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Pioniere del cinema: cancel culture ante litteram? 

Le donne nel cinema ci sono, da oltre 150 anni, invisibili, dimenticate e rimosse dalle narrazioni ufficiali. Eppure, sono state pioniere di quell’arte. Una mostra all’Istituto Centrale per la Grafica di Roma ci invita a una meravigliosa (ri)scoperta.   

Il caldo diminuisce. Inizia il mese di settembre che invita a passeggiare per le strade delle città alla ricerca di nuove idee e stimoli. Alcuni luoghi sono meno noti al grande pubblico, fuori dal consueto circuito turistico, ma meritano una visita. Tempo di andare, di esplorare.

A incuriosire oggi è l’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, che ospita la mostra InVisibili. Le Pioniere del Cinema, promossa dal Ministero della Cultura, realizzata e organizzata da Archivio Luce Cinecittà, in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Museo Nazionale del Cinema di Torino e la Cineteca di Bologna. Una mostra che sarà visitabile fino al 28 settembre 2025.

L’iniziativa propone uno sguardo inedito sulla storia del cinema, che non è mai stata solo una storia di uomini. Oggi più che mai si avverte l’urgenza di restituire visibilità e riconoscimento a quelle donne che, sin dalle origini della settima arte, ne hanno scritto le prime pagine. Con i loro dubbi, le loro incertezze, le difficoltà. Ma con talento e passione.

Foto mostra di A. Sbaffi e E. A. Minerva – Ministero della Cultura
Foto mostra di A. Sbaffi e E. A. Minerva – Ministero della Cultura

La mostra è il racconto del percorso artistico di trenta donne pioniere del cinema italiano e internazionale, a partire da Elvira Notari, prima regista donna italiana, che non sono state semplici comparse nella storia di un’industria nascente, ma vere protagoniste con ruoli creativi e imprenditoriali e una libertà che anticipava le battaglie di emancipazione del secondo Novecento.

Si recuperano materiali inediti, pellicole ritrovate, riviste d’epoca, documenti d’archivio, lettere, sceneggiature, fotografie e bozzetti per parlare di donne che hanno immaginato, diretto, interpretato, prodotto e trasformato il cinema, lasciando un’impronta profonda e duratura, troppo spesso rimossa dalle narrazioni ufficiali.

Per visitare la mostra, serviva studiare un po’. Le scoperte fatte durante ricerche intraprese fin dall’alba sono entusiasmanti ed emozionanti. Oltre che sorprendenti.

Foto mostra di A. Sbaffi e E. A. Minerva – Ministero della Cultura
Foto mostra di A. Sbaffi e E. A. Minerva – Ministero della Cultura

Benvenuti al Women Film Pioneers Project

Curiosità, innanzitutto. C’è una risorsa accademica digitale molto interessante, e forse poco nota, della Columbia University, che esplora il coinvolgimento globale delle donne a tutti i livelli della produzione cinematografica durante l’era del cinema muto.

È il Women Film Pioneers Project (WFPP), progetto iniziato come una ricerca sulle “donne pioniere del cinema” che sfidassero l’idea consolidata dei grandi “padri” del cinema.

Uno di questi giorni, gli uomini supereranno la sciocca idea che le donne non abbiano cervello… E smetteranno di sentirsi insultati al pensiero che chi indossa la gonna possa fare il proprio lavoro abbastanza bene come loro. E non credo nemmeno che quel giorno sia molto lontano”. Cleo MadisonPhotoplay (gennaio 1916)

WFPP presenta brevi profili di carriera, saggi tematici e post multimediali più brevi, preparati da studiosi di cinema, curatori cinematografici, archivisti e storici. A giugno 2025, ci sono 329 donne che hanno lavorato nei cinema in sei dei sette continenti.

Gli obiettivi del WFPP sono quelli di avviare la ricerca storica sul lavoro e l’eredità artistica delle registe dai primi anni del cinema fino all’avvento del sonoro, facilitare i collegamenti tra i ricercatori e riconfigurare la conoscenza cinematografica mondiale, mettendo in primo piano il fatto che le donne hanno lavorato a vario titolo dietro le quinte su scala globale.

Nato nel 1993, quando la studiosa di cinema Jane Gaines era visiting professor al Vassar College, WFPP è stato inizialmente immaginato come un set di libri in più volumi per essere poi lanciato nell’ottobre 2013 come risorsa solo online.

Qui troviamo le protagoniste della mostra. Iniziando da Elvira Notari.

Elvira Notari, prima regista donna italiana, un Comitato e oggi a Venezia 82

Elvira Notari, prima regista donna italiana, è solo il punto di partenza di un racconto che si snoda tra le vite e le opere di figure straordinarie come quelle di Giulia Cassini Rizzotto, Adriana Costamagna, Daisy Sylvan, Bianca Guidetti Conti e di molte altre, i cui contributi alla storia del cinema sono stati a lungo ignorati o dimenticati.

Si riporta alla luce una genealogia femminile cancellata e una visionarietà tanto imperterrita quanto inascoltata. Storie di talento sistematicamente ridimensionato o ostacolato.

Chi ricorda Alice Guy-Blaché, considerata da molti studiosi della storia del cinema la prima cineasta della storia, sottovalutata e dimenticata per il semplice fatto che era una donna? Una regista rivoluzionaria che inserisce molte novità nei suoi film, arrivando a produrne più di mille, che è la prima donna a dirigere un film, “a Fée aux choux (1896), solo un anno dopo l’invenzione del cinema. Una donna decisa che, nel 1897, è alla direzione del reparto dedicato alla produzione cinematografica della Gaumont (con l’unica condizione che questo incarico non le impedisca di continuare a svolgere le sue mansioni originarie di segretaria). Una Legione d’onore, nel 1953 e un riconoscimento (non coperto mediaticamente) dalla Cinématheque française, nel 1957, per come prima regista della storia. Fino al rientro, nel 1964, negli Stati Uniti, per tentare di recuperare la propria filmografia per non ritrovare quasi nessuna delle sue pellicole. Le poche che riuscì a localizzare erano state attribuite a registi maschi. Al danno, la beffa, e poi l’oblio totale.

Non è andata molto meglio alla prima regista italiana, Maria Elvira Giuseppa Coda Notari, pioniera del neorealismo (anche se oggi, per lei, qualcosa sta cambiando).

Nata a Salerno, il 10 febbraio 1875, si trasferisce a Napoli, dove studia come modista e scopre l’anima della città. Qui incontra il fotografo e pittore Nicola Notari, che sposa nel 1902: lavorano subito insieme, lei lo aiuta nella colorazione delle foto e poi dei film, per passare alla produzione di opere sperimentali. Una complicità unica e amorevole.

La coppia ha tre figli, Edoardo, Dora e Maria, e, nel 1909, crea un laboratorio di stampa, titolatura e coloritura delle pellicole, la Dora Film Fabbrica di film per cinematografi e film parlanti, con sede a Napoli, in via Roma n.91. In poco tempo, la Dora Film si trasforma in una vera casa di produzione diventando, insieme alla Lombardo Film e alla Partenope Film, una delle più famose compagnie di Napoli, e non solo, del tempo.

Conosciuta da tutti come Elvira, soprannominata in famiglia A’ marescialla, per lo spirito testardo e non disponibile ai compromessi, realizza sessanta film e cento documentari, dove racconta l’amore e la miseria delle vite dimenticate, con un successo che attraversa l’oceano, trovando un pubblico tra le comunità italo-americane. Per quella platea e per salvare le pellicole, negli anni ’20, a New York, apre una sede della Dora Film nella famosa Mulberry Street, a Manhattan, terra e rifugio di molti italiani.

Elvira è anche pioniera dell’attività di marketing: si occupa personalmente dei rapporti con la stampa, curando sia la pubblicità che le locandine dei film. Acquista in anticipo i diritti sulle canzoni del Festival di Piedigrotta per la colonna sonora del film, svolgendo un lavoro di richiamo fin da prima dell’uscita del film. Fonda pure un’accademia di recitazione da cui attinge per i suoi attori. Sta davanti a tutti.

Eppure, durante il fascismo, il suo nome è vittima di una rimozione sistematica dalle sale e dagli archivi, relegato ai margini della storiografia cinematografica e, di conseguenza, della memoria collettiva. La propaganda fascista promuove un cinema opposto al suo: film che celebrano l’essere italiano e l’antica grandezza dell’Impero Romano. Kolossal.

Lei, invece, racconta i bassifondi (tema considerato antinazionalista, si dà una brutta immagine della patria…) e le sue eroine sono protagoniste, di volta in volta viscerali, folli, violente, insofferenti alle regole sociali a cui avrebbero dovuto conformarsi. Inaccettabile, in una società improntata a una visione sessista e patriarcale, in un mondo dominato da personalità maschili. Si aggiunga, poi, che l’interesse del fascismo al cinema porta a una centralizzazione della produzione a Roma che marginalizza l’industria cinematografica meridionale e anche (se pur in minor misura) quella settentrionale.

La sua opera è vista, allora, come un’arma puntata sui valori del regime e, negli anni Trenta, la Commissione di Censura decreta la fine della Dora Film. I suoi film vengono quasi tutti eliminati. Rimangono solo alcuni lungometraggi e documentari, conservati presso la Cineteca Nazionale. A Santanotte del 1922, E piccerella del 1922, Fantasia ‘e surdato del 1927 sono i soli tre film sopravvissuti quasi per intero. 163 minuti, quel che resta.

A’ Santa Notte, Il Cinema Ritrovato, Cineteca di Bologna

Ricorda la storia di Mura, nome d’arte di Maria Assunta Volpi Nannipieri, la scrittrice di romanzi rosa, artista dimenticata raccontata nell’omonomo libro di Marcello Sorgi. Censurata dal regime, nonostante fosse l’autrice più famosa dell’Italia fascista nel genere leggero, per il suo Sambadù, amore negro. Nell’Italia di Mussolini, quel libro fu considerato troppo avanzato, progressista, inquietante e pericoloso. Perché le razze non si potevano mescolare e il libro sparì dalla circolazione. Oggi di Mura si sono perse le tracce. La cancel culture ante litteram imposta dal fascismo ha prevalso.

Dopo alcuni libri dedicati a Elvira (Rovine con vista. Napoli e il cinema di Elvira Notari, di Giuliana Bruno, edito da Quolibet, Elvira, di Flavia Amabile, edito da Einaudi o il romanzo La figlia del Vesuvio. La donna che ha inventato il cinema, di Emanuele Coen, edito da SEM), oggi, a 150 anni dalla nascita, la regista torna al centro della scena.

Prima con la Rassegna Elvira 150, poi con l’istituzione, il 28 marzo 2025, con decreto del Ministero della Cultura, del Comitato Nazionale per le celebrazioni del 150° anniversario dalla nascita di Elvira Notari, con un sito dedicato a lei. Il Comitato, che ha sede legale a Napoli presso la Film Commission Regione Campania, ha il compito di promuovere, programmare e curare tutte le manifestazioni ufficiali dedicate a questa figura straordinaria.

Oggi, alla Mostra del cinema di Venezia 82 viene proiettato in anteprima mondiale, nella sezione Venezia Classici – documentari sul cinema, il film Elvira Notari. Oltre il silenzio, di Valerio Ciriaci (prodotto da Parallelo 41, Awen Films e Luce Cinecittà): grandi aspettative per un mosaico di frammenti di film, testimonianze di studiosi, storici, archivisti e ricercatori che regala al mondo un’eredità ritrovata.

“Ciò che più mi ha colpito dell’eredità di Elvira Notari sono stati i silenzi che circondano la sua storia. Oltre ai tre film superstiti e a frammenti sparsi, non resta quasi nessuna testimonianza diretta: nessuna lettera o diario, solo alcune fotografie sfuggenti attraverso cui provare a intravedere la donna dietro l’artista e l’imprenditrice”. Valerio Ciriaci

Giulia Cassini-Rizzotto, la poliedrica

Meno nota e studiata di Elvira, tra le attrici teatrali, cinematografiche e insegnanti di recitazione cinematografica più rinomate del suo tempo, Giulia Cassini-Rizzotto è stata anche una delle poche registe italiane del cinema muto.

Mente fervida e curiosa, si dedica anche a molte altre attività, come la sceneggiatura e la produzione, oltre all’insegnamento nelle scuole materne e alla scrittura di racconti. È corrispondente per giornali sudamericani e traduttrice dal francese.

Postcard, Giulia Cassini Rizzotto. Private Collection. credits WFPP Columbia

Nasce in una famiglia di attori teatrali, il 15 giugno 1865. Suo padre, Giuseppe Rizzotto (1828-1895), era un noto attore dialettale siciliano che fece parte della compagnia di Giacinta Pezzana durante la tournée sudamericana del 1873 e 1874.

In questo stimolante ambiente artistico che Cassini-Rizzotto cresce e riceve la sua prima formazione teatrale, debuttando sul palcoscenico nella compagnia del padre.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, lavora con alcuni dei più grandi attori del teatro italiano, tra cui Grasso Sr., Ermete Novelli, Virgilio Talli, Irma Gramatica, Ruggero Ruggeri, Gualtiero Tumiati ed Ermete Zacconi. Il periodo trascorso con Talli è significativo per l’influenza sul suo futuro lavoro cinematografico: uno stile interpretativo fortemente teatrale ed espressivo con un’attenzione esperta alla messa in scena.

Giulia conosce Alfonso Cassini (1851-1921), stimato tragediografo, con cui si si sposa nel 1902. Condividono le esperienze teatrali per orientarsi poi verso il cinema. Fa il suo debutto cinematografico, all’età di quarantasette anni, nel 1912, assumendo ruoli secondari.

Nel 1918, cambia direzione: si dedica all’insegnamento presso l’Ars Film di Roma, una delle prime scuole di recitazione cinematografica. La proliferazione di scuole di cinema in Italia in questo periodo è un segnale importante dell’industrializzazione della produzione cinematografica, nonché una tendenza alla specializzazione professionale. È in questo contesto che Cassini-Rizzotto decide di cimentarsi come regista, diventando una delle prime donne italiane a lavorare dietro la macchina da presa.

Dirige cinque film tra la fine della Prima Guerra Mondiale e i primi anni Venti, un periodo non favorevole per la produzione cinematografica italiana. Il suo debutto alla regia è con Scugnì (1918), autoprodotto da Casa Cassini-Rizzotto, scritto e interpretato dal marito Alfonso.

Purtroppo, solo due film sopravvivono (Leonardo da Vinci del 1919, prodotto da una sconosciuta casa di produzione chiamata Historica FilmA mosca cieca, del 1921, di cui è anche interprete e sceneggiatrice, prodotta dalla San Marco Film di Roma) e le informazioni su questo periodo della sua carriera nelle riviste specializzate dell’epoca sono scarse. Di conseguenza, oggi sappiamo poco del successo della sua opera registica.

Dopo la morte del marito, nel 1921, continua a lavorare nel cinema solo per un breve periodo. Si trasferisce, in seguito, in Argentina con una compagnia teatrale diretta da Maria Melato, stimata attrice teatrale, direttrice della fotografia e conduttrice radiofonica. Continua la sua attività di insegnante di recitazione, aprendo una scuola di recitazione teatrale a Buenos Aires, che avrebbe diretto fino alla sua morte, avvenuta il 24 agosto 1943. Anche di lei, un quasi oblio. Come per le altre.

Lavoro silenzioso e invisibile, non una di meno

Due donne, per tutte. Tante ancora le storie da esplorare grazie a questa mostra romana.

Ci sarebbero Lotte Reiniger, pioniera del cinema di animazione, di cui in mostra si ammirano foto di bozzetti, Maria De Matteis, una delle prime costumiste del cinema e del teatro italiani o Francesca Bertini, diva del cinema muto e sceneggiatore, nonché fondatrice della casa di produzione Bertini Film. Ma non basterebbero le pagine per riportare alla luce un così grande lavoro minuzioso, silenzioso, discreto e ‘invisibile’ di tante artiste.

Francesca Bertini Fondo Cinema Muto. Archivio Storico Luce

L’Archivio Fotografico Cineteca NazionaleCSC ha contribuito ampiamente alla realizzazione della mostra con materiali su Astrea (attrice), Francesca Bertini (attrice, produttrice, sceneggiatrice, scrittrice), Bianca Virginia Camagni (scrittrice), Giulia Cassini-Rizzotto (attrice, regista, montatrice, insegnante), Adriana Costamagna (attrice), Alba De Céspedes (scrittrice, poetessa), Maria De Matteis (costumista), Elvira Giallanella (produttrice, distributrice, regista), Lea Giunchi (acrobata-ballerina circense, attrice), Maria Jacobini (produttrice, attrice), Tina Lattanzi (doppiatrice, attrice), Gigetta Morano (attrice comica), Rina Morelli (doppiatrice, attrice), Elvira Coda Notari (regista, attrice, sceneggiatrice, produttrice, distributrice), Lotte Reiniger (regista, animatrice), Maria Roasio (attrice, produttrice), Mary Cleo Tarlarini (attrice, produttrice), Rosetta Calavetta (doppiatrice, attrice), Annie Vivanti (scrittrice, drammaturga, poetessa) e Vera Sylva (attrice, produttrice).

Il CSC – Cineteca Nazionale ha contribuito con importanti titoli riguardanti le ‘pioniere’ Giulia Cassini Rizzotto (Leonardo Da Vinci, 1919), Elvira Giallanella (Umanità, 1919), Elvira Notari (A santanotte, 1922, E’ piccerella, 1922, Fantasia ‘e surdate, 1927, L’Italia s’è desta, 1927) e Maria Roasio (La bambola vivente, 1924). La Biblioteca Luigi Chiarini ha fornito materiali bibliografici tratti da La vita cinematografica, Cinema Illustrazione e Cinema.

Dietro le quinte, tante vite. L’allestimento espositivo riporta alla luce storie straordinarie, riconsegnando alla memoria collettiva un capitolo del nostro passato troppo poco conosciuto, tutto al femminile. Per dimenticare, un po’, i problemi di oggi.

Immagini della mostra per gentile concessioni ufficio stampa di Cinecittà – Errani Studio

Ferrara Film Corto Festival ‘Ambiente è Musica’ al Premio Folco Quilici a Comacchio

FERRARA FILM CORTO FESTIVAL ‘AMBIENTE È MUSICA’ AL PREMIO FOLCO QUILICI, GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 2025 DALLE 15 ALLE 16h30 A COMACCHIO

Ferrara Film Corto Festival ‘Ambiente è Musica’ (FFCF), festival internazionale di cortometraggi dedicato all’ambiente nelle sue molteplici accezioni, partecipa, per la prima volta, al Premio Folco Quilici, che si terrà dal 16 al 21 settembre a Comacchio. Uno dei primi gemellaggi con festival nazionali e internazionali di cortometraggi che partiranno dal 2025.

Il Premio Folco Quilici è un concorso internazionale dedicato al cinema e alla narrazione audiovisiva, giunto alla sua terza edizione. Organizzato dal Cineclub Fedic Delta del Po, dall’associazione Stazione Sociale e dal Centro di documentazione cinematografica del Parco del Delta del Po, in collaborazione con il Comune di Comacchio, l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, il Filmclub Rolf Mandolesi di Merano e altre istituzioni culturali, il festival celebra il regista e documentarista Folco Quilici attraverso la promozione di cortometraggi di qualità. La giuria del premio è presieduta da Brando Quilici, regista e figlio di Folco Quilici.

FFCF partecipa, fuori concorso, con una selezione dei suoi cortometraggi delle scorse edizioni su temi vicini a quelli trattati dal Premio Folco Quilici e che spaziano dall’invasione del granchio blu nella laguna di Goro all’inquinamento del mare da plastica, fino alla pesca a strascico e alle grandi crisi del pianeta.

Appuntamento, allora, a Comacchio presso la sala Aceti della Manifattura dei Marinati, giovedì 18 settembre 2025 dalle 15h alle 16h30, con i seguenti cortometraggi (incluse le relative categorie di selezione del FFCF, l’anno di proiezione e la durata):

THE FISHERMAN, THE ALIEN, THE SEA (Italia, 9’, “Buona la Prima”, 2024), di Elisabetta Zavoli

Nel giugno 2023, la popolazione di granchi blu (Callinectes sapidus) è esplosa nella laguna di Goro. Qui, Alessio Tagliati, pescatore e allevatore di vongole, affronta questa nuova sfida ambientale recuperando una tecnica di pesca tradizionale sostenibile dimostrando così un enorme spirito di resilienza di fronte al crollo del suo mondo.

