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Gaza: se tolleri questo, la prossima volta toccherà ai tuoi figli

Gaza: se tolleri questo, la prossima volta toccherà ai tuoi figli

Benjamin Netanyahu (vero cognome Mileikowsky), attuale premier di Israele, nel 2015 ad un congresso sionista disse che Hitler voleva solo espellere gli ebrei, e che fu il mufti di Gerusalemme (massima autorità religiosa sunnita) a dargli l’idea di bruciarli, altrimenti sarebbero arrivati tutti in Palestina. Questo presunto suggerimento a Hitler è stato smentito da fior di storici ebrei, tra cui Yehuda Bauer (da poco scomparso), uno dei principali storici dell’Olocausto, professore a Gerusalemme, di origine cecoslovacca (lui non si cambiò il cognome, a differenza di Bibi), il quale afferma documenti alla mano che fu esattamente il contrario, e che la cosiddetta “soluzione finale” fu concepita dai nazisti prima dell’incontro tra il mufti – sicuramente un odiatore di ebrei –  e Hitler, datato novembre 1941. Questo non significa che Netanyahu sia un negazionista, ma dimostra un utilizzo della storia strumentale alla propria politica coloniale e di occupazione: gli arabi musulmani ci hanno sempre voluti eliminare, ergo noi dobbiamo eliminare loro.

Le origini di una occupazione

Che si tratti di una occupazione e di una colonizzazione non lo dico io. Lo affermano accademici di diritto internazionale. Ralph Wilde dello University College di Londra, alla Corte Internazionale di Giustizia ha rassegnato – per conto della Lega Araba: spero possa essere sdoganata adesso che ha “intimato” ad Hamas di cedere le armi – una articolata prolusione storico-giuridica (la puoi leggere qui) in cui afferma: che alla fine della prima guerra mondiale le persone di origine ebraica in Palestina erano circa l’11% della popolazione ivi residente; che il mandato coloniale britannico sulla Palestina, parte del trattato di Versailles (1919), risultante da una spartizione post bellica con lo sconfitto impero ottomano, prevedeva una autodeterminazione post coloniale della popolazione indigena, in larga maggioranza araba – quindi un unico Statonel 1948, in violazione di questo principio, venne votata dall’Assemblea delle Nazioni Unite l’istituzione dello Stato di Israele su base etnica per il 56% circa del territorio del mandato, e per il restante uno stato arabo soggetto ad una sorta di protettorato internazionale. Cito Ralph Wilde: “Nel 1948, quindi, la Palestina era giuridicamente un unico territorio con un’unica popolazione che godeva del diritto di autodeterminazione su base unitaria.

Ciononostante, nel 1948 fu proclamato uno Stato di Israele specificamente per il popolo ebraico…accompagnato dallo sfollamento forzato di un numero significativo di popolazione palestinese non ebraica, la catastrofe della Nakba. Questa secessione illegale è stata una grave violazione dell’autodeterminazione palestinese. Nonostante questa illegalità, la statualità di Israele è stata riconosciuta e Israele è stato ammesso come membro delle Nazioni Unite. Israele non è la continuazione o il successore legale del Mandato. Questa violazione dell’autodeterminazione palestinese è ancora in corso e irrisolta. Due sono gli elementi chiave: primo, i palestinesi non sfollati dalla terra proclamata di Israele nel ’48 e i loro discendenti sono stati costretti a vivere come cittadini (attualmente sono il 17,2%) di uno Stato concepito per e di un altro gruppo razziale, sotto il dominio di questo gruppo, necessariamente trattati come persone di seconda classe a causa della loro razza. In secondo luogo, i palestinesi sfollati da quella terra e i loro discendenti non possono tornare. Si tratta di gravi violazioni del diritto all’autodeterminazione, del divieto di discriminazione razziale e di apartheid e del diritto al ritorno.” In una intervista rintracciabile su youtube, Wilde, a proposito della reazione israeliana all’attentato del 7 ottobre 2023 ad opera di Hamas, afferma che l’attentato è un atto di autodifesa violenta contro uno Stato aggressore che occupa illegalmente (sempre più) territori dalla sua fondazione. La reazione contro chi si difende non può quindi essere giustificata legalmente come una autodifesa: “There’s no defence against defence”. Cosa desumere da questa ricostruzione?

Il diritto internazionale non esiste

Primo: il “diritto internazionale” è contemporaneamente la più nobile e la più vilipesa costruzione giuridica post bellica. Il diritto internazionale dovrebbe esistere, ma una parte consistente degli Stati lo tratta come quando si bestemmia in chiesa. Come chi bestemmia una divinità ne conferma in qualche modo la possibile esistenza, chi viola sistematicamente il diritto internazionale ne afferma l’esistenza facendone regolarmente strame. Per dirla con Wilde, “gli Stati Uniti, il Regno Unito e lo Zambia hanno suggerito che esiste un quadro giuridico applicabile sui generis: una lex specialis israelo-palestinese. Questa sostituisce in qualche modo le norme di diritto internazionale che determinano la legittimità dell’occupazione. …Questa è la legge come questi stati vorrebbero che fosse, non quella che è. Non ha alcuna base nella risoluzione 242, in Oslo o in altre risoluzioni o accordi. In realtà, si sta invitando a eliminare il funzionamento stesso di alcune delle regole perentorie fondamentali del diritto internazionale.” Immagino la frustrazione, per chi ha costruito la sua vita sulla passione e lo studio del diritto internazionale, di dover ammettere che queste norme non hanno reale effettività.

Secondo: tanto meno la vita reciproca delle nazioni è regolata dal diritto internazionale, tanto più siamo in un’epoca in cui vige la legge del più forte. Questo, ad appena ottant’anni da Hiroshima, è il desolante ed allarmante panorama delle relazioni tra Stati. Vuol dire che l’umanità, una volta toccato il fondo, può scavare per toccarne un altro.

Terzo: anche qualora si sposi appieno la teoria giuridica di Wilde, mettere in discussione l’esistenza dello Stato di Israele adesso equivale a cercare di rimettere il dentifricio nel tubetto una volta spremuto. Non ha senso nemmeno, ormai, riconoscere simbolicamente uno Stato di Palestina che non esiste né esisterà: quello che avrebbe un senso adesso sarebbe mettere in sicurezza e sfamare le persone, assisterle come profughi oppure garantire la loro casa e la loro terra contro ulteriori espansioni, soprattutto in Cisgiordania (mentre scrivo l’ipotesi del criminale governo in carica è quella di sgombrare Gaza dai gazawi, un milione circa di persone).

La possibilità di una coazione a ripetere collettiva

Mi ha molto colpito un articolo scritto dallo psichiatra Luciano Casolari (si può leggere qui), il quale, senza poterlo dimostrare secondo il rigore del metodo scientifico (cosa che lui stesso premette), evoca la suggestione della coazione a ripetere come ragione psicologica collettiva in reazione ad un trauma collettivo, così come Freud la studia e teorizza come reazione individuale ad un trauma individuale. Cito: “il fatto che coloro che hanno subito un tentativo di genocidio lo stiano riproponendo è veramente perturbante. In pratica l’aver subito la Shoah porterebbe un intero popolo a ricercare sicurezza, attraverso la ripetizione, su un altro gruppo etnico. I palestinesi a loro volta si sentono di aver subito la Nakba (catastrofe) con la deportazione dopo la guerra del 1948 e si affidano ai leader estremisti che predicano un analogo destino per i loro nemici. Se queste suggestioni, che ripeto non hanno alcuna validità scientifica, sono verosimili, emerge che il problema israelo-palestinese non è semplicemente una disputa territoriale ma un conflitto simbolico. In quanto tale non si può risolvere con delle frontiere ma solo con la rielaborazione dei traumi di entrambi i popoli. L’unica strategia valida, anche se utopica, che mi viene in mente sarebbe quella di costruire delle scuole in cui i bambini israeliani frequentino assieme ai bambini palestinesi.”

Gli eroi nelle tenebre

 

Immagine nel corpo dell’articolo tratta da https://www.settimananews.it/informazione-internazionale/14-maggio-1948-nasce-israele/

Photo cover https://www.senzatregua.it/2020/05/15/nakba-la-catastrofe-per-il-popolo-palestinese-che-ancora-oggi-grida-liberta/

Per leggere tutti gli articoli su Periscopio di Nicola Cavallini, clicca sul nome dell’ autore

Il “deserto bancario” che avanza: Altri 34 comuni restano senza filiale

Il “deserto bancario” avanza: altri 34 comuni restano senza filiale

Il “deserto bancario” avanza: calano gli organici, chiudono gli sportelli: altri 34 comuni restano senza filiale: sono il 43,2% del totale, con oltre 4,7 milioni di residenti. Friuli Venezia Giulia, Marche, Sicilia, Veneto e Basilicata sono le regioni più colpite. Con la rete di sportelli di Popolare di Sondrio, Bper si colloca al primo posto in Lombardia. Nei primi sei mesi del 2025 le banche italiane hanno chiuso 261 sportelli, un calo dell’1,3% rispetto alla fine del 2024. Il secondo trimestre ha segnato un’accelerazione rispetto al primo, quando le chiusure erano state 95. I tagli alla rete fisica non hanno investito in modo omogeneo le diverse aree del Paese. Le regioni più colpite sono state Friuli Venezia Giulia (- 2,3%), Marche (- 2,3%), Sicilia, Veneto e Basilicata (- 1,9%). È quanto emerge dall’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio sulla desertificazione bancaria della Fondazione Fiba di First Cisl, che elabora i dati resi disponibili al 30 giugno 2025 da Banca d’Italia e Istat.

Sulla rete fisica iniziano a manifestarsi gli effetti del risiko bancario: Bper, considerando anche la rete di sportelli di Banca Popolare di Sondrio, diventa la prima realtà in Lombardia (673 sportelli, pari al 17,9% del totale), davanti a Banco Bpm (523, 13,9%), Intesa Sanpaolo e Iccrea (entrambe a 501, 13,4%). Nella più ricca regione italiana circa il 58% delle filiali è ora in mano a quattro soli gruppi: un dato, quest’ultimo, destinato a non subire variazioni significative a causa delle prescrizioni Antitrust rivolte a Bper, alla quale è stata imposta la cessione di soli sei sportelli. Sul piano nazionale, Intesa Sanpaolo resta il primo gruppo per presenza sui territori, ma l’ulteriore calo di sportelli verificatosi nel primo semestre dell’anno (- 141 rispetto a fine 2024) fa sì che il distacco da Iccrea, che nello stesso periodo ha chiuso appena sei filiali, si sia ridotto al minimo (28). Il gruppo Bper, con l’acquisizione di Popolare di Sondrio, sale al quarto posto. Cassa Centrale Banca è al quinto posto, unico gruppo ad aver aperto 9 sportelli nel periodo considerato.

Con gli ultimi 34 comuni rimasti privi di filiali sul loro territorio il numero complessivo è salito a 3.415, pari al 43,2% del totale. Continua ad aumentare anche il numero delle persone che non hanno accesso ai servizi bancari o rischiano di perderlo: rispetto al 31 dicembre 2024 sono oltre 11,2 milioni. Di queste, più di 4,7 milioni (+ 1,8%) vivono in comuni totalmente desertificati; quasi 6,5 milioni (+ 3%) in comuni in via di desertificazione, quelli con un solo sportello. Risulta in crescita, inoltre, il numero delle imprese che hanno la propria sede in comuni desertificati: sono 6.116 in più rispetto al trimestre precedente.

Si confermano anche le dimensioni rilevanti dei centri colpiti dalla desertificazione: sono 13 i comuni sopra i 10mila abitanti privi di sportello, di cui uno ha più di 20mila abitanti (Trentola Ducenta, in provincia di Caserta). Per comprendere la reale portata del fenomeno i dati vanno letti in parallelo a quelli sulla diffusione dell’internet bankingancora modesta: in Italia lo utilizza solo il 55% degli utenti contro una media Ue del 67,2%. Da ciò si evince che la desertificazione bancaria rappresenta un acceleratore dell’esclusione sociale, soprattutto per le fasce anziane della popolazione, penalizzate dal minor livello di competenze digitali (tra i 65 e i 74 anni solo il 33,9% utilizza l’internet banking contro una media Ue del 44,7%).

L’Osservatorio sulla desertificazione bancaria della Fondazione Fiba di First Cisl elabora anche un indicatore (Ipd, Indicatore di desertificazione provinciale) che assegna ad ogni provincia italiana un punteggio sulla base della percentuale, calcolata sui rispettivi totali, del numero di comuni senza sportello o con uno sportello, della popolazione residente, delle imprese con sede legale in detti comuni e della relativa superficie.
La graduatoria che emerge vede a giugno 2025 tra le province meno desertificate la conferma di Barletta-Andria-Trani, Brindisi, Grosseto, Pisa, Ragusa, Ravenna, Reggio Emilia e l’ingresso di Ferrara, che ha beneficiato dell’apertura di una banca di credito cooperativo. Le grandi città si collocano in posizioni più arretrate: Milano è 22°, Roma 38°, Napoli 46°. Sugli ultimi gradini della classifica restano Vibo Valentia e Isernia.

Anche il 2025, sottolinea Riccardo Colombani, Segretario generale nazionale First Cisl, è segnato in profondità dalla desertificazione bancaria. La chiusura degli sportelli non si arresterà nemmeno nella seconda parte dell’anno, almeno considerando le chiusure preannunciate da Intesa Sanpaolo, impegnata a completare il progetto di banca digitale. Sul fronte del risiko, il fallimento dell’Ops lanciata da Unicredit su Banco Bpm, che in base alle prescrizioni dell’Antitrust avrebbe comportato le vendite di filiali a tutela della concorrenza, ha eliminato il rischio di chiusura, molto consistente al Sud, soprattutto in Molise e Sicilia, nella realistica eventualità di mancanza di acquirenti”.

Qui il XIII Report di Fondazione Fiba di First Cisl sulla desertificazione bancaria

In copertina: sportello bancario – da Collettiva

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Per una critica radicale alla perfezione del corpo e alla chirurgia estetica

Il corpo è sempre stato un terreno di scontro, segnato dall’antica visione della paura e del sospetto nei suoi confronti in quanto origine di seduzione, desiderio, sregolatezza, terreno di perdizione, mozione delle pulsioni, sessualità, sensualità carnale, sessualizzazione, qualcosa di incontrollabile, origine di peccato e quindi oggetto di penitenza. “Controllerai i ventri e controllerai le genti” è il motto all’origine di quello che hanno attuato i regimi autoritari e che viviamo anche noi oggi in Occidente tanto con le retoriche allucinanti del natalismo, del familismo, del parto di Stato, degli imbarazzanti Fertility Day quanto sui temi etici riguardanti l’aborto legale, il suicidio assistito e l’eutanasia.

La cristianità, ovvero la cultura sorta intorno al cristianesimo, ha tramandato un’idea rigida del corpo, come una “prigione della nostra anima”, un “sacco di sterco” come lo ha definito Teresa D’Avila, un mero “involucro” da abbandonare quando diventerà inservibile. Questo è stato il pensiero dualistico e gerarchico occidentale, tramandato anche dalla teologia tradizionale cristiana, che differisce totalmente dal cuore del cristianesimo (e dalla mistica cristiana) che si presenta – nonostante tutto – come l’unica, tra le religioni abramitiche, a dare una grande importanza alla corporeità: “Il Verbo si fece carne” si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1:14).

