiderio. Ogni città è un rebus, un sogno inatteso che si nasconde dietro la geometria delle parole. E Marco Polo, il narratore, è il decifratore che non risolve, ma moltiplica gli enigmi. Il viaggio non è verso la verità, ma verso la proliferazione delle forme.
Calvino ci invita a leggere il mondo come un testo cifrato, dove il senso non è dato, ma costruito. Il sogno non è evasione, ma architettura. Non è fuga, ma forma. E in questa forma si cela la poesia: non come ornamento, ma come struttura portante dell’universo.
“Il sogno è il luogo dove il senso si nasconde per rivelarsi.”
Questa visione del sogno come rebus si avvicina all’idea zen del koan: un enigma che non si risolve con la logica, ma con la trasformazione interiore. Il rebus non è da sciogliere, ma da abitare. Il sogno non è da interpretare, ma da vivere. E forse, proprio qui, si apre il ponte verso un’estetica molto vicina a quella giapponese,
Calvino non è mai stato un autore dell’esplicito. La sua scrittura è fatta di soglie, di interstizi, di silenzi che parlano. Il sogno come rebus è anche una metafora della sua poetica: una poetica dell’allusione, della leggerezza, della precisione. Una poetica che non cerca di spiegare il mondo, ma di renderlo più misterioso, più abitabile, più vero.
Calvino scrive anche che “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere” e in questa immagine, Calvino condensa la sua idea di poesia come concentrazione dell’immenso. Il mare è l’infinito, il caos, la vastità del mondo; il bicchiere è la forma, il contenitore, la misura. La poesia, allora, è il gesto che rende visibile l’invisibile, che dà corpo all’evanescente, che trasforma l’indicibile in figura.
Calvino non cerca la poesia nell’enfasi, ma nella precisione. È un poeta della leggerezza, ma anche della geometria. Nelle Lezioni americane, la leggerezza non è superficialità, ma profondità senza peso. È il modo in cui il pensiero si fa volo, in cui la parola si fa ala. E il bicchiere non è una limitazione, ma una sfida: come contenere l’oceano in una forma finita?
Questa tensione tra vastità e misura è il cuore della sua poetica. Come nei suoi racconti combinatori, dove l’invenzione nasce dalla regola, dalla costrizione, dalla struttura. Il mare non si perde, si distilla. La poesia non è dispersione, ma concentrazione. È il punto in cui il mondo si raccoglie in un’immagine, in una parola, in un gesto.
“La poesia è il luogo dove l’infinito si lascia misurare.”
E qui, come accade ad esempio in un haiku, il mondo intero può stare in tre versi. Il bicchiere diventa il verso, la forma breve, la miniatura. E il mare è il tempo, la natura, il silenzio che vibra sotto le parole. Calvino, pur non scrivendo haiku, ne condivide lo spirito: la ricerca dell’essenziale, la contemplazione del dettaglio, la rivelazione dell’universo in un frammento.
Ma questa miniatura dell’infinito non è solo arte poetica ma anche…arte scientifica. Calvino era affascinato dalla fisica contemporanea, dalla teoria dei quanti, dalla cosmologia. In un’intervista del 1984, parlava della sua ammirazione per i fisici che “riescono a pensare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande”. La poesia, come la scienza, è una forma di conoscenza che lavora per analogia, per modelli, per metafore. Entrambe cercano di contenere l’universo in una formula, in un verso, in un’equazione.
Il bicchiere, allora, può essere anche il laboratorio, il microscopio, il telescopio. È lo strumento che permette di osservare il mare dell’universo, di misurarlo, di raccontarlo. E la poesia diventa sorella della scienza: entrambe cercano il punto in cui il caos si fa forma, in cui l’invisibile si fa visibile.
“La poesia e la scienza sono due modi di guardare il mondo con occhi che non si accontentano.”
E se fosse il…Giappone proprio una di quelle soglie calviniane?
Nel cuore dell’haiku pulsa il vuoto. Non come assenza, ma come spazio generativo. Il silenzio tra i versi è ciò che permette al mondo di risuonare. E in questo vuoto, Calvino avrebbe riconosciuto una forma di conoscenza: quella che non dice tutto, ma lascia che il lettore completi, interpreti, abiti.
Il vuoto è anche una categoria scientifica. Nella fisica quantistica, il vuoto non è il nulla, ma un campo di possibilità. È il luogo dove le particelle virtuali emergono e svaniscono, dove l’energia fluttua, dove l’universo si scrive e si cancella. Calvino, che leggeva con attenzione le teorie contemporanee, avrebbe visto nel vuoto quantistico una metafora perfetta della sua poetica: il mondo come testo che si genera nel silenzio, nella pausa, nell’interstizio.
“Il vuoto è ciò che permette al pieno di esistere.”
Nel Giappone dell’haiku, il silenzio è parte della forma. Il ma — spazio tra le cose — è ciò che dà ritmo e senso. In Calvino, il silenzio è ciò che separa e collega. È il respiro tra le città invisibili, il bianco tra le parole, il tempo sospeso tra le combinazioni. Come nel principio di esclusione di Wolfgang Pauli, che impedisce a due elettroni di occupare lo stesso stato: il vuoto è anche una forma di rispetto, di distanza, di relazione implicita.
La poesia, allora, diventa una forma di fisica del vuoto. Non accumula, ma sottrae. Non spiega, ma lascia intuire. E in questo gesto, Calvino si avvicina all’estetica giapponese: non per imitazione, ma per consonanza. Il suo sogno è un rebus, il suo bicchiere è una forma, il suo vuoto è una soglia.
“Nel silenzio tra le parole, il mondo si fa visibile.”
Italo Calvino ha insegnato a leggere il mondo come un rebus, a contenere l’infinito in un bicchiere, a lasciare che il vuoto parli. Il suo sogno non è mai stato quello di spiegare, ma di moltiplicare le possibilità. Come un fisico che osserva le fluttuazioni del vuoto quantico, come un poeta giapponese che distilla l’universo in tre versi, Calvino ha cercato la forma che rivela senza possedere, che mostra senza esaurire.
Nel suo pensiero, la poesia è sorella della scienza e figlia del silenzio. È il luogo dove il mare si lascia contenere, dove il sogno si fa struttura, dove il vuoto diventa spazio generativo. E in questo gesto, Calvino si avvicina all’estetica giapponese non per imitazione, ma per consonanza profonda: entrambi cercano l’essenziale, entrambi abitano il margine, entrambi ascoltano ciò che non si dice.
“Il mondo non si spiega, si racconta. E nel racconto, si nasconde per rivelarsi.”
Questa maratona, questo omaggio a Calvino potrebbe rappresentare un vero e proprio invito a rileggere questo straordinario autore come un poeta dell’invisibile, come un architetto del sogno, come un haijin dell’Occidente. E forse durante la lunga maratona alla Bassani potrà capitarci di sentire il suono del mare che entra nel bicchiere.
Cover: particolare della copertina de “Le città invisibili” di Italo Calvino
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Una volta era tutto più semplice. Se entravi in un ufficio postale era per fare un vaglia o una raccomandata. Se entravi in un’agenzia assicurativa era per sottoscrivere una polizza. E se ti recavi in banca, era per fare un versamento, un prelievo o un bonifico. Oggi la posta ti vende contratti telefonici e l’assicurazione ti propone apparecchi per la rilevazione dei pedaggi autostradali. E la banca fa di tutto per convincerti a sottoscrivere polizze assicurative. Come mai? Perché sembra quasi che faccia un lavoro diverso rispetto al passato?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire da lontano. Dalla nascita delle prime banche, che in Europa risale al medioevo. Pensiamo a quello che poteva essere lo scenario quando le banche ancora non c’erano. Da un lato avremmo avuto il mercante che si trascinava appresso il suo forziere pieno di monete, sapendo che l’unica cosa che poteva farci era cercare di tenerle al sicuro e non farsele rubare. Dall’altro avemmo trovato un giovane garzone in una bottega artigiana, che avrebbe desiderato avviare una sua attività, ma non avrebbe mai potuto farlo perché non disponeva delle somme da investire per mettersi in proprio. Le banche nacquero per intermediare: la loro attività consisteva nel raccogliere e custodire le monete del mercante, sgravandolo dai rischi e riconoscendogli anche un interesse, e nell’usare parte di quelle monete per finanziare il giovane artigiano e permettere la nascita di una nuova attività. Si trattava, fin dalla nascita, di una funzione fondamentale per l’economia: invece di restare rinchiusi, i soldi venivano messi in circolo creando lavoro e ricchezza per la collettività. Una funzione talmente importante da far dedicare all’attività bancaria un articolo della Costituzione, il 47, che parla di tutela del risparmio e controllo del credito. Nessun’altra attività economica è menzionata in Costituzione.