THE CYPRUS BYCACTH PROJECT (Cipro, 14′, “Ambiente è Musica”, 2024), di Constantinos Christou

Il bycatch, la cattura accidentale di specie non bersaglio come delfini, tartarughe marine e uccelli, rappresenta una grave minaccia per l’ecosistema marino e l’industria della pesca di Cipro. Porta al declino delle popolazioni di specie vulnerabili e a perdite finanziarie per i pescatori. Ridurre le catture accessorie attraverso attrezzi e metodi selettivi è essenziale per conservare la vita marina e garantire la sostenibilità dell’industria della pesca.

WASTED (Italia, 15′, “Ambiente è Musica”, 2024), di Tobia Passigato

Un giovane naufrago si trova su un’isola di rifiuti in mezzo all’Oceano. Un naufrago più vecchio abita l’isola non si sa da quanto. I due fanno amicizia e l’isolano spiega che lì finisce tutto quello che il mondo considera inutile. Inizia una convivenza dove il più anziano insegna al più giovane come adattarsi sfruttando una forma di pensiero vicina alla magia.

GAGIO (Italia, 15’, “Buona la Prima”, 2024), di Francesco Meatta

Elio, figlio di un contadino del mare, sogna di vivere leggero, senza pensieri. Ma il padre vorrebbe vederlo un uomo che prende in mano il mestiere del pescatore. Così, ritenendolo incapace di fare altro, lo porta con sé nelle fredde notti di pesca a strascico. Quando arriva il circo in città, Elio scopre un mondo segreto, dove si può restare leggeri per sempre, lontani dalla vita adulta. Esiste davvero la felicità in un mondo diverso da quello che Elio conosce?

MONKEY DOMINO (Germania, 5’, “Ambiente è Musica”, 2021), di Ulf Grenzer

Una scimmia ricorda a sua vita nella giungla. Allo zoo, incontra un manager con la figlia, grande appassionata di animali. Il manager svolge a fatica il suo lavoro tramite cellulare e computer portatile, mentre l’orango e la ragazzina si divertono insieme. Una serie di eventi occasionali cambia per sempre la sua vita in gabbia.

ONE DAY ALL OF THIS WILL BE YOURS (Italia, 5’, “Ambiente è Musica”, 2022), di Losing Truth

La natura ci ha messo alle strette e tra qualche anno il nostro pianeta potrebbe non essere più vivibile. A causa dell’indifferenza verso un futuro che sembra sempre troppo lontano, ma che in realtà si avvicina sempre di più, la situazione sta diventando irreversibile. Nemmeno i supereroi potrebbero salvare questo mondo devastato. Non esiste un Pianeta B e stiamo consegnando alle generazioni future la peggiore eredità: un mondo dove l’aria sarà irrespirabile, dove il canto degli uccelli non esisterà più e dove l’acqua sarà quasi indisponibile. Un giorno (non troppo lontano) tutto questo sarà v(n)ostro!

WHO WANTS TO LIVE FOREVER (Italia, 5’, “Ambiente è Musica”, 2021), di Matteo Valenti

Una collaborazione cinematografica tra università e college di tutto il mondo che mostra lo stato del nostro pianeta. Basato sulla canzone dei Queen “Who wants to live forever” e pubblicato per Save Me Trust dal chitarrista Brian May, questo video creato da studenti provenienti da tutti e cinque i continenti mostra la devastazione che il nostro prezioso pianeta sta affrontando. Musica per gentile concessione di Queen Music Ltd.

ZOO (Giordania, 9′, “Indieverso”, 2024) di Tariq Rimawi

Vagando per il peggior zoo del mondo, un bambino, Sami, cerca il suo pallone da calcio. Trova molto di più quando incontra la piccola tigre Laziz, che lo segue nella sua ricerca di un posto sicuro dove giocare. Diventano amici, ma i resti della guerra nascondono pericoli.

Foto Mattia Malorgio

Parole a capo
Interferenze poetiche

L’Estate che non apprezzammo
tanto facili erano i suoi tesori
ci istruisce ora che se ne sta andando
e il riconoscimento è tardo.

(Emily Dickinson)

 

I RICORDI

Mi sono presa cura dei ricordi
ho venerato parole carte oggetti
perché non si perdessero coi volti
storie e radici che mi hanno plasmato.
Portavo sulle spalle le esistenze
altrui come reliquie
sante di appartenenza e di memoria.
Finché il peso diventa insopportabile
e la memoria una tela di ragno
che imprigiona prosciuga e divora
lo scorrere del tempo, il qui e ora.
E quella scia argentata è solamente
una labile bava di lumaca.
Rivesto di indulgente tenerezza
tutto il passato e ancora ricomincio
il dialogo coi giorni che mi vivono
sempre nuovi e respiro gli odori
e gli umori e la vita che resiste
e che sorprende.

(MARTA CASADEI)

 

*

 

DONNE CHE CORREVANO COI LUPI

Non amo la parola strategia,
non mi appartiene, non la faccio mia
Seguo l’istinto, quello più animale
ch’era per Madre Terra naturale,
quello perduto, che ritrovo ancora
se m’immergo nei boschi, se l’aurora
aspetto di veder dalla collina,
se il volo di un insetto sul sentiero
mi aiuta a ricordare ciò che ero
quando correvo ancora con i lupi
senza temere vette né dirupi
Triste al pensiero che lungo la via
tutto sia diventato strategia

(SARA FERRAGLIA)

 

*

 

A proposito degli ulivi sradicati in Cisgiordania dai coloni israeliani

Terra mia
Casa mia
Fratelli
Li sento arrivare
Il cielo
Rosso di vergogna
Ha rivolto lo sguardo
Altrove
Sotto i miei rami
Colmi di olive
Più non sentirò
Dolci canzoni
Le mie radici tremano
Le mie foglie
Avvizziscono
La terra rigogliosa
Tornerà arida
Come il cuore
Di chi la calpesta
Rimane solo un seme
Stretto
In un fragile pugno

(SILVIA LANZONI)

 

*

 

 STRADA
Cammino sulla strada sterrata
Verso la sua fine che
Ancora non intravedo
Nella boscaglia a fianco
Trotterella un lupo grigio
Ha il mio passo e
Non lo temo
Mi accorgo di lui a tratti
Per il lampo verde dei suoi occhi
Credo che mi proteggerà
(ELENA VALLIN)
*
Arranco,
appeso al crinale del tempo
confuso nel boato di voci
che non odo,
spazzate via
dalle prime lacrime d’autunno.
(BRUNO MOHOROVICH)
*
IMMAGINI
Chiedimi
in quale altare
si è compiuto il sacrificio
di memorie e pentimenti?
quando
tutto si è cancellato?
le radio che da altre case
gracchiavano di un’altra guerra
i motori accesi al nuovo giorno
l’afa ostinata che impolverava le strade
le tue labbra di brace
i miei occhi arsi
e i rivoli muti
dal mio cuore esacerbato
Immagini inghiottite in un vuoto
che incrudelisce i ricordi
(RITA BONETTI)
*

IL VIAGGIO

l’autopsia delle certezze
farsi fare a pezzi dai luoghi

sul fiume assordato di cicale
dietro la stazione di Kyoto
le quinte di un palcoscenico

un’immagine decanta
nel filtro del ricordo
si disfà in visione

Il viaggio mi attorciglia
a un bagaglio
trasportata per ore

il paesaggio incorniciato dal finestrino
è solo un francobollo da appiccicare alla busta
che mi spedisce nel mondo

(ELEONORA ROSSI)

 

*

 

La poesia spesso si nasconde
parole rubate negli scampoli di tempo
tra le pause di un tempo
che ruzzola senza freni.
Si cela per non essere scorta
si inabissa nelle icone di un computer
foglio di lavoro
che spesso non lavora.
Esce senza controllo
come un orgasmo inaspettato
incontrollato,
uscito dalla rabbia più che dall’amore.
Poesia o meglio, parole in colonna
come tabelline delle elementari
messe in riga dalla mente
che non si aspetta niente.
Portoghese, abusiva
entra sempre a fine partita
non vuole sconti
anzi, esce gratis.
Prosa sintetica, violenza di ritorno
non si porge l’altra guancia
ci si ribella stando fermi,
sputando parole su di una tastiera.

(CRISTIANO MAZZONI)

*
Foto di Balaji Srinivasan da Pixabay

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

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NON IN NOSTRO NOME

NON IN NOSTRO NOME

Di Franco Cardini
Articolo originale su Domus Europa, 2 settembre 2025

La storia non sarà Maestra di Vita, ma qualcosa ogni tanto la insegna sul serio. Per esempio attraverso certi illustri aforismi di lontana origine ellenico-romana o biblica, trasformati magari in “verità da Bar dello Sport”. Come quello, di antichissimo sapore ma difficile da rintracciare alla lettera nonostante Wikipedia – parte forse da Sun-Zu, forse dal Machiavelli – secondo il quale, quando un qualche potere statale si sente arrivato in fondo alla sua parabola e ormai in trappola e in via di liquidazione fallimentare, ha a disposizione solo due vie d’uscita: o dichiara bancarotta o scatena  una guerra.

La dichiarazione di bancarotta è più agevole e diretta: certo però implica il riconoscimento di una sconfitta che si può anche attribuire alla malasorte o al destino cinico e baro, ma che insomma comporta esplicitamente o no l’assunzione della responsabilità dei propri errori.

Più decorosa e meno certa negli esiti (in fondo, sul campo di battaglia si può anche vincere…) è la dichiarazione di una guerra. Ma per essa occorrono due elementi: una “buona causa” (sic) e un nemico opportunamente scelto.

Quanto alla causa, è presto detto. A Sant’Agostino, secondo il quale per dichiarare legittimamente una guerra occorre una buona causa, risponde implacabile lo Zarathustra di Nietzsche: “Vi è stato detto che una buona causa santifica anche la guerra: ma io vi dico che una buona guerra santifica qualunque causa”.

Per il nemico, è ancora più facile. Il più adatto è quello che Hannah Arendt indica come il “Nemico metafisico”: vale a dire quello identificabile come il Male assoluto. Secondo la Arendt, però, l’identificazione del Nemico metafisico (un obiettivo inesistente in quanto realtà storica) è necessaria solo ai totalitarismi: può essere l’Ebreo, il Capitalista, l’Ateo, il Fanatico religioso, il barbaro.
Ma ecco qua un altro insegnamento della storia, che qualcosa deve pur insegnare: nella realtà delle cose il Nemico metafisico -Male assoluto lo si può facilmente evocare sempre, in qualunque momento,  e non c’è bisogno di avere a disposizione un totalitarismo per costruirlo.  Basta una bella propaganda.

Ebbene:  è proprio quel che vediamo crescere nell’Europa dei nostri giorni. Un po’ meno negli Stati Uniti governati dal bisbetico, imprevedibile Trump: ma nell’Europa,  terra dalla buona Frau von der Layen e dai suoi divertenti compagni di cordata la cosa è più facile. E’ un’erba che  ci  vediamo crescere attorno ogni giorno, nel nostro orticello.

Lo svolgersi della guerra “russo-ucraina”, ormai piuttosto russo-occidentale, che sembra ogni giorno sul punto di concludersi e non finisce mai, è il contesto opportuno per evocare ed esorcizzare il Nemico metafisico – Male assoluto, una definizione che da sola richiama alla perfezione l’Antico Serpente,  il Demonio.  Che veglia là, nel fondo della steppa, chiuso nella  sua fortezza  dalle torri sormontate da stelle rosse e da aquile bicipiti. Non è, non può essere solo un uomo. Finora abbiamo cercato di descriverlo per mezzo di benevoli eufemismi (“nuovo zar”, “feroce tiranno”, “pazzo furioso”, affetto da millanta malattie, disperato leader di un paese allo sbando). Ma ormai lo abbiamo finalmente smascherato come il Male,  grazie ai Nostri Eroi. E costoro, chi sono mai? Facile e breve enumerazione.

Per esempio il presidente francese, ora che si sente alle strette da quando il suo stesso primo ministro ha evocato lo spettro del fallimento per debiti che sta minacciando la Francia. E Macron, dopo aver pronunziato la definitiva excusatio non petita secondo la quale egli avrebbe comunque diritto a concludere il suo mandato democratico qualunque cosa accadesse,  ha ribadito che  il vero Nemico della Francia, della Civiltà, della Libertà è quello là, Vladimir Putin, “l’Orco”. Che è come dire il diavolo. Il responsabile di tutti i nostri mali, che non vuol far finire la guerra contro l’Ucraina bensì continuarla ed estenderla, magari fino agli estremi limiti occidentali d’Europa. E i solerti ministri macroniani ripetono ad ogni piè sospinto che, con la Russia, “siamo ormai alle soglie del conflitto”, o praticamente già dentro. Façon de parler, senza dubbio. Metafore. Però…

Al presidente francese  fa puntuale eco il cancelliere tedesco, dietro la cui faccia da ragioniere del catasto si cela l’indomito Ricostruttore della Wermacht risorta dalle sue brune ceneri. Per Merz, Putin è ormai il nemico numero uno dell’Unione Europea e ne sta  preparando l’aggressione: quel che si sta sonando a Berlino è un nuovo 22 giugno 1941, una nuova “Operazione Barbarossa”. Difensiva, stavolta: sia chiaro.

Il contagio bellicista dilaga. Se nei bombardamenti russi di Kiev e di Zaporijja, presentati come apocalittici, le vittime si contano in realtà sulla punta  delle dita, la supposta ferocia russa riempie in cambio i piccoli schermi delle nostre case dai quali sono scomparse le migliaia di morti palestinesi di Gaza.

E l’atletico ministro meloniano Abodi può dichiarare che a giusto titolo le squadre russe vanno espulse da tutte le gare sportive internazionali per gli orribili crimini di guerra commessi dal loro governo, laddove giammai Israele potrà subire analoga sorte dal momento che  a Gaza come altrove essa si limita a difendere il suo diritto all’esistenza e all’autodifesa.

Ebbene: io non ci sto più. E parlo anche per un nutrito gruppo di amici e colleghi che farà a breve sentire la sua voce. Noi italiani, noi europei, non meritiamo l’onta di dover sopportare in silenzio quest’infamia diventandone complici.

Le calunnie contro la Russia e a favore di una guerra che a ritmi sempre più stretti si prepara non dovranno e non potranno venir proferite con il nostro avallo. Come cittadini, lo dichiariamo apertamente riservandoci il diritto di dimostrarlo con fatti concreti.

Se si sta preparando davvero una guerra, ciò non avverrà con il nostro assenso. NON IN NOSTRO NOME.

Cover: Albrecht Durer, I quattro cavalieri dell’ Apocalisse, 1497

Vite di carta /
Il Festivaletteratura di Mantova e la balena

Vite di carta. Il Festivaletteratura di Mantova e la balena

Mantova anche per un giorno solo è pur sempre Mantova. Intendo il suo Festivaletteratura, giunto quest’anno alla edizione numero 29. Ci sono stata giovedì 4 settembre, in una giornata di sole e con amiche che erano alla loro prima esperienza col Festival. Una meraviglia: l’atmosfera che si respira in città ti cattura subito, la prima come la ventinovesima volta.

Come dice Nadeesha Uyangoda, nel commento conclusivo che le è stato chiesto su questa edizione 2025, “Mantova dilata il tempo, ci proietta dentro mondi possibili, accende scintille, porta la bellezza e l’orrore del mondo dentro le sue mura, avvicina la geografia, crea comunità”.

Ho seguito tre eventi, un po’ pochino rispetto alle scorpacciate che mi sono fatta in tanti anni di volontariato insieme al gruppo degli studenti. Facendo servizio agli eventi, erano in media cinque incontri al giorno.

Eppure. Giovedì ho conosciuto un’autrice al suo esordio, una ricercatrice del comportamento animale, un poeta e romanziere ormai noto nel mondo. Prima non li conoscevo e li ho scelti nel mare del programma proprio per questo.

Eleonora Daniel è al suo primo romanzo, La polvere che respiri era una casa. Le fa domande Elsa Riccadonna alla Piazza dei libri, la incalza a svelare dove stia per lei il fuoco sacro della scrittura, che è anche il titolo della rassegna. Come si nasce e come si resta scrittrici o scrittori viene chiesto a dieci autori italiani e stranieri nel corso del Festival, da mercoledì 3 a domenica 7 settembre.

Ascolto parlare Eleonora, che con i suoi trent’anni mi sembra una bambina, anche se dice cose esperte sulla scrittura ed è precisa nel dare le coordinate del suo libro. Tanto alla trama, tanto e anche di più alla forma narrativa.

Tiziana, la mia amica che ha comprato il libro e lo ha incominciato, mi conferma che persino la punteggiatura è inusuale. Lo leggerò, ora sono proprio attratta dall’idea di incontrarlo e di poter scrivere a lei, l’autrice, cosa ne penso.

Ho conosciuto Eva Meijer, scrittrice, filosofa, ricercatrice all’Università di Amsterdam, studiosa della filosofia animale e delle comunità multispecie. Volevo sentire la sua conversazione con Marco Filoni sul grande tema del rapporto tra umano e non-umano, sulla necessità che abbiamo di reimpostare la relazione con il resto del creato. Il tema mi attizza e ne ho scritto recentemente (Vite di carta, Tra “umano” e “non-umano”, 20/08/2025).

Non è un’idea da poco, questa con cui torno a casa guidando nella campagna mantovana, poi veneta, poi ferrarese fino a casa. I gruppi sociali che formano gli animali sono ispirati a principi etici. Così i topini da laboratorio che Meijer ha preso a vivere con sé si prendono cura gli uni degli altri in caso di bisogno e seguono alla morte di uno di loro dei rituali funebri codificati.

Gli animali possono insegnarci molto, in particolare in questo tempo di sconvolgente cambiamento climatico, possono insegnarci a fondare una società basata sulla cura.

Ho finalmente ascoltato Ocean Vuong, che ha nel nome il mare più vasto, lo desideravo fortemente e sono uscita dall’evento presso Santa Maria Della Vittoria con nuove parole in testa, nuove possibili bussole da consultare nei giorni.

Da Vuong sono arrivate parole forti sulla violenza storica che ci dilania, sul desiderio che ci fa vivere, sulla creatività che ci salva dalla sofferenza e dalla distruzione, sulla perdita delle radici e sulla lingua che sa scavare nella profondità delle cose facendoci rinascere.

Ho comprato a scatola chiusa L’imperatore della gioia, il suo ultimo romanzo che è in libreria da due giorni, dopo aver sentito il suo autore parlare della letteratura come di qualcosa che aiuta a capire cosa sia il bene, facendo domande profonde sul mondo. La trama arriverà, la delega come lettrice al suo narratore l’ho già firmata.

È stato come entrare nella pancia della balena, sondarne il buio come prezzo da pagare per restare a bordo e solcare con lei le distanze più grandi. Pinocchio ha avuto in sorte la medesima avventura, finendo però per trovare lì la sorpresa più speciale che è ritorno e rinascita, suo padre Geppetto.

Per trovare la propria casa si deve anche andare lontano e solcare altre prospettive di sguardo come fossero mari in tempesta.

Dice bene, ancora, Uyangoda quando parla dell’acqua sporca che resta dei giorni mantovani, un’acqua impregnata dei gesti, delle parole, dello spaesamento che uomini e donne si sono procurati “come testimoni all’erta” tracciando il ritratto del mondo e dei loro sogni.

Nota bibliografica:

  • Ocean Vuong, L’imperatore della gioia, Guanda, 2025
  • Eleonora Daniel, La polvere che respiri era una casa, Bollati Boringhieri, 2025

Cover: la foto è stata scattata dall’autrice durante l’incontro con Ocean Vuong

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Da Camilla

Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Da Camilla

Costanza del Re mi invitò a casa sua per l’ora del tè del giorno seguente, prese dal negozio un pacchetto di pane e uno di biscotti, salutò prima Camilla e poi il sottoscritto e uscì dal negozio, mentre io cercavo di raccogliere la lattina di birra che mi era caduta di mano, facendo un rumore infernale e rotolando tra i piedi di una persona anziana, che nel frattempo era entrata per far compere.

Notai che la signora appena arrivata trascinava un grande carrello colorato con le ruote di metallo. Ovviamente le serviva per trasportare la spesa a casa. La stoffa del carrello era a quadri e mi ricordava quelle stoffe di lana inglese con cui mia madre amava vestire mia sorella Danila quando era piccola.