Il cristianesimo onora il corpo come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiungerebbe mai la sua pienezza. Come ci ricorda la teologa femminista Teresa Forcades: “Tommaso d’Aquino ha affermato che non possiamo essere “persone” senza il corpo. La sola anima non costituisce una persona. L’amore tra esseri umani non può esistere senza il corpo, perché l’essere umano non può esistere senza di esso. C’è un corpo terreno e un corpo celeste, un corpo fisico e un corpo spirituale. Ma rimane sempre il bisogno di avere un corpo come principio che personalizza la nostra identità.” – ed aggiungo io, la nostra unicità, la nostra diversità.

Il cristianesimo parla dell’incarnazione di Gesù Cristo e di “resurrezione della carne” nello stesso modo in cui ha posto fine a qualunque iconoclastia, facendo fiorire l’incommensurabile arte nei suoi luoghi di culto fatta di statue carnali, corpi formosi, affreschi di angeli nudi, quadri di corpi nudi eleganti vestiti solo di veli, per non parlare dei corpi straziati e martoriati come San Sebastiano Martire sanguinante attraversato da frecce e Santa Giulia legata ad un palo mentre una forca le raspa il seno. L’arte cristiana, pur essendo in balia contrastante tra la teologia rigorista e il messaggio cristiano, ha esaltato il corpo sia nella sua bellezza sia nella sua crudezza.

Nonostante ciò, la visione patriarcale è quella che ha continuato a vigere nella cristianità come nel capitalismo dei consumi di oggi dove utilitarismo, efficientismo ed apparenza vanno di pari passo con una cultura della competizione, della prestazione, della mercificazione e dello scarto.

Come direbbe Papa Francesco, la cultura dello scarto” è una “cultura della morte”. Ciò che non serve viene scartato, a meno che lo “scartato” si adegui/rispetti/rispecchi precisi canoni e può quindi tornare utile.

Nella visione contemporanea, il corpo è ridotto a merce, oggetto di desiderio, desiderabile e commercializzabile, utilizzabile e usufruibile, discriminato e controllato. Il corpo deve essere prestante secondo precisi canoni/convenzioni di bellezza: esaltato quando “giovane”, scartato quando “vecchio” e recuperabile quando può ancora essere funzionale all’industria dell’immagine, a costo di essere medicalizzato e ritoccato.

Nel 2023 è uscito il film Barbie (Qui l’articolo su Periscopio di Catina Balotta) con protagonista Margot Robbie. Un “film in rosa” che ha incassato cifre astronomiche cercando di “combattere i pregiudizi sulle donne”, venendo addirittura definito assurdamente “femminista” e rivolto all’empowerment femminile. Nulla di più falso e intriso di purplewashing.

Come ha dichiarato giustamente la comica Valentina Persia“Barbie è un fake, un’illusione ottica, una menzogna. La prima che ha fatto bodyshaming a tutte noi, facendoci sentire inadeguate, grasse, povere e poco bionde…. Tutta apparenza e ostentazione, ma guadagnati come?  Chiedetelo a Ken che nel frattempo è sparito perché la signorina in questione gli ha fottuto tutto per fare la bella vita…” – afferma Persia sollevando una polemica.

“Fate una bambola più vicina alle donne vere, quelle che si fanno il mazzo tutto il giorno, quelle donne che sorridono nonostante le chiappe e le tette cadenti, quelle donne che sanno essere donne nonostante siano nate in un corpo maschile, quelle donne che scappano spesso proprio da quel Ken che a differenza tua, invece di donare ville, roulotte o macchine rosa, picchia e picchia forte… Spostati biondina che siamo un esercito!” – concludeva la Persia.

Interessante che a dire queste parole di estrema verità sia stata proprio la Persia che, non accettandosi fisicamente per come era, ha fatto ricorso alla chirurgia estetica.

Il rincorrere le aspettative di questi canoni, nella nostra società attuale, ha preso di mira tutti, uomini e donne. Se Barbie ha fatto danni, ora è Ken a infliggere l’ennesima ansia da prestazione: sempre più ragazzi sono ossessionati dal mito del corpo palestrato, dalla pesistica, dal cross-fit, dal mito del virilismo, dal corpo apparentemente forte e muscoloso, ma in realtà reso tale solo dal gonfiore dato dalla ritenzione di liquidi e dall’assunzione spropositata di creatina in barba a qualunque attenzione per la propria salute.

Anche se questo è un fenomeno in drastico aumento tra gli uomini, ad essere presi di mira sono la vecchiaia e il corpo delle donne attraverso la tossicità di tre strumenti: il photoshop, che ritocca o altera un’immagine di una persona espropriandola delle sue caratteristiche reali; l’intelligenza artificiale, vittima di bias cognitivi legati agli stessi stereotipi ageisti e di genere, oltre che alle norme/convenzioni e canoni di bellezza di cui noi stessi siamo vittima; e la chirurgia estetica, che alimenta un’industria dell’apparenza sulla pelle di migliaia di ragazze, adulte ed anziane, medicalizzandone e colonizzandone il corpo con sostanze chimiche e protesi artificiali per rincorrere canoni desiderabili e irraggiungibili su modello pubblicitario, ma funzionali alla norma vigente.

Il grande psicanalista e filosofo argentino Miguel Benasayag, in Funzionare o esistere?, parla del concetto di plasticità: il vivente deve trasformarsi in un senza-forma iperplastico che si lascia plasmare, contro ogni forma di pensiero complesso.

Nella “cultura dello scarto” gli anziani sono considerati “vecchi”, fuori dal ciclo produttivo, di sviluppo e di consumo e – per questo motivo – “inutili”, “senza funzione”, ovvero che non possono più funzionare.

Lo stesso subiscono le donne a causa delle gravi ed ataviche connotazioni di genere dei canoni di bellezza, stratificati nella nostra cultura e funzionali al desiderio maschile: fino a quando sono giovani, belle, formose, fertili vengono considerate prestanti e utili; ma quando l’età avanza, arrivano la menopausa e le rughe, il corpo subisce degli sbalzi ormonali, ecco che la donna viene considerata non funzionale ad un sistema che – nutrendosi di maschilismo interiorizzato – rincorre il desiderio maschile.

In una società consumistica, come la nostra, che ti obbliga ad inseguire questo flusso senza fine, le persone si sentono spinte ad inseguire il mito dell’eterna giovinezza, per essere utili, e dell’eterna bellezza, per essere prestanti e desiderabili.

È la desacralizzazione dei corpi, come la chiamava Gandhi: il proprio corpo non è più un’entità che unisce spirito e fisico, un mezzo per esprimere i propri principi e per influenzare gli altri, o uno strumento di lotta politica e di resistenza, ma bensì un’immagine tra le altre che spesso viene trasformata plasticamente per compiacere qualcosa di esterno, in funzione degli altri, per trovare una falsa accettazione di Sé nella tendenza perversa di questa società post-moderna o ipermoderna.

Nel marzo 2025, parlando del suo libro Il corpo gioia di Dio (Gabrielli editori) , in una interessantissima intervista di Ritanna Armeni per L’Osservatore Romano contenuta nell’ inserto Donne Chiesa Mondo, Teresa Forcades affermava:

“Nella nostra cultura tardo capitalistica esiste lo sfruttamento e la mercificazione del corpo. Ragazze sempre più giovani (e anche ragazzi) vengono sessualizzati e sottoposti a standard di bellezza irrealistici e in costante mutamento. 

L’età di chi si ammala di anoressia si è abbassata e la percentuale dei casi è aumentata. La chirurgia estetica è diventata comune e viene applicata alle parti più intime del corpo. C’è tanto da criticare nella nostra cultura per quanto riguarda il modo in cui tratta il corpo. (…)

È l’ineludibile e irrisolvibile contraddizione del patriarcato: le donne sono viste come oggetto di desiderio (sono pure, ispirano, curano, guariscono) e al tempo stesso come inferiori (son malvage, bisognose di guida e di controllo, inaffidabili). È impossibile essere entrambe le cose. Il corpo delle donne deve essere “perfetto” secondo standard di bellezza sempre più irrealistici e deve essere controllato attraverso la violenza psicologica e fisica.”

Spesso, attraverso i canoni di bellezza imposti dal mercato, dalla pubblicità e dalle illusorie manie di perfezione, assistiamo a una prepotente medicalizzazione dei corpi attraverso i più vari rami della chirurgia estetica che, in quanto frutto dei canoni propri delle società patriarcali, si trovano ad avere una forte connotazione di genere che vede nelle donne il bersaglio principale, il consumatore da conquistare fino ad arrivare a interventi chirurgici come la labioplastica, l’intervento di chirurgia estetica che consiste nel taglio delle piccole labbra della vulva per renderle uguali. È così che la medicalizzazione del corpo femminile diventa il braccio armato del nuovo capitalismo cognitivo fondato su omologazione, perfezione, competizione per l’immagine e il conformismo.

Questa mentalità maniacale per la perfezione sta mettendo in serio pericolo anni e anni di conquiste femministe, oltre che la cultura della cura e dell’allattamento nelle giovani ragazze e madri. Purtroppo oggi, l’esterofilia americana dei “corpi perfetti” ha fatto dell’allattamento non più una conquista in nome dei diritti delle donne, dei bambini e della salute di entrambi, ma un qualcosa di “obsoleto”, sostituibile con le nuove tecnologie e con i latti artificiali.

Negli USA il seno è oggetto primariamente sessuale, a causa dell’uso distorto e sessualizzato che ne fanno l’industria cinematografica, l’industria pornografica e la pubblicità televisiva, intrise di eterosessismo.
Spesso ciò porta le donne a non ricorrere all’allattamento naturale proprio per rincorrere i canoni di bellezza introiettati dalla società patriarcale, secondo cui i loro corpi devono essere belli, perfetti, proporzionati ma soprattutto sessualizzati come nelle sfilate di moda e nella pubblicità.

L’arrivo di un bambino e delle sue necessità vengono visti come un fenomeno di degradazione del seno: visione influenzata anche dall’atteggiamento dei partner, che disincentivano le donne all’allattamento per motivi puramente estetici. La donna che allatta deve negoziare continuamente fra un ruolo sessuale e un ruolo materno, generando tensione, stress, difficoltà e ostacolo all’allattamento. Questo, a lungo andare porta culturalmente all’abbandono dell’allattamento, alla perdita della cultura della cura e a trovare la soluzione più semplice: il ricorso ai latti artificiali che fanno gola all’industria.

Sicuramente la televisione, la pubblicità, l’industria cinematografica, il capitalismo cognitivo[1] hanno influito molto – dagli anni del riflusso in poi – a consolidare questi canoni tossici e un ricorso sempre più massivo alla chirurgia estetica.

Attrici di successo, donne dello spettacolo, cantanti, showgirl, modelle, pornostar, ballerine, veline sono state rispettivamente – su modello di Hollywood – le prime a ricorrere alla chirurgia estetica con modificazioni sostanziali del viso, degli zigomi, delle labbra, delle gambe, dei glutei, del seno anche con mastoplastica additiva, dando inizio ad un effetto domino che oggi sembra inarrestabile soprattutto tra le giovani generazioni di ragazze.

Ed ecco la dilagante moda della liposuzione per non parlare del filler in bellissime ragazze giovanissime, delle “labbra a canotto”, del botox, dei precocissimi “nasi da fata” in adolescenti e della ormai decennale guerra alle rughe inaugurata con botulino, acido ialuronico e lifting. Un’epidemia di non-accettazione e alienazione tra le donne, che non riescono ad essere loro stesse a causa delle forti pressioni delle convenzioni sociali, di mercato, e dei canoni tossici di bellezza.

«Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Le ho pagate tutte care. C’ho messo una vita a farmele!» –  è la celebre frase che la grande attrice Anna Magnani disse al suo truccatore parecchi anni fa, quasi ad ironizzare sulla moda dilagante di fermare il tempo, partendo dal trucco fino ad arrivare a ritocchini o interventi chirurgici.

Il concetto di bellezza è associato, nell’immaginario comune, alla giovane età e a una pelle liscia, elastica e luminosa, ma anche il viso di una persona matura esprime bellezza disarmante: la pelle e le rughe sanno raccontare la nostra storia e la nostra evoluzione, che passa attraverso esperienze diverse, disagi, gioie, dolori, lotte quotidiane e successi. Credo che nessuno possa smentire il fascino della cicatrice sul viso di Paola Turci. Come non definire tutto questo, bellezza?

Anna Magnani più di mezzo secolo fa parlava di bodypositive,quando ancora nessuno ne conosceva il significato. Un’estetica, la sua, basata sulla trasformazione dell’unicità in punto di forza, meravigliosamente descritta dalle sue stesse parole:

«Ce metti una vita intera per piacerti, e poi, arrivi alla fine e te rendi conto che te piaci. Che te piaci perché sei tu, e perché per piacerti c’hai messo na vita intera: la tua. Ce metti una vita intera per accorgerti che a chi dovevi piacè, sei piaciuta… E a chi no, mejo così. Ce metti na vita per contà i difetti e riderce sopra, perché so belli, perché so i tuoi. Perché senza tutti quei difetti, e chi saresti? Nessuno.

Quante volte me sò guardata allo specchio e me so vista brutta, terrificante. Co sto nasone, co sti zigomi e tutto il resto. E quando la gente me diceva pe strada “bella Annì! Anvedi quanto sei bona!” io nun capivo e tra me e me pensavo “bella de che?”. Eppure, dopo tanti anni li ho capiti. C’ho messo na vita intera per piacermi. E adesso, quando me sento dì “bella Annì, quanto sei bona!”, ce rido sopra come na matta e lo dico forte, senza vergognarmi, ad alta voce “Anvedi a sto cecato!”».

Sulla stessa lunghezza d’onda la grandissima attrice statunitense Jamie Lee Curtis, 67 anni, vincitrice del premio alla miglior attrice non protagonista per Everything Everywhere All at Once, che in una recente intervista a The Guardian ha dichiarato: «mi sto auto-pensionando da 30 anni. Mi sto preparando a uscire di scena, in modo da non dover soffrire come ha fatto la mia famiglia. Voglio lasciare la festa prima di non essere più invitata».

L’attrice ha avuto infatti la sua serie di ostacoli da affrontare sulla strada verso la fama fin dal suo esordio nel 1978 in Halloween, ma il colpo più duro è arrivato dall’ageismo di Hollywood quando ha assistito al declino della carriera dei suoi celebri genitori, gli attori Tony Curtis e Janet Leigh, in tarda età, a causa del fatto che Hollywood dà valore alla giovinezza sopra ogni altra cosa.

«Ho visto i miei genitori perdere proprio ciò che ha dato loro fama, vita e sostentamento, quando a una certa età il settore li ha rifiutati» – dice Curtis a The Guardian – «Li ho visti raggiungere un successo incredibile per poi vederlo lentamente svanire fino a scomparire. E questo è molto doloroso».

Proprio per questo Curtis non è disposta a rimanere in gioco ricorrendo alla chirurgia estetica. La star ha applaudito pubblicamente la famosa decisione di Pamela Anderson di ridurre il trucco nel 2023, proclamando via Instagram che «La rivoluzione della bellezza naturale è ufficialmente iniziata!».

Curtis afferma di «credere che abbiamo cancellato una o due generazioni di aspetto umano naturale. L’idea che si possa alterare il proprio aspetto attraverso sostanze chimiche, interventi chirurgici, filler, sta sfigurando generazioni di persone, soprattutto donne». Com’è noto, la star ha accettato orgogliosamente i suoi capelli grigi e si è fatta fotografare senza indumenti intimi modellanti o ritocchi, due mosse che hanno aiutato le donne a capire che gli ideali da red carpet sono irraggiungibili come obiettivi quotidiani.