Per secoli la principale fonte di guadagno per le banche è stato il “margine d’ interesse”, cioè la differenza tra gli interessi riconosciuti ai depositanti e quelli incassati da chi chiedeva finanziamenti. Il problema è che prestare soldi non è un’attività così semplice. Bisogna ricordare che si tratta di somme che appartengono ad altri, quindi è necessario tenere sempre disponibile una riserva sufficiente ad accontentare le persone che vogliono ritirare i loro soldi. E poi bisogna mettere in conto la possibilità che una parte dei prestiti non venga rimborsata: ma in questo caso è la banca a doversi fare carico delle perdite. Vi immaginate se un cliente andasse a ritirare i suoi risparmi e si sentisse rispondere: “Guardi, siccome avevamo usato il suo deposito per un mutuo che è stato rimborsato a metà, possiamo restituire solo metà della somma che ci aveva versato” ? Ovviamente il sistema crollerebbe in un attimo. Quindi, per prestare denaro, le banche devono accantonare somme sufficienti a coprire le perdite che potrebbero verificarsi, e non gravare sui clienti. In sintesi: prestare denaro costringe le banche a rispettare due vincoli: liquidità (devono essere in grado di restituire i soldi ai depositanti) e capitalizzazione (devono avere riserve adeguate a far fronte ad eventuali perdite su crediti).
Inevitabile che nel tempo le banche si impegnassero a cercare fonti di guadagno più semplici da ottenere. E progressivamente hanno scoperto le commissioni. Commissioni sugli incassi, sulla compravendita di titoli, sui pagamenti POS… Soldi che arrivavano in modo differente, ma pur sempre commisurati all’attività bancaria. Gli istituti bancari hanno cominciato a farci la bocca, cercando strade anche piuttosto fantasiose per incrementare sempre più il flusso commissionale. Così, nel corso degli anni, c’è stato un periodo in cui le banche vendevano di tutto: televisori, biciclette, robot da cucina. Poi hanno provato con l’oro, e i diamanti. Alla fine hanno trovato il loro business ideale nelle polizze assicurative. Apparentemente la soluzione perfetta: le banche, con le loro filiali diffuse su tutto il territorio nazionale (in realtà sempre meno, ad onor del vero) e con l’elevata professionalità dei loro dipendenti rappresentano la rete distributiva ideale: non è un caso se oggi tutti i grandi gruppi bancari hanno come partner commerciale una importante compagnia assicurativa. Per questo le banche stanno cambiando la loro natura, tanto da ostentare con orgoglio la qualifica di “bancassicurazione”.
Non c’è nulla di male nel fatto che le banche vendano le polizze. Come detto hanno l’organizzazione e le competenze per farlo al meglio. Il problema è un altro. Mettiamoci nei panni di un banchiere: perché impegnarsi a concedere un prestito, che bloccherà quote di capitale per anni, che potrebbe anche non rientrare, che frutterà un interesse limitato, quando in una mezz’oretta si può vendere una polizza, incassare la commissione e non dover impegnare un solo centesimo? Un ragionamento che le banche hanno cominciato a fare sempre più durante i lunghi anni di tassi bassi, spostando progressivamente la loro attività dal credito al mondo delle commissioni. E questo ha fatto sì che fossero sempre più restìe a concedere credito, in modo particolare alle piccole aziende. Avendo chiarito prima il motivo per cui le banche sono nate, diventa evidente che le banche non hanno più voglia di fare le banche.
Ad oggi le commissioni rappresentano circa un terzo degli introiti delle aziende bancarie, che puntano ad incrementare questa percentuale. E questa non è una buona notizia, perché significa che in futuro le difficoltà nell’accesso al credito aumenteranno. E’ un fenomeno sul quale dovrebbe intervenire la politica, sempre molto attenta quando si parla di fusioni ed incorporazioni, perché punta a non perdere la propria influenza sui CdA, ma decisamente distratta quando si tratta i controllare che le banche svolgano la loro funzione fondamentale per l’economia. Controlli ai quali, per effetto del già citato articolo 47, sarebbero obbligati.
Quindi se la banca mi propone una polizza, va benissimo, può anche essere una proposta che mi è davvero utile, a patto che contemporaneamente non smetta di fare la banca. E non si arrivi al paradosso che, se chiedo un prestito, la banca me lo conceda malvolentieri e lo faccia solo perché lo vede come un’ occasione per propormi una polizza da abbinargli: in quel caso non è più la polizza ad essere accessoria al finanziamento, ma il finanziamento che diventa accessorio alla polizza.
Cover photo: Bank of Italy Pasadena, 1928, https://hdl.huntington.org/digital/collection/p15150coll2/id/2649/
Più 152 euro al mese in media per una singola. In testa c’è Milano, si spendono 732 euro. La denuncia dell’ Unione degli universitari (Udu): “Frequentare fuori casa è un lusso per pochi”
Milano, 732 euro al mese. Bologna, 632 euro. Firenze, 606. Roma, 575 euro mese. Al quinto posto si piazza Trento, con 544 euro. Studiare non è mai stato così costoso e la speciale classifica di Immobiliare.it delle città universitarie più care lo dimostra. Nel 2025 a fronte di una domanda stabile, i prezzi delle singole sono passati da una media di 461 euro al mese del 2024 a 613 euro: più 152 euro.
Subito dopo la top five si piazzano Brescia con una media di 519 euro al mese, Modena, 506 euro, Padova con 502 euro. Per scendere sotto i 500 euro bisogna arrivare alla nona e decima posizione: Torino, 476 euro al mese, Verona dove uno studente spende 473 euro. Non va meglio a chi sceglie come sede universitaria Bergamo, Venezia e Napoli: per una stanza chiedono rispettivamente 466 euro, 453 euro, 445 euro.
Politiche abitative assenti
“L’ultimo rapporto di Immobiliare.it Insights conferma quello che denunciamo da anni: il caro affitti per gli studenti è fuori controllo – afferma l’Unione degli universitari in una nota -. Quel rincaro, più 152 euro al mese in un anno, è frutto di pura speculazione, resa possibile dall’assenza di politiche abitative”.
E questo accade nonostante che in alcune città italiane la domanda di stanze singole stia iniziando a rallentare dopo anni di forte crescita. Rispetto a 12 mesi fa, per esempio, la richiesta a Torino ha fatto segnare un meno 3 per cento, a Firenze un meno 6, a Milano meno 13, a Verona meno 20, a Bologna e Napoli rispettivamente addirittura meno 38 e meno 47.
In altre storiche città universitarie, invece, l’interesse continua a salire: è il caso di Venezia, che segna un più 30 per cento. da segnalare anche il più 45 per cento di Bari, più 59 di Genova e più 77 per cento di richiesta di stanze singole di Ancona.
Trento in vetta
Se si va a guardare dove sono stati registrati gli aumenti più consistenti dei canoni mensili si scopre che in vetta c’è Trento, più 42,78 per cento, poi Modena, con più 31,43, quindi Brescia con più 30 per cento. Dalla città trentina gli studenti promettono proteste: “Ci saranno azioni, perché queste condizioni sono insostenibili – afferma Diego Cirillo, coordinatore di Udu Trento -. Gli affitti aumentano sistematicamente. Il diritto allo studio dovrebbe garantire gli alloggi, ma diversi universitari vengono sfrattati perché i proprietari non rinnovano il contratto e alzano il prezzo. Sempre meno giovani verranno in centro, cercando stanze fuori città per prezzi più contenuti. Il mercato è già saturo, ma l’arrivo del semestre filtro della facoltà di medicina e chirurgia (quasi 500 iscritti, ndr) di certo non aiuterà”.