Le metteva delle gonne di quel tessuto a quadri che poteva essere rosso, verde e giallo, oppure rosso, bianco e blu, oppure qualcuno di questi colori mescolati con gli altri in maniera diversa. Sul davanti le gonne erano chiuse da una grande spilla dorata o argentata ed erano abbinate a delle calzamaglie di lana pungentissima che Danila non voleva perché diceva che le facevano prurito alle gambe. Appena poté, se ne liberò, convincendo mia madre che a scuola la prendevano in giro perché era vestita come una vecchia zampognara.

In realtà la storia della zampognara se l’era inventata di sana pianta ed era riuscita a propinarla a mia madre con molto successo. Mia madre dal canto suo, aveva promesso che si sarebbe lamentata con la maestra per quella inopportuna presa in giro ma poi, occupata dal lavoro, dalla casa, dall’accudimento dei figli e dal canto (cantava da soprano in un coro di Trescia), si dimenticò di quel proposito, limitandosi solo a permettere a Danila di mettersi i jeans tutte le volte che voleva.

Mia sorella si adeguò subito alla nuova possibilità e visse in jeans fino a quando la sopraggiunta autonomia economica le permise di variare l’abbigliamento a piacimento, sempre evitando calzamaglie di lana pungente e gonne a quadri.

Raccolsi la mia lattina e, risalendo con lo sguardo dal pavimento al soffitto, guardai la signora che avevo di fronte. Una signora molto anziana, direi sui novant’anni, ben tenuta, con un berretto di lana sulla testa, un cappotto di montone sulle spalle, dei pantaloni di flanella grigia e un paio di morbide Clark ai piedi. Emanava una certa signorilità, aldilà dell’abbigliamento adatto alla campagna e a quel giorno feriale.

Del resto, le ostentazioni non sono mai eleganti, e andare da Camilla con i tacchi a spillo piuttosto che con un vestito scosciato, non sarebbe di certo stato segnale di eleganza e di attenzione al luogo, al contrario sarebbe sembrato un po’ eccessivo e sicuramente inutile.

La signora era vestita in maniera consona al contesto e all’orario della giornata. Una novantenne con buongusto. Ogni cosa ha un suo posto adatto, ogni evento ha una sua collocazione temporale imprescindibile, la bellezza non è universale e la capacità di adattamento all’ambiente, alle trazioni e alle caratteristiche delle persone e dei luoghi, importante.

Io mi sentii da subito in sintonia con quel luogo. La mia passione per i jeans e i vecchi maglioni, le scarpe da ginnastica e i piumini, era adatta e utile per sembrare un nativo di quel piccolo borgo, che non ostentava niente, ma viveva intensamente le sue giornate.

Riguardai la signora, le feci un sorriso che lei ricambiò per poi dirmi di chiamarsi Rina, di avere novantun anni e di vivere da sola in una grande casa verso il lato del paese opposto a dove ci trovavamo, vicino alla discesa che porta ai cancelli del parco di villa Cenaroli. Fu così che le chiesi se avesse sentito parlare della volpe verde e cosa ne pensasse di questa diceria. Mi disse che ne aveva sentito parlare, credeva che potesse essere vero.

– Del resto, tutto è falso fino a prova contraria. Se più persone hanno visto una volpe verde perché non dovrebbe essere vero? La gente di Pontalba è sincera e non direbbe mai una cosa del genere se non ne fosse certa. –

A quel punto intervenne Camilla:

La gente di Pontalba dice sia cose vere che false. Vediamo di dire a questo pover’uomo la verità (il pover’uomo ero io). Lei ascolti me, in questo paese c’è pieno di gente che, non si sa per quale motivo, racconta bugie credendole vere, forse perché ha frainteso qualcosa, forse perché è stato a sua volta vittima di qualche imbroglio, chissà. Una volta a una mia cliente hanno fatto morire uno zio, era perfino già stato sistemato nella bara con il suo vestito più bello … Poi abbiamo scoperto che lo zio della signora Anna non era affatto morto, non era nemmeno stato male.

Quindi nessuna venga a dire a me che la gente di Pontalba è sempre credibile. E poi quali volpi verdi? Di quel colore le volpi non esistono. Altrimenti domani qualcuno viene da me e mi dice che ha visto un cammello blu, o la maestra Caterina che vola in cielo. I cammelli blu non esistono e la maestra Caterina non ha le ali!. –

Era chiaro che Camilla non voleva saperne di prendere in considerazione l’idea che esistessero a Pontalba le volpi verdi e non amava che nel suo negozio si spargessero tali dicerie alimentando l’idea di una loro possibile verità.

– Non esca da questo negozio pensando che qui si parla delle volpi verdi e che io sia d’accordo sul fatto che esistono! Lei che fa il giornalista scriva che qui non si crede a nulla senza prove. Dove sono le prove dell’esistenza della volpe verde? Lei l’ha vista?. La signora Rina l’ha vista? No, qui non l’ha vista nessuno.

Mi fa un baffo che qualcuno lo dica, magari il personale di villa Cenaroli si era bevuto un’intera bottiglia di Sambuca per tenersi su e non farsi prendere dallo sconforto per la morte di Maria Augusta che era risaputamene generosa e anche un po’ rimbambita e faceva regali preziosi a tutti i suoi collaboratori. Immaginiamoci il dispiacere! Erano così abbattuti dalla sua dipartita che non solo piangevano … hanno pure visto una volpe verde. –

Vabbè, così non si andava da nessuna parte. Se anche c’era in paese qualcuno che l’aveva vista non era di certo entrato in quel negozio a raccontarlo e, se anche l’avesse fatto, ci avrebbe pensato Camilla a troncare sul nascere la conversazione. Grazie al suo sarcasmo e un po’ di cinismo che aveva maturato stando un giorno dopo l’altro dietro a quel banco di panetteria, parlando con la gente, cercando di soddisfare i loro bisogni e difendendosi dagli imbrogli monetari e verbali che alcune persone provavano a mettere in atto per fregarla, era convincente.

– Alt! Prima di provare a fregare me, devono stare molto attenti, altrimenti io li aggiusto, restano senza pane per sei mesi. Se lo vadano pure a prendere a Cominella, la forneria che c’è là non fa il pane buono come il mio. Hanno solo da perderci. –

Uscii dal negozio frastornato e pieno di dubbi su quella storia della volpe verde. Girai lo sguardo dove la via fa un angolo retto prima di aprire l’orizzonte sullo slargo che costituisce la piazza del paese e, forse suggestionato dalla storia, ebbi l’impressione di vedere con la coda dell’occhio una volpe verde che girava l’angolo verso via Santoni Rosa.

Mi misi a correre, girai anch’io lo stesso angolo ma non vidi più nulla. Se mai c’era stata una volpe verde non c’era più oppure si era nascosta, oppure avevo visto qualcosa che solo vagamente assomiglia a una volpe verde, oppure chissà. Poteva essere un gatto, ma i gatti verdi non esistono, poteva essere una tartaruga, ma non avrebbe potuto andarsene così in fretta, poteva essere della stoffa di un vestito o un angolo verde di qualche attrezzo agricolo, non so.

Mi guardai in giro dappertutto ma non vidi più nulla, da Camilla non era il caso di tornare, da Costanza potevo andare il giorno seguente, non sapevo cos’altro fare e mi diressi verso il Pontalba Hotel un po’ stranito e un po’ preoccupato senza sapere cosa scrivere sull’articolo per Tresciaone.

Non sapevo quali progressi nell’indagine raccontare al mio capo, che sicuramente mi avrebbe telefonato dopo alcune ore per sapere come procedevano le indagini e se avessi scoperto qualcosa. Mentre camminavo vidi una pizzeria e mi dissi che capitava a fagiolo, visto che era ora di cena ed erano diverse ore che non mettevo nulla sotto i denti.

La pizzeria era ubicata verso l’uscita del paese, sulla strada provinciale per Trescia. Davanti alla pizzeria c’era un grande spiazzo con dei magnifici oleandri rosa e un parcheggio interno davvero utile per i frequentatori del locale che potevano posizionare le macchine a un tiro di schioppo da dove si consumavano i pasti.

Mi avvicinai alla pizzeria e sbirciai all’interno. C’erano solo due tavoli occupati, uno con una coppia anziana e uno con una coppia più giovane con due bambini, che si stavano gustando la pizza con il sugo rosso che chiazzava loro mani e faccia. Dei novelli Dracula pasciuti e per nulla spaventosi.

Mi avvicinai alla pizzeria e di nuovo, girandomi all’indietro verso la strada, vidi qualcosa di furtivo e di verde che la stava attraversando. Tornai di corsa verso la strada e guardai da tutte le parti. Niente da fare, non c’era alcuna volpe verde nei paraggi. Allora decisi che per quella sera la pizza non l’avrei mangiata.

Tornai verso la strada e andai diritto in albergo, presi la chiave della mia stanza. Entrai in camera, mangiai i cracker e bevvi la birra, mi lavai i denti, misi il pigiama e mi infilai sotto le coperte. Spensi anche la luce. Non mi restava che dormire, sperando che il mattino seguente mi aiutasse a fare un po’ di chiarezza nei miei pensieri e nelle mie percezioni. Mi dimenticai dell’articolo e del mio capo. Se avesse telefonato avrebbe trovato il cellulare irrimediabilmente spento.

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Il cervello ideologico: Fermi, Rovelli e la neuroscienza della convinzione

Il cervello ideologico: Fermi, Rovelli e la neuroscienza della convinzione

Il mondo della fisica italiana, in questa estate 2025, è scosso da una polemica accesa: Carlo Rovelli, fisico teorico e divulgatore, ha pubblicato sul Corriere della Sera un video e un articolo in cui solleva dubbi morali sulla figura di Enrico Fermi, accusandolo implicitamente di opportunismo politico e di insensibilità etica per il suo ruolo nel Progetto Manhattan.

La risposta della Società Italiana di Fisica è stata durissima: Fermi viene difeso come scienziato esule, costretto a convivere con il regime fascista per continuare a fare ricerca, e come figura chiave nella nascita della fisica moderna.

Rovelli, da parte sua, rivendica il diritto di sollevare questioni morali anche sui giganti della scienza: “Criticare non è infangare”, afferma. Ma il fervore ideologico che traspare dalle sue parole — e dalle reazioni che ne sono seguite — sembra suggerire qualcosa di più profondo: che la nostra visione del mondo, anche quando è scientifica, è inevitabilmente filtrata da strutture cognitive e affettive che ci precedono e ci condizionano.

Leor Zmigrod, neuroscienziata presso l’Università di Cambridge, ha aperto una nuova frontiera nello studio dell’ideologia: quella neurocognitiva. Le sue ricerche, pubblicate su riviste come Nature Human Behaviour e Trends in Cognitive Sciences, mostrano come l’adesione a ideologie politiche — non importa se di tipo autoritario, liberale, conservatore o progressista — sia correlata a specifici tratti cognitivi e strutture cerebrali.

In particolare, Zmigrod ha identificato una relazione tra rigidità cognitiva e propensione all’autoritarismo: individui con minore flessibilità mentale tendono a preferire sistemi ideologici chiusi, gerarchici, e resistono maggiormente al cambiamento. Al contrario, una maggiore apertura mentale e capacità di aggiornamento delle credenze è associata a visioni più fluide e pluraliste del mondo.

Questi tratti non sono solo psicologici: si riflettono in pattern neurali misurabili tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) e test cognitivi. Le aree coinvolte includono la corteccia prefrontale dorsolaterale, responsabile della regolazione del pensiero astratto e della flessibilità, e il sistema limbico, che media le risposte emotive e la percezione della minaccia.

Un dato sorprendente emerso dagli studi della Zmigrod è che l’ideologia può essere predetta — con una certa accuratezza — da test cognitivi che nulla hanno a che fare con la politica: ad esempio, la capacità di distinguere figure ambigue o di risolvere problemi logici complessi. Questo suggerisce che l’ideologia non è solo appresa, ma incorporata: una forma di apprendimento che si radica nel corpo e nel cervello.

In questo senso, l’ideologia diventa una forma di imprinting neurobiologico. Non si tratta di determinismo, ma di predisposizione: il cervello non è neutro, e le sue strutture influenzano il modo in cui interpretiamo il mondo, scegliamo le nostre battaglie, e reagiamo alle figure come Enrico Fermi o Carlo Rovelli.

Avevamo già parlato (https://www.periscopionline.it/siamo-prigionieri-perche-siamo-liberi-298029.html) di questo inestricabile circolo vizioso a proposito del libro Il prigioniero libero dove Giuseppe Trautteur affrontava con acume filosofico e rigore scientifico il dilemma della libera scelta e della responsabilità nell’epoca delle neuroscienze. Il testo si muoveva tra le aporie del libero arbitrio e le evidenze sperimentali che sembravano minare l’idea di poterci definire, senza ombra di dubbio, autori delle nostre azioni.

Trautteur non offriva soluzioni consolatorie, ma invitava a un esame di coscienza radicale: siamo prigionieri delle nostre strutture cognitive, ma possiamo diventare prigionieri liberi se riconosciamo la natura condizionata del nostro pensiero e scegliamo consapevolmente di trasformarlo. La libertà, in questa prospettiva, non è un dato, ma un processo neurofilosofico: una lotta contro le automatizzazioni ideologiche che ci abitano.

La libertà cognitiva, allora, è la capacità di disinnescare i riflessi ideologici, di sospendere il giudizio, di aprirsi all’ambiguità e alla complessità. È ciò che distingue il pensiero critico dal pensiero dogmatico, il dubbio dalla certezza, la ricerca dalla propaganda. E come suggerisce Trautteur, “per uscire di prigione bisogna anzitutto volerlo”: la chiave è già nelle nostre mani, ma dobbiamo imparare a riconoscerla.

Probabilmente nel caso in questione, Carlo Rovelli, nella sua personale rilettura degli eventi e del contesto nel quale si inseriva la vita di Enrico Fermi, non solo non ha riconosciuto la giusta “chiave per uscire di prigione” ma più semplicemente e “umanamente” (neurofilosoficamente?), la chiave l’ha “voluta” dimenticare a casa.

La lezione che possiamo trarre da questo intreccio tra fisica, storia e neuroscienza è chiara: l’ideologia non è solo un’opinione, è una forma mentis. E come tale, agisce nel profondo, modellando il nostro modo di pensare, di sentire, di giudicare. Per dirla con una battuta: un fascista ha il cervello fascista, un comunista ha il cervello comunista ma… un anarchico non può avere un cervello anarchico!

La buona notizia però e che, come dimostra la Zmigrod, il cervello può cambiare.

A patto di volerlo davvero.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Da Arafat ad Abbas, la guerra americana dei veti e dei visti contro i palestinesi

Da Arafat ad Abbas, la guerra americana dei veti e dei visti contro i palestinesi

Nel novembre 1988, in piena Prima Intifada, il governo USA guidato da Ronald Reagan negò il visto a Yasser Arafat, invitato a parlare all’Assemblea Generale ONU a New York. La decisione fu presa dal Dipartimento di Stato, guidato dal Segretario George P. Shultz (1920–2021), economista di formazione e veterano della Seconda Guerra Mondiale. [1]

Prima di guidare la diplomazia americana sotto Reagan, era stato Segretario al Lavoro, Direttore del Bureau of the Budget e Segretario del Tesoro. Rappresentava il pragmatismo e l’approccio analitico della politica estera statunitense, in continuità con la tradizione di Henry Kissinger, architetto invisibile dei grandi equilibri internazionali degli anni ’70. [2]

Shultz operava in un contesto in cui pressioni politiche pro-Israele, sostenute da lobby negli USA, influenzavano le decisioni diplomatiche. Il visto fu ostacolato anche dall’ambasciatore USA all’ONU, Charles Lichenstein (1926–2004), diplomatico veterano e analista esperto di Medio Oriente, noto per il suo fermo sostegno alle posizioni israeliane nelle Nazioni Unite.

Quando Reagan negò il visto ad Arafat ma l’Onu spostò la sede dell’assemblea

La motivazione ufficiale fu il legame di Arafat con il terrorismo internazionale tramite l’OLP, considerata dagli USA un’organizzazione terroristica. Dietro le quinte, le pressioni politiche furono intense: Israele e lobby pro-Israele negli USA non volevano che Arafat avesse accesso a una piattaforma internazionale di legittimazione. L’obiettivo era impedire qualunque passo verso uno Stato palestinese.

Il leader palestinese Arafat e quello israeliano Rabin si stringono la mano davanti a Clinton nel 1993.

La decisione fu talmente controversa che, in una mossa senza precedenti, l’ONU spostò l’intera sessione a Ginevra, permettendo comunque al leader palestinese di pronunciare il suo discorso. Un episodio che mise in luce l’uso dei visti come arma politica e la capacità dell’ONU, in casi eccezionali, di garantire il diritto dei popoli a essere ascoltati.

Da Arafat a Mahmoud Abbas: i visti usati come armi politiche

A distanza di 37 anni, lo scorso 29 agosto 2025, il Segretario di Stato degli USA Marco Rubio ha revocato i visti a Mahmoud Abbas e a 80 delegati palestinesi, impedendo loro di partecipare all’Assemblea Generale ONU a New York (4–23 settembre). La motivazione ufficiale include preoccupazioni per la sicurezza nazionale e presunti legami con il terrorismo. Il Dipartimento di Stato ha anche citato il rifiuto dell’Autorità Palestinese di riconoscere la leadership statunitense nei negoziati come ostacolo alla pace.

In una nota del dipartimento di Stato si legge: “Prima che l’OLP e l’Autorità Palestinese possano essere considerate partner per la pace, devono ripudiare sistematicamente il terrorismo, incluso il massacro del 7 ottobre”. E più avanti: “L’Autorità Palestinese deve inoltre porre fine ai suoi tentativi di aggirare i negoziati attraverso campagne internazionali, inclusi appelli alla CPI (Corte penale internazionale), e sforzi per ottenere il riconoscimento unilaterale di un ipotetico Stato palestinese”. [3]

Il messaggio appare formale e diplomatico, ma in filigrana contiene un’imposizione coercitiva: significa che finché l’Autorità Palestinese continuerà a intraprendere azioni autonome – dagli appelli alla Corte Penale Internazionale per difendersi dall’occupazione, dalla colonizzazione e dal furto di terre, fino ai tentativi di ottenere riconoscimenti unilaterali – la sua voce internazionale resterà sospesa. Un meccanismo di ‘controllo’ che ricorda le dinamiche di ‘protezione condizionata’ tipiche delle logiche dei clan.

Dal potere ‘carsico’ al potere ‘strutturato’. Dagli Usa una raffica di violazioni internazionali

Il presidente della Palestina Mahmoud Abbas durante un intervento all’Onu

La revoca dei visti ha suscitato reazioni internazionali, con l’Unione Europea e le Nazioni Unite che hanno espresso preoccupazione, sottolineando l’obbligo degli Stati Uniti, in quanto paese ospitante, di garantire l’accesso alle sedi delle Nazioni Unite. Nonostante questo, nessun provvedimento effettivo è stato intrapreso.

Come nel 1988, la diplomazia statunitense si allinea agli interessi israeliani. Con una differenza: mentre un tempo il potere delle lobby era carsico, oggi è strutturato, alla luce del sole, intreccia economia, diplomazia e ideologia.

In questo quadro, la scelta dell’Amministrazione Trump è l’ennesima conferma di come la politica estera americana, dalla Guerra Fredda a oggi, sia stata progressivamente subordinata a poteri transnazionali, lasciando Israele libero di perseguire politiche militari e territoriali sempre più aggressive, in violazione del diritto internazionale e umanitario, senza timore di restrizioni o conseguenze.

Violazioni del Diritto internazionale e paralisi dell’ONU

La scelta di collocare la sede delle Nazioni Unite a New York conferisce agli Stati Uniti un vantaggio politico strategico non trascurabile, usato per esercitare pressione sui leader stranieri. I casi di Yasser Arafat nel 1988 e Mahmoud Abbas oggi lo dimostrano: strumenti amministrativi diventano armi politiche.

Secondo il Diritto internazionale, le delegazioni devono godere di libertà di movimento e di accesso alle sedi internazionali, come stabilito dalla Convenzione di Vienna del 1961. L’uso dei visti come strumento coercitivo viola, dunque, il principio di libertà diplomatica, con impatti diretti sulla legittimazione politica e sul diritto dei popoli a essere rappresentati.