La consapevolezza e la sicurezza di sé espressa, purtroppo non rispecchia quella delle nuove generazioni che –  dopo aver cavalcato per un breve periodo l’onda del bodypositive – sembrano oggi non riuscire a sfondare il muro delle convenzioni, scendendo a compromessi ed aderendo passivamente a canoni vecchi per paura di non essere accettati e di precludersi a varie possibilità anche lavorative e di carriera.

Ciò che mi domando è se veramente c’è consapevolezza di quello che significa sfigurarsi il volto per opportunismo, o perché il mercato lo richiede, o perché il settore lavorativo lo richiede, o perché la convenzione sociale lo richiede, o perché il partner lo richiede, o perché la paura di invecchiare lo richiede, o perché le manie di perfezione lo richiedono. La domanda che sorge è: se non ci fossero tutte queste richieste esterne, voi come vi vorreste? Vi vorreste come siete o vorreste mostrare ciò che non siete?

Mi domando cosa direbbe il grande filosofo Emmanuel Levinas difronte all’attuale modificazione sistematica del “volto”: lui che sul “volto”, inteso come “nudità dell’anima”, ha fondato tutta la sua teoria dell’etica della società. L’essere umano, come lo chiamavano i greci, è sia θάνατον (mortale), ma anche πρόσωπον, il “volto che ho di fronte”: l’essere umano che in relazione con gli esseri umani si riconosce tale.

Per Levinas è nel volto che abbiamo di fronte che è racchiuso il segreto supremo della vita e che mai riusciremo ad afferrare per intero. Mi domando dunque oggi quale impatto possa avere la modificazione del viso. Quanto è difficile “il faccia a faccia con l’altro”, in un mondo che presenta non più “volti”, ma “maschere” (altro significato negativo di πρόσωπον) ricostruite omologate, sformate e trapiantate in un corpo.

La domanda è chi abbiamo di fronte? Cosa nascondono queste maschere? Quale immensa fragilità e vulnerabilità abbiamo di fronte? Quale enorme smarrimento, confusione e perdita del Sé abbiamo di fronte in un mondo nichilistico che punta a somigliare al viso piallato di un avatar digitale piuttosto che ambire, come direbbero gli indù, alla condizione di avatar[2] reale?

La paura della vecchiaia e il voler essere ciò che non si è, aspirando a modelli esterni, è una caratteristica assolutamente occidentale che l’occidentalizzazione ha diffuso nel mondo.

Come direbbe Miguel Benasayag, “la nostra è la prima società che non sa cosa farsene del negativo. Le società ‘non moderne’, non occidentali, incorporano il negativo (inteso in senso generale, cioè la morte, la malattia, la tristezza, in una parola: la perdita) in modo organico, come qualcosa che fa parte del tutto.”

In Occidente reprimiamo il “negativo” perchè lo definiamo tale e non lo concepiamo come parte integrante dei meccanismi di autoregolazione del mondo e della vita. Ecco dunque che ci fa paura la vecchiaia e il fatto di non essere considerati in base a fattori esterni, esattamente come abbiamo paura della morte perché non accettiamo la caducità della vita. Concepiamo cristianamente e scientificamente il tempo come una linea retta infinita, un presente eterno, vivendo come se alcune cose non debbano mai cambiare, non debbano mai finire, per scombussolare la nostra comfort-zone mentale.

“L’uomo, nella sua ricerca di gioia e di felicità, fugge dal proprio Essere, dal proprio Sè, che è la vera fonte di ogni gioia. Si considera molto brutto e noioso perché non è in grado di stabilire un rapporto intimo col proprio Essere. L’uomo cerca la gioia nel denaro, nelle proprietà materiali, nel potere, nell’amore egoista ed infine nella religione, che ugualmente lo attira al di fuori di se. Il problema è: che cosa si deve fare per interiorizzare la propria attenzione? Questo Essere interiore che è la nostra consapevolezza è energia.” – disse Shri Mataji Nirmala Devi in un suo celebre discorso sul Sahaja Yoga.

La medicalizzazione del corpo, il nostro cambiamento fenomenologico, la chirurgia estetica, il rincorrere i modelli di perfezioni irreali e irraggiungibili, la repressione della vecchiaia e la cancellazione del volto nascono dall’alienazione e dalla non-accettazione di Sè perchè non siamo consapevoli della cosa più naturale di tutte: la caducità della vita.

Siamo “volti”; siamo chi siamo; siamo autentici e non copie; siamo coloro che si guardano in faccia e si vedono per quello che sono; siamo il dettaglio che ci contraddistingue. Spesso ci comportiamo da “maschere” per nasconderci, ma non lasciamo che un parte del “negativo” ci totalizzi. Non siamo “maschere”, perchè per ogni cosa che facciamo “ci mettiamo la faccia”.

Altre info:

Note: 

[1] Il capitalismo cognitivo è un concetto che descrive un’evoluzione del capitalismo in cui la produzione di conoscenza e le capacità cognitive diventano elementi centrali per la creazione di valore e l’accumulazione di capitale. In questo contesto, il lavoro non è più limitato alle attività manuali o industriali, ma si estende alla sfera cognitiva, includendo la produzione di idee, informazioni, e competenze.

[2] Nell’induismo, un avatara (in sanscrito) è la discesa di una divinità, in particolare Vishnu o Shiva, sulla Terra in forma fisica, per ristabilire l’ordine cosmico (dharma) e aiutare l’umanità. Gli avatara sono considerati manifestazioni divine che appaiono quando il male minaccia di prevalere sul bene.

In copertina: Foto di Modella creata con l’intelligenza artificiale in una pubblicità su Vogue

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Parole a capo
Giusy Frisina: «Presagi» e altre poesie inedite

Parole a capo <br> Giusy Frisina: «Presagi» e altre poesie inedite

PRESAGI
(versi ispirati dall’Apocalisse di Giovanni)

I
Dal fumo uscirono dalla terra delle cavallette
cui fu dato il potere degli scorpioni…
Egli aveva aperto il pozzo dell’abisso….
E in tenuta di guerra in migliaia si erano schierati –
nei giorni lunghi di Plutone –
negli avamposti delle città senza Europa –
E sbucato dal giorno di Mercurio qualcuno disse basta,
inseguendo il cielo come voce che grida nel deserto –
Ma lo presero per pazzo e lo incatenarono –
E alla marcia della guerra e della pace
si ritrovarono per farsi la guerra
– Mentre il cielo disertore si allontanava –
ancora una volta ignorato e sgomento.

II
L’Angelo mi trasportò – in Spirito –
Su di un alto e grande monte
E mi mostrò una città risplendente
Come cristallino diaspro…
Era la Gerusalemme celeste
Dalle dodici porte e dai dodici angeli
(dodici come i segni dello zodiaco e i pianeti
e gli apostoli e i mesi dell’anno
e come tutto ciò che ruota all’infinito
attorno al Sole irriducibile)
Tre porte a Oriente – dove sorge la luce del Vero
Tre ad Occidente – il tramonto dei Sogni di onnipotenza
Tre a Settentrione – le porte del Sacrificio immane
Tre a Mezzogiorno – il ritorno del Bene
A ogni porta le tre Religioni –
Senza più alcun Tempio
Senza più alcuna guerra –
Se il Tempio è il Signore e l’Agnello
Ma né il Sole né la Luna la illuminano –
Se il Signore è la Luce
E la lampada l’Agnello.

 

*

 

NEL SOGNO DI KIEFER

Incastonato nel tempo,
contempli incantato
la bellezza malata delle rovine
e della distruzione perenne
e dell’infinita rigenerazione –
L’umano sdraiato
nel sonno che germoglia
non fa paura
come il volo di Icaro diventato
ala di guerra –
Ma il volo dell’arcangelo
si perde con la bruciante sconfitta
degli angeli caduti,
nella tempesta luciferina –
O Michele restituisci
la luce annebbiata
e tu Maria, Turris eburnea,
regina dei filosofi,
prega per noi,
se Odino veglia
sulle fumose ceneri
e su ogni disturbata creatura
perché risorga
nell’ultimo giorno
in un tripudio di girasoli.

 

*

 

AZZARDO

Ci sono sere
in cui il cuore si ferma
e la notte sembra l’ultima,
la volta in cui vorresti che il tempo
diventasse attimo 
e incontrasse l’eterno –
Sarebbe come provare il brivido del vuoto
e magari incrociare Dio –
Ma poi non sai come sarebbero
quel volto, quel sorriso
quella carezza sulla pelle
sai solo questo in fondo…
E il resto lo rimandi tra le stelle.

 

*

 

IN BILICO

Si potrebbe annegare
in un mare di basilico
e rincorrere onde di grano –
Ma i letti dei fiumi si prosciugano
mentre il mare avanza…
E chi mai scorgerà il fiore solitario
in un deserto di plastiche?
E chi mai fermerà questa guerra
complice di stermini?
Apocalisse, apocalisse annunciata
nella notte asfissiante
sapremo mai trovare conforto
a questo pianto?
Sapremo mai rimanere in bilico
mentre cadono gli astri?

 

*

 

AMORE UNIVERSALE

 

Armonia e connessione
senza le quali l’Universo 
non reggerebbe un secondo –
malgrado la guerra
figlia del caos
malgrado la morte e il dolore –
l’Amore regge tutto sempre
Se il passato è nel futuro
Il futuro è già arrivato
E lo sguardo di chi è scomparso
È nel mistero di un volto
Che inspiegabilmente ti sorride
qui di fronte a te.
Adesso.

 

Foto di Robert Alvarado da Pixabay

Ringrazio la poetessa Giusy Frisina per avere autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie.

Giusy Frisina viene dalla Magna Grecia ma vive a Firenze, dove ha insegnato Filosofia. Ha scritto articoli e racconti nella rivista online Domani Arcoiris TV diretta da Maurizio Chierici, ma ha sempre avuto la passione della poesia. I suoi testi sono presenti nel blog Alla volta di Leucade, diretto da Nazario Pardini, sul sito “La Recherche” e in diverse antologie poetiche. Ha pubblicato le seguenti raccolte: Il canto del desiderio (Edarc,2013), dedicata al cantautore-poeta Leonard Cohen, Onde interne (ilmiolibro, 2013), Dove finisce l’amore (Teseo, 2015), Percorsi effimeri (Aracne, 2016), prima classificata al XIV Premio Internazionale “Voci-Città di Roma, Profughi per sempre (Blu di Prussia, 2019), Sul confine (Blu di Prussia, 2020). Ha inoltre pubblicato un testo teatrale dal titolo: “Il sogno di Marsilio a Firenze” (Aracne, 2016). Nel 2024, per l’Edizione Setteponti è uscita la sua ultima fatica “Luna perduta“.

In “Parole a capo” sono state pubblicate alcune sue poesie il 5 dicembre 2024.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 297° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Formalizzato il gemellaggio tra Riace e Gaza

Riportiamo dalla pagina Facebook di Mimmo Lucano il suo intervento e i commenti di Pino Carella e Luigi De Magistris sull’emozionante cerimonia svoltasi ieri, 5 agosto, per siglare il gemellaggio tra Riace e Gaza.

Mimmo Lucano, sindaco di Riace

Le ragioni, umane e politiche, che mi hanno spinto a formalizzare il legame della comunità riacese con Gaza, non si limitano alle circostanze del momento attuale, alla sola necessità di esprimere con ogni mezzo, morale e materiale, sostegno e solidarietà al popolo di Palestina, stretto nella morsa dei due imperialismi congiunti di Stati Uniti e Israele.

Il 5 agosto, a quasi due anni dall’inizio di quello che vigliaccamente si continua a chiamare conflitto israelo-palestinese, ma che è invero il proseguimento tragico di decenni di oppressione, di esodi forzati, di negazione sistematica dell’identità di un intero popolo, istituiamo un atto che non è e non vuole essere solo simbolico.

Con il gemellaggio tra Riace e Gaza, intendo far risuonare ovunque il senso autentico della mia intenzione politica, cioè generare processi di liberazione, di riscatto e autodeterminazione, e riabilitare la giustizia, perché non sia ridotta e isterilita in ordinamenti e norme, ma strumento per una libertà riconquistata e riconosciuta.

Riace, che ha avuto il coraggio d’incarnare l’utopia dell’uguaglianza, si dichiara testimone del massacro delle decine di migliaia di vittime palestinesi, prende parte al loro dolore, accoglie la sfida di restare umani, usando le parole, che facciamo nostre, di Vittorio Arrigoni.

Nel 2010 fummo l’unico Comune ad accogliere l’appello della Farnesina ad ospitare i profughi palestinesi rimasti senza protezione dopo la caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq.  Li accogliemmo con un applauso. Con noi c’era, quasi per una coincidenza, il regista tedesco Wim Wenders, che anche in quell’occasione usò, come sua consuetudine, la cinepresa come mezzo di espressione artistica, capace di cambiare la prospettiva sul mondo. Quel mondo spaccato nel mezzo di Berlino, da un Occidente che oggi guarda a Israele con complicità, che tenta in ogni modo di mistificare lo sterminio, qui ha dovuto arretrare.

Qui vogliamo scrivere un’altra storia, come già è successo.

Dall’arrivo dei nostri compagni curdi, questo luogo rimosso del meridione d’Italia, inghiottito da politiche discriminatorie, umiliato dallo strapotere mafioso, costretto ad accettare un destino di oblio, ha trovato accanto ai perseguitati della Terra il suo legame profondo, il filo rosso che ci ricongiunge nella lotta.

Ieri sera, nell’ambito di un evento organizzato da riacesi, in collaborazione con l’antropologo calabrese Vito Teti, abbiamo ricordato il documentario “In Calabria” di Vittorio De Seta.

Voglio concludere il mio intervento citando le sue parole, lucide e poetiche, a proposito dell’anima calabrese:

L’anima calabrese ha un’impronta orientale. Qui, cinque secoli fa, quando il loro Paese fu invaso dai Turchi, arrivarono anche gli Albanesi.

Per quanto abbiano sempre dimostrato un forte attaccamento alle tradizioni, e abbiano mantenuto gelosamente la loro lingua, i costumi, il rito greco-ortodosso, hanno convissuto pacificamente con gli abitanti del posto.  

Quando nessuno soffia sul fuoco delle differenze tra i popoli, la gente semplice è portata a vivere in pace“.

Pino Carella:

Gaza e Riace: un gemellaggio di cuori, mani e memoria

Tra i vicoli antichi di Riace, dove il vento sa ancora raccontare storie di accoglienza e speranza, un abbraccio ha attraversato il Mediterraneo. È l’abbraccio tra un borgo che ha fatto dell’umanità una bandiera e una terra martoriata, Gaza, che continua a gridare al mondo la sua sete di pace e dignità.

È qui, nel cuore della Calabria, che è stato siglato un patto che va oltre i confini della geografia: un gemellaggio dell’anima tra Riace e Gaza. Un legame scolpito nella pietra viva della solidarietà, e dipinto nel colore acceso di un murales che racconta una stretta di mano forte, intensa, eterna.

A rappresentare Gaza, Lana Alhaddad, giovane donna che porta nel corpo e nello sguardo le ferite della sua terra. Una sopravvissuta, sì, ma anche un simbolo di resistenza, una voce limpida che parla per chi non può più parlare. Lana ha firmato quel patto al posto del sindaco di Gaza, presente solo con la voce in un collegamento video, perché a Gaza anche un semplice viaggio è un sogno infranto.