Modena senza servizi
Anche a Modena la richiesta supera i 500 euro per camere spesso in condizioni fatiscenti, in un centro che nemmeno offre i servizi e la vita di una vera città universitaria.
“Studiare fuori casa diventa sempre più un lusso per i pochi che se lo possono permettere – afferma Giammarco Fabiano, coordinatore Udu More -, mentre il governo ha sprecato le risorse del Pnrr, investendo con il decreto housing in studentati di lusso gestiti da privati, anziché mettere le istituzioni pubbliche nelle condizioni di ampliare i posti letto a propria disposizione”.
Modena ne è un esempio. Con l’apertura nel 2024 di Camplus già lo scorso anno l’Udu denunciava che la presenza di studentati con camere a 550 euro, in un contesto di per sé fortemente inflazionato, avrebbe drogato il mercato e portato a un aumento dei prezzi dei canoni.
Il Ponte conta, le case no
“Si voltano le spalle agli studenti e si preferisce investire in opere di propaganda piuttosto che affrontare i problemi reali del Paese – dichiara Alessandro Bruscella, coordinatore nazionale Udu –. L’uso dei fondi del Pnrr per studentati privati di lusso è tutto sbagliato e lo avevamo già detto. Intanto il ministro Salvini ignora l’emergenza e si concentra sul Ponte sullo Stretto, mentre le città universitarie affondano sotto il peso degli affitti”.
Cover: protesta degli studenti contro il cario affitti, outsider news
Quando le democrazie occidentali arrestaronoJulian Assange – con l’accusa di aver pubblicato le prove dei crimini di guerra Usa GB NATO in Afghanistan a danno di migliaia di civili inermi – i primi ad esultare furono i giornalisti in carriera, quelli sempre dalla parte del potere che tanto si sono commossi per le favole dei marines buoni e dei talebani cattivi.
Mentre le democrazie occidentali stanno naufragando in Palestina, gli ultimi a salire sulle scialuppe di salvataggio sono ancora loro: i giornalisti in carriera, quelli sempre dalla parte del potere che tanto si commuovono per le favole dei sionisti buoni e dei combattenti di Hamas cattivi.
Le tragedie dei nostri giorni si comprano un tanto al chilo al mercato della realtà e si rivendono a peso d’oro nella mistificazione dei media mainstream.
Ennio Flaiano scriveva: «Giornalisti. Chi si salverà da questi cuochi della realtà?».
Dalle guerre israeliane alla Siria, da Bagdad a Kabul, i media che non disturbano nessuno nelle alte camere del potere o che non scomodano le coscienze sopite dei ri-commentatori social, adoperano un unico modus operandi: prendere la pentola, scaldare la brodaglia, mescolare, bollire, ribollire fino a far schiumare menzogne e parole d’ordine.
Mai una ricostruzione storica fedele alla realtà, mai una contestualizzazione, mai un’analisi delle cause. Nemmeno quando a venire arrestati o assassinati sono colleghi e colleghe, altri giornalisti e altre giornaliste, mentre svolgono il proprio lavoro.
Nemmeno quando il numero di giornalisti assassinati a Gaza è superiore al numero totale di giornalisti morti nella guerra civile statunitense, in entrambe le guerre mondiali, nelle guerre di Corea e del Vietnam, compresi i conflitti in Cambogia e Laos, nelle guerre jugoslave degli anni ’90 e 2000 e nella guerra in Afghanistan messe insieme.
I colpevoli? Vittime.
Le vittime? Colpevoli di esserlo.
In copertina: photo opera di Maram Ali
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Diario in pubblico. Instrumentum Regni. La difesa del luogo
La storia insegna che ogni luogo per sopravvivere ha bisogno di essere difeso e in tal modo produce un esercito e armi che lo possano, in caso di pericolo, salvarlo.
Anche il Laido ha prodotto un esercito e le armi difensive, ma mantiene un segreto che si tramanda da generazione in generazione. L’arma è????? Udite! Udite! La Scopa! Poi, come accade in ogni territorio aperto alle innovazioni militari e quindi dotate di ordigni “atomici”, ecco farsi spazio il soffiatore a batteria, che con rumore infernale e sollevando grandi polveroni riduce in cumuli sempre più compatti il nemico, vale a dire gli aghi di pino.
Va da sé che l’esercito è formato dai proprietari e dagli affittuari delle case laidesche, che s’alzano al mattino con la scopa in mano e si coricano con vicini al letto l’arma di tanto valore. Li vedo dal balcone d’osservazione, mentre con aria pensosa spingono gli aghi invadenti in mucchietti, che poi diligentemente stipano in grandi sacchi neri e da qui depositano nei luoghi dei rifiuti, anche questi in via di rinnovamento.
Passano allora, trainati da biciclette, bidoni atti all’uopo e la via viene investita da chiacchere condominiali che ne prescrivono l’uso e la difesa, in quanto se uno viene fatto fuori, il costo del successivo ricade sullo sventurato gladiatore.
Dopo l’irreale silenzio decretato per i giorni ferragostani dalla costruzione del monstrum, il battere ritmico di clave e martelli ci riporta alla forza e al mito di Ercole, che sembra sovrintendere alla novità del luogo, esaltando grattacieli e torri per la gioia e il comfort futuri.
Passeggio per la via principale, avendo come luogo imprescindibile la farmacia e con il segreto intento di giocare con Maia, la star cagnolona che attende umani e pelosi per poter giocare con il frisbee sempre ai suoi piedi. Passano a decine i pelosi i più piccoli dei quali hanno comodi trasporti sulle biciclette o in speciali carrozzini.
Poi, ci si sposta con tanta fatica (almeno per me) sotto il tendone in spiaggia, dove la coppia di amici, soprannominata Giugi dall’incontro dei due nomi, produce una serie di giuggiolate con le carte e i racchettoni, mentre lo zio regista assiste pensoso seduto sulla sua seggiola inviolabile.
Sfoglio i giornali, mentre sempre più l’orrore della guerra aggredisce alla gola chi ancora pensa al diritto etico e civile di poter sentirsi uomini. La Storia implacabile non dà requie e io, con le lacrime dentro, ricordo la mia Elsa di cui il 19 ricorreva la nascita e quando partendo per gli USA negli anni ’80 del secolo scorso apprendevo della sua scomparsa.
Ora mi sorride dalle foto del tempo mentre rileggo i suoi capolavori – primo fra tutti Aracoeli –ricordando antichi tempi, quando la letteratura, la poesia, la cultura formavano giovani e vecchi in un carosello che ora affida solo alle parole il senso della vita.
Chiuderò a breve le stanze del Laido. Riguarderò con affetto i segni del tempo affidati alle cose che ancora mi parlano e mi sorridono, poi, mentalmente mi appresto a chiudere casa, portandomi dietro il sacco nero dei ricordi.
Rapporto 2025 UNDP: buone e cattive notizie dallo Sviluppo Umano nel mondo
Nonostante le guerre e la percezione di un periodo non luminoso come i primi trent’anni gloriosi del dopoguerra, le condizioni di vita, di salute e istruzione migliorano in quasi tutti i 193 paesi del mondo. Lo dice l’ultimo rapporto 2025 sullo Sviluppo Umano che UNDP, una sezione ONU, dopo aver messo in discussione il PIL come unico parametro di sviluppo, associandovi altri due indicatori più veri come speranza di vita e anni di istruzione. L’indice può essere anche corretto in base alle disuguaglianze di reddito e tra uomo-donna.
Si va dunque affermando in tutti i paesi (almeno tra gli studiosi dei vari paesi che collaborano al rapporto, oltre 200) che, al di là di religioni, etnie e modelli di governo (dalle democrazie piene alle dittature), non contano solo i soldi o il produrre, ma salute (quanto si vive) e istruzione e che fondamentali sono la minor disuguaglianza nei redditi e tra uomo e donna.
All’indice mancano altri dati (grado di libertà, diritti delle minoranze,…) di difficile misurabilità ma, nel complesso, l’Indice di Sviluppo Umano è un buon indicatore e ci dice che, nonostante le democrazie siano in ritirata, quasi tutti i paesi stanno migliorando (Qui il testo integrale del Human Development Report 2025)
La tabella sottostante non è corretta per disuguaglianze (è indicato però il valore “aggiustato” per reddito), mentre quella che include anche la discriminazione uomo-donna si trova dopo.