Un ulteriore elemento è la paralisi dell’ONU che avrebbe gli strumenti per agire e non vi fa ricorso. Uno di questi è la Risoluzione 377 A, nota come la Uniting for Peace Resolution, adottata nel 1950 durante la guerra di Corea per consentire all’Assemblea Generale di aggirare i veti del Consiglio di Sicurezza in caso di minaccia alla pace.

In teoria, questo strumento avrebbe potuto garantire l’adozione di risoluzioni urgenti come le reiterate richieste di cessate il fuoco e, oggi, permettere la partecipazione palestinese. In pratica, non è mai stato usato in 23 mesi, nemmeno evocato: una “dimenticanza volontaria” che rivela la subordinazione dell’ONU agli equilibri di potere.

Europa, ONU e il nuovo ordine. L’Europa balbetta e l’Onu è paralizzato

La storia si ripete, con poche differenze. Arafat e Abu Mazen: due leader, due epoche, due facce della stessa medaglia. L’obiettivo è sempre lo stesso: ostacolare il riconoscimento dello Stato palestinese. E in entrambi i casi, la libertà diplomatica viene piegata agli interessi strategici di pochi.

Image by hosny salah from Pixabay

Così, mentre l’Europa balbetta, rendendosi sempre più complice del genocidio in corso, incapace di varare un solo provvedimento contro Israele – continuando invece a emanare sempre più grotteschi pacchetti di sanzioni contro la Russia -, lo Stato ebraico, con l’appoggio degli USA, il “mulo stupido di Israele”, come li definiva l’ex consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski [4], procede nel suo progetto di annientamento dal nome biblico.

E ieri, come già accaduto a maggio 2025, in occasione del ‘Giorno di Gerusalemme’, il governo di Netanyahu è tornato a minacciare l’Europa e gli Stati che si preparano a riconoscere la Palestina “Non riconoscete la Palestina, o annetteremo la Cisgiordania”.

La lezione è chiara e amara: la storia non è più maestra. E del Diritto non resta altro che la legge del più forte. I poteri transnazionali decidono chi vive e chi muore, chi parla e chi tace.

I governi, Europa in testa, recitano da esecutori. L’ONU, paralizzato ed esausto, non riesce più a garantire diritti e pace a nessuno. In mezzo a questo deserto, fra strumenti legali ignorati, diritti internazionali e umanitari calpestati e veti reiterati, il prezzo più alto lo paga il popolo palestinese, oggi sull’orlo di una nuova “soluzione finale”.

Mezzo milione di loro, donne, bambini e anziani, secondo l’ONU sono destinati a morire di fame entro la fine dell’anno, intrappolati nel più brutale e inumano degli assedi, imposto da un governo suprematista, e attuato senza pietà dal suo esercito.

Note

1 – George P. Shultz (1920–2021), nato a New York in famiglia ebreo-tedesca immigrata negli Stati Uniti, ha costruito la sua reputazione grazie a una grande competenza in economia e politica estera lo portò ad essere nominato Segretario di Stato sotto Ronald Reagan (1982–1989), ruolo in cui ebbe un peso enorme nella Guerra Fredda e nelle relazioni internazionali.

Shultz guidò la diplomazia statunitense nel periodo più teso della Guerra Fredda, negoziando accordi chiave con l’URSS (START I) e gestendo crisi internazionali in Medio Oriente e Asia. Fu lui a supervisionare molte delle decisioni sul Medio Oriente, tra cui le politiche americane verso l’OLP e la Palestina. Conosciuto per il suo pragmatismo, abilità negoziale e approccio analitico, grazie alla sua formazione economica e il background accademico, fu in grado di combinare strategie finanziarie e politiche nei dossier internazionali, incluso il Medio Oriente.

2 – Henry Kissinger, come Shultz di origini ebraico-tedesche, fu consigliere per la sicurezza nazionale (1969–1975) e Segretario di Stato (1973–1977) sotto Nixon e Ford. Rappresentava il vero “architetto” della politica estera americana, una sorta di “Mazzarino moderno”, capace di tessere alleanze e manipolare equilibri internazionali dietro le quinte.

Quando Shultz divenne Segretario di Stato sotto Reagan (1982–1989), arrivò dunque in un ambiente diplomatico plasmato dalle precedenti strategie di Kissinger: equilibrio tra pragmatismo economico, Guerra Fredda e gestione dei dossier complessi del Medio Oriente.

3 – https://it.euronews.com/2025/08/29/gli-usa-revocano-i-visti-alle-autorita-palestinesi-in-vista-dellassemblea-generale-onu

4 – Zbigniew Brzezinski, ex consigliere della sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, nel corso si una intervista del 2012 disse “Gli Usa sono diventati il mulo stupido di Israele”, https://arabamericannews.com/2012/12/01/Brzezinski-US-won%E2%80%99t-follow-Israel-like-a-stupid-mule/

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

La morte dell’umanità

La morte del Che

1967, Quebrada del Yuro

«La raffica di mitra gli spezza le gambe.
Continua a combattere seduto, finché gli fanno saltare il fucile dalle mani.
I soldati si contendono a spintoni l’orologio, la borraccia, la cintura, la pipa.
Diversi ufficiali lo interrogano uno dopo l’altro.
Il Che tace e perde sangue.
Il contrammiraglio Ugarteche, audace lupo di terra, capo di Stato Maggiore della Marina di un paese senza mare, lo insulta e lo minaccia. Il Che gli sputa in faccia.
Da La Paz, arriva l’ordine di far fuori il prigioniero. Una raffica lo crivella. Il Che muore così, colpito a tradimento, poco prima di compiere quarant’anni, esattamente nella stessa età in cui morirono, anch’essi colpiti a tradimento, Zapata e Sandino.
Nel villaggio di Higueras, il generale Barrientos mostra il suo trofeo ai giornalisti. Il Che giace sulle pietre di un lavatoio.
Dopo le pallottole lo crivellano i flash.
La sua ultima faccia ha gli occhi accusatori e un sorriso malinconico.»

Eduardo Galeano, Memoria del Fuoco,
Romanzo in 3 volumi, prima edizione, Spagna, 1982-1986.
In Italia, Le origini (primo volume), Rizzoli, 2008

La morte dell’umanità

2025, Palestina

Se si potessero dedicare tre minuti di immagine fissa sul primo piano del viso ogni palestinese, civile o combattente, vigliaccamente ucciso-uccisa a tradimento dal 7 ottobre 2023 ad oggi, il film durerebbe centottantamila minuti.

 

In copertina: foto tratta dal film “La hora de los hornos” di Fernando “Pino” Solanas e Octavio Getino. Il primo piano del viso di Che Guevara, morto, sovrasta lo spettatore, immobile, per tre minuti. La cinepresa non si muove. L’immagine è eterna.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

FRECCE TRICOLORI: FRAGORE E SPETTACOLO NEI CIELI DI RIVOLTO

65° stagione della Pattuglia Acrobatica Nazionale:
le Frecce Tricolori danno spettacolo nei cieli di Rivolto (UD)

Si è svolto in data 6 e 7 settembre 2025, presso l’aeroporto militare di Rivolto (UD) l’evento celebrativo per la 65° stagione della Pattuglia Acrobatica Nazionale. (PAN)

In queste occasioni congiuntamente al 313° gruppo di addestramento acrobatico Aeronautica Militare Nazionale, meglio noto come Frecce Tricolori, sono coinvolti anche gruppi acrobatici di altre nazionalità; uno spettacolo unico che unisce, tecnica, capacità, competenza e tanta dedizione. Una dimostrazione per rendere partecipi i cittadini, appassionati, fotografi  e curiosi, dei livelli raggiunti in ore e ore di addestramento con aerei ed elicotteri.

Il 313° Gruppo permanente di addestramento dell’Aeronautica Militare, nasce il 1° marzo del 1961 a Rivolto. Si tratta di un reparto composto da circa 100 militari, il cui obiettivo è quello di rappresentare i livelli raggiunti e le capacità della Aereonautica, attraverso esibizioni acrobatiche nei cieli come simbolo riconosciuto in tutto il mondo della Repubblica Italiana.

Un po’ di storia

Tutto inizia nel 1952 con il 4° Stormo che da vita alla pattuglia “Cavallino Rampante”, composta da quattro DH.100 Vampire, primi velivoli a getto in servizio con l’Aeronautica Militare.

In seguito venne denominata pattuglia acrobatica “titolare” alla 5ª Aerobrigata, dotata di nuovi F-84G Thunderjet.

Nel 1953 si forma una una nuova pattuglia acrobatica, denominata inizialmente “Guizzo” e poi, due anni dopo, ribattezzata “Getti Tonanti”. Sopra gli F-84G vola anche la 51ª Aerobrigata che, insieme alla pattuglia acrobatica “Tigri Bianche”, rappresenterà l’Aeronautica Militare negli anni 1955-1956.

Nel 1957 ritorna la formazione “Cavallino Rampante”, della 4ª Aerobrigata, composta da quattro F-86E Sabre MK4 che, tra i velivoli impiegati dalle nostre pattuglie, sono i primi dotati di impianto fumogeno regolabile.

Negli anni a venire si susseguirono, diverse Aerobrigate e velivoli, con il compito di costituire la pattuglia acrobatica titolare e di riserva. Aerobrigate, come, Getti Tonanti, Diavoli rossi o Lanceri Neri, fino ad arrivare al 1961 con la nascita della PAN (Pattuglia Acrobatica Nazionale).

La prima uscita ufficiale fu il 1° maggio presso l’aeroporto di Trento; il 1° luglio dello stesso anno il reparto divenne ufficialmente il 313° Gruppo Addestramento Acrobatico.

Li vediamo oggi volare sopra gli Aermacchi MB-339, in formazione 9+1, eseguendo di continuo nuove manovre, figure emozionanti e spettacolari, da lasciarci stupefatti col naso all’insù e “wow” a non finire.

Ringrazio il Nucleo di Bondeno, Associazione Arma Areonautica, per l’invito a questo evento.

Testo e Servizio fotografico sono di Valerio Pazzi.

Tutti i dati tecnici: https://www.aeronautica.difesa.it/home/noi-siamo-l-am/personale-e-mezzi/pattuglia-acrobatica-.

Per vedere tutti i reportage fotografici  di Valerio Pazzi clicca sul nome dell’autore 

Per certi Versi / Sarà come bere

Sarà come bere

Saprò guarirti

e tornerai da me

perché da sola non sai stare

 

saprò guarirti

piccola anima

che rischi così tanto

 

e sarà semplice

stare insieme

sarà come avere sete e bere

 

In copertina: Foto da Humanitas gavazzeni.it

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

I disertori dello smart-working

I DISERTORI DELLO SMART-WORKING

di Mara D’Ercole*
Da Jacobin italia del 2 Settembre 2025

Qual è il motivo reale che spinge le aziende a smantellare progressivamente il lavoro da remoto?

A partire dal marzo dello scorso anno le grandi aziende italiane hanno iniziato a ridurre, in modo graduale ma inesorabile, la possibilità di lavorare in smart-working, e la tendenza sembra quella di continuare a ridurre.
Lavoratrici e lavoratori proprio non l’hanno presa bene, e hanno scioperato contro la riduzione del lavoro agile in Capgemini, Dhl, Unipol, Panini, Eni, TinextaCyber, Fibercop  e Tim, e l’elenco non pretende di essere esaustivo.

A un primo sguardo non si capisce perché le imprese insistano sul lavoro in presenza, tutto lascerebbe pensare che il lavoro da casa porti benefici a più livelli. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ad esempio, continua a enumerare i vantaggi dello smart-working per le aziende, per i lavoratori e per l’ambiente.

Vantaggi per tutti

Secondo il Rapporto 2024 dell’Osservatorio, con due giorni di lavoro da remoto a settimana la produttività di ciascun lavoratore aumenta dal 15 al 20% l’anno, e il costo della postazione di lavoro si abbassa di 200 euro; se, in aggiunta, si decide di ridurre gli spazi della sede aziendale, l’abbattimento dei costi può toccare i 2.500 euro l’anno per ciascun lavoratore impiegato con questa modalità.

Oltre ai vantaggi per l’azienda ci sono i vantaggi per i dipendenti. Nello stesso Rapporto si sostiene che con due giorni di smart-working a settimana ciascun lavoratore risparmia, per i mancati spostamenti, una media di circa 80 ore l’anno, che gli permettono di bilanciare meglio vita privata e vita lavorativa e di migliorare notevolmente il proprio livello di benessere. Ovviamente il risparmio tocca anche il portafoglio: il gruzzolo medio stimato è di circa 900 euro l’anno per persona, non irrilevante in un paese in cui i salari non solo non aumentano ma, com’è noto, si riducono da 30 anni a questa parte.

A tutto questo si sommerebbero i benefici per l’ambiente: i mancati spostamenti e il ridimensionamento delle sedi si tradurrebbero in una riduzione di 460 kg di emissioni di CO2 per ciascun lavoratore in smart-working per due volte a settimana, numeri che, moltiplicati su scala nazionale, rappresenterebbero un beneficio ambientale notevole.

La rivoluzione del lavoro al tempo del Covid

Vantaggi importanti, dunque, che alimentano le proteste di chi in sede tutti i giorni proprio non ci vuole tornare. Ma la situazione di oggi si spiega solo tenendo conto del fatto che a questo punto ci siamo arrivati attraverso la pandemia di Covid 19, non possiamo sapere quanto lo smart-working si sarebbe diffuso se le cose fossero andate diversamente.
Nel 2020, in piena pandemia, lo smart-working, che era stato introdotto dal Jobs Act e poi disciplinato dalla legge n.81 del 2017, è entrato di prepotenza nella vita dei lavoratori in lockdown quando il governo ha decretato l’accesso al lavoro agile senza necessità della stipula di un accordo individuale tra azienda e lavoratore nel settore privato, e l’attivazione dello smart-working come forma di lavoro ordinario nella Pubblica Amministrazione. Senza alcuna complicata trattativa con capi o gestori del personale per valutare se il lavoro potesse essere svolto da remoto oppure no, computer e cellulari aziendali sono arrivati ai lavoratori alla velocità della luce, nelle case grandi e in quelle piccine, e nessun top manager ha rilevato problemi o ha avuto qualcosa da ridire sull’engagement degli impiegati.

Finita la pandemia

Ma quando la pandemia è stata contenuta e poi sconfitta, mentre in Italia la disciplina smart-working creata durante il Covid veniva prorogata, iniziavano i mal di pancia dei sacerdoti della scienza manageriale.
A maggio 2022  Elon Musk,  che ancora non era entrato ufficialmente in politica, scriveva agli impiegati di Tesla una mail imperiosa comunicando loro che «chi non vuole stare in ufficio almeno 40 ore a settimana dovrebbe andare a lavorare altrove». In un’intervista del 2023 alla Cnbc, poi, spiegava la sua contrarietà al lavoro da remoto affermando «non è giusto che chi lavora in ufficio stia a casa comodo mentre altri – operai, corrieri, cuochi – devono essere presenti fisicamente. È una questione morale»,  dichiarava un inedito Elon Musk contro i privilegi di classe.

Qualche pericolo

Tattleware, i tool per il monitoraggio dei dipendenti in smart working – fonte: cybersecurity360.it

Del resto il fatto che non tutti possano lavorare da remoto è incontestabile, solo il 30% dei lavoratori può farlo, diceva in un’intervista al il Manifesto nel 2020 Antonio Casilli, e nella stessa intervista esprimeva preoccupazione per le conseguenze della remotizzazione del lavoro: «Il lavoro da remoto potrebbe essere imposto e non scelto. In alcuni casi potrebbe essere il preludio al licenziamento, al part time involontario o al taglio del costo del lavoro».

Oltre ai dubbi espressi da Casilli e legati alla stabilità del posto di lavoro, esiste il tema complesso e inquietante della sorveglianza dei lavoratori attraverso i loro stessi strumenti di lavoro, l’allarmante possibilità di intrufolarsi nella vita dei dipendenti attraverso le videocamere, o per misurare ogni clic, ogni movimento del mouse, ogni pausa, ogni singola attività svolta o non svolta, superando la legge e la fantasia e trasformandosi in bossware.

Perchè le aziende riducono l’uso del smart-working? 

Ma se è vero che la produttività da remoto non si abbassa e anzi aumenta, se è vero che i controlli sono anche pervasivi, qual è il motivo reale che spinge le aziende a smantellare progressivamente lo smart-working e quale quello che spinge i lavoratori a protestare?
Il panopticon digitale non è sufficiente? Il capitalismo di oggi, anche quello digitale, non può fare a meno dell’open-space?

Cosa c’è di tanto essenziale al funzionamento dell’azienda dentro i nostri uffici?

Intanto i sistemi di monitoraggio dei dipendenti anche in presenza sono un vero e proprio bersaglio in movimento per la legislazione a protezione dei lavoratori. Pur nella vigenza di tutele dettate sia dalla legislazione europea che da quella italiana sulla videosorveglianza, la Internet of Things e i nuovi sistemi di monitoraggio sviluppati durante il Covid, combinati con l’intelligenza artificiale, permetterebbero tecniche di sorveglianza con cui la legislazione farebbe fatica a stare al passo.  

Tuttavia ciò che deteriora il rapporto tra azienda e smart-working è il bisogno di controllo dei corpi, cui evidentemente la tecnologia non può supplire.

Lopen space, che durante la pandemia si è trasformato in un luogo ancora più duro da vivere, dove la sorveglianza e la valutazione non passano solo attraverso badge e tornelli, codice di abbigliamento, inserimento nella gerarchia sociale aziendale, durata delle pause, prossemica nei corridoi e negli ascensori, ma attraverso un potente sistema di assoggettamento che solo il lavoro in presenza permette.

Nell’open-space nessuno, tranne il manager, ha una parete dietro cui celarsi anche per poco, nessuno ha la propria scrivania, nessuno può personalizzarla con un qualsiasi oggetto, le riunioni in presenza sono rare, le si fa perlopiù online per parlare in cuffia semmai anche con il collega di fianco, convocato anch’egli nella stessa riunione, e tutto accade senza mai potersi sottrarre allo sguardo di tutti; i  corpi sono produttivi ma anche, e soprattutto, assoggettati.
Nel lavoro da remoto questa dinamica si incrina, si apre una pericolosa piccola fenditura di libertà, di distanza psichica dal sistema azienda anche durante il tempo a essa dedicato. Il rischio da scongiurare è quindi che i «corpi docili», per citare Michel Foucault, si sentano distanti dallo sguardo del manager, e che l’enorme fatica impiegata a rappresentare come realtà psichica immersiva i modelli di management che regolano la rat race della vita in azienda assumano un’importanza relativa insopportabile per il sistema di comando dell’azienda.

L’aggrapparsi dei lavoratori al lavoro da remoto, il rifiuto di tornare in ufficio, appare una forma, seppur blanda, di diserzione dei dispositivi sistemici di comando dell’azienda, e l’organizzazione di scioperi e proteste come forma iniziale di politicizzazione di questo nuovo spazio. 

*Mara D’Ercole
 attivista, ha lavorato a tempo pieno in Cgil. Rientrata sul posto di lavoro ha continuato a scrivere di questioni lavorative su Sinistra sindacale.

Cover: smart-working – immagine di agendadigitale.eu 

Federica Nin: “La Zona Grigia” e sporca della sperimentazione animale

“La Zona Grigia”, la macchina industriale della sperimentazione animale

“La zona grigia non è un’anomalia: è il prodotto normale di un sistema disumano”
Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986

“Un sistema non si difende perché è giusto, ma perché esiste”
Michel Foucault

Ho sempre avuto certezze abbastanza ferme su cosa fosse la vivisezione e la sperimentazione animale. Fin da piccolo, ascoltando le parole della grande astrofisica Margherita Hack, non ho mai avuto dubbi su questa pratica che, oltre ad essere disumana (pur essendo commessa da umani su animali non-umani), è violenta, antropocentrica (si usano animali, quindi terzi, per finalità esclusivamente umane) e dunque assurda.
I miei pochissimi dubbi sono stati colmati quando ad esprimersi contro questa pratica furono personalità della scienza medica che non ho mai troppo considerato esempi da seguire, come l’oncologo e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia Umberto Veronesi. Nonostante moltissime sue posizioni controverse, Veronesi era vegetariano, grande sostenitore dei diritti animali e avversario degli allevamenti intensivi e della sperimentazione animale. Nel libro Una carezza per guarire Umberto Veronesi dedica un denso capitolo, l’ultimo, al tema della sperimentazione animale, auspicando, come il filosofo australiano Peter Singer, l’evolversi di un atteggiamento etico antispecista.
Pensando che negli ultimi anni sono stati messi a punto via via diversi metodi sostitutivi di ricerca animal-free e human-based, risultava per lui ingiustificata la ancora ampia utilizzazione di cavie da laboratorio, specialmente per esperimenti che darebbero scarso contributo al progresso scientifico. Partendo da ciò Veronesi richiamava all’urgenza di una legislazione in merito alla sperimentazione animale, al fine di limitare sempre più al minimo, grazie all’utilizzo di tecniche alternative, l’uso di animali da laboratorio e affinché gli animali di grossa taglia come primati, cani e gatti siano esclusi del tutto da queste pratiche sperimentali.