Accanto a lei, il Sindaco di Riace, Mimmo Lucano, con la sua visione limpida, continua a difendere un’idea semplice e rivoluzionaria: che l’umanità viene prima dei confini, prima delle leggi fredde, prima del silenzio complice.

Il murales che oggi colora il borgo è più di un’opera: è memoria e futuro intrecciati, è la narrazione visiva di due mondi lontani che si scoprono fratelli nel dolore e nella speranza. Le mani di Gaza e Riace si stringono sopra macerie, sopra onde di esilio, sopra lacrime che non chiedono vendetta, ma ascolto.

Gaza, con le sue case distrutte e i suoi bambini dagli occhi profondi, ha trovato in Riace una finestra aperta, un luogo dove la tragedia non viene consumata nel silenzio, ma accolta e trasformata in gesto, in parola, in arte.

Questo gemellaggio è un atto d’amore coraggioso, un richiamo al mondo distratto, un segnale che da un piccolo borgo può ancora nascere una luce. Perché dove c’è chi tende la mano, anche la sofferenza più grande trova riparo.

E allora, che il nome di Lana diventi eco. Che la sua storia diventi canto. Che la sua firma resti incisa nel tempo come promessa: mai più soli, mai più dimenticati. Gaza e Riace, unite nel dolore, nella dignità, nella speranza.

Luigi De Magistris

Ieri sera ho assistito presso il consiglio comunale del Comune di Riace all’approvazione del gemellaggio Gaza-Riace. Potente e bellissima iniziativa voluta dal mio amico Mimmo Lucano, sindaco di Riace. Commovente, poi, il collegamento video con il sindaco di Gaza. L’umanità può ancora salvare il mondo. Viva la resistenza palestinese fino alla vittoria. Palestina libera, stop genocidio

In copertina: Foto dalla pagina Facebook di Domenico Lucano

Vite di carta /
Danza con le “Mie magnifiche maestre” di Fabio Genovesi

Vite di carta. Danza con le “Mie magnifiche maestre” di Fabio Genovesi 

Che senso di leggerezza e di pace mi arriva dalla scrittura di Fabio Genovesi, anche da questo suo ultimo libro dedicato alle “donne di casa mia”. Dalla trisnonna Isolina alle zie Gilda e Violetta, a Irene, Benedetta e Azzurra, che parenti non sono, ma a buon diritto fanno parte di quella “famiglia più grande e profonda che non è tenuta insieme dallo scuro appiccicoso del sangue, ma da una colla più intensa e trasparente, che è l’amore”.

Sono amiche della madre, vicine di casa. Ognuna appare in sogno a Fabio nella settimana che precede il suo cinquantesimo compleanno e dalle sette notti in cui rivede ognuna di loro arriva il dono dello stare ancora insieme, arriva il marchio del loro insegnamento volontario o involontario sulla vita.

L’ultima notte Fabio ritrova la nonna Giuseppina: “sono cresciuto con lei, la sua mano nella mia” dice mentre si prepara per lui nella grande radura dentro il bosco del sogno l’incontro finale, il più straordinario.

Non sveliamolo, il lettore deve provare il nostro stesso incanto nell’assistere alla danza che approfitta del silenzio all’intorno, “la canzone più bella di tutte perché tutte le contiene”, e rende bellissimi i due danzatori. E questa bellezza “palpita e schizza ovunque, così intensa che resterà dopo la danza, dopo la musica, dopo noi”.

Il libro trova la sua struttura e il suo ritmo nei sette giorni che precedono il compleanno, nel conto alla rovescia i capitoli titolano da “Meno sette” a “Meno uno” e intorno hanno una miriade di cicale, nel senso che “Cicale” è l’introduzione e “Questo conta, questo canta” conclude il libro ritrovando il loro frinire come sottofondo.

Che bello sentire con quale tenerezza e riconoscenza Fabio accetta il sogno come dimensione vera dell’esistenza e ribalta così l’ordine costituito dalla visione razionale delle cose che tutti rincorriamo. Lo facevano gli antichi, che affidavano ai sogni premonitori la scelta di aprire la battaglia o di fondare una città.

Se non leggerete il libro almeno ascoltate e guardate il filmatino su Youtube che ritrae Fabio in cammino nella sua terra durante la passeggiata quotidiana dal fiume al mare che bagna Forte dei Marmi. In dodici minuti guardando l’obiettivo, cioè noi, lascia fluire le parole sul romanzo, spiega come le zie gli hanno portato in sogno i loro insegnamenti. Dice come sarebbe giusto vivere per immergerci appieno nella meraviglia che è la vita.

Dovremmo fare come la cicala. Ribaltando la favola che la vede come un animale improvvido, al contrario della prudente formica, la cicala per Fabio rappresenta la capacità di canto e di armonia.

Lei sì sa godere dell’estate, si è tenuta nascosta sotto terra per anni e poi insieme a tutte le altre ha saputo che quello era il giorno per inventarsi il volo e uscire a cantare nel coro gigante che va dalla terra al cielo.

Come le zie, che dopo tanto tempo riemergono ogni notte a svelare la loro storia al nipote che si trova sulla soglia dei cinquant’anni e tutto comprende e collaziona in un mosaico di sé che prescinde dallo scorrere del tempo e diventa il presente acronico delle leggi di natura.

Così sono e sono stato fin da piccolissimo, sembra volerci dire l’autore, che più di così non potrebbe coincidere col narratore. Ho esperito tanto in ormai cinquant’anni di vita, eppure ho dentro di me il bambino che ero e i suoi sguardi sul mondo.

Comprendo che Azzurra, che in classe alle elementari era affiancata da “Sostegno” a causa del suo grave handicap, mi ha insegnato a non seguire il gregge degli altri compagni. Come lei anche ora posso dire Bee bee in risposta alle domande preconfezionate che mi rivolge il mondo.

Continuo a seguire le naturalità come coordinata di fondo del vivere.

L’ho scritto anche nel mio Il calamaro gigante quanto sia grigio e secco il mondo in cui ci siamo limitati quando ci siamo staccati dalla pura bellezza dell’universo.

“Abbiamo smesso di danzare, e siamo saliti su una scala. Che ci siamo inventati noi, e quindi non ci porta da nessuna parte, solo ci allontana”. Dagli animali che erano, prima, le nostre divinità, e dalla Natura, che saremmo noi stessi. Ora “ci muoviamo tristi, storditi e goffi, ormai inadatti all’incanto naturale che era nostro,…tanto inadatti da essere dannosi”.

Non stanotte, però, quando la danza danzata nel sogno è la più straordinaria verità.

Nota bibliografica:

  • Fabio Genovesi, Mie magnifiche maestre, Mondadori, 2025
  • Fabio Genovesi, Il calamaro gigante, Feltrinelli, 2021

Cover: La cicala e la formica, disegno realizzato da Chloe, nipote dell’autrice

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Le voci da dentro / L’estate del nostro scontento

Le voci da dentro. L’estate del nostro scontento

Ornella Favero è, dal 1997, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti realizzata nella Casa di Reclusione di Padova. Dal 2015 è presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Ogni anno, organizza nelle scuole attività di sensibilizzazione sui temi del carcere, della legalità e della devianza, attraverso un progetto che si chiama “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere” che coinvolge moltissime scuole superiori del Veneto.
L’elenco delle sue iniziative è ancora molto lungo; io mi fermo qui solo per far capire che di problemi legati al carcere se ne intende a tal punto da fare un’analisi chiara, lucida e, soprattutto, critica del cosiddetto piano carceri appena sfornato dal governo.
Vale la pena leggerlo con attenzione.
(Mauro Presini)

Il piano carceri ormai è diventato una malattia cronica recidivante

di Ornella Favero

L’estate in carcere è il contrario che in libertà: è triste, è soffocante, è angosciante. Ed è funestata dai “piani carcere”, che tornano a prenderci in giro con regolarità disarmante. Ho preso in mano il piano del 2014, ed è praticamente una fotocopia di quello appena presentato dal governo. Che però ha in più alcune definizioni “creative”, il nulla raccontato come se potesse davvero accadere.

Liberazione anticipata, ovvero “te la complico io la vita”

Quanto alla liberazione anticipata, ci viene detto che si “irrobustisce” il profilo informativo, “soprattutto nella prospettiva del massimo aggiornamento delle relazioni del detenuto”. Cioè, spiegateci: “il massimo aggiornamento” significa che i giorni restano sempre gli stessi, ma qualcuno (i magistrati?) ti chiarisce, perdendo tempo ed energie, quello che tutti già sanno, cioè a quanti giorni hai diritto se non fai cazzate e non te li giochi malamente?

Qualcuno poi (il Ministro) ci ha detto che sarebbe un cedimento dello Stato concedere ogni anno due mesi in più di liberazione anticipata per tutte le inutili sofferenze, ristrettezze, violazioni dei diritti subite dalle persone detenute. E se la chiamassimo invece “compensazione”? Quella che l’Europa ci ha chiesto, quando ci ha suggerito che se non sappiamo garantire ai detenuti il rispetto della legge, cerchiamo almeno di dargli qualcosa che “compensi” la dignità trascurata e offesa.

Ma come possiamo noi volontari rispondere alla “macchina da guerra” mediatica e politica che racconta che anticipare l’uscita dal carcere, per persone, già vicine al fine pena, di una manciata di giorni significa mettere a rischio la sicurezza del Paese?

Detenzione differenziata

Chiamasi “detenzione differenziata” il fatto che nel piano carcere sono citati 10.000 detenuti che sembrerebbero “inviabili” alla detenzione domiciliare. Dice il sottosegretario Alfredo Mantovano “Con questo disegno di legge introduciamo un’innovazione importante. Offriamo ai tossicodipendenti e agli alcoldipendenti che hanno commesso reati un’alternativa seria, concreta e verificabile: la detenzione domiciliare in una comunità di recupero”.

Ma l’alternativa seria diventa ben presto la moltiplicazione dei “pani e dei pesci” fatta dal ministro Nordio che parla di far andare in comunità 10.000 tossicodipendenti! “Considerando che il 31% usa sostanze stupefacenti o alcoliche, se solo un terzo partecipasse a questo tipo di programma avremmo una diminuzione di diecimila tossicodipendenti nelle carceri. Questo ridurrebbe in maniera sensibile il sovraffollamento”.

Ma se le carceri sono piene di detenuti tossicodipendenti con due, tre anni di residuo pena, se posti in comunità non è certo facile trovarli, se non si sa chi paghi, se il tanto promesso albo delle comunità non si capisce dove sia finito, a che cosa può servire rendere possibile l’accesso alle comunità non più sotto i sei anni, bensì sotto gli otto anni? Si chiama “detenzione differenziata”, ma differenziata da cosa? Dal fatto che qui la fantasia e l’approssimazione non hanno limiti? (E cosa farà la commissione di valutazione a cui verrà sottoposto il programma terapeutico di ogni detenuto?)

Valorizzazione immobiliare su vasta scala

Le “carceri in centro città o con vista mare”, dice il commissario all’edilizia Marco Doglio, non saranno vendute ma “valorizzate e trasformate”. “Valorizzazione immobiliare” è la nuova, fantasiosa creazione del governo, ti requisisco la cella vista mare e in cambio ti do un container, un prefabbricato modello Albania, l’ultima trovata in fatto di collocazione delle persone detenute in spazi ristretti per dormire, mangiare, forse respirare, non certo per scontare una pena che “tenda alla rieducazione” come chiede la Costituzione.

Domanda: ma quando il commissario dice che “l’approccio è nuovi moduli, ampliamenti, ristrutturazioni e operazioni immobiliari su larga scala”, che cosa sono queste operazioni immobiliari e come dovrebbero fruttare nuovi posti branda? togliendo ai detenuti la vista mare e “vendendola” ai migliori offerenti?

Santo Covid e telefonate

Se non ci fosse stato il Covid, una disgrazia per tutti, ma non per le persone detenute, ora non esisterebbero le videochiamate, introdotte durante la pandemia e che nessuno ha avuto più il coraggio di togliere.

Pareva che finalmente si fosse capito che le telefonate devono essere liberalizzate, come già succede in tanti paesi, perché sono una delle poche forme vere di prevenzione dei suicidi; rafforzare le relazioni, dilatare al massimo gli spazi per gli affetti è infatti forse l’unico modo per far sentire le persone meno sole e isolate. E invece no, troppo lusso, quello che il piano carceri “epocale” concede sono due miserevoli telefonate in più al mese, non c’è neppure il coraggio di fare una piccola riforma a costo zero come la liberalizzazione delle telefonate.

Task Force

Per finire, dovremmo forse sentirci rassicurati dalla creazione di una task force, espressione con cui si indica “un ristretto gruppo di persone, altamente competenti e/o specializzate, con funzioni e compiti specifici al compimento di un’operazione o di uno scopo”, task force che una volta a settimana dovrebbe riunirsi. Per fare cosa?

Come cittadina coinvolta nella vita delle persone detenute a tal punto, che nel mese di luglio entro ancora ogni giorno, con tanti volontari, per garantire una boccata di ossigeno a chi deve vivere questa estate asfissiante in galera, vorrei sapere da chi è composta e cosa farà questa “task force”. Chiedo troppo?

 

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Nuove norme sui conti correnti: i delinquenti gongolano, i bancari rischiano

Nuove norme sui conti correnti: i delinquenti gongolano, i bancari rischiano

La settimana scorsa la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità una proposta di legge che prevede l’obbligo per le banche di aprire il conto corrente a chiunque lo richieda, ed il divieto di chiudere unilateralmente i conti in essere.

Un provvedimento apparentemente ineccepibile: è giusto che chi ha avuto problemi in buona fede possa accedere ai servizi bancari. Purtroppo, però, esistono anche soggetti che non sono in buona fede, e che su quel conto hanno bisogno di far passare proventi di attività illecite. Le normative antiriciclaggio ed antiterrorismo impongono responsabilità pesanti in carico alle persone che lavorano in banca: sui rapporti di conto bisogna effettuare costantemente l’ “adeguata verifica”, cioè un controllo continuo, volto ad individuare qualsiasi operazione anche solo potenzialmente sospetta di derivare da eventuali reati per segnalarla e, ove possibile, astenersi dal portarla a termine. La normativa è inflessibile nei confronti di bancarie e bancari: l’omessa segnalazione è punita con multe pesantissime e pene detentive. Sono già diversi i casi di dipendenti di banca che, non essendosi accorti tempestivamente di movimenti anomali sui conti, hanno perso il posto di lavoro e si sono ritrovati davanti al giudice. Per questo motivo, la chiusura di un conto che presenta andamento fortemente anomalo rappresenta, ad oggi, il modo più efficace per tutelare la Banca e chi ci lavora, ma anche per ostacolare la criminalità.

La legge approvata alla Camera prevede che non si possa rifiutare l’apertura ed il mantenimento del conto a nessuno, fermo restando l’obbligo di osservare le disposizioni nazionali ed europee in materia di contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”. Un’evidente contraddizione, che speriamo possa essere oggetto di riflessione prima della votazione in Senato, evitando così di emanare una norma sgangherata e che rischia di provocare seri danni, non solo a chi lavora in banca.