Aggiustando la classifica con disuguaglianza di reddito e di genere (uomo-donna), i paesi europei salgono ai primi posti (1^ Norvegia, Italia 17^), mentre crollano gli Stati Uniti al 47° posto. Noi che ci viviamo sappiamo da secoli che non di solo pane si vive e questa è la ragione per cui si vive meglio in Europa. Poiché l’aspirazione a vivere in un contesto di crescente uguaglianza, salute e istruzione è universale, è da qui che viene il futuro.
L’Italia farebbe ancor meglio se non fosse considerata la disuguaglianza di reddito che la fa retrocedere, mostrando che ha fatto più avanzamenti nel rapporto di genere che non nella disuguaglianza dei redditi (che cresce).
I Paesi che guadagnano più posizioni dal 1990 al 2023 sono però quasi tutti extra europei, forse perché partivano da condizioni più arretrate. La Libia è uno dei pochi a calare nonostante la prosperità crescente che aveva creato dagli anni ’70, in quanto è stata “bombardata” da Inghilterra e Francia per portare la “democrazia”, col consenso degli Usa (che coordinavano via Nato dall’Italia) e quello “sofferto” dell’Italia. Un esempio di quanto fosse finta l’egemonia “gentile” occidentale sul mondo. Tra le peggiori performance ci sono gli Stati Uniti. La montagna di soldi fatta dopo il 2000 è andata a favore di una ristretta élite e quindi l’indice ISU non si muove, a conferma di quanto scritto in passato, che sono un Paese più in crisi di quello che il mainstream ci racconta da anni. Chi ha migliorato di più è la Cina che ha usato la globalizzazione per rafforzarsi ulteriormente.
Se si mettono a confronto il decennio 1990-2000 col ventennio della globalizzazione finanziaria (2000-2023), che è anche quello della nascita della UE, la performance dei paesi occidentali si dimezza rispetto al periodo 1990-2000.
Crescono invece tutti i Paesi Brics e i non allineati.
Tra i paesi UE la performance migliore è della Polonia (e paesi baltici) che hanno usufruito dell’enorme vantaggio di entrare nel 2004 con 100 milioni di lavoratori a basso costo in un mercato ricco e unico senza regole e dove il basso costo del lavoro è stato sfruttato dalle imprese (tedesche, europee e americane) per innalzare i profitti e deprimere i salari delle nazioni ad Ovest.
La stessa Germania più che dimezza la sua performance rispetto al decennio precedente, com’è anche per l’Italia. La Russia ha invece un’ottima performance, dopo il decennio disastroso 1990-2000 in cui era diventata terra di predazione per il capitalismo americano, che è la ragione principale dell’enorme consenso a Putin.
La disuguaglianza interna ai vari Paesi tende a crescere ovunque, facendo abbassare notevolmente l’indice di sviluppo umano. Tutti gli esperti concordano infatti che una società diseguale sfavorisce i cittadini. I Paesi più disuguali perdono fino a un terzo del loro valore nell’indice ISU: SudAfrica -245 (su 721), Bangladesh -203, Brasile -192, Marocco -182, India -169, Nepal -164, Cina -127, Stati Uniti -106. I paesi UE, tra i meno disuguali, perdono meno: Slovacchia (-49) e Ungheria (-51 punti), meno di tutti risentendo ancora dell’esperienza comunista, nonostante siano passati 35 anni, come del resto la Polonia (-89).
L’indice di disuguaglianza (Gini index)attribuito da UNDP all’Italia è 34,8 (più alto è, più c’è disuguaglianza), ma rammento che l’ultima indagine della Banca d’Italia sui redditi delle famiglie, più accurata delle precedenti, per individuare i reali redditi dei più ricchi e dei più poveri, alza l’indice di Gini da 34,8 a 41,1, come negli Stati Uniti che tanto critichiamo, ma che hanno una tassazione sulle eredità molto più progressista di quella italiana.
L’indice ISUmostra come i Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica) stiano crescendo e vogliono trainare tutto il Sud globale. Paesi poco democratici e molto diseguali che migliorano anno dopo anno nei diritti sostanziali come occupazione, istruzione, sanità, salari. E’ probabile che si avviino verso forme più democratiche e meno ineguali sia nei redditi che nel rapporto uomo-donna, come del resto spesso accade quando salari ed occupazione si alzano e com’è avvenuto anche in Occidente. Dal 2009 i Brics si sono organizzati per diventare un’alternativa al dominio mondiale degli Stati Uniti.
Questo scontro geo politico (delle relazioni internazionali) è anche alla base di varie crisi in atto (Ucraina, Gaza, declino della UE, guerra commerciale dei dazi Usa, de-globalizzazione).
I Paesi UE balzano ai primi posti dello Sviluppo Umano ancor più se si considera la pressione ambientale che esercitano sulla Terra. Il modello sociale è infatti meno disuguale ma anche meno impattante di quelli americano e cinese. E’ questa una opportunità enorme per guidare gli altri Paesi, al di là delle critiche sul Green Deal perché il cambio climatico è reale ed è avvertito dai popoli ovunque.
E’ probabile (e ci auguriamo) che tra un anno sia risolta la guerra in Ucraina (e forse quella di Gaza), in quanto, al di là della vulgata che dice che la Russia è in grado di invadere la UE, la stessa Russia soffre di una guerra che si prolunga ed è un problema per un paese di soli 140 milioni di abitanti in declino demografico, con un territorio vastissimo che fatica a rimpiazzare i giovani russi al fronte (anche se meno di quanto avviene per gli ucraini, con soli 28 milioni di abitanti e dove l’ostilità al reclutamento è maggiore).
Nonostante l’apparente vittoria sui dazi di Trump, sta anche tramontando la vulgata dell’America potenza n.1, in quanto soffre di una grave crisi non solo economica (alto deficit commerciale, alto debito pubblico, esigua manifattura), ma sociale (altissima disuguaglianza, paese diviso, crescita di povertà, mancanza di welfare, declino della speranza di vita, caso unico al mondo). La guerra commerciale dei dazi scatenata da Trump non invertirà questo declino, anche perché i BRICS non hanno alcuna intenzione di “dargliela vinta”, come fa la povera UE, convinta che “essere unita nel bene e nel male finchè morte non ci divida” con gli USA, faccia bene.
Nella dissoluzione in corso del dominio USA (verso un multilateralismo), sarà la UE a pagare i prezzi maggiori, omettendo di svolgere la sua missione spirituale nel mondo: quella di “equilibrio” tra i due Golia (USA, Cina), con l’omissione di mettersi a capo di quell’amplissimo fronte di Paesi non allineati che vogliono vivere in pace senza padroni, convinti che per prosperare non ci sia bisogno di stare dalla parte di un impero (come fa la UE).
Ma è vero che si può prosperare senza far parte di una Super potenza in un mondo dove domina il potere (à la Trump o à la Putin o à la Xi Jinping)?g
Si e lo dimostrano proprio i dati sullo Sviluppo Umano.
I paesi che crescono di più da quando è iniziata (1992) la turbo-globalizzazione e l’idea di un dominio liberista del mondo da parte degli Usa con la sconfitta dell’URSS, non sono né i paesi UE, né gli Stati Uniti, ma i Paesi non allineati e i BRICS che vanno costruendo tra loro una rete commerciale alternativa che prima o poi sfocerà anche in un’alleanza militare e in una moneta di riserva mondiale alternativa al dollaro. Per questo c’è chi paventa un mondo meno libero e più ingiusto del Novecento e dei primi 25 anni del XXI secolo. Ne dubito, perché più cresce la prosperità (come sta avvenendo), meno i popoli sono interessati a farsi la guerra e più a cooperare.
Non stare sotto padrone
E un’indicazione anche per il declino UE e dell’Italia in particolare, di cui ha parlato anche Galli della Loggia su Il Corriere della Sera, avvilito per i tanti aspetti declinanti del nostro Paese[1]. Secondo lui sono dovuti alla Politica, alla mancanza di decisioni e alla burocrazia. Non c’è dubbio che i politici di oggi siano meno adeguati di quelli del dopoguerra, ma sono lo specchio (come diceva Gramsci) di una società che è cambiata in senso americano/liberista e “cinese” (tutti più massificati col digitale).