Le interviste che feci per Pressenza alla biologa Susanna Penco sulla vergogna della vivisezione e della sperimentazione animale, giustificata spesso mediaticamente con la ipocrita e pietistica spettacolarizzazione del dolore umano, mi hanno aiutato a prendere ancor più consapevolezza del grande business che circonda la sperimentazione animale, oltre a chiarificare una volta per tutte che ad oggi rimane una pratica scientifica non convalidata, con grande margine di errore e molto controversa proprio a causa dell’utilizzo di animali molto diversi dall’essere umano.

Però forse più di tutti, ad aiutarmi a fare il punto della situazione su questo grande tema – dal punto di vista filosofico, etico, bioetico ed epistemologico – è stato il recente libro della filosofa e psicologa Federica Nin dal titolo “La zona grigia. Illuminare l’invisibile, riscrivere la responsabilità”, Edizioni Oltre.

La zona grigia

Federica Nin, studia da anni il rapporto tra scienza, epistemologia, etica e sperimentazione animale e questo libro è molto di più di una presa di consapevolezza su questa pratica: è un’inchiesta dettagliata su un sistema tecno-scientifico ed economico che normalizza la violenza in nome del sapere, cercando di portare alla luce la “zona grigia” della sperimentazione animale, facendola finalmente uscire dalla cortina delle false informazioni, dei cliché istituzionalizzati della ricerca biomedica, delle false convinzioni, dei silenzi, dei tabù e della “ignoranza epistemologica” – come la definì il bioeticista Franco Mantidi medici, ricercatori e scienziati su questo tema, per svelarne l’orrore, l’inutilità e la nocività, anche per gli umani.

Nelle prime due parti del libro, Nin affronta con chiarezza le tante ipocrisie giuridiche, scientifiche e etiche che consentono ancor oggi il perdurare dell’utilizzo degli animali in laboratorio, a partire dalle famose “3R”: introdotte nel 1959 da Russel e Burch: Replacement (sostituzione), Reduction (riduzione), Refiniment (raffinamento). Esse si presentavano all’inizio come una proposta evolutiva, ma, nel tempo, sono invece divenuti “pilastri di stabilizzazione”, “strumenti retorici” utilizzati per difendere lo status quo.

Oggi sappiamo che questa è la base istituzionale della sperimentazione animale, oltre ad un modo per gli umani di partecipare a pratiche violente senza sentirsi responsabili, rincorrendo falsi miti: giustificazione morale (“per il bene dell’umanità”), il linguaggio eufemistico (“modello animale”), lo spostamento dell’agente morale (“seguivo il protocollo”) e la reificazione della vittima.

Nella sperimentazione animale – scrive Federica Nin – “il dolore si dissolve nella burocrazia scientifica e nelle formule normative: è la violenza che si traveste da cura, è il vivente che scompare sotto il lessico della protezione”.

L’industria della sperimentazione animale nasconde “una violenza ordinaria, legalizzata, razionalizzata  ed istituzionale in nome della “necessità scientifica” attraverso la retorica sacrificale: la pratica sperimentale diventa un rito simbolico in cui ogni animale è il capro espiatorio, mentre la sua sofferenza diventa promessa di salvezza per l’umanità.
È la stessa retorica sacrificale alla base del carnismo e alla giustificazione dell’ecatombe di animali tra caccia, macelli e allevamenti intensivi.

Cambiare paradigma

“Cambiare paradigma – scrive Nin – significherebbe disinvestire, dismettere, riconvertire” , ovvero porre fine all’economia nociva che sta dietro la sperimentazione animale: i centri di stabulazione, allevamenti intensivi di animali geneticamente modificati, i centri di forniture di gabbie e le aziende produttrici di anestetici, reagenti, calmanti etc. C’è un intero comparto produttivo che trae profitto dall’uso di animali nella ricerca e nella sperimentazione scientifica per un fatturato annuo di 7 miliardi di dollari.

La ciliegina sulla torta è sicuramente il mondo accademico basato che – essendo basato sul principio “publish or perish” – premia la quantità di pubblicazioni più che la qualità della ricerca. In molti settori biomedici, i protocolli standardizzati basati su modelli animali sono ancora la via più rapida per produrre dati pubblicabili. Un problema strutturale in quanto gli stessi indicatori di eccellenza scientifica premiano l’adesione al paradigma, non la sua messa in discussione.

Si tratta di un’economia che trae profitto garantendo la continuità del sistema.

Nelle due ultime parti del libro, Nin offre gli strumenti cognitivi, culturali, scientifici e etici per “disinnescare la zona grigia”: a partire dalla nostra responsabilità interspecifica, che dovrebbe farci aggiungere una quarta R alla formula delle 3R, quale “responsabilità”, passando per un cambio di sguardo e di prospettiva, per arrivare ad affermare con chiarezza e certezza che oggi è non solo possibile, ma doverosa, una sperimentazione non basata sugli animali.

I metodi human-based non solo esistono, ma stanno producendo risultati – chi più chi meno – più accurati, affidabili e rilevanti per l’essere umano. Scrive Nin: “Resta da compiere l’ultimo gesto: pensare l’impensabile: pensare che si possa fare ricerca senza sacrificare, in modo coatto, corpi non consenzienti. Pensare che la scienza possa fiorire senza vittime. Pensare che la cura possa nascere dal rispetto, non dal dominio. Pensare che l’essere umano non sia il centro, ma un nodo tra i molti. Pensare che un’altra scienza sia non solo possibile, ma urgente”.

“Questi metodi si basano su un principio semplice: studiare l’essere umano nel rispetto della sua complessità, non cercando il suo riflesso semplificato in altre specie. I vantaggi sono molteplici: maggiore predittività clinica, risultati riproducibili e trasparenti, rispetto del vivente come valore strutturale della ricerca”

Il libro di Federica Nin è una lettura utile e necessaria per essere più consapevoli, oltre ad essere uno strumento indispensabile per chi già sente l’angoscia morale della sperimentazione animale, ma teme che non vi siano alternative: le alternative valide e efficaci già esistono; i ricercatori obiettori di coscienza sulla sperimentazione animale già esistono, sebbene continuino ad essere marginalizzati , sottovalutati e sottofinanziati. Secondo Nin, l’antidoto è diffondere una cultura diversa, contro le lobbies di potere economico-finanziario, contro l’autoreferenzialità accademica e contro le pigrizie mentali di sistema.

Cover: immagine da Quattrozampe.online

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

Lettera a un fanatico

Lettera a un fanatico

Caro fanatico,

io e te apparteniamo alla stessa specie: la specie umana. (vedi qui)

Io non credo nel paradiso, tu sì. Io non credo esista un inferno sotto di me, tu sì. Io non credo in una nazione per cui uccidere e morire, tu sì. Se la nazione in cui vivo dovesse diventare un’altra nazione, diventerò un cittadino della nuova nazione, oppure emigrerò se non mi sta bene. Se la nuova nazione si insediasse con la violenza farei resistenza, per difendere la mia umanità, la mia famiglia, i miei amici contro la prepotenza e il sopruso. Ma se dovrò ammazzare innocenti che non conosco per la gloria di qualche guerrafondaio, piuttosto diserterò. Non credo in nessuna religione, anche se le rispetto tutte. Tu invece credi in una religione e non ne rispetti nessun altra.

 

Caro fanatico,

Tu credi nel paradiso, nell’inferno, nella nazione e nella religione. Credi che andrai in paradiso facendo la volontà del tuo Dio, o finirai all’inferno non facendola. Credi di essere chiamato dal tuo Dio ad abitare la terra che lui ti ha promesso migliaia di anni fa, e quel Dio ti avrebbe detto che è giusto uccidere tutti quelli che si oppongono a questa promessa. Sei disposto a uccidere i tuoi simili sulla base delle cose riportate in libri che sono la collazione scritta in chissà quanti anni di una tradizione orale di chissà quanti secoli. Libri che contengono “profezie” e “rivelazioni” pronunciate migliaia di anni fa, quando ancora la scrittura alfabetica non esisteva.  

Un paradiso lo puoi solo immaginare ricorrendo alle più belle sensazioni provate nella tua vita terrena. Tanti artisti lo hanno immaginato. Tuttavia non sai com’è e non puoi saperlo, perché quando arriva sei morto: e se non lo sei, non sei comunque in grado di tornare indietro per raccontare com’è.

Un inferno lo puoi immaginare ricorrendo alle peggiori sofferenze che puoi provare in terra. Tanti artisti lo hanno immaginato, ma non puoi sapere veramente com’è, perché quando arriva sei morto: e se non lo sei, non sei comunque in grado di tornare indietro per raccontare com’è.

Una nazione però è una cosa vera, reale, concreta, non immaginaria. Ma i confini di una nazione non sono mai gli stessi per l’eternità. C’è sempre qualcuno che con la forza conquista la terra in cui vive un altro, e quella diventa parte della sua nazione, ma prima non lo era. Poi c’è qualcuno che invece di andarsene da un’ altra parte resta e difende la sua terra, perchè non può o non vuole lasciarla. Se vince, resta dentro la sua vecchia nazione. Se perde e non viene ucciso o deportato, diventa cittadino della nuova. I confini di una nazione vengono tracciati su una cartina geografica a seguito di una guerra e di un successivo accordo, che sigilla i rapporti di forza derivati dall’esito di quella guerra. Anche se le cause e gli effetti sono tragicamente concreti, non c’è nulla di più astratto dei confini e delle nazioni, e non c’è nulla di più mutevole della nazionalità. Se rimani della stessa nazionalità per tutta la vita, o resti nella stessa nazione tutta la vita, può dipendere dal fatto che la tua vita è stata più breve dell’intervallo tra una guerra e l’altra.

Sulla religione poi, te lo dico con il massimo rispetto per la tua, l’immaginazione la fa completamente da padrona. Se tu leggi le sacre scritture di ogni religione come fossero una grande fiaba, ti rendi conto che non c’è racconto più fantasioso, immaginifico e aperto alle interpretazioni: talmente aperto che su cento persone che lo leggono, sentirai almeno cinquanta opinioni diverse su quella che è la cosiddetta “volontà di Dio” espressa in quelle scritture. Se le leggi come una grande favola, ti godrai il viaggio. Se le leggi come una rivelazione, crederai ad alcune delle cose che sono state raccontate, anche se sembrano incredibili. Se le leggi come una chiamata, ti convincerai che devi personalmente eseguire la volontà del tuo Dio, anche se questo significa opprimere, perseguitare, uccidere altri esseri umani. Ma se le leggi come una chiamata, hai l’arroganza di aver capito qual è la volontà di Dio, e pretendi che lui abbia pensato proprio a te come suo soldato. Se il tuo Dio vuole che vivi nella terra che lui ti ha promesso, farai di tutto per far coincidere la sua profezia con la tua realtà. Questa in assoluto è la saldatura più pericolosa alla quale puoi credere: quella tra religione e nazione, quella tra cielo e terra. Quando una nazione viene benedetta da un dio, il modo per creare quella nazione è una guerra santa. Ma la fai tu, non Dio. Le persone le ammazzi tu, non Dio.

 

Caro fanatico,

tu credi esistano cose di cui non hai la prova empirica: è l’immaginazione di altri ad averle create. Prova ad immaginare che queste cose non esistano, se non nella fantasia di chi le ha magicamente tramandate. Potrebbe non esistere un aldilà oltre la vita terrena. Se non esistesse, le sensazioni e le azioni di ogni giorno varrebbero per la gratificazione, il dolore o il piacere che ti danno in quel momento, e non per lo scopo o per le conseguenze che le tue azioni possono avere nel tuo futuro ultraterreno, un futuro che potrebbe non esistere. Pensa se non ti dovessi preoccupare del fatto che le tue azioni possano regalarti l’estasi del paradiso o condannarti alle fiamme dell’inferno. Non preoccuparsi per qualcosa che ancora non c’è, e potrebbe non esserci mai, aiuta a occuparsi di quello che c’è adesso: te stesso e le altre persone, ad esempio. Pensa a quanto vivresti più leggero, se non avessi l’ossessione di conquistare una terra che qualcuno nella notte dei tempi dichiara di avere scelto per te. Pensa se potessi decidere di vivere semplicemente dove sei nato, oppure in un luogo del cuore, di cui ami la gente, la cultura, il cibo, il clima, la lingua, i costumi.

Qualcuno si è impadronito della storia narrata e tramandata oralmente del passato dei popoli, un passato catalogato come mitologico per quanto è lontano nel tempo, e ne ha fatto una lunghissima, articolata, spesso incongruente, ma affascinante storia messianica collettiva alla quale tu credi, e non per ragioni scientifiche o perché esiste qualche prova sensibile che quella storia sia vera, ma perché chi se ne è fatto depositario e interprete per la tua gente vi ha riposto fede e ti ha indottrinato, fin da quando eri bambino, sul fatto che anche tu dovevi fidarti di quella storia.

Di quale storia? Dipende, caro fanatico: se sei nato a Tel Aviv, sarà una storia. Se sei nato a Teheran, sarà un’altra storia, e così se sei nato a Marrakech, o a Berlino, o a san Pietroburgo, o in un sobborgo di Guangzou, o a Ballygunge. Sei un cattolico, un musulmano, un indù, un ortodosso, un protestante o un rabbinico a seconda di dove sei nato. Immagina se tutto questo non fosse altro che una seducente, straordinaria favola collettiva in cui le cose e le persone e i profeti e gli apostoli e i miracoli sono chiamati con nomi diversi ma sono tutti parte della stessa saga dei millenni: la potresti leggere come leggi un romanzo storico che parla della città antica di Babilonia, o di una rivolta dei minatori delle Asturie per ottenere condizioni di lavoro più dignitose, o della vicenda plurisecolare di una famiglia di fabbricanti di tappeti di Hamadan, o di un bambino che vive in una stamberga nella periferia di Manchester agli albori della rivoluzione industriale. Puoi leggere tutte queste storie per il tuo piacere e per il tuo dolore, senza che nessuna di queste debba contenere un precetto per la tua vita e un comando di morte per la vita di altri.

Immagina quanto sarebbe bello godere del piacere puro della favola e anche della sua ferocia, a là Mille e una notte, senza doversi inchinare tutti a pregare un Dio nella stessa direzione ad una certa ora fissa della sera, senza dover digiunare dall’alba al tramonto e poi mangiare e bere come disperati dal tramonto all’alba, senza dover raccontare i fatti tuoi a un sacerdote che ti perdona per i peccati che non hai commesso. Senza dover conquistare una terra promessa. Promessa da chi, e soprattutto a chi? Se sei polacco, o ucraino, o bielorusso, nessuno ti obbliga a cambiarti il cognome per fingere di essere il prescelto di una storia che non è più tua di quanto non sia mia. Nessuno ti obbliga a spostarti e insediarti con la forza in casa d’altri, e cacciarli dalla loro casa. Nessuno. Non nasconderti dietro Dio. E’ solo tua la scelta. E’ solo tua la colpa.

 

Caro fanatico di ogni fede, religione, ideologia.

Immagina quanto saresti libero se la tua mente fosse libera da infestazioni sovraumane, soprannaturali. La natura stessa è il miracolo, e tu in nome di un presunto comando soprannaturale la distruggi. Distruggi gli ulivi che insistono su quella terra da prima di Abramo. Immagina quanto sarebbe bello se non credessi all’inferno, perché ti impedirebbe di crearlo in terra per i bambini, che potrebbero essere i tuoi figli; i tuoi figli che forse un giorno vivranno un inferno in terra, per colpa di quelli come te. Immagina quanto saresti umano, e quanto invece sei disumano. 

 

 

Ortigia Film Festival 2025. Presentata a Venezia la 17ª edizione

“Cinema ed Eros” il tema 2025. Tutti a Siracusa dal 20 al 27 settembre

È stata presentata, all’Italian Pavilion della 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, la 17ª edizione di Ortigia Film Festival in programma a Siracusa dal 20 al 27 settembre 2025.

Hanno dato avvio all’incontro all’Italian Pavilion le direttrici del festival, Lisa Romano e Paola Poli, quest’ultima intervenuta in collegamento. Insieme a loro Laura Delli Colli e Teresa De Santis.

Ad aprire l’appuntamento veneziano è stata proprio Lisa Romano, che ha rivolto un ringraziamento speciale al Comune di Siracusa e al Sindaco Francesco Italia per il costante sostegno e apprezzamento verso il Festival, insieme a tutte le istituzioni che lo supportano: il MiC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, l’Assessorato regionale del turismo dello sport e dello spettacolo – Regione Sicilia, la Sicilia Film Commission e la Camera di Commercio del Sud Est.

Un sentito ringraziamento è stato rivolto anche al Comitato Scientifico e Culturale del Festival, composto da Gianni Canova, Laura Delli Colli, Steve Della Casa e Teresa De Santis.

Lisa Romano ha annunciato come film di apertura Amata di Elisa Amoruso che dalle Giornate degli Autori veneziane volerà a Ortigia: una storia di amore, libertà e maternità.

In apertura di Festival anche In Re Minore di Antonio Maria Castaldo e Gianluca Grazini alla presenza di Antonio Maria Castaldo. In ricordo delle vittime del terremoto in Abruzzo del 2009 che arriva a Siracusa dopo la presentazione veneziana al Venice production Bridge.

Romano ha ricordato infine le date dal 20 al 27 settembre e le giurie.

Per i lungometraggi (opere prime e seconde italiane): Valentina CerviIsabella Cocuzza e Corrado Fortuna. Per i documentari internazionali: Fabio Bobbio e gli studenti del CSC – sede Sicilia. Per i cortometraggi internazionali: Lucrezia Lante della RovereSimone Morandi ed Ester Pantano.

Le sezioni ufficiali dell’edizione 2025 raccontano la varietà e la ricchezza di linguaggi che caratterizzano l’Ortigia Film Festival.

Il Concorso Lungometraggi dà spazio alle nuove generazioni del cinema italiano con opere prime e seconde; il Concorso Documentari apre sguardi su realtà autentiche e spesso invisibili; mentre il Concorso Internazionale Cortometraggi porta a Siracusa nuove voci e linguaggi, in un terreno di scoperta e sperimentazione.

Accanto ai concorsi, OFF propone percorsi tematici che consolidano la sua identità: Cinema Women, omaggio al cinema al femminile e alle professioniste che lo animano; Cinema & Musica, che esplora il legame vitale tra immagini e suoni; La Voce del Mare, sezione che celebra il rapporto profondo tra il Mediterraneo, la sua cultura e le storie che vi nascono; e OFF Scuole, che ospita proiezioni di cortometraggi realizzati da alcuni dei più prestigiosi istituti dell’audiovisivo d’Europa.

Foto cortesia Storyfinders

UCRAINA e SUDTIROL :
e se il modello Alto Adige/SüdTirol fosse usato per fare pace?

UCRAINA e SUDTIROL:
e se il modello Alto Adige/SüdTirol fosse usato per fare pace?

La pace in Ucraina non arriverà così presto ma arriverà. Sei mesi fa lo scrissi, perché la “sicurezza” (doverosa per l’Ucraina, ma anche per la Russia) cela temibili ostacoli.
Se infatti attivi l’articolo 5 della Nato o una simil specie (come propone Meloni, uno per tutti, tutti per uno, anche se non sei nella Nato), devi essere sicuro che non ci sia qualche gruppo fondamentalista (in Ucraina o Russia) che non faccia un attentato terroristico di ampia portata, facendo così scattare una guerra totale tra Russia e Nato/USA. Lo teme Trump, fidandosi poco di un’Ucraina ridotta (molto più anti-russa), e della Russia, con cui Trump vuole fare affari.