Non è la prima volta che la politica assume atteggiamenti bizzarri nei confronti delle banche. Le banche sono soggetti d’interesse pubblico quando rischiano di fallire, quindi è normale salvarle con i soldi dei contribuenti. Diventano però soggetti privati e totalmente intoccabili quando fanno utili record come sta avvenendo ora, e quindi non si possono tassare gli extra-profitti, anche se dovuti ad un rialzo anomalo dei tassi causato da una guerra. Le banche sono libere di decidere le commissioni sui pagamenti pos, in quanto un intervento pubblico rappresenterebbe un’indebita interferenza su attività private. Poi però si procede a mutare la natura di un contratto privatistico come quello di conto corrente, creando una disparità tra i contraenti e lasciando solo ad una delle parti la facoltà di recesso.

Sorprende l’improvvisa attenzione della politica verso coloro che trovano difficoltà ad accendere un conto, quando per anni non si è in alcun modo preoccupata di far sì che anche chi vive nelle aree interne e meno floride possa beneficiare della presenza di una filiale a distanza ragionevole, presso la quale poter aprire un rapporto anche se, per età o limiti culturali, ha difficoltà a farlo online. La desertificazione bancaria è un tema sul quale la politica è colpevolmente assente, peraltro tradendo lo spirito dell’Art. 47 della Costituzione, che considera il Risparmio ed il Credito attività sulle quali la Repubblica dovrebbe avere obblighi di tutela e di controllo.

L’auspicio è che la ritrovata attenzione alle esigenze dei consumatori possa produrre provvedimenti ben più importanti, che puntino l’attenzione sui territori abbandonati dalle banche, il cui declino sembra al momento non essere tra le priorità di chi governa.

 

Luca Copersini
(Segretario Regionale Fisac CGIL Abruzzo Molise)

 

 

photo cover di Marco Vech da Flickr, CC BY 2.0

Eugenio Montale nel centenario dalla pubblicazione di “Ossi di seppia” (1925-2025)
Il poeta dell’aridità luminosa

Eugenio Montale nel centenario dalla pubblicazione di “Ossi di seppia” (1925-2025). Il poeta dell’aridità luminosa  

Come è noto all’assegnazione del premio Nobel ai premiati viene richiesto di pronunciare un discorso di fronte all’Accademia di Svezia e, di fatto, al mondo intero per presentarsi a un pubblico più vasto di quello costituito dai propri lettori e provare a raccontare le ragioni che stanno alla base, per esempio, di una produzione letteraria  e di relative scelte estetiche.

Nell’anno della istituzione del premio, il 1901, il cerimoniale prevedeva solo un breve ringraziamento noto come discorso del banchetto, ma di tanto in tanto qualcuno dei premiati cominciò a tenere un vero e proprio discorso di accettazione come quello tenuto da Han Kang l’anno scorso e che ho in parte riportato raccontato in un precedente articolo (qui aggiungere il link quando esce l’articolo Han Kang).

Tra i discorsi pronunciati dal 1901 ad oggi Daniela Padoan nel suo Per amore del mondo (Bompiani, 2018) ha scelto e raccolto quei discorsi che privilegiavano “…un sentimento di responsabilità verso gli uomini: un amore del mondo che si declina in quel mostrarsi in pubblico che già i greci videro come proprietà della polis e che Hannah Arendt definì…l’attività più propriamente umana, che sancisce la comune appartenenza allo spazio politico, giacché “la sfera politica sorge direttamente dall’agire-insieme, dal condividere parole e azioni…”

Si capisce che includere o meno i poeti in questa selezione, sia risultato difficile, in quanto la poesia viene percepita come qualcosa di lontano dalla sfera politica, eppure sarebbe risultato naturale farlo per un poeta come Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) che non è stato incluso nel volume.

Quest’anno ricorrono il centesimo anniversario della pubblicazione di Ossi di seppia, la prima raccolta del poeta, e il cinquantesimo anniversario dal conferimento del Premio Nobel.

Era il 15 giugno 1925 quando la casa editrice di Piero Gobetti pubblicava per la prima volta Ossi di seppia, raccolta che avrebbe rivoluzionato la poesia italiana.

In un’Italia ancora scossa dal primo dopoguerra e sull’orlo della dittatura fascista, Montale proponeva una lirica asciutta, disillusa, lontana dai toni enfatici del dannunzianesimo. I paesaggi delle Cinque Terre liguri, con quel mare aspro, le rocce bruciate dal sole e le terre vive strappate alla montagna scoscesa, diventavano lo scenario simbolico di una condizione umana segnata dall’inquietudine e dalla ricerca di senso.

Il giardino delle due palme, la casa di villeggiatura della famiglia Montale a Fegina, la Torre Aurora, il Mesco erano luoghi reali che diventano emblemi poetici. In Ossi di seppia, la natura non consola, ma rivela. È “arida”, “sorda”, “indifferente”, eppure, proprio per queste sue caratteristiche, autentica. Montale vi proietta la sua visione del mondo: un’esistenza priva di certezze, ma attraversata da improvvisi squarci di luce, da “miracoli” che non salvano, ma illuminano.

Cinquant’anni dopo, nel 1975, Montale riceve il Premio Nobel per la Letteratura “per la sua poesia distinta, che con grande sensibilità artistica ha interpretato i valori umani sotto il segno di una visione del mondo priva di illusioni”. È il coronamento di una carriera che ha attraversato il secolo, tra lirica, critica musicale, giornalismo e riflessione civile. Montale diventa così il terzo italiano a ricevere il Nobel per la poesia, dopo Carducci e Quasimodo.

A cento anni da Ossi di seppia la poesia di Montale continua a parlare al presente. La sua voce, scettica ma mai cinica, ci invita a guardare il mondo con lucidità e a cercare, anche nell’aridità, un senso possibile. In un’epoca di rumori e distrazioni, Montale ci ricorda il valore del silenzio, della parola misurata, della contemplazione.

Nel suo discorso di accettazione  del 12 Dicembre 1975 dal titolo È ancora possibile la poesia?

Montale, tra tante altre cose, dice : “Ho scritto poesie e per questo sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare… In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà.

Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile…[…]. Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa.

Se si intende per poesia la cosiddetta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”.

E ancora oggi dopo i 100 anni da Ossi di seppia risuona squillante l’attualità di questo … messaggio nella bottiglia:

“Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

E dunque il grande messaggio politico di Montale è proprio questo: la sua poesia implicitamente continua a interrogarci su quello che siamo diventati e su quello che varrebbe la pena volere. Tutti. Per amore del mondo.

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Opporsi alla pulizia etnica praticata da Israele non è antisemita: è antifascista

Opporsi alla pulizia etnica praticata da Israele non è antisemita: è antifascista

Il suicidio del “sogno” ebraico si trascina dietro i lampi e i tuoni dell’antisemitismo di ritorno. L’antisemitismo è, alternativamente, il terreno calcato dagli idioti, dai fanatici o dagli analfabeti funzionali per insultare gente con la kippah all’autogrill o ammazzare a sangue freddo giovani diplomatici (per adesso); oppure è l’accusa, buona per tutte le stagioni, con cui mettere all’indice chi critica le politiche attuali o passate o la stessa genesi dello Stato di Israele. E funziona sempre, perché essere etichettato come antisemita è come essere accusato di nazismo. Ma per individuare genuinamente un antisemita, credo occorra rispondere con precisione alla domanda su chi sia, esattamente, il bersaglio del suo odio: ovvero, chi è colui o colei che può essere definita con esattezza una persona semita?

Semita: agg. e s. m. e f. [der. dal nome Sem del figlio di Noè, il quale, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei popoli semitici] (pl. m. -i). – Appartenente alle popolazioni semitiche, a un popolo, antico o moderno, semitico (v. semitico). (Encicl0pedia Treccani)  Approfondendo il contesto linguistico: “… le lingue semitiche comprendono, tra gli altri:  araboebraicocananaicoaccadicoaramaico ed amarico. Alcuni dei popoli che parlarono queste lingue erano discendenti dei Fenici, nome con cui i Greci identificavano i Cananei. Al culmine della potenza cartaginese, i linguaggi semitici erano largamente parlati in tutta l’area del Mediterraneo meridionale fino all’Oceano Atlantico, dato che Cartagine era originariamente una colonia fenicia. Il termine antisemita è spesso usato nell’accezione impropria di anti-ebraico.”(Wikipedia).

Benjamin Netanyahu è un semita? Leggo dalla sua biografia che il padre, Benzion Mileikowsky, era un polacco aschenazita, originario di Varsavia. La madre era di ascendenze lituane e bielorusse. Quindi il primo ministro israeliano si è cambiato il cognome per darsi da solo una patina biblica. Aschenaz è una regione del Reno franco-tedesca, dove si parlava yiddish che è una lingua prevalentemente germanica. Se Netanyahu (Mileikowsky) è un discendente di Sem allora io, ferrarese, sono bizantino: come l’originario castrum su parte del quale poi venne edificata la Ferrara medioevale. Dopo arrivarono i longobardi, poi gli amici dei guelfi, quelli dei ghibellini, i veneti (Este), lo Stato Pontificio, Napoleone, il Regno di Sardegna, poi la classe agraria (molta di origine ebraica). Se il primo ministro israeliano ha il diritto (per lui divino) di sentirsi figlio di Sem, io rivendico il diritto (per me laico) di sentirmi figlio di Giustiniano.

Israel Katz, attuale ministro della difesa, ha il padre transilvano. Sarebbe molto più affine al Conte Dracula che al figlio di Noè. Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze, è nato in Cisgiordania (occupata) ma il suo cognome è ucraino. Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza nazionale, è nipote di un iraqeno, sua madre è curda (nota: pare che il nostro, al tempo, abbia scampato il militare perchè troppo di destra. In Israele, chi studia molto i testi sacri e chi è molto fascista può permettersi di fare ammazzare gli arabi senza sporcarsi le mani). Daniela Weiss, leader dei coloni, è nata nel mandato palestinese britannico da genitori statunitensi e polacchi affiliati a Lehi,(qui) organizzazione terrorista che si proponeva di sfrattare gli arabi fin dal 1940 per instaurare in Palestina lo stato ebraico, alleata inizialmente con nazisti e fascisti sulla base del comune odio verso gli inglesi(sic).

Questi sarebbero i semiti. Adesso scorriamo insieme un elenco di alcuni antisemiti, almeno secondo il governo israeliano e buona parte dell’opinione pubblica interna:

Omer Bartov: israeliano, nato in Israele, da genitori polacco e ucraina immigrati nella Palestina mandataria. E’ stato soldato nell’IDF. Uno dei principali storici dell’Olocausto, ha insegnato ad Harvard e Princeton. Sul New York Times ha di recente pubblicato un saggio nel quale tra l’altro afferma, lapidario: “Insegno corsi sul genocidio da un quarto di secolo. Riesco a riconoscerlo quando ne vedo uno”.

Amos Goldberg: nato a Gerusalemme, israeliano, storico dell’Olocausto, professore all’università di Gerusalemme. Afferma Goldberg in una intervista: “il 7 ottobre è stato uno shock, una tragedia, un attacco orribile. … Circa 850 civili sono stati uccisi in un giorno. Uomini, donne, bambini, persino neonati e anziani sono stati presi in ostaggio. Alcuni kibbutz sono stati completamente distrutti. E hanno iniziato a fluire testimonianze di crudeltà, violenza sessuale, distruzione da parte di Hamas. Conosco personalmente persone, alcune molto vicine, colpite dall’attacco. Alcune sono state uccise, altre sono state prese in ostaggio, altre sono sopravvissute a malapena”. Però poi afferma, a proposito della reazione dello Stato: “Se guardi al quadro generale, ci sono tutti gli elementi di un genocidio. L’intento è chiaro: il presidente, il primo ministro, il ministro della difesa e molti ufficiali militari di alto rango lo hanno espresso molto apertamente. Abbiamo assistito a innumerevoli esortazioni a ridurre Gaza in macerie, affermazioni secondo cui non ci sono persone innocenti lì, ecc. Appelli popolari per la distruzione di Gaza si sentono da tutti i settori della società e dalla leadership politica. Nella società israeliana prevale un’atmosfera radicale di disumanizzazione dei palestinesi in una misura che non riesco a ricordare nei miei cinquantotto anni di vita in questo paese”(intervista integrale qui).

Lee Mordechai, israeliano, ricercatore all’università di Gerusalemme, afferma in un rapporto che cita episodi raccapriccianti con tanto di fonti verificate: “Le azioni condotte da Israele nella Striscia soddisfano le condizioni che in base alla Convenzione di Ginevra identificano i reati di genocidio, pulizia etnica, punizione collettiva”.

David Grossmann, nato a Gerusalemme, ebreo figlio di un transfugo dalla Galizia, scrittore famoso, che ha perso un figlio di vent’anni, soldato di leva, durante una spedizione nel sud del Libano, e che finora non aveva mai varcato un limite terminologico, oggi afferma in un’intervista a Repubblica: “per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. Ma vede, questa parola serve principalmente per dare una definizione o per fini giuridici: io invece voglio parlare come un essere umano che è nato dentro questo conflitto e ha avuto l’intera esistenza devastata dall’Occupazione e dalla guerra. Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi. “Genocidio”. È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E porta ancora più distruzione e più sofferenza”.

Evito appositamente di citare le affermazioni di illustri studiosi ebrei o di origine ebraica che per Israele non sono credibili perchè “comunisti”, come Ilan Pappé, o perché “persona non grata”, come Norman Finkelstein, professore statunitense figlio di ebrei sopravvissuti ad Auschwitz, da decenni critico verso la cosiddetta “industria dell’Olocausto”. Non li cito perchè sulle loro opinioni (peraltro accuratamente documentate e argomentate) la controversia è datata. Mi sono limitato a citare studiosi e intellettuali che non possono essere accusati di avere una posizione preconcetta contro lo Stato di Israele, al punto che qualcuno di loro, in alcune fasi della sua sanguinosa storia, ha giustificato il suo atteggiamento.

Delle due l’una: viste le origini, se gli appartenenti al primo elenco sono qualificabili come “semiti”, gli appartenenti al secondo elenco sono semiti esattamente allo stesso modo. In questo caso, saremmo di fronte a dei semiti che sono antisemiti, visto che manifestano opinioni bollate come antisemite. Il popolo perseguitato da tutti nella storia dell’umanità starebbe subendo l’ennesimo assedio, stavolta ad opera di una parte stessa del suo gruppo etnico. La seconda ipotesi è che come gli appartenenti al primo elenco non sono tutti figli di Sem, ma figli della tribolata storia dei loro antenati, altrettanto si può dire degli appartenenti al secondo elenco: i quali, pur figli della tribolata storia dei loro avi, hanno sviluppato una coscienza acutamente critica nei confronti della condotta del loro governo, al punto da arrivare a pronunciare la parola che mai avrebbero pensato di dover utilizzare come atto d’accusa nei confronti di loro connazionali: genocidio.  Seguire questa seconda ipotesi, che personalmente prediligo, significa collocare queste  – minoritarie ma crescenti – opinioni, come fossero piccole scialuppe di salvataggio intellettuale e morale, dentro un torrente politico, non etnico. Criticare il fascismo di uno Stato non ha niente a che vedere con un pregiudizio razziale. Significa inquadrare il problema nella giusta prospettiva. Il cileno che lottava contro il regime di Pinochet non era antiandino, lo spagnolo che combatteva contro Franco non era antiispanico,  un desaparecido non era antiargentino, il partigiano che combatteva Mussolini non era un antiitaliano (ricordi Sandro Pertini?). Allo stesso modo, un ebreo o un non ebreo che grida l’orrore contro le gesta atroci dello Stato israeliano non è un antisemita. Più che di un improbabile e chiaramente strumentale antisemitismo dei semiti, parlerei di antifascismo nei confronti di uno stato fascista.