Ma non sarà che ciò che ci fa anche male è stare dentro questa UE e la cultura neo liberista in cui la ricchezza viene requisita da pochi? Venticinque anni di sperimentazione sono un tempo sufficiente per dire se l’esperimento UE ha funzionato e non sembra proprio. Bisogna sperimentare nuove vie finchè siamo in tempo.
Wolfgang Streeck del Max Planck Institutepropone dirifondare la UE partendo da Stati sovrani che cooperino volontariamente tra loro su progetti comuni e che si aprano alla collaborazione anche di altri Paesi non UE non allineati ai Golia.
Il mondo è grande, ha 193 Stati Nazionali (erano solo 99 nel 1960). Nel mondo c’è un grande desiderio di non stare “sotto padrone” e lo dimostra il raddoppio di Stati sovrani alla ricerca di qualcuno che faccia da leader senza voler essere l’Imperatore di turno, ma solo l’allenatore, il coach, in una nuova organizzazione orizzontale e non verticale (come fanno le organizzazioni del futuro) che più che capi cercano allenatori.
Il futuro non sta in una società a piramide inscritta sull’One dollar o sugli accordi di potere tra Trump e Putin e domani Xi Jinping, ma su una crescente uguaglianza dei cittadini all’interno dei paesi e sulla cooperazione orizzontale tra Paesi. Il futuro è questo, il tempo del bullismo andrà a finire. Lo capiremo e ci sveglieremo come chi sbatte il muso contro il muro.
Già oggi alcuni Paesi europei sarebbero naturali candidati a guidare tale processo “orizzontale” dopo guerre su guerre, ma le loro élite (non la maggioranza degli elettori) credono ancora che “stare sotto padrone” sia più comodo che “mettersi in proprio”, perché implica intrapresa e coraggio, come fece l’Italia (ed altri) nel dopoguerra nei famosi “trent’anni gloriosi”.
[1] Forte aumento del debito pubblico (da anni), evasione fiscale altissima, scarsità perenne di investimenti, drammatico restringimento della manifattura, salari fermi da anni e perdita continua di potere d’acquisto, nascita di sempre nuove rendite, qualità sempre più declinante dei servizi pubblici essenziali (ferrovie, strade, ospedali, scuole), diseguaglianze sociali e territoriali crescenti, denatalità più alta d’Europa, emigrazione crescente di cittadini giovani e istruiti, da anni dati scoraggianti sul rendimento scolastico, sempre più poveri, periferie tra le più brutte in Europa e adesso anche il rischio di centri urbani di maggior prestigio sommersi dalla marea devastatrice dei turisti…mentre negli anni ’60 l’Italia cresceva, produceva aveva fabbriche e pullulava di imprenditori. Un paese che sprizzava di intelligenza e desiderio di pensare e fare cose nuove.
Cover: particolare del report 2025 UNDP sullo Sviluppo Umano nel mondo.
Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.
Quando è in gioco la sopravvivenza fisica non ci si può soffermare troppo sul dolore psicologico. Siamo fatti così.
Si piange di fronte alla morte del proprio bambino, di un familiare, di un vicino, ma si deve andare avanti. Quando la fame, la sete, le ferite del corpo chiedono urgenza non c’è tempo per interrogarsi sull’anima. Si deve vivere.
Ma, dopo, quando la tragedia vissuta sembra superata, quando ci sentiamo in salvo, proprio allora la mente ha il tempo di ripercorrere e capire ciò che si è vissuto. Ogni trauma lascia un segno: ferite che si possono rimarginare e lasciano cicatrici, ferite che rimangono aperte, ferite che non si vogliono vedere ma che, quando il controllo vigile si allenta, ripropongono la paura.
Il trauma della guerra è sempre esistito anche quando non aveva nome. I reduci delle guerre, dopo che si erano contati i morti e i feriti e si tentava di ricostruire il tessuto civile, sono stati i soggetti, loro malgrado, delle pionieristiche ricerche scientifiche, neurologiche e psichiatriche che cercavano di capire perchè e quali segni rimanevano inchiodati nella psiche.
Durante e dopo la prima guerra mondiale migliaia di soldati riportarono gravi disturbi mentali, ma non fu subito evidente che la causa fosse aver partecipato alla guerra, perché non si pensava potesse essere un fattore scatenante una psicopatologia. Si coniò allora la definizione hell shock(espressione inglese traducibile in italiano come “shock da granate“). La cura per “gli scemi di guerra”: il manicomio.
Poi lo strazio immane della seconda guerra mondiale. Questa volta la condizione dei soldati fu chiamata “collasso psichiatrico“, “stanchezza da combattimento” o “nevrosi da guerra”. L‘olocausto, la bomba atomica ci hanno fatto capire che il trauma è anche un trauma collettivo: segna profondamente la memoria storica e culturale e influenza la politica, la società e la cultura. Abbiamo anche capito che il trauma è transgenerazionale: gli effetti possono essere trasmessi anche alle generazioni successive, attraverso meccanismi epigenetici e dinamiche familiari, influenzando la loro identità, i loro comportamenti e le loro capacità di affrontare le sfide della vita.
Forse il trauma da guerra più studiato o più famoso, perchè ha originato proteste in tutto il mondo ed è raccontato nelle canzoni e nel cinema è stato il problema sociale americano dei reduci del Vietnam. Molti veterani del Vietnam tornati a casa da anni, ancora erano afflitti da torpore emotivo, instabilità, flashback e rabbia.
Nel 1972 lo psichiatraChaim Shatanconiò il termine “Sindrome post-Vietnam”.
Nel mondo le guerre non si contano più, continuano più o meno conosciute e il trauma si ripete e si amplifica.
Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS)
Oggi si parla di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS),nel 1980 la definizione divenne una diagnosi formale nella terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Dodici anni dopo, è stata adottata anche nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La DPTS è unacomplessa sintomatologia che, generalmente, emerge mesi dopo i fatti che ne sono la causa e tende a ripresentarsi o intensificarsi nel tempo, diventando una costante nella vita di chi ne soffre. Si tratta di segnali fisici, psicologici e mentali che interferiscono pesantemente con la sfera privata e sociale, portando spesso allo sviluppo di altri disturbi psichiatrici concomitanti, ansia, depressione, isolamento, fobie – le più varie -, disturbi del sonno e della concentrazione, abuso di farmaci, cibo, alcol o altre sostanze.
In maniera molto generica perchè si parli di DPTS, occorre l’esposizione a un evento traumatico che minaccia la vita o l’integrità fisica di una persona, sé stessi o altri, ed una reazione di paura intensa, impotenza o orrore. Questa reazione emotiva, assolutamente comprensibile nell’accadere dell’evento, si sviluppa come disturbo psichiatrico in seguito. Post, appunto, e gli effetti non è detto che si vedano a breve distanza, ma possono rimanere latenti nella mente risvegliandosi, alle volte improvvisamente, senza segnali premonitori.
Chi ne soffre vive in balia di ricordi intrusivi dell’evento traumatico, flashback, incubi. Manifesta involontariamente risposte reattive psicologiche a stimoli che ricordano il trauma, è in preda ad una apparente inspiegabile irritabilità, ipervigilanza, difficoltà di concentrazione, problemi del sonno, risposte esagerate alla sorpresa.
Ci si difende evitando costantemente stimoli associati al trauma, come luoghi, persone o situazioni ma il prezzo è una vita condizionata e comunque incerta perchè non si può avere il controllo su ogni cosa.
Dopo l’evento traumatico della guerra si determinano inoltre alterazioni del pensiero, come convinzioni negative su sé stessi o sul mondo, e dell’umore come distacco emotivo, anedonia, depressione.
Se elenchiamo le cause che possono portare alla sindrome da stress post-traumatico ci accorgiamo che sono tante ma sono sempre eventi che causano uno shock profondo. Oltre a fatti tragici che coinvolgono tante persone, oltre le guerre e i genocidi di cui stiamo parlando, ci sono le catastrofi naturali, grossi incidenti automobilistici, navali, aerei, incendi eccetera. Spesso, però, il trauma nasce da drammi isolati, individuali, vissuti in prima persona o ai quali si è solo assistito violenze, come pestaggi e aggressioni, stupri, tentati imicidi, rapine; oppure traumi fisici gravi, inclusi parti drammatici o malattie importanti.