Nelle guerre c’è sempre una forte componente nazionalista (di “patria”). Scrive Hanna Perekhoda, storica ucraina, in MicroMega (e da noi ripresa), la Russia vuole che in Crimea e Donbass ci siano sudditi di Putin, senza libertà, sottomessi al “progetto globale messianico” della Russia come impero.
E’ vero, ma non è quanto fa Trump con gli americani e fa talvolta la nostra UE, quando, vassalla degli USA, con un accordo sui dazi a nostro danno, delibera un riarmo senza passare dal Parlamento UE? E cosa fa Trump e le democrazie liberali per impedire a Israele di sterminare un popolo?

Lo sterminio nazista degli ebrei era noto solo ad alcuni, ma quello dei palestinesi di Gaza è di dominio pubblico.
Israele spara anche sulla Croce Rossa, neppure i nazisti lo fecero.
E, cara Perekhoda, cosa ha fatto l’Ucraina verso i russofili del Donbass dal 2014 al 2022, se non volerli assoggettare al loro Governo a suon di bombe?

Il diritto internazionale è in crisi perché violato prima di tutto da noi occidentali. Ma ci sono buone pratiche a cui ispirarsi.

L’esempio dell’ Alto Adige/SüdTirol

L’Alto Adige/SüdTirol è oggi una delle più prospere e ricche regioni d’Europa. Ci vivono in pace il 70% di lingua tedeschi, 26% di lingua italiana e 4% di lingua ladina, tutti con una tv regionale, propri costumi. Ci sono voluti però molti anni. All’inizio gran parte della maggioranza tedesca voleva un’autonomia dall’Italia o andarsene in Austria, da cui 300 attentati terroristici di vario tipo. La Politica agì allora in modo intelligente scambiando “sussidi (soldi) per pace”.

I terroristi altoatesini sono stati “sgonfiati” dai connazionali quando hanno capito che i sussidi dell’Italia sarebbero stati maggiori di quelli dell’Austria (che nulla voleva dare).

La pace fu frutto della lungimiranza Politica italiana. Ma qual è il vantaggio dell’Italia nell’aver conquistato con la guerra queste terre? Nessuno, se non il fatto di dire che Sinner è italiano (ma neppure ci paga le tasse). Sarebbe l’Austria a pagare per la tutela delle minoranze e l’Italia non avrebbe le spese aggiuntive per il SüdTirol che, se erano comprensibili 80 anni fa, sono oggi anacronistiche essendo diventata una delle regioni più ricche d’Europa col turismo. Gli italiani in ferie sarebbero benvenuti come lo sono oggi tutti coloro che profumatamente pagano in quei luoghi.

Dopo la fine della guerra in Ucraina

Dopo 3 anni di guerra e la superiorità militare della Russia quale sarebbe il senso di non fare una pace? Zelensky vuole lottare per altri 100 anni…per perdere altri territori (oggi più di ieri e meno di domani)?
Nelle aree occupate dai russi vivono 3,5 milioni e altri 2,5 si sono spostati in Russia. Molti sono anziani ed è gente che avrà bisogno di assistenza. Tutto è distrutto e ci vorranno centinaia di miliardi per ripartire: un costo enorme che grava su chi occupa quelle terre.

L’idea di sconfiggere militarmente la Russia si è dimostrata sbagliata. Si vuole dimostrare che la giustizia vince sulla prepotenza al prezzo di un altro milione di morti ucraini (e russi)? Ma può parlare di giustizia una Nato che ha fatto quasi tutte le guerre negli ultimi 80 anni?
E soprattutto non c’è una via simile al SüdTirol in Ucraina (ma anche in Palestina) se ci fosse davvero una UE autonoma che coopera (coi paesi Arabi per la Palestina) e non prende solo ordini dagli Americani? Questa si, sarebbe vera democrazia e fratellanza e l’inizio di un nuovo mondo al posto dell’assurdo riarmo e delle parole biforcute.

Fatta la pace (seppur cedendo territori e con garanzie di sicurezza), si ape la porta agli aiuti per lo sviluppo dell’Ucraina. A lungo andare, se la Russia è un’autocrazia, ci sarà l’effetto che ebbe la Germania Ovest sull’Est: il crollo dell’URSS. E se l’Europa diventa davvero autonoma e democratica, tra 30 anni anche la Russia potrebbe far parte della UE, spostando la competizione (come nel periodo USA-URSS) dalle armi allo sviluppo vero dei propri cittadini.

Ursula Von del Layen vuole invece un’Ucraina “porcospino d’acciaio”. Sa che i giovani europei non vogliono più fare la guerra e dunque devono farla gli ucraini, ma col rischio che poi il porcospino d’acciaio voglia farla, come mostra l’attentato al Nord Stream 2 da parte di un graduato dell’esercito ucraino (un sottoposto di Zelensky), mettendo tutti in pericolo (USA inclusi). L‘obiezione è che la Russia vuole attaccare altri Stati europei. Ma è credibile che una Russia in declino demografico che in tre anni di guerra ha conquistato solo il 12% dell’Ucraina, voglia fare la guerra contro 32 eserciti della Nato più l’Ucraina? E comunque, se avvenisse, sarebbe sconfitta anche senza Ucraina nella Nato.

La dimostrazione dell’inutilità delle guerre di conquista di popolazioni ostili ha avuto negli ultimi 50 anni una poderosa conferma. Le superpotenze (USA e Russia), ma anche altri, non riescono a mantenere territori che sono ostili ai conquistatori. In fondo tutte le guerre perdute dagli americani (e russi in Afghanistan) mostrano questo.
Popolazioni (seppur povere e senza forti eserciti) riescono a sconfiggere (prima o poi) superpotenze. Potrebbe succedere anche al potente Israele invadendo la Palestina e trovando il suo Vietnam. Una delle poche eccezioni è il Tibet con la Cina, ma nel complesso vale la regola dell’impossibilità o enorme difficoltà alla conquiste di popolazioni ostili.

Questa regola vale anche per la Russia. Conquisterà le aree russofone e che parlano russo limitrofe al suo territorio, ma non potrà mai conquistare per molto tempo, non dico popolazioni europee, ma neppure l’ovest dell’Ucraina.
In tal senso la scelta della piccola Svizzera di restare paese neutrale e non investire sulle armi è molto più lungimirante di quella che, disgraziatamente, sta facendo l’élite UE, peraltro, sconfessata dalla maggioranza dei suoi cittadini che non la condividono. Per questo non è stata discussa nel parlamento europeo, dimostrando che sulle scelte che contano, la “democrazia” è retorica e che questa élite europea, non solo è succube degli Stati Uniti, ma delle lobby della finanza che conducono la musica (cioè l’economia) da 30 anni.

L’unica pace possibile

Carlo Cottarelli, sempre misurato e prudente, si allinea (Corriere della Sera, 22 agosto 2025) a quello che molti considerano l’”Accordo possibile”:
1. Neutralità dell’Ucraina (non ingresso nella Nato),
2. Garanzie di sicurezza per Ucraina e Russia,
3. Cessioni dei territori russofoni (Crimea e Donbass). Cioè quanto chiede la Russia da sempre (o almeno da Istanbul).

Si dirà: ma così vincono i potenti! Certo, ma è una storia che dura da 80 anni e se la UE vuole un nuovo mondo giusto deve farlo nascere lei per prima, cominciando a diventare autonoma e lottare per questo, non starsene succube del più potente in “comfort zone”, blaterando di ideali mentre briga per far diventare i ricchi sempre più ricchi.

Cottarelli è però giustamente preoccupato che tale accordo (prima viene e meglio è per la stessa Ucraina che è perdente sul campo), dimostri “quanto sia stato sbagliato da parte della UE aver sostenuto per tre anni l’Ucraina e che la via diplomatica era l’unica possibile. Si tratta – dice Cottarelli– di posizioni estreme che non guardano la realtà. La realtà è che Putin non ha vinto, perché, come si è capito dalle sue prime mosse durante l’aggressione, il suo obiettivo era l’asservimento dell’Ucraina al suo volere, la sua trasformazione in uno Stato vassallo, la fine della sua indipendenza. L’eroica lotta del popolo ucraino, col sostegno dell’Occidente, ha impedito di raggiungere questi risultati”.

E’ una povera bugia per non perdere la faccia (e la poltrona) da parte di un intero establishment, che è stata smentita anche dai negoziati di aprile 2022 a Istanbul, sabotati da Inghilterra e Usa, quando si poteva ottenere la pace subito senza un altro milione di morti e feriti (ucraini e russi) e altri 3 anni di guerra e senza cedere territori alla Russia. Il problema è che UE e Italia sono vassalli degli Stati Uniti (come dimostra il recente accordo sui dazi) e non hanno quell’autonomia che farebbe così bene non solo a noi ma al mondo intero, Ucraini e Palestinesi/israeliani inclusi.

Un mondo dove crescono i Brics e da noi gli immigrati ovunque, in SüdTirol e domani in Ucraina, Italia, Stati Uniti e Israele, che dovranno di necessità pensarsi molto diversi da come credono…la storia scava come la “talpa” e chi sbaglia paga (è questione di tempo).

Cover: carta dell’Alto Adige/Sudtirol

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Speciale numero 300/2

Eccoci finalmente alla seconda uscita speciale in occasione del Numero 300 di “Parole a capo”. Il primo reading che, come Ultimo Rosso, organizzammo qualche anno fa per le strade e piazze di Ferrara aveva come poesia conduttrice un testo di Wislawa SzymborskaAd alcuni piace la poesia“. In ogni postazione, le poete ed i poeti leggevano questo testo. Tutti noi ci riconoscevamo in questa straordinaria autrice per la sua capacità di trovare parole, immagini estremamente immerse nella quotidianità. Prima di lasciare spazio agli amici e alle amiche che hanno risposto positivamente al mio invito, condivido con voi una poesia di Wislawa Szymborska tratta dal volumetto “Basta così” dell’Adelphi uscito in traduzione italiana nel 2012. Grazie e buona poesia.

A una mia poesia

Nel migliore dei casi,
poesia, sarai letta attentamente,
commentata e ricordata.

Nel peggiore
sarai soltanto letta.

Terza eventualità:
verrai sì scritta,
ma subito buttata nel cestino.

Potrai approfittare di una quarta soluzione:
scomparirai non scritta,
borbottando qualcosa soddisfatta.

*

AVEVI UN PO’ DI ESTATE SULLA PELLE

 

Avevi un po’ di estate sulla pelle
la collanina d’oro
sulla pelle caramello
non so cosa fosse più prezioso

 I passi e i battiti
erano troppi nell’orologio
a ricordare che tutto di noi
è misurato
ma t’importava correre
mangiarti il tempo
prima che lui mangiasse te

 Sapevi di mare
coi capelli asciugati al sole
e qui il mare è un pensiero
che il cervello non considera
un’idea
di moto a luogo
una possibilità dell’andare

 Eri un viaggio appena cominciato
e nemmeno lo sapevi

(ANNA MARTINENGHI)

LIEVE IMPRONTA

Come colline
dolci o impervie
guidano lo sguardo,
così ogni poeta
lascia lieve impronta.
Come nel bosco
là dove il fiume ha scavato
più profonda sponda,
là dove scoscesa è la via
che si apre al piano,
così l’artista
scava nella mente e nel cuore.
Come la mano ha dissodato zolle
con fatica, con passione,
per consentire il raccolto,
così la voce della poeta,
come il volo di un nibbio,
canta leggere variazioni,
sillabe a creare il canto
della sua sinfonia.
(CECILIA BOLZANI)
*
GAZA, AMATA, DEVASTATA
Lingua di terra
sommersa da un mare
di lacrime amare.
Distesa di croci
purgatorio
diventato inferno;
sovrastano solo
fumanti macerie,
spietato uragano
di diavolo tiranno.
“Perché non si ripeta”
disse il nostro Levi
e invece orribile
sotto i nostri occhi
il genocidio si rinnova.
Uomo sapiens
fin che hai tempo
il tuo sen ritrova.
( Silvio Valdevit Lovriha )

 

*

 

LO STESSO SALE

C’è qualcosa che ci lega insieme
a un filo d’erba, al ronzio di un’ape
che si posa su un fiore
non sa quell’ape che sta salvando il mondo
mentre l’uomo lo sta devastando
Una nuvola passa e per un momento
oscura il sole
è lo stesso dolore
lo stesso sale
delle lacrime, del mare
Di un esilio di un calvario
c’è una nebbia che sale
dalla terra al cielo
e sulla terra si stende un velo
come un sudario
Le nuvole rubano l’acqua al mare
il sale alla terra
restituendo pioggia di sale
lacrime di sangue di carne innocente
secoli di colpa non espiata
inondano il tempo presente
C’è chi uccide chi muore chi guarda e tace
il sole sul Golgota s’è già oscurato
c’è una madre in ginocchio
e un bambino affamato
un altro che dorme e sogna la pace.

(MASSIMO TETI)

 

*

Ritratti d’acqua

Ci sono corpi
che il fiume non restituisce:
lo dicono i libri, i giornali,
le guerre, le leggi della fisica,
il nostro scagliare parti di riva
dalle dita al mistero.
Li stende su un letto d’acqua la luna,
brillano per errore della notte
dappertutto. Fallisce il piombo
del buio

dove si disegnano ali.

 

(ELISA NANINI)

 

*

 

Pelle scura

fiero retaggio
ora soltanto
trattieni le ossa.
Ricordi
pallidi campi
mai conosciuti.
Saperti bambino
nella piana riarsa
svuota ogni rifugio.
Vorrei
per fertili campi
vederti giocare.
(STEFANO AGNELLI)
*

Resta con me

                                                                                   Per Julio Cortázar
Resta con me, oggi, perché il vento
scuote il sacro albero del pane
e forse domani non nascerà
la speranza, già debole, di oggi.
Resta con me, la tua mano nella mia
anche se è per illuderci
per non pensare, prima del sonno,
troppo alla nostra fine.
Resta con me, mentre ci si sbrana
per vincere tutti i campionati
e pericolosi corifei distruggono
ogni bellezza, ogni civile desiderio.
Resta con me, oggi: non sentiremo
i richiami della foresta alla ferocia
e guarderemo la coppia di aironi bianchi
che frequentano il nostro giardino.
Con loro voleremo via.

(FRANCO STEFANI)

*

È maggio piove sempre, lacrima ininterrottamente.
Se morire in una fogna , senza scampo,
prede di ratti, inalati dalle urine e coperti di feci,
scarti umani in fila per una razione di pane?
meglio un soffio di vento e un alito di incenso.
La morte non ha la stessa faccia.
Le voci di fondo guerra e morti,
il luogo di lavoro diventa trincea,
i potenti sfilano in giacca e cravatta
sotto le bandiere a mezz’asta per la svaluta della moneta
e un affare andato male,
alla tavola rotonda lacrime e desolazione.
l’ultimo morso al pane e marmellata,
scrivo nero su bianco.
Mando giù il dolce boccone
inzuppato nello sdegno.

6 maggio 2024 – Casteldaccia ( PA)
Epifanio Alsazia, 71 anni, Ignazio Giordano, di 57
anni. Giuseppe Miraglia, 47 anni, Roberto Raneri, 51
anni, Giuseppe La Barbera, 28 anni.

(ROSARIA MUNAFO’)

*

piccolo airone

nel sole liquefatto di un’alba di nebbia
un airone bianco immobile al mio sguardo
poi improvviso il suo volo spaurito
come il cuore che si vede scoperto
in questa landa di pianura spietata.

Candido piccolo airone fuggiasco
il tuo becco appuntito perfora il vuoto
il collo uncino per agganciare il cielo

con le immense ali dispiegate
t’ho visto disapparire

curvo come una luna
denudata
nella notte di zolle intirizzite

(ELEONORA ROSSI)

*

Alla fine la vita
è solo un gioco di equilibrio
disse – togliendosi  il cappello
e poggiandolo vicino al cuore .
Dalla testa al cuore.
Ecco, metterli d’accordo
era dunque il segreto
contenuto in quella traiettoria
lenta del cappello.
Razionalità e passione
saggezza e follia.
Lei lo guardò trattenendo il respiro
in bilico tra una parola d’amore
e un sorriso.
Più volte era inciampata nella vita
e giurato a se stessa
di non farlo più.
È solo questione
di equilibrio, ora lo sapeva.
Alzò una gamba
e dimostrò che stava
imparando la lezione.
L’uomo con il cappello sul cuore
la donna in piedi su una gamba sola
(EMILIO NAPOLITANO)
*
(Foto di congerdesign da Pixabay)

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 301° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
“L’amore mio non muore” di Roberto Saviano e Techetechete’

Vite di carta. “L’amore mio non muore” di Roberto Saviano e Techetechete’

Guardavo in queste sere le ultime puntate estive di Techetechete e facevo con nostalgia un salto all’indietro alla tv musicale dagli anni Sessanta in poi. Ho riascoltato le colonne sonore di infanzia e giovinezza, da Mina a Topo Gigio passando per i cantanti e i presentatori più famosi, Baudo in primis, fino a Claudio Cecchetto.

Canzoni e volti del genere pop che sono spariti da troppi anni e d’estate ricompaiono puntualmente nel palinsesto della Rai.

Nelle ultime sere, finito di leggere L’amore mio non muore di Roberto Saviano, mi sono chiesta se anche Rossella avesse ascoltato gli stessi pezzi, negli anni ’70.  Rossella Casini è la protagonista del romanzo, nata nel 1956 come me, lei in maggio e io in agosto, come me iscritta all’Università. Lei a Firenze alla facoltà di Psicologia, io a Bologna a quella di Lettere.

Nel ’77 a Bologna io frequentavo a singhiozzo le lezioni negli istituti di Via Zamboni dopo l’uccisione di Francesco Lorusso, avvenuta l’11 marzo a due passi da lì, mentre lei conosceva Francesco Frisina, uno studente fuori sede che occupava con altri amici calabresi un appartamento del suo stesso palazzo, e venivano presi l’un l’altro da un amore magnetico.

Rossella è un personaggio del romanzo ed è una persona che è vissuta realmente: Saviano ha voluto ricostruirne la breve vita e raccontare la storia d’amore “più drammatica e potente” che gli sia mai capitato di incontrare, quella che lega Rossella a Francesco, fino alla sparizione di lei nel 1981.

Francesco viene da Palmi e fa parte di una famiglia legata alla ‘drina della Piana di Gioia Tauro nelle cui spire Rossella rimane imprigionata dal suo amore per lui, convinta che questo sentimento possa cambiare le cose e fermare la faida familiare fra i Frisina-Gallico e i Condello. Infatti collabora con la giustizia e – Francesco consenziente – va a parlare con il boss dei Condello per chiedere che tutto finisca e torni la pace.

Il 22 febbraio del 1981 Rossella sparisce, dopo avere telefonato al padre per annunciare il suo rientro a Firenze. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e per questo è stata riconosciuta dallo Stato come una delle molteplici vittime della ‘ndrangheta.

Tutta qui la parabola di vita di Rossella, bastano tre righe per fissarla. E  rimane di lei una sola foto scattata nel ’78, quella del libretto universitario che compare sulla copertina del romanzo, che è un romanzo d’inchiesta.

Saviano ha dato muscoli e tendini e vita alla sua storia, basandosi su fatti realmente accaduti e sull’intelaiatura di interviste e atti delle inchieste giudiziarie.

Poi, però, nel ruolo di narratore ha dovuto completare il tessuto discorsivo con le inferenze, come avverte nella nota introduttiva al libro,  scegliendo le parole per “deduzione logica” e “coerenza”, come fa un restauratore di tessuti preziosi, per colmare con esse le lacune nel vissuto di Rossella.

Di più, stando dentro l’universo del romanzo, ha potuto attingere all'”arsenale dell’invenzione narrativa” per tessere le pagine che ritraggono il cuore di Rossella: un fine scandaglio interiore, dove il registro lirico diventa il filtro espressivo dominante e il romanzo un romanzo d’amore.

L’amore non è farfalle nello stomaco, è un fiorire formidabile e voluttuoso che ora le si arrampica lungo il collo, carezzandole i lobi delle orecchie; è come le fragole che in queste palazzine crescono nelle vasche dei senza patria, riempiendone i bagni di colori ed effluvi mai sperati. Nasce in timidezza, cresce di soppiatto, si prende il dito con tutta la mano”.

La fenomenologia dell’amore di Rossella è plausibile rispetto al mondo in cui è cresciuta e vive, le occupa tutti i cinque sensi, è un amore assoluto. Che fino in fondo non muore. Tuttavia ci arriva dalle parole del narratore che usa la terza persona, è farina del suo sacco e pone una distanza tra l’oggetto del racconto e noi che leggiamo.