 

 

photo cover tratta da nena-news.it

 

 

 

 

 

 

Per certi Versi / Mani di cenere

Mani di cenere

 

Farò di te un’opera d’arte

disegnata con inchiostro di china

e con tratti marcati

segnerò il tuo destino

 

Traccerò i contorni

del tuo animo inquieto

con punte taglienti di mina

dipingerò la bocca con pennelli

d’intinto vermiglio

 

Brucerò poi la tela

e con mani di cenere

scriverò la leggenda

 

di un amore mai esistito

 

In copertina: Foto di congerdesign da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Morrissey: panic in the streets of Lucca

Steven Patrick Morrissey è uno degli artisti musicali pop più amati e discussi (va di moda la parola “controversi”) degli ultimi 40 anni. Abbiamo chiesto a un grande fan italiano (precisamente ferrarese) di evitare la classica recensione istituzionale – di quelle ne trovate a profusione sul web – in cambio di un resoconto/minidiario personale di una delle date del suo tour 2025.  

 

Morrissey: panic in the streets of Lucca

Quando a febbraio è uscita la notizia della tournèe estiva di Morrissey in Italia, subito dopo aver comprato immediatamente il biglietto per il concerto del 26 luglio in quel di Lucca (attività evidentemente non procrastinabile), mi sono chiesto (“well, i wonder” tanto per entrare in un mood smithsiano) se il genio mancuniano sarebbe venuto davvero nel Belpaese (dopo gli strali contro la polizia romana del 2017) oppure se ci avrebbe “paccato”, vista l’attitudine del Moz a cancellare concerti per i motivi più assortiti. Vieppiù, a ridosso dell’arrivo in Italia, alcuni concerti nell’est Europa erano stati appunto cancellati.
E invece LUI è venuto davvero e quando alle 21,30 di sabato 26 luglio è apparso sul palco del Lucca Summer Festival in Piazza Napoleone, reduce dalla molto ben recensita prima data italiana a Gardone Riviera al Vittoriale (luogo da istrionici poeti evidentemente, D’Annunzio docet), mi sono semplicemente abbandonato all’emozione di rivedere e riascoltare l’artista che ha accompagnato la mia esistenza, il “ragazzo con la spina nel fianco” che sin dalla giovinezza ha saputo tradurre in parole e musica (con l’aiuto dell’allora sodale Johnny “Fucking” Marr) tutte le mie ansie, aspettative, disillusioni, sentimenti vari frullati in un magico mix musicale poetico, unico nel suo genere, inarrivabile ma poi fatalmente assai imitato (il Bripop come minimo deve parecchio agli Smiths ed a Morrissey).
Sinceramente tutte le polemiche che in questi anni hanno accompagnato il personaggio Morrissey, le sue (presunte) dichiarazioni, le sue (presunte) simpatie politiche, le sue scelte personali non mi hanno mai toccato e per di più ho comunque sempre rispettato tutto ciò che va contro il pensiero dominante e l’ansia da revisionismo woke e del politicamente corretto. Come in uno sportivo mi limito ad ammirarne le gesta sul campo, così in un cantante (anche se limitarsi a questa categoria è limitante per Moz) voglio solo godere della sua musica, delle sue canzoni, del suo essere artista. Del resto, Moz mi perdonerà, non sono vegano…
Il sabato lucchese è stata una meravigliosa attesa dell’evento, di quel ritrovare un amico che ha significato tanto per te: moltissime t-shirts degli Smiths e altrettante di Morrissey, sguardi che si incrociavano come tra sodali della stessa gang, addirittura un ragazzo con l’accento dell’Italia centrale che dentro al Duomo di San Martino mi ha fatto i complimenti per la mia maglietta smithsiana (gli ho confessato di averla penosamente acquistata su Temu a 5 euro…) dandomi appuntamento al concerto serale ed ancora le note inconfondibili del soundcheck mattutino e pomeridiano che hanno accompagnato la passeggiata per le magnifiche strade di Lucca (“panic in the streets of…“) con noi smithsiani/morrisseyiani a intonare le parole della canzone anche con poche note accennate.
Come Fantozzi in partenza per Montecarlo con il Duca Conte Semenzara, anche il sottoscritto si è portato in Piazza Napoleone con un anticipo pazzesco, umanamente supportato (o sopportato?) dalla mia povera moglie che anche stavolta, come a Bologna nel 2014, ha voluto condividere questa mia gioia; ma l’arrivare presto mi ha permesso di godermi tutta la fauna smithsiana, di confrontare le t-shirt (io per la sera mi ero agghindato con le maglietta dell'”Oye Esteban Tour” del 1999, quando vidi il Moz per la prima volta al Vox di Nonantola), di percepire la fremente attesa di tanti appassionati, i sorrisi, i volti, le capigliature di un popolo variegato, di ogni estrazione sociale e tutto sommato di ogni età (anche se ovviamente era predominante la mia fascia, diciamo over 50).
Dopo un estenuante sessione video di canzoni che hanno avuto impatto nelle scelte artistiche di Morrissey (con rocamboleschi salti dai Ramones a Dionne Warwick, dai suoi amati New York Dolls a Rita Pavone e Massimo Ranieri !), finalmente è uscita la band (con la lucchese d’adozione Carmen Vandenberg ottima chitarrista, davvero emozionata di esibirsi nella città dove ha studiato) e LUI al seguito, con il suo bel mazzo di fiori in mano e camicia floreale a tono (poi ho appreso dai siti di noi fedeli che trattasi di un modello di Tom Ford): l’emozione di vederlo, per di più bello pimpante e chiacchierino (subito ha salutato la piazza in italiano con “Fantastica !“) è stata bellissima e liberatoria.
Sulle prime note di “Suedehead” (primo suo singolo del 1988 dopo lo scioglimento degli Smiths), come la stragrande maggioranza dei presenti, sono balzato in piedi e chissenefrega del posto a sedere pagato € 90 (unico appunto per l’organizzazione: un concerto del genere deve prevedere i posti in piedi davanti al palco) e mi sono messo a cantare a squarciagola, in un tripudio di mani festanti e cellulari onnipresenti a catturare ogni singolo ghigno, ogni singola mossa (il nostro è maestro nel giocare col filo del microfono), ogni singola nota di una voce che l’età non ha minimamente scalfito (siamo a quota 66 candeline dal 22 maggio 1959), con il suo inimitabile timbro nasale, coi falsetti, con i ruggiti, con la magia e la poesia insita nel personaggio.
Ogni canzone una emozione, un richiamo artistico, backdrops a tema (in partenza anche Pasolini, poi Bruce Lee, David Bowie con David Johansen, Peter Falk e l’amata madre sulle struggenti note di “I know it’s over“, una esecuzione da pelle d’oca), voglia di parlare al pubblico tra un brano e l’altro, in una totale rappresentazione teatrale del mondo morrisseyiano, fatta di contrasti, malinconia, prese di posizione forti ma sempre coerente e mai venduta al mainstream.
Poche canzoni epoca Smiths, anche se quando partono la gente freme e canta a memoria “Shoplifters of the world unite” e, “How soon in now” (sempre potentissima), soliti vezzi di inserire in scaletta b-sides solo per cultori (che a me vanno benissimo come “The Loop” ) e brani dell’ormai più che trentennale carriera solista, fatta di tanti alti e qualche basso, alcune amatissime come “Everyday is like Sunday” e “Speedway” (con la dichiarazione di fedeltà alla sua gente “In my own strange way, I’ve always been true to you“) o i due bis “Let me kiss you” e “First of the gang to die” (a chiudere il concerto con il canonico lancio di maglietta su cui si accapigliano sotto il palco), inedite dell’album prossimo venturo (sempre ammesso che una etichetta discografica si degni di pubblicarlo) quale “Sure enough, the telephone rings”.
Una band ormai affiatata, con due chitarre e tastiere, sound bello potente ma preciso nell’esecuzione, un portamento scenico da consumato artista teatrale, una scaletta variegata ma che poco concede alla massa (molti si attendevano capolavori quali “There is a light that never goes out” il cui iconico testo campeggiava sulla vetrina di un vicino negozio di dischi, divenuto il più fotografato di Lucca e ripreso da Morrissey stesso sui suoi social), una serata magica, linda, adrenalitica, nostalgica, struggente, INDIMENTICABILE.
Dopo un concerto così, riprendendo “Nowhere fast” degli Smiths (“And if the day came – When I felt a natural emotion – I’d get such a shock I’d probably lie – In the middle of the street and die – I’d lie down and die“), ecco, potrei serenamente distendermi nella placida notte di Lucca e abbandonare questa vita, perchè l’emozione naturale l’ho provata.

The Iceman

Cover photo taken from https://www.deviantart.com/elishba/art/Morrissey-Collage-76378854

 

Il Comune di Ferrara con un colpo di mano di mezza estate impone la privatizzazione del servizio rifiuti

Alla fine, dopo più di 7 anni da quando Hera gestiva il servizio dei rifiuti in proroga nel comune di Ferrara, è arrivata la decisione del Consiglio comunale di procedere con la gara per il nuovo affidamento.
Hanno votato a favore i gruppi consiliari della destra e anche quello PD, mentre hanno espresso la propria contrarietà il gruppo M5S, il gruppo Civica Anselmo e quello de La Comune di Ferrara.
Un esito pesantemente negativo, seppure previsto, con il quale si conferma la volontà di privatizzare un servizio pubblico fondamentale.

In primo luogo, va sottolineata la scelta di aprire e chiudere la discussione nelle sedi istituzionali di carattere decisionale ( dapprima in Commissione consiliare e poi in Consiglio comunale) in soli 4 giorni, tra il 24 e il 28 luglio. E’ vero che il dibattito in città si è venuto sviluppando in un largo arco di tempo, sin dal 2018, quando era scaduta la concessione, in particolare per merito dei movimenti e delle realtà sociali che si battono per la pubblicizzazione dei fondamentali servizi pubblici locali, ma , proprio per questo, confinare il momento decisionale in giorni così ristretti e in piena estate ha significato indubbiamente un’indebita compressione dei tempi e l’esplicitazione di una volontà di sottrarsi ad un dibattito, che coinvolgesse l’insieme dei cittadini. Al  maggior ragione, se si considera che il 16 luglio scorso la segreteria generale del Comune aveva dichiarato l’ammissibilità della petizione promossa da Forum Forum Ferrara Partecipata e Rete Giustizia Climatica di Ferrara con la quale si chiedeva appunto un percorso partecipativo che mettesse le persone in condizione di esprimersi sulla scelta di gestione del servizio dei rifiuti e che avrebbe dovuto avere una risposta entro il 16 settembre.

Nessuna risposta alle obiezioni del movimento per la pubblicizzazione

A questa modalità di sequestro dei tempi di decisione, che denota l’arroganza dell’attuale Amministrazione comunale quando si tratta di coinvolgere l’insieme dei cittadini in scelte rilevanti, si associa la pochezza delle argomentazioni con cui è stata sostenuta, da parte della maggioranza di destra, l’opzione di ricorrere alla gara per affidare la nuova gestione del servizio. Di fatto, l’unico ragionamento avanzato è stato quello di sottolineare che il passaggio ad una gestione pubblica in house avrebbe comportato costi insostenibili per il bilancio comunale. Prendendo come riferimento lo studio a suo tempo realizzato da Unife sulla gestione del servizio rifiuti, si è detto che la stima lì contenuta di un costo che oscillava tra i 4,5 e i 5,2 milioni di € per la creazione e il funzionamento di un’azienda pubblica di proprietà comunale non era aggredibile.

Non abbiamo sentito nessuno, tra i favorevoli alla messa a gara del servizio, rispondere alle controdeduzioni avanzate da Forum Ferrara Partecipata e Rete Giustizia Climatica che, assumendo sempre la stima di Unife, hanno fatto presente che l’investimento per la ripubblicizzazione poteva benissimo essere coperto con le riserve di utili di Ferrara Tua o con la vendita parziale di azioni di Hera.

Tantomeno ci si è voluti cimentare con il dato di fatto che la remunerazione del capitale, cioè i profitti garantiti ad Hera, ammontano a circa 700.000 € l’anno pagati dai cittadini con le bollette. Un aggravio che la gestione pubblica avrebbe potuto eliminare e che, proiettato sui 15 anni di gestione della nuova concessione, vuol dire più di 10 milioni di €, praticamente il doppio del costo della ripubblicizzazione! Figurarsi poi pretendere che l’Amministrazione comunale si misurasse con i temi del miglioramento della qualità del servizio, a partire dalla riduzione della produzione dei rifiuti e del loro smaltimento, che la gestione pubblica può determinare, come dimostra la positiva esperienza dell’azienda pubblica ALEA che opera a Forlì.

Il voto favorevole del PD

Per certi versi, però, ancora più sorprendente è stata la posizione presa dal Partito Democratico.
Non solo per il voto favorevole, che dimostra come l’ideologia neoliberista e privatizzatrice abbia profonde radici anche lì, ma, ancor più per le osservazioni avanzate per giustificare tale scelta.

Abbiamo sentito in Consiglio comunale, da parte del PD, affermazioni che pensavo fossero state seppellite dall’esperienza concreta dell’ultimo trentennio di privatizzazione dei servizi pubblici locali, nonché dal pronunciamento referendario sull’acqua pubblica e sugli altri servizi pubblici che risalgono al 2011. In particolare, si è sostenuto che le multiutility sono più efficienti delle aziende pubbliche “in house”, in particolare per quanto riguarda la possibilità di finanziamento e la capacità di effettuare investimenti, e che la gara, se costruita con precise caratteristiche, può determinare una reale concorrenza tra diversi soggetti gestori ed essere finalizzata a produrre miglioramenti per la cittadinanza.
Tesi, la prima, che fa finta di non vedere come ci siano molte realtà di SpA pubbliche in house, sia nel servizio rifiuti che in quello idrico, che presentano gestioni efficaci sia dal punto di vista della qualità del servizio che degli investimenti realizzati e che, invece, le multiutily subordinano questi aspetti al fatto di produrre profitti e distribuire dividendi; la seconda che volutamente ignora che, nel meccanismo della gara, il soggetto uscente, in questo caso Hera, è quello maggiormente favorito, visto che non andrebbe incontro al dover risarcire gli oneri derivanti dagli investimenti non ancora ammortizzati, e, in ogni caso, che le grandi multiutility si sono già attrezzate per spartirsi il mercato e che Hera è il “soggetto deputato” per gli affidamenti nella parte centrale e orientale dell’Emilia-Romagna, mentre Iren è quello che è “destinato” per gli affidamenti nei territori occidentali della regione. Al fondo ci sta una sudditanza culturale e politica nei confronti delle grandi multiutility, di chi, contemporaneamente, demanda loro la politica di fondamentali servizi pubblici e si illude di poter esercitare un controllo su di esse.

Infine, per rendere bene conto della discussione svolta in Consiglio comunale, per fortuna, abbiamo sentito anche voci – quella del M5S, della lista La Comune e di quella Civica Anselmo– che hanno difeso la prospettiva della ripubblicizzazione del servizio dei rifiuti, facendo leva sulle acquisizioni che un sapere collettivo ha prodotto negli ultimi anni anche a Ferrara sui temi dei beni comuni e del ruolo del pubblico.