Se il DPTS può colpire ogni persona esposta ad un evento traumatico pensiamo agli effetti imponderabili e devastanti quando il trauma lo vive un bambino, quando predomina l’innocenza, la dipendenza e l’inesperienza della vita, quando non si sono elaborati strumenti per capire uno scenario di guerra, quando le difese psichiche sono le più primitive.
I bambini di Gaza
Pensiamo, oggi, ai bambini di Gaza, ma il discorso sarebbe equivalente e angosciante riferito a tutti i bambini che hanno vissuto o vivono la guerra.
Lo scenario di Gaza mette insieme tutte le tragiche eventualità elencate precedentemente come singole cause e ciò senza soluzione di continuità. A Gaza i bambini vivono quotidianamente tutti i drammi possibili, crescono, se non muoiono, avendo intorno costantemente questo drammatico contesto. Sono vittime e testimoni. Si aggiunge adesso la fame, la sete.
Per molti bambini e bambine sono venuti meno quei fattori protettivi che aiutano a superare il trauma perchè i traumi sono ripetuti, perchè le campagne militari e le azioni di guerra sono ininterrotte; perchè viene meno il sostegno familiare e il supporto sociale. Bambini e adolescenti sono fatti a pezzi oltre che dalle bombe e dai droni, da lutti, malattie, perdita della casa, del gioco, del diritto allo studio, della salute, della necessità di crescere in uno spazio protetto.
Si può capire come lo stress generato dalla paura che si è provata in un dato momento (l’esplosione di una bomba, la minaccia di un soldato armato) è terrore vero e proprio, paralisi o impotenza. Effetti che purtroppo non possono essere superati solo con l’esaurirsi del trauma. Questo, infatti, permane nascosto o mimetizzato nella psiche e si svela dopo un po’ di tempo. Se non riconosciuto e affrontato si radica, si cronicizza e diventa disabilità, disadattamento o una vera malattia psichiatrica.
Tutti i sopravvissuti a qualsiasi trauma, la Shoà, per prima lo insegna, non sono più quelli di prima.
Le voci dei bambini (Fonte Unicef,)
Ghazal, 14 anni proviene da Khuza’ah, nella città orientale di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. È stata costretta ad abbandonare la sua casa con il resto della famiglia il giorno dopo essere stati bombardati. Non è la prima volta che accade: nel 2014 Ghazal è stata costretta a lasciare casa e a vivere da sfollata per 2 anni.
“Non sopporto più di vivere così, non posso vivere rifugiandomi in una scuola, non posso accettare che questo diventi normale per noi” ha detto. “Non voglio che nessuno mi chieda della mia infanzia, io non ho avuto un’infanzia, vivo nel terrore”.
Karim, 15 anni. Nel cuore della devastazione di Tal al-Hawa, a Gaza, Karim osserva il suo quartiere distrutto, tenendo in braccio il suo gatto. “Non lascerei mai Karaz tra le macerie. Lei è l’unica amica che mi sia rimasta, mi prenderò cura di lei” dice. Anche lui fa parte delle centinaia di migliaia di persone sfollate all’interno della Striscia.
Wafaa Jundiah, di Gaza, trasporta boccioni di plastica vuoti per riempirli di acqua potabile per la giornata. “Ho perso la mia casa e i miei due fratelli. Vorrei tornare a casa nostra, anche se le possibilità che torneremo indietro sono poche. Non saremo mai più interi, tutti stanno perdendo i propri cari”.
Salwa Elyan, 8 anni, abbraccia delle bottiglie vuoteDa grande vorrei fare l’infermiera. Spero che la guerra finisca subito. Amo tutti i bambini, non voglio che muoiano come noi.
Le testimonianze di alcune delledonne e madri
Da Save the children: testimonianze di alcune delledonne, madri che sono parte dello staff e si trovanoa Gaza con le loro famiglie.
Samar è madre di tre bambini, tutti hanno meno di sette anni e il più piccolo ne ha solo due.
“Mentre scrivo questo messaggio, mio figlio sta dormendo sulle mie ginocchia, non riesco a lasciarlo solo perché è sempre spaventato. Il mio cuore va a coloro che hanno perso i loro cari e le loro case… Anche noi stiamo aspettando il nostro turno. Viviamo nella costante paura dell’ignoto e le nostre condizioni di vita sono molto difficili (…) Non abbiamo accesso all’acqua potabile e il cibo scarseggia. Non sappiamo nemmeno come faremo a provvedere ai bisogni dei nostri figli. La situazione peggiora di giorno in giorno, perché siamo costretti a comprare la farina a un prezzo quattro volte superiore a quello normale e diventa sempre più difficile trovarla. Abbiamo perso le nostre case e tutti i nostri beni; non sappiamo dove andare. Mi spezza il cuore vedere i bambini affamati e mi sento impotente sapendo di non poter provvedere ai loro bisogni. Lavarsi è diventato un lusso e so che i miei colleghi sfollati nei rifugi pubblici soffrono ancora di più”.
Raida è madre di tre figli, tutti hanno meno di 16 anni, il più piccolo ne ha nove:
“Oggi mia figlia mi ha chiesto delle persone che partono attraverso il valico di Rafah. Le ho spiegato che hanno la cittadinanza di altri Paesi. È corsa a prendere il suo salvadanaio, che conteneva 50 shekel (12 dollari), e mi ha pregato di comprarle una cittadinanza. La situazione è molto difficile. Sono esausta”.
Razan, è nonna di 2 bambini con meno di sei anni. Lavora nel nostro team e ha viaggiato fuori Gaza prima del 7 ottobre e non può tornare dalla sua famiglia:
“Parlo con mia figlia e mi dice che i suoi figli non riescono più a sopportarlo. Urlano in continuazione. Che Dio dia a tutti la pazienza. La situazione è davvero insopportabile. I bambini si esprimono urlando. Anche mia figlia ha paura, vuole che i suoi figli restino accanto a lei. Ha paura che ci sia un attacco aereo mentre loro sono lontani da lei. Ma le ho detto di non limitarli e di cercare di stare sempre con loro. Le ho detto di abbracciali, di parlare e giocare con loro. E se Dio vuole, questa situazione finirà bene”.
La gravità e la durata del trauma, così come la vulnerabilità individuale, possono influenzare lo sviluppo del disturbo.Pensiamo allora all’intera storia del popolo palestinese, dobbiamo partire da molto, molto lontano e arriviamo a questi due ultimi anni di guerra a Gaza, pensiamo alla fragilità dei bambini in età evolutiva che per uno sviluppo sano avrebbero bisogno di una base sicura, circondati da adulti che offrono uno spazio certo, affidabile ma che, invece, a loro volta sono traumatizzati, insicuri e vulnerabili, o non ci sono perchè morti.
Pensiamo alla impossibilità di un bambino di immaginare che non ci sono risposte ai suoi bisogni, che esista la fame, la sete, l’abbandono, non ci sia una casa, che il suo corpo possa essere martoriato.
Vogliamo che questi bambini sopravvivano ma, pur fiduciosi della forza della resilienza che rende capaci di affrontare l’imponderato, cosa ne sarà delle ferite, non solo quelle che il corpo richiama: mutilazioni, disabilità permanenti, la fame, la sete, il dolore, ma le lacerazioni di una crescita senza la protezione dei genitori, della casa, la perdità incolmabile di sentirsi non umani, reietti, rifiuti.
Non si può perdere tempo
Per loro dobbiamo pensare a interventi urgenti adesso, durante e dopo la guerra, per aiutarli a tollerare, integrare, elaborare il loro dolore invisibile. Per recuperare quello che resta della loro infanzia, del loro diritto di giocare, essere amati, avere fiducia nel mondo e nella possibilità di un futuro.
Non si può perdere tempo, perchè, come abbiamo detto, il trauma sperimentato nell’adesso, dopo verrà incapsulato nel profondo della mente, esso, più o meno latente, potrà essere risvegliato e avere un impatto significativo sulla vita futura di adulti. Persone intrappolate dalle conseguenze negative sulla salute mentale e fisica, minate nelle relazioni interpersonali e il senso di sé.