In questa distanza, una sorta di intercapedine fra scrittura e lettura, mi sono infilata, pensando spesso a Rossella. Una come me, per la serie delle coincidenze che dicevo. Mi sono chiesta che libri leggesse, oltre a Uccelli di rovo che è rimasto aperto sul pavimento della sua camera. Ho ipotizzato che piacessero anche a lei Un’emozione da poco cantata da Anna Oxa o Gianna di Rino Gaetano, due pezzi del 1978, che è anche l’anno della foto.

Ascoltavo Anna Oxa mentre camminavo per Milano in una ventosa giornata di marzo e intanto a Roma avveniva il rapimento di Aldo Moro. La stessa primavera in cui lei sul Lungarno chiedeva a Francesco di conoscere la sua famiglia.

Mi sono chiesta che cosa nel romanzo mi fosse arrivato, senza poter poi defluire con il resto, assorbito e scomposto dagli enzimi della lettura. Un aspetto dell’amore di Rossella rimasto impigliato nella mente, che non rientra nella definizione che ne ho dato fin qui.

Sere fa ascolto Mia Martini che a Techetechete’ canta Gli uomini non cambianoLa canzone, bellissima, è del ’92 e Rossella non l’ha conosciuta, il testo ha parole dure, con cui inchioda gli uomini a una inaffidabilità senza riscatto.

Ascolto nella parte finale “gli uomini che nascono sono figli delle donne ma non sono come noi… gli uomini che cambiano sono quasi un ideale che non c’è” e dell’amore di Rossella percepisco l’anello che non tiene. Per lei è stato un sentimento totale, “‘unica possibilità di verità e di senso” nelle parole di Saviano. Totale ma asimmetrico.

Perché Francesco ha accettato che lei uscisse dal parlatorio del carcere dopo l’orario di visita con addosso un compito, salvargli la vita andando a parlare ai Condello per proporre la pace tra le famiglie. Questo ha accettato Francesco, il sacrificio di Rossella.

Nota bibliografica:

  • Roberto Saviano, L’amore mio non muore, Einaudi, 2025

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Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Ausmerzen

Ausmerzen

Ho difficoltà a scrivere cose intelligenti, non ovvie, non reiterate, parole che oltrepassino la vergogna dello scriverle.

Scrivere, parlare, agire, sono però una pulsione irrefrenabile di fronte all’annientamento della popolazione di Gaza in particolare e di quella Palestinese in generale. Un genocidio è in atto: una parola ancora non sdoganata da tutte le menti, in tanti anche a sinistra continuano a provare fastidio nei confronti di un termine incontrovertibile. Il governo di Israele gode di una impunità mai riscontrata per nessun altro stato, se non gli Stati Uniti, forse anche maggiore. Le sofferenze che gli Ebrei hanno subito in quanto comunità religiosa, hanno sicuramente pochi pari nella storia dell’umanità. Molto prima dei nazisti, i figli di Abramo hanno subito delle persecuzioni, avvenute per la stragrande maggioranza per mano di popolazioni europee e non arabe. Gli Ebrei ebbero lo stigma dei loro avi che, secondo le sacre scritture, mandarono a morte Gesù Cristo il Nazareno, figlio della Palestina e padre della Sacra Romana Chiesa. Da lì, cioè duemila anni fa, nasce la storia. Detto questo, le stesse popolazioni occidentali, dopo avere contribuito in parte all’Olocausto perpetratosi in Europa (e non in oriente) dal 1941 al 1945, Olocausto che ha visto il macello di sei milioni di esseri umani in Germania, Italia, Francia, Polonia, Austria, Russia, per pulirsi la coscienza hanno stabilito la necessità di creare uno stato per il popolo di Israele. Da molto prima della seconda guerra mondiale comunità di Ebrei si trasferirono in Palestina, o Israele che dir si voglia. Ma è il 14 maggio 1948, quando il presidente del Consiglio nazionale ebraico Ben Gurion proclama la fondazione dello Stato di Israele. Ed è un anno dopo che il popolo Palestinese si accorge di non avere più una patria: nel dicembre del 1949 inizia la “catastrofe”, la Nakba, molto, molto simile al più conosciuto Esodo, ma con valore ben diverso agli occhi del mondo. Quasi un milione di persone senza una casa, senza una terra, senza la propria storia. E da lì inizia una sequela di massacri senza fine, dove esiste un invasore e un invaso (già sentite queste parole vero?). Tra le fila Palestinesi nasce e cresce una resistenza armata, partigiana dal loro punto di vista, terrorista dal punto di vista dell’occidente. Tentativi di dialogo e accordi ci sono, il più famoso è quello tra Arafat e Rabin, meglio conosciuto come accordo di Oslo, dove venne riconosciuta l’Autorità palestinese su parte di Gaza e della Cisgiordania. Accordi violati poi da entrambe le parti, che sfociarono nell’eclatante assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un colono israeliano di estrema destra.

Da non dimenticare la lotta intestina tra Al Fatah (di ispirazione socialisteggiante) e Hamas (nazionalismo religioso di estrema destra) avvenuta nel primo decennio del ventunesimo secolo, dove gli Stati Uniti e buona parte del parlamento israeliano parteggiavano per la formazione terroristica di Hamas.

Poi venne il 7 ottobre 2023, quando Ḥamās lanciò il più grande attacco terroristico in territorio israeliano dai tempi della guerra arabo-israeliana del 1948, uccidendo circa 1.200 persone e prendendone in ostaggio circa 250. Un macello, una carneficina, una falla nel sistema di difesa israeliano, considerato il più efficace e sofisticato del mondo.

Da quel giorno sono passati circa sessantamila morti, di cui diciottomila bambini, decine di migliaia di corpi ancora sotto le macerie; alla macabra contabilità mancano i morti per fame, malattia, mancata cura, circa due milioni di persone in preda a fame, carestia e malattia. Dall’ottobre del 2023 sono state sganciate su Gaza ottantacinquemila tonnellate di bombe, rendendo la striscia “un territorio non adatto alla vita umana” come da dichiarazione ONU del 2025. A breve inizierà l’operazione di terra per spianare definitivamente quella terra fino al mare Mediterraneo.

Il governo nazista (non conosco un altro termine per definire chi perpetra la pulizia etnica in maniera sistematica e scientifica) di Israele, in molti suoi elementi ritiene non esista un palestinese innocente, che sia uomo, donna o bambino. Quindi l’estinzione di un popolo è l’obiettivo dichiarato. Esistono voci di dissenso in Israele? Sicuramente sì, ma sono poche e insufficienti, le manifestazioni contro Netanyahu sono per la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas, non contro il genocidio della popolazione di Gaza.

E le altre guerre? Ucraina, Africa, il Mondo intero? Sono una aberrazione della malvagità umana, non degna di respirare l’aria di questo pianeta, ma a Gaza non c’è una guerra, c’è un tiro al bersaglio. Bombe, fucili di precisione sui bambini, giornalisti e indigeni affamati sono lo sport dilagante tra le fila dell’esercito “più umanitario del mondo”. Persone considerate meno di animali, annientate come esseri infestanti: così si classifica un popolo da parte degli invasori. Non è abbastanza? Ma Israele è una democrazia … ricordo che nel ’20 e nel ’30 furono votati pure Mussolini e Hitler. Il Sud Africa dell’apartheid era democratico? Quali sono le differenze con l’Israele di oggi? Credo che il democraticissimo occidente faccia troppi sconti ad uno stato guerrafondaio per definizione, dove viene confuso il diritto alla difesa con l’annientamento etnico di un altro popolo.

Ausmerzen (sradicare, estirpare): pure questa l’ho già sentita da qualche parte. Davvero nel ventunesimo secolo esistono vite non degne di essere vissute?

Photo cover tratta dal sito euromedmonitor.org

Viaggiare in bicicletta per spostare il limite della malattia

Bicicletta e artrite, alleate in un viaggio di ascolto e di incontri

A Mocaiana, diversi ragazzi della scuola media sono esperti ciclisti e sanno indicare con precisione le strade migliori e più sicure.

Superato il cartello stradale: Casa del Diavolo, si trova subito la chiesa sulla dx.

In provincia di Perugia c’è una frazione dal nome: Ramazzano le Pulci, l’importanza di un accento.

Scheggino con le sue scale labirintiche, sembra uscito fuori dai quadri di Escher.

Piazza del Campo, Siena
Pieve di Romena (AR)
Valico Croce ai Mori (AR)

Il Passo del Lume Spento, racconta di quando in tempi antichi le lampade delle carrozze si spegnevano in questo luogo ventoso, in tempi moderni dà il nome ad un Brunello di Montalcino.

A Faenza le maniglie delle porte d’ingresso di farmacie e parafarmacie sono a forma di serpente.

In 80 giorni di viaggio in cui avrei potuto fare il Giro del Mondo e invece ho deciso di andare a zonzo per l’Italia Centrale, di cose ne ho viste, sentite, gustate.

Gli obiettivi del mio girovagare erano migliorare la mia convivenza quotidiana con l’artrite reumatoide, far conoscere le patologie reumatiche, studiare e promuovere servizi di turismo accessibile.

Ritorno a casa con 1873 km pedalati sulle gambe, dislivello in salita 16.120 m slm, 15.720 in discesa e soprattutto, una marea di incontri con persone e luoghi.

La sensazione, formidabile, che trattengo da questo viaggio è l’aver provato una forza fisica e di benessere che non sentivo da prima di ammalarmi di artrite reumatoide. La percepisco quando pedalo per più di 50km al giorno e/o affronto dislivelli impegnativi dai 700-800 metri in su, meglio 1000 a dirla tutta. Per raggiungere questo stato di benessere c’è voluto un mese intenso di pedalate, come se il mio corpo dovesse abituarsi a questa vita nomade, fatta di notti in tenda, esposizione a sole, pioggia, vento, umidità e caldo atroce.

Ci sono state le giornate no e le notti insonni dove i dolori dell’artrite sono ritornati, un déjà vu che in viaggio assume ancora di più l’aspetto di sfida. Ed allora mi fermavo 2,3 giorni, e poi ripartivo anche se dolorante ma con il minimo sindacale per poter guidare in sicurezza una bicicletta carica. I chilometri macinati, la bellezza del paesaggio, le novità che incontravo facevano il resto, antinfiammatori naturali che il mio corpo assimilava e produceva, aggiungendo giorni di viaggio al viaggio.

Tutta questa esperienza si traduce in itinere in narrazione e divulgazione, persone e associazioni che mi permettono di raccontare il mio viaggio e la mia trasformazione, che accolgono la mia bici Bianchina e la mia persona con delicatezza e curiosità, si aprono al mondo ancora poco conosciuto delle patologie reumatiche e soprattutto, dono enorme, condividono con me storie personali di malattia e sofferenza. A loro sono infinitamente grata per tanta fiducia.

Sono convinta sempre più dell’esigenza di creare uno spazio/tempo dove condividere la propria fragilità, anche con sconosciuti, che alle volte è più semplice e forse ci fa sentire meno soli. Così come poter parlare di viaggio, di un tempo per partire, lasciare andare e aprirsi all’inaspettato, ognuno spinto dalla propria motivazione.

Per me viaggiare significa anche ricercare conferma nella frase di cinematografica memoria: “ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”, non sono una sprovveduta ma in un tempo dove violenza e guerra sembrano farla da padrone, io riscopro la mia bolla di potere, il mio posto in questo mondo, pedalo, in pace, soprattutto con me stessa. Pensavo di non poter più fare lunghi tragitti in bicicletta, mi sbagliavo! Ho spostato il limite, che una patologia cronica comunque mette, un po’ più in là. Ho visto fare lo stesso ai servizi sociali e di turismo accessibile conosciuti lungo il viaggio per garantire la vacanza a tutti.

La bicicletta è un magnifico strumento per andare, incontrare, conoscere e trasformare  mente e corpo. così come dolore e malattia possono essere preziosi alleati per ascoltare e toccare, capaci di far emergere anche i più intimi bisogni e desideri, sia i propri che quelli altrui.

Grazie mille a chi ha viaggiato con me, anche da casa, in questi mesi.
“Fermati quando devi, riparti quando puoi” troverà nuove strade e altre occasioni per continuare a perseguire i suoi obiettivi, teniamoci in contatto.

La Bianchina al Castello Estense di Ferrara

Cover: Dante e castello di Poppi (AR).
Tutte le foto sono di Chiara Buiarelli

Per leggere le altre tappe del viaggio di Chiara Buiarelli, clicca sul nome dell’autrice

Percorsi partecipati senza arroganza

Percorsi partecipati senza arroganza

Esistono moltissimi miti che parlano di alberi tanto che, ancora oggi, assistiamo a veri e propri riti ancestrali che si sviluppano intorno ad essi: nei riti arborei che si svolgono nel sud dell’Italia, tra Lucania e Calabria, si chiede scusa al bosco per l’abbattimento di un solo albero che parteciperà alla cerimonia come “re del maggio”. (https://www.repubblica.it/native/viaggi/2019/06/04/news/tra_terra_e_cielo_le_nozze_degli_alberi-227855511/).

Il rito è, nella fattispecie, un vero e proprio… percorso partecipato delle due comunità quella umana e quella arborea!

Come nei miti antichi, anche in questi riti gli alberi costituiscono un medium per raggiungere un’altra dimensione che alcuni definiscono convintamente, divina, altri semplicemente metafisica e che, più in generale, potremmo chiamare con una certa neutralità, invisibile.

Tanto per essere chiari c’è ancora una umanità e molti individui della specie umana che, adottando le parole di Cristina Campo, “…credono pochissimo al visibile, credono molto all’invisibile ed è forse la cosa che interessa loro di più…”.

Alcuni di questi miti come quello di Fetonte ricordato nel recente libro di Maurizio Bettini, Arrogante umanità (Einaudi, 2025), ci obbligano a una riflessione moderna sul nostro rapporto con l’ambiente: Fetonte, che va oltre la sua condizione di mortale arrogandosi il diritto di guidare il carro di suo padre Sole, è l’emblema della tracotanza umana.

Ma c’è un altro mito, che lega ancora meglio l’arroganza umana proprio agli alberi ed è il mito di Erisittone, raccontato per primo da Callimaco e ripreso come al solito da Ovidio nelle sue Metamorfosi.

Nella sacra Dotio sorgeva un bosco bello così fitto di alberi tanto che nemmeno una freccia sarebbe riuscita a trapassarlo. Vi erano pini, pioppi, peri e cotogni e pertanto l’acqua che sprizzava dai canali somigliava piuttosto a un’ambra preziosa e splendente.

Per questo la dea Demetra amava molto quel bosco e in particolare era legata a un antico pioppo la cui cima sembrava sfiorare il cielo. Un giorno però Erisittone, il signore del luogo, decise di eliminare il bosco sacro a Demetra  e con i suoi 20 servi si mise ad abbattere gli alberi cominciando proprio dal vecchio pioppo.

Demetra udì il canto di dolore del suo amato albero e, assunte le sembianze della sacerdotessa Nicippa, cercò di convincere Erisittone a fermarsi per non sdegnare la dea Demetra.

Ma Erisittone, in modo brusco e arrogante, le rispose: «Fatti indietro, che io non pianti la scure addosso a te, perché con questi legni io coprirò la dimora in cui offrirò banchetti, allegri e abbondanti, per i miei amici».

A questa risposta arrogante e irrispettosa Demetra, abbandonate le sembianze della sacerdotessa, si palesò in tutta la sua grandezza con la testa che toccava l’Olimpo e, mentre i servi fuggivano terrorizzati, rivolse a Erisittone  le seguenti parole: «Costruisci pure la tua dimora dove, cane cane, darai i tuoi banchetti che sempre più frequenti saranno in futuro». E subito scagliò su di lui la maledizione di una fame insaziabile.

Questa fame spinse l’empio Erisittone a mangiare qualunque cosa: ogni animale, il cavallo da corsa e persino la giovenca sacra alla dea Estia ma, come accade nei gorghi del mare, «invano e senza piacere, scendeva giù ogni cibo» senza saziare mai la sua voracità. Fino a quando il suo corpo si disciolse come una figura di cera.

Tagliare gli alberi, ci dice questo mito, è considerato un sacrilegio punito dagli dei e questa punizione è tanto più terribile quando il taglio viene effettuato per… puro edonismo o profitto e soprattutto quando tendiamo a sottovalutare quella speciale continuità che esiste tra la comunità arborea e quella umana.

È di questi giorni la protesta di alcuni residenti e ambientalisti per i tagli di alberi operati sulle rive del Volano, in concomitanza dei lavori del nuovo ponte e isola ecologica, previsti dal progetto Idrovia Ferrarese della regione Emilia Romagna

Anche questi sono tagli selvaggi che rispondono all’ ”esigenza” di far passare navi di classe europea sul Po di Volano e che però sacrificano quella pacifica convivenza tra comunità vegetale e umana. I tagli dovrebbero proseguire anche a dispetto della tutela in ambito Unesco del patrimonio fluviale e paesaggistico di questa zona.

Certo l’Unesco non è la dea Demetra e però al momento, grazie alla protesta della “comunità umana”, alcune piante si sono salvate e tra questa una bellissima e antica quercia.

Probabilmente non si tratterà di una quercia sacra. Ma non ne sarei così sicuro perché, ripetiamo con la Poetessa, c’è ancora una umanità e molti individui della specie umana che, nonostante tutto,  “… credono molto all’invisibile”.

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Il diritto di uccidere gli innocenti come formula matematica

Il diritto di uccidere gli innocenti come formula matematica

“La reazione israeliana è andata oltre il principio di proporzionalità”.

Queste le parole pronunciate dalla Presidente del Consiglio di fronte alla platea del Meeting di CL, a Rimini.

E così abbiamo scoperto l’esistenza di un “principio di proporzionalità”. In cosa dovrebbe consistere questo principio? E’ un concetto che può avere un senso, ed è anche in qualche misura codificato, quando ci sono due eserciti che si fronteggiano e che dovrebbero rispettare una sorta di “etica della guerra”, che prima di tutto dovrebbe prevedere la salvaguardia della popolazione civile. Ma quella che Israele sta facendo a Gaza non è un’azione di guerra; è una brutale vendetta, lo sterminio indiscriminato di persone innocenti. Uccidere anziani, donne e bambini va bene; è solo un problema di numeri.
Dobbiamo supporre che per Giorgia Meloni esista un diritto alla vendetta, che può essere considerata accettabile a patto di rispettare un criterio proporzionale. Una sorta di formula matematica della rappresaglia. E quale dovrebbe essere la proporzione giusta per quantificare un numero di uccisioni tale da rientrare nel “principio di proporzionalità”? Un Palestinese per ogni Israeliano ucciso? Oppure 2? O 5? O magari 10?

Immaginiamo – per assurdo – che Netanyahu, all’indomani degli attentati del 7 ottobre 2023, avesse annunciato, a titolo di rappresaglia per la morte di circa 1.200 persone, l’intenzione di uccidere 12.000 Palestinesi. In questo modo avrebbe rispettato il principio di proporzionalità? E cosa avrebbero fatto i governi europei? Avrebbero apprezzato la moderazione israeliana? Consideriamo che nella realtà le vittime della reazione israeliana sono almeno 5 volte tanto, ed è sicuramente una stima approssimata per difetto. Quindi questa sarebbe stata considerata una reazione legittima?

Non a caso nell’esempio ho scelto il rapporto di 1 a 10. Perché è lo stesso rapporto della rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine: 33 morti tedeschi, 335 morti italiani (nel dubbio ne uccisero qualcuno in più). Da sempre l’episodio simbolo del conflitto in Italia, il crimine di guerra preso ad esempio della crudeltà umana, ricordato ogni anno dal Capo dello Stato, che paradossalmente le parole di Giorgia Meloni potrebbero sdoganare: vendicarsi è giusto, tutto sta a decidere quale sia la proporzione corretta.

Deve esserci una differenza tra uno Stato di Diritto e un’organizzazione terroristica. Lo Stato non deve mai rinunciare ai suoi principi, ai suoi valori, perché se lo fa cessa di essere ciò che è, e diventa a sua volta terrorista. “Ma di fronte al terrorismo bisogna reagire con le stesse armi”. In realtà è proprio nei momenti di crisi che si misura la solidità dei principi che stanno alla base di una comunità. E’ troppo facile atteggiarsi a “civiltà superiore” quando tutto va bene.