Non è solo una battaglia persa

Ora, qualcuno potrebbe recriminare su una battaglia che comunque abbiamo perso o eccepire sul fatto che si poteva anche condurre diversamente. Senza nulla togliere all’utilità di riesaminare i passaggi che abbiamo compiuto e ragionare su possibili correttivi, ovviamente se avanzati in termini costruttivi, e senza rifugiarsi nella sempre vera, ma un po’ facile, celebre considerazione di origine guevarista ( “ l’unica battaglia persa è quella non data”), a me pare che l’iniziativa che abbiamo messo in piedi in tutti questi anni ha comunque seminato un terreno importante, quello, in primo luogo, di far crescere la sensibilità tra le persone per togliere i servizi pubblici dal mercato e trattarli come parte essenziale per affermare la logica dei beni comuni.

E questo è tanto più importante, se guardiamo alle prossime scadenze che ci aspettano. Mi riferisco in specifico al fatto che, alla fine del 2027, scadono le concessioni in provincia del servizio idrico, quella di Hera, che opera nel comune di Ferrara e nell’Alto Ferrarese, e quella di CADF, azienda a totale capitale pubblico, che ha l’affidamento nel Basso Ferrarese ( e in molti altri territori della regione, per cui varrà la pena coordinarsi anche a quel livello). Ora, la normativa attuale impone che, alla scadenza delle concessioni, si proceda alla creazione di un’unica azienda per tutto il bacino provinciale e questo significa che l’alternativa tra privatizzazione e pubblicizzazione diventerà ancora più stringente, che si dovrà scegliere tra la messa a gara con la completa privatizzazione, buttando a mare l’esperienza di gestione pubblica di CADF, oppure l’ affidamento ad una rinnovata azienda pubblica di dimensione provinciale. La fine del 2027 può apparire una data lontana, ma, in realtà, soprattutto se vogliamo dare credibilità all’idea della ripubblicizzazione, anche per la complessità dell’operazione che comporta, occorre attrezzarsi sin da adesso. L’esperienza che abbiamo compiuto rispetto alla vicenda del servizio dei rifiuti a Ferrara ci può senz’altro aiutare e, anzi, costituire la base per affrontare quest’ulteriore vicenda. La partita, dunque, è aperta, anzi potremmo dire che si inizia a giocare sul serio proprio da adesso in avanti.

Per la prima volta 2 organizzazioni israeliane per i diritti umani affermano che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza

In queste ore, dopo Francia e Gran Bretagna, anche la Germania apre la porta al riconoscimento della Palestina.  Anche Finlandia, Australia, Portogallo, Germania e Canada annunciano che a settembre riconosceranno lo Stato di Palestina a Palazzo di Vetro. Per ora Per ora sono 147 su 193 i Paesi membri delle Nazioni Unite che riconoscono lo Stato di Palestina. L’Italia, suddita e succuba degli USA è sempre più isolata, insieme all’Ungheria di Orban.
Anche in Israele il fronte sionista e omicida incomincia a sgretolarsi e per la prima volta davanti alla tragedia di Gaza viene evocata la parola genocidio.
(Redazione di Periscopio)

(Articolo originale su Valigiablu del 28.07. 2025)

Due rapporti pubblicati da B’Tselem e Physicians for Human Rights (PHR), due organizzazioni per i diritti umani con sede in Israele, affermano che lo Stato israeliano sta commettendo un genocidio contro i palestinesi a Gaza e che i paesi occidentali alleati di Israele hanno il dovere legale e morale di fermarlo. È la prima volta che importanti gruppi per i diritti umani israeliani giungono a questa conclusione.

Nel suo rapporto, intitolato “Il nostro genocidio”, B’Tselem ha raccolto gli effetti devastanti della guerra di Israele sui palestinesi: l’uccisione di decine di migliaia di persone a Gaza; la distruzione di vaste aree delle città, delle abitazioni e delle infrastrutture civili che hanno privato i palestinesi dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione e di altri diritti fondamentali; lo sfollamento forzato di quasi tutti i due milioni di abitanti di Gaza; la restrizione di cibo e altri beni di prima necessità. Nel complesso, la campagna israeliana è stata una “azione coordinata per distruggere intenzionalmente la società palestinese nella Striscia di Gaza”, scrive B’Tselem. “In altre parole: Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza”.

“Quello a cui assistiamo è un chiaro attacco intenzionale contro i civili al fine di distruggere un gruppo”,commenta Yuli Novak, direttrice di B’Tselem. “È fondamentale riconoscere che è in corso un genocidio anche senza una sentenza della Corte internazionale di giustizia. Il genocidio non è solo un crimine giuridico. È un fenomeno sociale e politico”, ha aggiunto, chiedendo un intervento urgente: “Penso che ogni essere umano debba chiedersi: cosa fai di fronte a un genocidio?”

Il rapporto di Physicians for Human Rights (PHR) si concentra sull’assalto al sistema sanitario di Gaza, con un resoconto cronologico dettagliato degli attacchi agli ospedali, documentati direttamente dal team del gruppo per i diritti umani che ha lavorato regolarmente a Gaza da prima del 7 ottobre 2023. La sola distruzione del sistema sanitario può far parlare di genocidio ai sensi dell’articolo 2c della convenzione sul genocidio, che proibisce di infliggere deliberatamente condizioni di vita tali da provocare la distruzione, totale o parziale, di un gruppo, osserva il direttore di PHR, Guy Shalev.

Entrambe le organizzazioni affermano anche che dietro questa campagna genocidaria c’è pure la responsabilità degli alleati occidentali di Israele. “Non potrebbe accadere senza il sostegno del mondo occidentale”, dice Novak. “Qualsiasi leader che non sta facendo tutto il possibile per fermare Israele è correo di questo orrore”. Gli Stati Uniti e i paesi europei hanno la responsabilità legale di intraprendere azioni più forti di quelle intraprese finora, aggiunge Shalev. “Dovrebbero essere utilizzati tutti gli strumenti a disposizione. Non è quello che pensiamo noi, è quello che richiede la convenzione sul genocidio”.

Israele ha respinto le accuse come “prive di fondamento”. Un portavoce del governo israeliano, David Mencer, ha affermato che le truppe israeliane stavano prendendo di mira i militanti palestinesi, non i civili. Se Israele avesse davvero intenzione di distruggere i palestinesi a Gaza, non avrebbe facilitato l’invio di quasi due milioni di tonnellate di aiuti al territorio, ha affermato Mencer.

I funzionari israeliani hanno inoltre voluto puntualizzare che che gli attacchi a Gaza siano un atto di autodifesa dopo l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023 che ha causato la morte di 1.200 persone, per lo più civili. Più di 250 persone sono state rapite e portate a Gaza, 50 sono ancora tenute in ostaggio, 20 si ritiene siano ancora vive. La successiva campagna di bombardamenti israeliani e l’offensiva terrestre a Gaza hanno ucciso più di 59.000 persone, tra cui migliaia di bambini, secondo il ministero della Salute di Gaza.

Di fronte a queste affermazioni, la direttrice di B’Tselem, Novak, ha precisato di non voler minimizzare il “terribile attacco” di Hamas. Però, ha aggiunto, l’offensiva israeliana in risposta a quell’assalto è degenerata in un genocidio. “Il rapporto che pubblichiamo oggi è un documento che non avremmo mai immaginato di dover scrivere. Ma negli ultimi mesi abbiamo assistito a una realtà che non ci ha lasciato altra scelta che riconoscere la verità”, afferma Novak.

Un elemento chiave del crimine di genocidio, secondo la definizione della convenzione internazionale, è la dimostrazione dell’intenzione da parte di uno Stato di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo bersaglio. Secondo le due organizzazioni per i diritti umani, alcune dichiarazioni di politici e leader militari e una cronologia ben documentata degli effetti sui civili dopo quasi due anni di guerra sono la prova di tale intenzione, anche senza una traccia cartacea degli ordini provenienti dall’alto.

L’incitamento al genocidio è stato registrato sin dall’inizio della guerra. “Non abbiamo bisogno di indovinare cosa sta facendo Israele e cosa sta facendo l’esercito israeliano, perché fin dal primo giorno di questo attacco, i leader israeliani, la massima leadership, la leadership politica, compreso il primo ministro, il ministro della difesa, il presidente di Israele, hanno detto esattamente questo”, spiega Novak. “Hanno parlato di animali umani. Hanno parlato del fatto che non ci sono civili a Gaza o che c’è un’intera nazione responsabile per il 7 ottobre”, aggiunge la direttrice di B’Tselem, facendo riferimento alle dichiarazioni di Yoav Gallant, ex ministro della Difesa. Alcuni politici israeliani hanno anche affermato che il loro obiettivo è quello di cacciare i palestinesi rimasti a Gaza. “Se la leadership di Israele, sia militare che politica, è consapevole delle conseguenze di questa politica e continua ad agire in questo modo, è molto chiaro che si tratta di un’azione intenzionale”.

I funzionari militari israeliani hanno spesso attribuito l’impatto della guerra sui palestinesi alla strategia di Hamas di combattere la sua insurrezione nascondendosi tra i civili. Ma, spiegano B’Tselem e PHR, questo da solo non può spiegare la morte e la distruzione dilaganti a Gaza. “L’affermazione di Israele secondo cui i combattenti di Hamas o membri di altri gruppi armati palestinesi erano presenti in strutture mediche o civili, spesso senza fornire alcuna prova, non può giustificare o spiegare una distruzione così diffusa e sistematica”, scrive B’Tselem.

Il trauma collettivo del 7 ottobre è stato sfruttato dai politici di estrema destra per accelerare un programma che perseguivano da anni, osserva Novak. “Il [7 ottobre] è stato un momento scioccante e una svolta per gli israeliani perché ha instillato un sentimento sincero di minaccia esistenziale. È stato il momento che ha spinto l’intero sistema e il suo funzionamento a Gaza da una politica di controllo e oppressione a una di distruzione e sterminio”.

L’ampia documentazione raccolta da medici, media e organizzazioni per i diritti umani nel corso di un lungo periodo di tempo impedisce al governo israeliano di sostenere di non aver compreso l’impatto delle proprie azioni, aggiunge Shalev (PHR). “Israele ha avuto tempo e opportunità sufficienti per fermare questo attacco sistematico e graduale”.

I leader israeliani sostengono che Israele stia rispettando il diritto umanitario e che i generali dell’esercito lavorano a stretto contatto con consulenti legali che garantiscono il rispetto delle norme. Ma per la stragrande maggioranza dei civili di Gaza, gli ultimi 22 mesi sono stati un disperato tentativo di sopravvivere ai continui bombardamenti israeliani, trovare cibo e acqua potabile a sufficienza per le loro famiglie.

I rapporti delle due organizzazioni israeliane per i diritti umani tornano a far discutere sul fatto che la campagna di attacchi di Israele a Gaza costituisca o meno un genocidio. Una questione su cui ci si interroga da tempo in attesa che la Corte Internazionale di Giustizia si pronunci sulla causa per genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele.

Come spiega il giornalista Julian Berger sul Guardian, molto probabilmente ci vorranno almeno due anni perché la Corte si pronunci e nel frattempo, in attesa che si possa parlare o meno di genocidio, si sta creando una pericolosa situazione di impasse per cui la comunità internazionale non interviene aspettando il verdetto della CIG, e Israele continua a perpretare crimini contro l’umanità. “Non dovrebbe essere necessario che si verifichi un genocidio perché sussista l’obbligo di intervenire o di agire”, dice al Guardian Michael Becker, funzionario legale presso la Corte Internazionale di Giustizia dal 2010 al 2014 e che ora è assistente professore di diritto internazionale dei diritti umani al Trinity College di Dublino.

 

Cover: A mosque destroyed in the Jabalia area of the Gaza – Wikimedia Commons

Appello di 68 Ambasciatori a Giorgia Meloni: Riconoscere la Palestina ora!

Sono Pasquale Ferrara, sono stato Ambasciatore d’Italia ad Algeri e Inviato Speciale per la Libia, e oggi ti scrivo perché il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Italia non può più attendere. Dopo Norvegia, Spagna, Irlanda, Francia, anche il governo italiano deve compiere questo gesto di responsabilità internazionale: sostenere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, rilanciare la soluzione dei “due Stati” e dare forza a un processo di pace fondato sul rispetto del diritto umanitario. Con me, altri sessanta ex ambasciatori italiani hanno già chiesto a Giorgia Meloni di agire: unisciti a noi e chiedi che l’Italia sia dalla parte dei diritti umani e della giustizia firmando la petizione.
(Pasquale Ferrara-promotore della petizione)

Appello di 68 Ambasciatori a Giorgia Meloni: Riconoscere la Palestina ora!

Il problema

Noi Ambasciatori d’Italia, non più in servizio, abbiamo inviato il 27 luglio 2025 la seguente lettera aperta alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sull’adozione di misure nei confronti di Israele e sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Analoga iniziativa hanno assunto autonomamente ex-Ambasciatori dell’Unione Europea verso i vertici di Bruxelles, come pure ex-Ambasciatori di Regno Unito e Germania. I lunghi anni spesi nel servizio diplomatico, tenendo fede alla causa della pace e del dialogo, nello spirito dell’articolo 11 della costituzione repubblicana, ci hanno spinti a rivolgere questo appello, non potendo rimanere in silenzio ed inerti dinanzi alla sistematica negazione in atto da parte del governo israeliano di tutto quello in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo svolto la professione diplomatica. Coloro che vogliono sostenere questa iniziativa possono aggiungere la loro firma alla nostra per rafforzarne l’efficacia.  

Lettera aperta alla Presidente del Consiglio dei ministri, On. Giorgia Meloni

Signora Presidente del Consiglio,

ci sono momenti nella storia in cui non sono più possibili ambiguità né collocazioni intermedie. Questo momento è giunto per Gaza.  Ormai da molti mesi non ci sono più giustificazioni possibili o argomentazioni convincenti sulla condotta delle operazioni militari israeliane a Gaza. Gli esecrabili attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 non hanno più alcuna relazione, né quantitativa né qualitativa, con l’orrore perpetrato nella Striscia da Israele nei confronti della stragrande maggioranza di civili inermi, che non ha nulla a che vedere con il diritto di Israele all’autodifesa e che non è affatto improprio qualificare in termini di pulizia etnica, mentre la Corte Internazionale di Giustizia esamina gli estremi del genocidio.

Le flagranti violazioni dei diritti umani e della dignità delle persone, che non risparmiano bambini, donne, anziani, ammalati, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, la costante inosservanza della legalità internazionale e del diritto umanitario – di cui il governo israeliano, come avviene per tutti i governi, dovrà rispondere – minano le stesse fondamenta della comunità internazionale e cancellano conquiste etiche maturate in decenni di consuetudini internazionali.

Le inaccettabili restrizioni per l’accesso umanitario a Gaza, la riduzione a livelli minimi inammissibili, senza reali alternative, delle attività delle organizzazioni internazionali a favore di una sedicente fondazione umanitaria, stanno provocando migliaia di nuove vittime innocenti, che si aggiungono alle decine di migliaia già provocate dai massicci e indiscriminati bombardamenti israeliani in tutta la Striscia. In questi mesi abbiamo assistito a incessanti spostamenti forzati di popolazione da una parte all’altra della Striscia senza che ci fossero delle reali zone di protezione internazionale. Tutto ciò è avvenuto mentre tutte le infrastrutture di Gaza, necessarie anche solo alla sopravvivenza della popolazione, sono state sistematicamente distrutte, a cominciare dagli ospedali, per continuare con le scuole, le università, gli stessi campi profughi.

Dinanzi a tutto ciò, non servono più le dichiarazioni, pur necessarie, come quella firmata da 30 Ministri degli Esteri (ed una Commissaria UE) il 21 luglio 2025, a cui l’Italia meritoriamente si è unita. Servono gesti politico-diplomatici concreti ed efficaci.