Perdendo anche solo una labile parvenza di routine che per i bambini è contenimento, stabilità e smarrendo anche il valore della propria identità, potrebbe generarsi ulteriore stress e turbamento.
Conosciamo dalla letteratura più recente sull’infanzia abusata come nasca nei bambini una visione distorta del mondo. Ciò può portare a credersi responsabili per l’evento traumatico, alimentando sintomi depressivi come colpa, vergogna, bassa autostima e persino idee suicide, ma anche disregolazone emotiva, problemi cognitivi, sentimenti e comportamenti di rabbia.
Lo sviluppo nell’età evolutiva è un processo dinamico e complesso che coinvolge diverse aree di crescita. È un processo influenzato da fattori biologici, ambientali e relazionali.
Un bambino palestinese già nella fase prenatale incontra molti problemi. Le madri malnutrite, impaurite, che non hanno accesso agli ospedali avranno figli partoriti prematuramente, sotto peso, maggiormente vulnerabili anche nello sviluppo fisico, cognitivo ed emotivo. Queste madri senza cibo, non potranno nutrire i loro neonati al seno, aspetto che non è solo legato all’allattamento in sè ma alla compromissione dello stabilirsi della prima fondamentale esperienza relazionale di fiducia e senso di sicurezza.
Anche successivamente alla nascita, la crescita fisica, affettiva, relazionale sarà dominata dalle condizioni ambientali in cui stanno crescendo.
Lo sviluppo emotivo e relazionale in un contesto inadeguato può alterare la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, stabilire relazioni significative con gli altri e comprendere i sentimenti altrui. Limita lo sviluppo delle competenze sociali, le interazioni con i pari e dal momento che la scuola e la comunità in generale hanno un impatto sullo sviluppo del bambino, pensiamo agli effetti nefasti quando queste realtà sono state brutalmente interrotte, compromesse, distrutte.
Non vogliamo tralasciare l’importanza dei fattori individuali ma, quanto il temperamento, le predisposizioni genetiche saranno influenzate, modificate dalle esperienze individuali in un contesto di guerra, povertà, disintegrazione?
Giotto, La strage degli innocenti, cappella degli Scrovegni
I risutati di uno studio Needs Study:Impact of War in Gaza on Children with Vulnerabilities and Families, condotto dalla Community Training Centre for Crisis Management(CTCCM) di Gaza non lascia dubbi:
il 79% dei bambini di Gaza soffre di incubi
l’87% di loro ha una forte paura;
il 38% riferisce di aver fatto la pipì a letto
il 49% dei genitori assistiti ha dichiarato che le loro figlie/i loro figli credevano che sarebbero morte/i in guerra;
il 96% dei bambini di Gaza ha sentito che la morte era imminente.
In parole povere, ogni singolo bambino di Gaza sente che sta per morire.
Per tutto questo, diventa fondamentalemonitorare lo sviluppo dei bambini allo scopo di individuare precocemente eventuali difficoltà, regressioni a fasi di sviluppo precedenti o ritardi evolutivi. Un intervento tempestivo può fare la differenza nel garantire la salvaguardia o la ripresa di un sano sviluppo. Per fare ciò occorre creare spazi in cui i bambini non siano lasciati a se stessi ma possano riprendere almeno una parvenza di vita normale. Diventa urgente l’aiuto immediato ma anche duraturo nel tempo per creare un senso di comunità dove ci sia la possibilità di essere al riparo per salvarsi la vita, di giocare, di esprimersi.
Sono già in azione molte ONG che si occupano dell’infanzia e degli adolescenti, (quelle più conosciute Unicef,Save the children) ma anche tutte le altre hanno sempre un’attenzione particolare verso i piccoli non solo per gli aspetti strettamente sanitari.
In sostegno all’infanzia di Gaza, in prima linea c’è anche*Solidarietà/Al-Najdah*
Logo dell’associazione Al-Najdah
Al-Najdah è un’associazione di donne di sinistra. È finanziata dalle associazioni di palestinesi e arabi della diaspora in giro per il mondo.
Opera nel campo dell’educazione, della difesa dei diritti delle donne, la protezione dell’infanzia, con corsi scolastici e un giardino di infanzia per accudire gli orfani. Un impegno dal basso, senza condizionamenti e con una forte autonomia. Malgrado tutti i danni subiti, l’associazione ha mantenuto i suoi programmi adattandoli alle nuove situazioni, secondo le potenzialità e disponibilità, partendo dalla realtà della guerra entro la quale i bisogni sono aumentati a causa del genocidio in corso.
Tra le iniziative realizzate vi è la distribuzione dell’acqua potabile tramite un autobotte regalata da un’associazione di sostegno di palestinesi negli USA.Un altro servizio è la fornitura di pasti caldi alle famiglie di sfollati. Recentemente sono state ricostruite le sedi e la strutture operative in tende e capannoni di listelli di legno e plastica. Ma oltre la salvezza del corpo si lavora anche per la salvaguardia della salute mentale. Le Sedi e le strutture stanno lavorando per corsi, laboratori, lezioni, spazi di produzione di manufatti di cucitura e ricami e soprattutto sale gioco per bambini. Attività che occupano centinaia di volontari.
L’ associazione ha dato il via anche ad un progetto di adozione a distanza di bambini e bambine di Gaza.
La campagna Al-Najdah si chiama “Ore Felici per i Bambini di Gaza” tutte le informazioni al link https://www.anbamed.it/2025/03/03/al-najdah-soccorso-sociale-malgrado-le-ferite-in-sostegno-dellinfanzia-a-gaza/
“Per essere realisti bisogna riflettere e agireaffinché non sia negato il diritto all’infanzia, alla socializzazione, al gioco e all’educazione, non sia danneggiato lo sviluppo e, nel lungo periodo, non sia compromessoil futuro stesso di bambini e adolescenti e quello delle società in cui vivranno, sia in tempi di pace che di guerra”
[Maurizio Bonati, Il cronico trauma della guerra, Il Pensiero scientifco editore, 2024]
girotondo dei bimbi palestinesi
In copertina: Trauma-e-ptsd-corso-psicologia-gratuito-istituto-beck
Per leggere gli articoli diGiovanna ToniolisuPeriscopioclicca sul nome dell’autrice
“Il poeta, per quanto profondamente si addentri nell’astratto, resta poeta nel suo profondo, cioè amante e folle. Quando il sentimento arriverà al suo apice, aprirà il cuore e non l’intelletto, e impugnerà la spada e non la penna, e si precipiterà alla finestra e getterà via tutti i rotoli dei versi e dei pensieri e fonderà la vita sull’amore e non sull’idea.”
(Alexandr Alexandrovič Blok)
Casa
Come vorrei
amore Mio
che d’incanto
il mondo si girasse
e dove vivi tu
ci vivessi io
e dove tu ti perdi
mi trovassi io
e quando chiami
risponderti:
sono qui.
Amico mio
*
Notti di sogni
viaggi infiniti
confuse memorie
desideri vividi
tangibili effetti.
Ti chiamo
e tu rispondi
“sono qui”.
La mano sinistra
nella mia
un’altra storia
un’altra vita
un altro mondo.
*
E se dovessi non riconoscermi più
così
d’un tratto.
Potrei pensare di essere un’altra
o altro
potrei credermi una nuvola in cielo
un’alga in mare
un fiore viola cresciuto tra l’asfalto
e non riuscire a raccontarlo.
E se dovessi poi non riuscire a spiegarlo
e se a nessuno poi importasse
e se fosse
che così
credendomi altro
restassi immobile per l’eternità
in un corpo non mio
con una voce in prestito.
Se fosse
qualcuno quaggiù mi riconoscerebbe?