In più, la storia ci ha insegnato che combattere il terrorismo con le armi non è solo inutile: è controproducente. E questo per un motivo pratico: l’enorme disparità tra gli obiettivi. Lo scopo del terrorismo è il terrore, far vivere la popolazione nella paura. E per farlo è sufficiente un attentato ogni tanto, quanto basta per tenere viva la preoccupazione. Finché mostra di continuare ad esistere, per quanto decimata, un’organizzazione terroristica esce vincente da un’ipotetica “guerra al terrore”.

Invece uno stato che volesse combattere il terrorismo con le armi avrebbe una sola possibilità di vittoria: eliminare fino all’ultimo potenziale attentatore. Se ne sopravvive anche uno solo, e riesce a dare segni della sua presenza, quello stato ha perso. E i bombardamenti, che sicuramente causano anche la morte di qualche assassino fra i tanti innocenti, alimentano il terrorismo: chi ha visto distrutto la sua casa, sterminato la sua famiglia, azzerato qualsiasi aspettativa di vita, crescerà nell’odio e nel desiderio di vendetta.  Detto così sembra un discorso velleitario, eppure il nostro Paese è la prova che una nazione può sconfiggere il terrorismo senza snaturarsi: è quanto seppe fare l’Italia con le Brigate Rosse.

Il prossimo 18 settembre ricorre l’anniversario dell’eccidio di Sabra e Shatila avvenuto nel 1982 (leggi qui) in cui migliaia di Palestinesi inermi furono trucidati con il benestare dell’esercito israeliano: questo tanto per ricordare che il conflitto in essere in quella martoriata terra non è partito il 7 ottobre 2023. Se volessimo seguire il ragionamento della Meloni, che ritengo inaccettabile, potremmo paradossalmente arrivare a sostenere che gli attentati di Hamas seguissero il “principio di proporzionalità”.

La questione palestinese è controversa, e alimenta sicuramente opinioni contrastanti. Ma su un fatto ci sono pochi dubbi: le parole della Meloni sono tra le più orribili mai pronunciate da un Presidente del Consiglio nel dopoguerra. Ed evidenziano una visione del mondo e del diritto internazionale che fa paura.

 

Cover photo: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sabra_Shatila_memory.jpg

Ferrara Film Corto Festival ‘Ambiente è Musica’ a Venezia 82

All’Italian Pavillon dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, il compositore Andrea Guerra ha presentato il Premio intitolato al padre Tonino Guerra, presieduto da Laura Delli Colli e rese note le date della VI edizione di Luoghi dell’Anima Film Festival (LAFF), sotto la direzione artistica di Steve Della Casa.

Andrea Guerra, presidente del Museo Centro Studi Tonino Guerra, ha anche introdotto la collaborazione, iniziata nel 2024, con il Ferrara Film Corto Festival ‘Ambiente è Musica’ (FFCF), che proseguirà nella prossima edizione del LAFF, che si terrà dal 10 al 14 dicembre fra Santarcangelo di Romagna, Pennabilli e Rimini. In tale occasione, il FFCF presenterà una selezione dei propri corti dell’edizione corrente.

Si tratta di uno dei primi gemellaggi con altri festival nazionali e internazionali di prestigio che il FFCF presenterà alla sua VIII edizione, che si terrà nel centro storico della città estense dal 22 al 25 ottobre 2025, alla presenza di vari direttori artistici e di personalità del cinema, fra le quali lo stesso Andrea Guerra.

Il Premio “Tonino Guerra” presentato a Venezia sarà consegnato, tra il 15 e il 17 novembre, al regista russo Aleksandr Sokurov, che ha collaborato con Tonino Guerra nel documentario Elegia moscovita del 1987, diretto dallo stesso Sokurov dove Guerra appare come intervistato. Sokurov è presente quest’anno a Venezia con il film Director’s Diary.

Aleksandr Sokurov e Andrea Guerra, cortesia storyfinders

Presente in sala, Sokurov ha ricordato l’amicizia fra i due artisti, oltre che l’importanza del taccuino e del diario nel lavoro di regia cinematografica, agganciandosi al lavoro di riscoperta e digitalizzazione dei diari di Tonino, in corso.

“Avevo la sensazione di essere suo parente”, ricorda Sokurov in sala, “la sua arte era viva per questo motivo. Oggi nel mio diario scriverò: ho toccato la mano di Tonino Guerra e ne scoprirò il senso in divenire”.

Un omaggio a un grande fra i grandi.

Foto in evidenza Eugenio Squarcia, Direttore Artistico FFCF e Andrea Guerra, presidente Museo Centro Studi Tonino Guerra

Hikikomori: gli ex Studenti chiusi in casa, che fare?

Hikikomori (dal termine giapponese “mi ritiro”), così si definiscono gli studenti che abbandonano la scuola e si chiudono in casa per almeno 6 mesi

E’ successo per la prima volta in Giappone che ha una scuola molto selettiva, come del resto è quella cinese, che deriva dai “mandarini”, la classe di funzionari che serviva l’imperatore (fino al 1912) e che per prima nella storia mondiale ha avviato il sistema del “merito” tramite durissime selezioni (pare che solo il 2% passasse gli “esami”).
In Europa sarà l’Inghilterra nel 1853 a introdurre il concorso pubblico per esami (Northcote-Trevelyan), erodendo i privilegi dell’aristocrazia o l’acquisto delle cariche con denaro (e corruzione), nonostante le accuse di introdurre nella libera patria metodi imperiali cinesi.

Giappone, Corea del Sud e Italia sono i tre paesi dove oggi la diffusone degli hikikomori è maggiore al mondo, anche se in Italia è difficile attribuirlo ad una scuola che selettiva non è e si va semplificando. Sono anche i paesi a maggior denatalità, con più figli unici.
E qui forse scopriamo una prima causa. Avere un’infanzia con pochi o nessun con cui confrontarsi e convivere può essere una prima causa, specie se i genitori (quando ci sono, in genere separati nel 50% dei casi) cercano di essere più amici che genitori.

Sempre più soli

Poi c’è la crescente solitudine. Il 73% dei giovani Z (nati tra il 1997 e 2010) si sente “solo”; era 65% per i nati 1981-1996 e 44% per i nati 1955-64.
Noi che siamo nati prima non sapevamo proprio cosa fosse la solitudine immersi in un mare di incontri e giochi, quando eravamo molto più poveri e si andava in parrocchia o nel cortile sotto casa. Luoghi che oggi non sono più frequentati perché nei cortili ci sono le auto e le parrocchie abbandonate.

Gli studenti dei paesi poveri, nonostante siano afflitti da povertà, fame e anche guerre (Indagine di Still I Rise nelle scuole che hanno realizzato in questi paesi) sono più felici e pieni di speranza dei nostri, nonostante tali condizioni.

Studi e associazioni che li seguono li stimano in Italia in 50-70mila nella prima fase (abbandono della socialità), ma c’è che dice siano almeno il doppio (concentrati alle superiori), a cui segue la fase due (abbandono della scuola) e la fase tre (chiusi in casa e senza rapporti coi genitori).

Nell’80% sono maschi adolescenti
e alcuni (detti incel) si radicalizzano contro le donne, diventano misogeni. Quasi tutti passano gran parte del tempo on line di notte (dormono di giorno) nelle loro “bolle” affascinati da piccoli gruppi radicali che hanno le stesse idee (un fenomeno, peraltro, anche degli adulti, che il nostro blog madrugada plurale contrasta).

Scuola ed ansia

Ma il fenomeno più in piccolo interessa moltissimi: studenti che si assentano da scuola per una, due, tre settimane per ansia, perché non volgono essere interrogati, fare brutta figura coi compagni o si rifiutano di essere interrogati. Le femmine subiscono il confronto con l’immagine stereotipa di avvenenti ragazze sui social e si vedono brutte. I maschi sono più inclini alla violenza fisica e al bullismo.

Come ha mostrato tra gli altri Jonathan Haidt (La generazione ansiosa) il fenomeno è in forte crescita ovunque dal 2008 con l’arrivo delle App sullo smartphone che ha favorito lo scrolling, la dipendenza dal digitale al punto che molti durante le poche pause a scuola si isolano per guardare il telefonino. E poi ne fanno un uso intensivo fino alle 4-5 ore al giorno (e anche di notte, quando non c’è il controllo parentale).

Da cui un movimento internazionale che ha portato molti paesi (anche l’Italia) a vietare lo smarphone in classe, a fare educazione digitale che si scontra però con le multinazionali che vogliono ragazzi dipendenti.

Smarphone e Intelligenza Artificiale

Il tema ha un impatto molto più ampio di quel che si crede, perché stiamo parlando dei cittadini della società futura. E’ in corso una lotta tra Cina (e Brics) e Stati Uniti per il dominio mondiale che passa sempre meno da guerre convenzionali ed avvien su altri terreni (competizione commerciale, controllo delle vie dii navigazione, delle terre rare e soprattutto dell’Intelligenza Artificiale). Innovazione formidabile sia per creare dipendenza, sia per potenziare capacità matematiche o di pensiero…dipenderà da come sarà usata.

Cina, Giappone, Sud Corea, Russia, India, USA pensano a scuole selettive, ma non credo sia una buona idea come mostra il modello della Finlandia che fa raggiungere a molti ottimi livelli. Ma, in tal caso, ci vogliono più soldi e idee, solo così la scuola può aiutare tutti a sapere di matematica-fisica, avere capacità pensanti e critiche, lavorare in équipe, individuare per tempo i talenti, personalizzare l’istruzione. Viceversa il modello sarà spendere sempre meno e avere poche università buone, selettive e costose (tipo Bocconi e le americane) in cui una élite governa e guadagna cifre stratosferiche nell’Intelligenza Artificiale e gli altri saranno neo schiavi con bassi salari in democrature o dittature (di fatto o di sostanza).

Che fare?

Innanzitutto bisognerebbe far capire ai politici che la spesa sull‘Istruzione è quella che ha migliori ritorni in termini di sviluppo, poi copiare dalle migliori scuole ed esperienze educative sia in Italia (e ci sono) che all’estero come la Finlandia che da 30 anni mostra le migliori performance nonostante le elementari inizino un anno dopo le nostre (a 7 anni, less is better), imporre regole sull’uso a scuola degli smartphone, educare gli studenti all’uso, ma soprattutto cambiare come si insegna a scuola e avviare un sostegno vero a quel 20-30% che rischia di abbandonare la scuola con una didattica personalizzata davvero efficace che non si limita a far crescere i DSA (semplificando gli studi) o mandare dallo psicologo i “renitenti”, ma proporre nuove attività a scuola (al pomeriggio) in piccoli gruppi (per favorire le relazioni) che siano insieme apprendenti e più attraenti delle App.

Un’offerta formativa di qualità come teatro, clown, laboratori manuali per costruire giochi di valore, viaggi dedicati e tutte quelle occasioni di apprendimento in contesti relazionali di piccoli o medi gruppi così necessarie agli adolescenti oggi privati dei luoghi antichi di socializzazione e che può fare solo la scuola, anche in collaborazione con altri enti o singoli esperti.

Che sono poi le cose che fanno già i genitori ricchi coi propri figli, ma che il 90% non può fare perché sono costose e poi è difficile farle fare in gruppi, cosa che la scuola potrebbe…se avesse i finanziamenti, che non ci sono. Oggi ci si limita a mandarli dal dottore (psicologo/a) e quando va bene uno su dieci e comunque individuare le cause non è come fare quelle attività socializzanti ed entusiasmanti che sormontano ostacoli e App.

Come cambiare la scuola (che è sarebbe l’ideale) l’abbiamo scritto in altri post più volte, ma siccome i partiti non sanno che fare (la destra non vuole spendere soldi anche se abbiano la spesa minore d’Europa, la sinistra non ha una idea se non aumentare i bassi stipendi dei docenti), allora si dà la colpa ai genitori (uno su due separati peraltro) o si chiedono più psicologi (pannicelli caldi) o che la scuola faccia un piano didattico personalizzato (e chi lo realizza senza soldi?), oppure di non bocciare (così si impara sempre meno), o che la famiglia lo ritiri e lo faccia studiare da privatista (con che soldi?), oppure fare gruppo come genitori con altri che hanno lo stesso problema (come se i genitori non lavorassero).
Siamo d’accordo nel passare dalla paura alla speranza, dallo scontro tra genitori e figli alla pazienza, ma senza soldi e idee le riforme non si fanno e così il vero messaggio è “genitori arrangiatevi, dobbiamo spendere per le armi nei prossimi anni”. E così si accentua il nostro declino, anche perchè con le armi i Brics non li batteremo mai più.

Cover: Hikikomori,  foto da Psicologia contemporanea

Per leggere gli altri articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Ultime notizie dal Medio Oriente

Ultime notizie dal Medio Oriente

Genocidio a Gaza

Israele non vuole che i palestinesi salvi dai suoi bombardamenti possano ricevere cure.
Colpire gli ospedali costringe la popolazione allo sfollamento “volontario” (come sostiene senza vergogna uno degli scudi mediatici del genocidio).
È la ragione perché Israele continua a violare le norme internazionali di guerra, che vietano di prendere di mira gli ospedali.
Ieri, per l’ennesima volta, è stato bombardato l’ospedale Shifà a Gaza città. Anche l’ospedale di Shuhadaa Al-Aqsa a Deir Balah ha ricevuto bombe e missili che hanno distrutto alcuni reparti e il deposito di medicine.

L’altra misura volta alla deportazione della popolazione di Gaza città è la demolizione dei ruderi, di palazzi già colpiti in bombardamenti precedenti, con cariche esplosive trasportate su Robot.

Sono 88 le persone civili uccise nella giornata di ieri, fino a mezzogiorno, ora dell’emissione del rapporto giornaliero del ministero della sanità. 421 le persone ferite.
Il totale delle vittime: 63.459 persone uccise e 160.256 ferite.

Il Direttore di Medical Relief, Dr. Muhammad Abu Afash: “C’è una crescente diffusione di virus sconosciuti a Gaza.
La diagnosi è insufficiente a causa della mancanza di test e attrezzature mediche.
I casi in arrivo spesso presentano febbre, mal di testa, dolori articolari e diarrea. Si sospettava che si trattasse di una variante del COVID-19, ma non ci sono conferme scientifiche. La malnutrizione causa immunodeficienza e una maggiore suscettibilità alle malattie. Il sistema sanitario palestinese è sotto attacco e soffre di una carenza di antidolorifici e farmaci, aggravando la crisi”.

Giornalisti nel mirino

La giornalista palestinese Islam Abed è stata uccisa in un bombardamento mirato.
L’appartamento di Abed è stato centrato da un missile lanciato da un drone.
Sono stati uccisi insieme a lei il marito ed i tre figli.
Il numero dei giornalisti uccisi a Gaza è salito a 247.

Le istituzioni giornalistiche devono agire e far sentire la loro voce, in sostegno all’onore della professione.

150 testate giornalistiche internazionali di 50 paesi, tra le quali Anbamed, hanno deciso oggi di listare a lutto la prima pagina, chiedendo la fine degli eccidi dei giornalisti palestinesi e l’ammissione di reporter internazionali nella Striscia.
A Milano un corteo davanti alla RAI per protestare contro il silenzio mediatico sull’assassinio dei giornalisti a Gaza.

Trumpiate

Il Washington Post scrive che sul tavolo di Trump c’è un piano per il giorno dopo di Gaza.
Il piano statunitense prevede il controllo della Striscia per un decennio, per trasformarla in un resort turistico e centro industriale High Tech.
Il piano in 38 pagine prevede che la popolazione, 2 milioni di persone, dovrà essere deportata fuori dalla Striscia “volontariamente” oppure trasferita in campi all’interno.
Un piano criminale che dà il fianco al genocidio in corso compiuto dall’esercito israeliano.

Cisgiordania

Cartina-colonizzazioni-in-Cisgiordania

A Khallat-Dhaba’, uno dei villaggi di Masafer Yatta, i coloni hanno aggredito una famiglia di agricoltori, causando ferite a marito e moglie, devastando la fattoria e rubando il fieno, trasportato su camion portati con loro apposta.
Un piano perfetto per la deportazione.
L’esercito di occupazione invece di arrestare gli aggressori, ha portato 3 persone del villaggio in commissariato.

Rastrellamenti continui dell’esercito nella provincia di Betlemme, con arresto di decine di attivisti in diversi villaggi.
Secondo l’agenzia Wafa, 32 palestinesi sono stati arrestati, ieri, in condizioni di detenzione amministrativa, senza accuse e senza processo.

Stamattina all’alba, l’esercito di occupazione ha assediato el-Khalil, chiudendo tutte le strade di ingresso e uscita dalla città.

Il governo israeliano ha discusso ieri le misure per l’annessione della Cisgiordania a Israele, e spiega che il passo diventa necessario, per rispondere al minacciato riconoscimento dello stato di Palestina da parte di alcuni paesi europei.
L’annessione è stata pianificata da tempo ed è nei fatti già realizzata.
Il passo è sostenuto dall’amministrazione Trump, ma non c’è ancora l’esplicito segnale verde: “Decidete cosa volete fare e poi vediamo”, avrebbe detto un diplomatico del dipartimento di stato USA a Netanyahu, secondo rivelazioni della stampa israeliana.
Dopo la riunione, il ministro fascista Smotrich ha dichiarato: “Abbiamo stracciato lo Stato di carta”.

Global Somoud Flotilla

Dopo mesi di lavoro di migliaia di volontari, sono partite ieri da Barcellona e Genova le navi della Global Somoud Flottiglia.
Momenti commuoventi che hanno segnato uno dei più alti livelli della solidarietà popolare con il popolo palestinese.
Il 4 settembre saranno raggiunte da altre decine di imbarcazioni e navi in partenza dai porti di Catania, Siracusa e Tunisi.
La vigilanza è alta contro atti di sabotaggi terroristici già in porto prima delle partenze, come avvenne a Catania nella precedente missione, Handala.
Obiettivo della missione è di forzare l’embargo criminale imposto da Israele alla Striscia che dura da 18 anni.

La notte prima della partenza davanti ad una folla di partecipanti, la sindaca di Genova, con la fascia tricolore, ha dato una lezione di “patriottismo” al governo dei falsi patrioti. “Garantite la salvezza della missione umanitaria!”.

Anche Napoli si è mobilitata per il sostegno alla Global Somoud Flotilla.
Migliaia di persone si sono radunate ieri mattina nei Giardini del Molosiglio, a pochi passi dal porto di Napoli, per partecipare a un presidio in sostegno della Global Somoud Flotilla per Gaza. L’iniziativa ha visto la presenza di attivisti di numerose sigle e associazioni che, in un clima dichiaratamente non violento, hanno inscenato simboliche partenze dal mare accompagnando il tutto con strumenti musicali.
Alcune imbarcazioni, adornate con drappi e scritte contro il genocidio, hanno preso il largo per poi rientrare dopo un breve giro, tra cori, canti e musica.
“Un gesto – spiegano gli organizzatori – per ribadire la vicinanza della città di Napoli alla popolazione della Striscia e per richiamare l’attenzione internazionale sul genocidio in corso”. Napoli

Solidarietà in Italia con la Palestina

In piccoli centri e grandi città, in tutta Italia, le mobilitazioni a fianco del popolo palestinese e contro il genocidio a Gaza sono diventate quotidiane.

Fiaccolate silenziose, marce chiassose con pentole e ogni altro strumento per fare rumore, flash-mob per sensibilizzare i passanti e molte altre forme di protesta per svegliare il governo delle destre dal suo lungo sonno.

Da Genova è salpata una prima imbarcazione con gli aiuti raccolti.
Da Catania e Siracusa il 4 settembre salperanno altre barche e navi per portare aiuti umanitari a Gaza.
Sono programmate una grande manifestazione il 3 pomeriggio e un raduno il 4 per salutare gli equipaggi.
Al porto di Genova nei giorni scorsi si è assistito ad una gara di solidarietà: migliaia di cittadini hanno portato aiuti in cibo e medicine, da caricare sulla nave della Global Somoud Flotilla. Sono state raccolte 250 tonnellate di cibo per Gaza.

Ogni giorno in piazza del Duomo di Milano, dal 16 giugno, si tiene un flash-mob silenzioso con lettura di poesie contro il genocidio compiuto da Israele a Gaza.

Cover:  Pro Palestine demonstrators hold a press conference in front of the red carpet to announce a demonstration on Saturday, Aug. 30 during the 82nd edition of the Venice Film Festival in Venice, Italy, on Wednesday, Aug. 27, 2025. (Photo by Alessandra Tarantino/Invision/AP)
Associated Press/LaPresse

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