Foto di Sosh da Pixabay
MARZIA VENTURELLI nasce a Modena nel 1968 e inizia a scrivere ai tempi del liceo, ricercando nella scrittura un modo più completo per comunicare stati d’animo ed emozioni. Si laurea in Economia e Commercio e trascorre anni a rincorrere il “mestiere Ideale”, quello che tanto per intenderci non Imbruttisce. Nel 2013 si trasferisce per un lungo periodo in Grecia, dove il lento spiegarsi della vita e dei compiti le restituiscono una visione più ampia e completa della percezione di sé stessa come essere vivente, lontano dalla schiavitù dei ruoli cittadini e dalla necessità di lavorare per vivere. Autrice di Senza Tempo – Poesie del silenzio e dell’anima (2022), ottiene la sua prima menzione d’onore nel 2023 al Premio Nazionale di Poesia L’Arte in Versi dell’Associazione Euterpe di Jesi. Nel 2024 viene premiata al Festival Poesia Trasimeno e nel 2025 al concorso letterario Il Mattone Rosso – Marsciano Book Festival. Ha collaborato alla traduzione di testi poetici per un volume antologico dedicato ai temi del viaggio e della migrazione. Alcuni suoi componimenti sono stati inclusi nell’Agenda Poetica 2025 e nell’antologia Inno al Silenzio 2025, a cura di Bruno Mohrovich per Bertoni Editore.
Marzia scrive di sé: “In labirinti d’inchiostro affino una passione che mi ha permesso di sopravvivere ancorandomi alla poesia anche quando andava tutto male. È suddiviso in tre sezioni che rappresentano tre punti cruciali di crescita introspettiva e sana follia di adattamento a questa vita che corre troppo veloce. Questo libro è il riflesso della mia anima inquieta e sensibile, ed ogni verso nasce dall’esigenza di non lasciare che il tempo cancelli le tracce di un sentimento, di un attimo vissuto intensamente. Uno dei temi ricorrenti in questa raccolta è il senso di appartenenza a un altrove indefinito, la tensione continua tra il desiderio di radicarsi e il bisogno di perdersi, tra la voglia di trovare un senso e l’accettazione dell’irrazionalità della vita. È un viaggio interiore che si nutre di malinconia e di attese, di silenzi e di improvvisi bagliori di luce. Ogni poesia è un piccolo mondo da esplorare, un frammento di vita in cui immergersi, una confessione sussurrata che attende solo di essere ascoltata. La poesia, in fondo, è anche questo: un dialogo senza tempo tra chi scrive e chi legge, un filo invisibile che ci lega e ci rende parte di qualcosa di più sconfinato, di più vero, di più umano.”
“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236
La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 299° numero.Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Un 18enne ucciso dai soldati dell’IDF dopo che i coloni hanno invaso un uliveto e appiccato roghi nei terreni coltivati dai palestinesi.
Questi sono i fatti documentati in un filmato, una serie di fotografie e la cronaca che una troupe della BBC ha inviato da Turmus Ayya, la cittadina in Cisgiordania (governatorato di Ramallah e al-Bireh) dove nel 2014 alla marcia di protesta contro l’occupazione israeliana è morto, soffocato da gas lacrimogeni e colpi delle granate stordenti, l’esponente dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese Ziad Abu Ein.
Da due anni il centro urbano e il suo territorio rurale sono al centro dell’attenzione: scontri violenti nei primi mesi del 2023, quindi già prima del 7 ottobre di quell’anno, e successivamente, nel 2024 e nel 2025, hanno provocato numerose vittime, soprattutto tra palestinesi e anche tra gli israeliani.
Il 18 agosto scorso la troupe della BBC ha documentato l’attacco dei coloni israeliani avvenuto proprio mentre i reporter intervistavano Brahim Hamaiel nell’uliveto che lui coltiva e, prima di lui, coltivato dai suoi genitori e antenati.
Nel proprio reportage, Lucy Williamson e Morgan Gisholt Minard spiegano che, come molti altri in Cisgiordania * , il suo uliveto è bersagliato dai “coloni estremisti” convinti che “uccidere gli alberi e il bestiame palestinesi ucciderà anche l’idea di uno Stato palestinese, costringendo residenti come Brahim ad abbandonare la propria terra”.
Mentre l’agricoltore palestinese stava mostrando loro le piante a cui, nella settimana precedente, i coloni israeliani insediati in un avamposto illegale adiacente al suo terreno avevano spezzato i rami, sono sopraggiunti una dozzina di uomini con il volto coperto e che brandivano dei bastoni.
I reporter inglesi riferiscono:
« Mentre gli uomini mascherati corrono verso di noi, torniamo sulla strada e ci allontaniamo a una distanza di sicurezza.
« Nel giro di pochi minuti, alcuni vicini di Brahim provenienti dalle fattorie e dai villaggi circostanti si radunano con catapulte e pietre per affrontare gli aggressori.
« La vegetazione ai lati della strada viene incendiata e il fumo segnala il luogo dello scontro, mentre i coloni su un quad mettono in fuga una squadra di soccorso che cerca di raggiungere una fattoria in mezzo al campo.
« Questa qui è la routine: i palestinesi che vivono in questi villaggi ci hanno spiegato che attacchi alle loro terre avvengono ogni settimana, sono la tattica usata dai coloni per impossessarsi dei loro terreni, campo per campo.
« La velocità e l’estensione dell’attacco a cui abbiamo assistito sono sbalorditive.
« In poco meno di un’ora decine di coloni si sono sparpagliati sulle colline e li abbiamo visti irrompere in un edificio isolato e dar fuoco a veicoli e case.
« Mentre il pendio alle loro spalle si incendiava e da più punti si levava fumo, i pastori sulla cresta più lontana hanno portato via di corsa le greggi.
« Intanto, i palestinesi che arrivavano da tutta la zona per aiutare i propri vicini hanno trovato la strada bloccata dall’esercito israeliano.
« Nel frattempo l’attacco continuava.
« Venivamo informati che un palestinese era stato picchiato dai coloni e poi i militari ci hanno riferito che da entrambe le parti erano state lanciate pietre, che i palestinesi avevano bruciato dei pneumatici e che quattro civili israeliani avevano ricevuto cure mediche.
« Al posto di blocco abbiamo incontrato Rifa Said Hamail, il cui marito era intrappolato nella loro fattoria attigua all’uliveto di Brahim e da ore circondata dai coloni.
« L’esercito non la lasciava passare e in seguito abbiamo appreso che i coloni avevano incendiato parte della proprietà e che il marito di Rifa era stato colpito con delle pietre e aveva riportato tagli al viso e alla gamba.
« Per tutto il tempo non siamo riusciti a parlare con nessuno dei coloni coinvolti nell’attacco a cui avevamo assistito.
« Invece uno dei volontari delle ambulanze intervenuti ci ha riferito che l’esercito israeliano aveva impedito loro di raggiungere il luogo in cui erano avvenuti gli scontri: “Stavamo andando per cercare di soccorrere dei giovani quando è arrivato l’esercito, che ci ha suonato il clacson e ci ha detto di andarcene. Siamo volontari protetti da giubbotti antiproiettile. Non siamo qui per attaccare o fare del male ai coloni. Vogliamo spegnere gli incendi e curare i feriti. Ma loro [i militari] ci fermano e ci ostacolano”.
« Poco dopo abbiamo appreso che il 18enne Hamdan Abu-Elaya era stato ucciso dai colpi sparati dalle truppe israeliane nel villaggio di al-Mughayyir, a poche miglia dal terreno di Brahim.
« Sua madre ci ha spiegato che era andato a vedere i fuochi accesi dai coloni lì vicino.
« Abbiamo chiesto ai militari israeliani cosa fosse successo e loro ci hanno riferito che i “terroristi” avevano lanciato pietre e molotov contro le truppe e i soldati avevano “risposto con il fuoco per allontanare la minaccia”.
« La settimana scorsa il ministro delle finanze israeliano ed esponente dell’estrema destra Bezalel Smotrich aveva riaffermato l’intenzione di “seppellire l’idea di uno Stato palestinese” annunciando la costruzione di migliaia di nuove unità abitative in un’area di insediamenti della Cisgiordania meridionale.
« Le Nazioni Unite riferiscono che da gennaio a giugno di quest’anno in Cisgiordania 149 palestinesi sono stati uccisi da coloni o soldati israeliani e 9 israeliani negli scontri con palestinesi. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha rilevato che tra il 5 e l’11 agosto sono avvenuti almeno 27 attacchi di coloni israeliani contro i palestinesi, 18 famiglie sono state allontanate dalle loro abitazioni e vittime e danni alle proprietà o entrambi sono stati accertati in una 20ina di comunità».
* Invasioni ed espropriazioni dei pascoli e dei terreni agricoli, in particolare degli uliveti, coltivati dai palestinesi in Cisgiordania recentemente sono state denunciate anche dai parroci di Taybeh.