Dinanzi al ripetersi di eccidi e massacri di civili, chiediamo al Governo di adottare comportamenti conseguenti, in particolare i seguenti:

1.     sospendere ogni rapporto e cooperazione, di qualunque natura, nel settore militare e della difesa con Israele;

2.     sostenere in sede UE ogni iniziativa che preveda sanzioni individuali (restrizioni agli spostamenti internazionali e congelamento delle attività economico-finanziare e dei patrimoni) nei confronti dei Ministri israeliani – come Smotrich e Ben G’vir – che incoraggiano e appoggiano il moltiplicarsi degli insediamenti illegali e le violenze dei coloni in Cisgiordania;

3.     unirsi al consenso europeo per la sospensione temporanea dell’Accordo di associazione tra Israele e l’Unione Europea.

L’iniziativa da assumere con urgenza, di altissimo significato politico e tutt’altro che meramente simbolica, è l’immediato riconoscimento nazionale dello Stato di Palestina, in vista della Conferenza internazionale sull’attuazione della soluzione e due Stati. Chiediamo al governo di ripensarci. Questa decisione confermerebbe che da parte italiana la prospettiva di “due popoli, due Stati” non è solo uno slogan privo di senso compiuto e di qualunque credibilità, ma che si tratta di un percorso negoziale da riprendere immediatamente. Le relazioni con Israele devono essere strettamente condizionate a questa prospettiva. L’eventuale annessione in tutto o in parte dei Territori palestinesi, ad esempio, dovrebbe comportare la radicale revisione delle relazioni diplomatiche con Israele.

Signora Presidente del Consiglio, i lunghi anni spesi nel servizio diplomatico, tenendo fede alla causa della pace e del dialogo, nello spirito dell’articolo 11 della Costituzione repubblicana, ci hanno spinto a rivolgerle questo appello, non potendo rimanere in silenzio ed inerti dinanzi alla sistematica negazione in atto da parte del governo israeliano di tutto quello in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo svolto la professione diplomatica.

Roma, 27 luglio 2025

Primi firmatari in ordine alfabetico:

Aldo Amati, Achille Amerio, Lorenzo Angeloni, Antonio Armellini, Marco Baccin, Antonio Badini, Piero Benassi, Mario Boffo, Alberto Bradanini, Giovanni Brauzzi, Sergio Busetto, Rocco Cangelosi, Francesco Caruso, Ino Cassini, Guido Cerboni, Rosanna Coniglio, Fabio Cristiani, Antonio D’Andria, Gabriele De Ceglie, Anna Della Croce, Vincenzo De Luca, Enrico De Maio, Paolo De Nicolo, Roberto Di Leo, Pasquale Ferrara, Giovanni Ferrero, Luca Fornari, Fernando Gentilini, Giovanni Germano, Gianni Ghisi, Michele Giacomelli, Luca Giansanti, Gherardo La Francesca, Guido La Tella, Massimo Leggeri, Maurizio Lo Re, Liana Marolla, Roberto Mazzotta, Maurizio Melani, Andrea Meloni, Gabriele Menegatti, Elio Menzione, Sergio Mercuri, Laura Mirachian, Franco Mistretta, Giuseppe Mistretta, Enrico Nardi, Ferdinando Nelli Feroci, Claudio Pacifico, Angelo Persiani, Michelangelo Pipan, Natalia Quintavalle, Cesare Ragaglini, Cristina Ravaglia, Giancarlo Riccio, Lucio Alberto Savoia, Pietro Sebastiani, Paolo Serpi, Stefano Starace Janfolla, Stefano Stefanini, Vittorio Surdo, Antonio Tarelli, Franco Tempesta, Pasquale Quito Terracciano, Carlo Trezza, Raffaele Trombetta, Gianfranco Varvesi, Gianni Veltroni

Alle ore 12,04 del 1 agosto 2025  sono state raccolte e verificate 42.661 firme

Firma subito  la petizione Qui

‘L’occhio della gallina’, autoritratto cinematografico

Un film-denuncia di chi va controcorrente con una parola d’ordine: resistere

Proiettato al SalinaDocFest, L’Occhio della gallina, di Antonietta De Lillo, classe 1960, è l’autoritratto di una regista relegata ai margini dell’industria cinematografica dopo un lungo contenzioso giudiziario, iniziato nel 2004, legato alla distribuzione del suo film di maggior successo, Il resto di niente, che avrebbe potuto consacrarla al grande pubblico.

‘Colpevole’ di avere criticato l’Istituto Luce per aver distribuito il suo film in sole 20 copie, la De Lillo si vede citata in giudizio per diffamazione dallo stesso Istituto, con una richiesta di danni per 250.000 euro. La vicenda giudiziaria durerà quasi 10 anni, con ragione alla regista che ne esce provata ma resistente.

Superare l’isolamento

Antonietta De Lillo ripercorre la propria carriera partendo dagli inizi, tra reportage, giornalismo, televisione e la voglia di fare il cinema a Roma, dove ha lavorato in molti ruoli, da fotografa di scena ad assistente operatrice. Grazie all’incontro con Giorgio Magiulo, giovane operatore Rai che sognava il cinema. Perché alla regista piace seguire le sorti delle persone e aiutarle a realizzare i loro sogni.

“Mi sono detta, sai che c’è, mi trasferisco a Roma e vediamo un po’ come si fa questo cinema”. Antonietta De Lillo

Il film-documentario, di 93 minuti, è un intenso e accorato racconto di vita fatto di interviste, ricostruzioni e archivi personali, cinematografici e televisivi, che mostra le difficoltà di chi va controcorrente e la creatività e la resistenza necessarie a reinventarsi con i mezzi a propria disposizione.

Questi frammenti di archivi e video sono direttamente proiettati sulle pareti dello studio che De Lillo sceglie come set, circondata da collaboratori e dalle figlie. Una sorta di lavoro collettivo, rappresentato anche dal lancio del format del ‘film partecipato’, o di ‘documentario di remix’ di materiali preesistenti.

Tra una sequenza d’archivio e una dichiarazione di oggi, una gallina anarchicamente si aggira per le stanze, facendo ironicamente da alter ego alla regista, che rivela il senso del titolo: un capovolgimento della visione, che assomiglia all’esperienza paradossale di emarginazione vissuta. Il capovolgimento è insito nel funzionamento dell’occhio della gallina che si chiude al contrario, dal basso verso l’alto.

Così, mentre il cinema le viene negato, De Lillo ne riafferma le doti culturali e artistiche, raccontandolo anche come strumento di cura e antidoto contro l’ingiusto isolamento, con un importante ruolo comunitario, culturale e politico.

Un diario forte ed esaustivo che insegna a non mollare mai, a trovare la forza e la spinta per la creatività sempre e ovunque.

Resistere

Antonietta De Lillo racconta di essere nata fortunata: mai era stata una bambina che di fronte a un negozio di pasticcini desiderasse qualcosa che non poteva avere.

Ma trovarsi di fronte a diritti negati è stato per lei pesante, un vero capovolgimento.

Raccontare l’ingiustizia è il suo modo di resistere, in una società ormai disabituata ad ascoltare e aiutare a trovare la verità. Oggi, si passa davanti a problemi e fragilità e si fa finta di non vedere. Anzi, spesso, ci si volta dall’altra parte.

Aprire la propria casa di produzione, Marechiaro film, è il suo modo di resistere in un mondo che non sta a sentire.

Note di regia

La strada scorre veloce dietro di me, poi il buio. Guidavo il motorino quando un ufficiale giudiziario mi investì con la sua auto. Avevo 23 anni. È stato in quel momento che la mia storia con il cinema e con la giustizia è iniziata. Pensai che dai soldi dell’assicurazione avrei potuto fare un film e, insieme al mio compagno dell’epoca, decidemmo di organizzarlo. In realtà il risarcimento non arrivò mai ma riuscimmo lo stesso a realizzare nel 1985 il nostro primo lungometraggio, esordio felice, premio speciale ai Nastri d’Argento e candidato ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento come migliore opera prima. Così è cominciata la mia carriera come regista e produttrice, caratterizzata dalla creazione di film liberi e indipendenti, ma con l’inizio del nuovo millennio è cambiato tutto. Mi sono trovata in un mondo per me completamente alieno e da allora, per tutto questo tempo, ho avuto una sola frase in testa, suggeritami da un’amica per me molto cara: Non fermarti mai!

L’Occhio della Gallina vive dell’emozione di trovarmi dall’altra parte della telecamera per la prima volta nella mia carriera. La narrazione è in bilico tra memoria e presente, realtà e immaginario, per questo ho scelto un linguaggio ibrido tra finzione e cinema del reale.
La forma cinematografica dell’autoritratto mi permette di porre l’emotività in primo piano, anche rispetto ai fatti, seppur violenti e unici nel panorama cinematografico, che hanno caratterizzato i miei ultimi vent’anni di carriera. La particolarità del film è da una parte la ricostruzione delle tappe più importanti di una lunga battaglia giudiziaria che si è svolta dentro e fuori le aule del tribunale, dall’altra la forza di un racconto dal vero, che non è una storia chiusa ma ancora in divenire, dove tutto ancora sta accadendo e può accadere, davanti allo sguardo dello spettatore. (Antonietta De Lillo)

Antonietta De Lillo

Nasce a Napoli il 6 marzo 1960. Inizia la sua carriera professionale come fotoreporter per diversi quotidiani e settimanali. Nel 1985, dirige con Giorgio Magliulo il suo primo lungometraggio Una casa in bilico, vincitore del Nastro d’Argento come migliore opera prima e del Premio Casa Rossa al Bellaria Film Festival. Nel 1990, è al suo secondo film, Matilda, sempre realizzato in collaborazione con Giorgio Magliulo. Tra il 1992 e il 1999, firma numerosi documentari e video ritratti tra i quali: Angelo Novi, fotografo di scena La notte americana del dr. Lucio Fulci. Nel 1995 dirige Racconti di Vittoria, Premio del Sindacato Critici Cinematografici alla 52° Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1997 dirige Maruzzella, episodio del film collettivo I Vesuviani, e nel 2001, Non è giusto, presentato al 54° Festival del Cinema di Locarno. Nel 2004, dirige Il resto di niente, evento speciale alla Mostra del Cinema di Venezia e vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui tre candidature ai David di Donatello, il Premio Flaiano come migliore sceneggiatura e cinque candidature ai Nastri d’Argento. Nel 2007, fonda Marechiarofilm, società di produzione e distribuzione con cui nel 2011 realizza, in qualità di ideatrice e curatrice del progetto, il primo film partecipato in Italia, Il Pranzo di Natale, primo di una lunga serie di film partecipati insieme a tantissimi giovani collaboratori e collaboratrici. Nel 2024 il suo ultimo documentario, L’occhio della gallina, viene presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Pubblicato su Taxidrivers

Parole a capo
Valentina Meloni: «Confini immaginari» e altre poesie inedite

Parole a capo <br> Valentina Meloni: «Confini immaginari» e altre poesie inedite

 

Il miracolo di ieri

Piove e l’acqua scorre in rivoli e parole
sulla tua corteccia erosa dal tempo
finalmente il cielo è sceso sull’ariosa
chioma e le nuvole a mezz’aria
hanno reso alla terra la sua memoria.
Tutto scintilla nelle piccole gocce
che il sole ha riempito di bellezza
e sulle foglie scivolano pensieri
verdi di linfa e ricchi di dolcezza.
La luce che lambisce le tue fronde
ha prodotto il miracolo di ieri:
essere al mondo con bocci e fiori nuovi
una poesia che sgorga stilla a stilla
come da una scintilla il sogno vivido
di radici che s’intrecciano nell’ombra.
Piove e il fiume secolare del dono
di parola torna a scorrere limpido
nella foresta delle nostre intenzioni.

 

*

 

Chiocciole

Mentre sistemavo il giardino
ho scoperto dove vanno a morire
le chiocciole…
Erano lì, sotto le foglie dell’iris
riunite in assemblea
con i loro gusci vuoti:
– ma dove ve ne siete andate?
La terra e le formiche vi hanno
portato nel regno delle ombre?
Ho disseppellito radici di gramigna
e vermi, ho preso in mano
quel che resta
del vostro grazioso passeggio
del vostro linguaggio alieno
fatto di cornine ritratte e guizzanti
di strascichi di schiuma e di lentezza.
A me restano le spire
dei gusci luccicanti -tra le foglie-
e la fatica di dire sì alla vita
al passo lento della morte.

 

*

 

L’Origine del mondo

In fondo eri L’Origine del mondo
il dipinto vero di Gustave Courbet
col tuo sesso spalancato sul letto
a gridare di rabbia e per dispetto.
Di notte piangevi: «Dirò tutto a Dio…
Una bambina non si tratta così!»
E anch’io nell’altra stanza piangevo
vestita sul letto piangevo per te.
Quelle caviglie legate alla sponda
facevano male pure a me mentre
dal corridoio passavo guardando
dentro per sapere chi è, chi grida
che fa, così disperata, a chi urla
senza un perché? E non ricordare più
il nome ma gli occhi soltanto, gli occhi
fissi alla porta d’ingresso aspettando
un qualche infermiere qualcuno che sa
che un matto non perde il pudore di sé.
Ti ho coperta e ti ho dato l’acqua
tu hai smesso di urlare il tuo dolore,
i tuoi occhi imploranti dicevano
cose per cui la bocca non ha voce…
Ti ho coperta e ti ho dato l’acqua
poi ho chiuso la porta dietro di me.

[Giugno 2020, Ospedale psichiatrico di Perugia]

 

*

 

Senza titolo

 

Sai, amore, il sesso è sopravvalutato
-come scrisse l’Anedda nelle Historie –
ma non la solitudine che segue.
Così quando te ne vai e resto sola
con la mia tristezza
ho l’amara certezza che l’amore
si nasconda in ciò che doni e sempre
si rimane a mani vuote
col ricordo che, a poco a poco, scompare
se non ci sei tu a rammentarlo:
un gelato, una giornata al sole,
quell’alba in cima al castello, i baci
a Monte del Lago e quella mano nella mano
che non mi volevi dare… forse
per la paura di lasciarti andare,
di camminare cieco in un mondo che svanisce
come queste mie parole
di cui nessuno certo si ricorderà.

 

*

 

Confini immaginari

 

Poi sto qui a chiedermi che senso abbia
scrivere di non so più cosa mentre
poco lontano, a Gaza, sparano
sui disperati in fila per il pane;
e non so darmi risposta e tremo
al pensiero che io sia ancora in vita mentre
in una terra di cui conosco poco o nulla
una bimba -occhi profondi- muore
incenerita dalle bombe.
Un tuono riempie le distanze.
È il senso di colpa del sopravvissuto
o dell’indifferente? Mi chiedo- mentre
la pioggia scorre sul volto e non cancella
niente di quello che fa male;
eppure mi conforta sapere che il pianto
non s’è visto- nascosto in una goccia-
che si è confuso con l’eco addolorato del cielo
in un pomeriggio qualunque
di questo cinque luglio duemilaventicinque.
Agli esseri ancora in vita non sia data
la disperazione anche se, poco più in là,
la guerra di confini immaginari
ha cancellato i volti di una popolazione.

 

Foto di Patrick Bachowski da Pixabay

 

Valentina Meloni Nata a Roma nel 1976, dal 2007 vive in Umbria con suo figlio. Ha pubblicato per la poesia: Le regole del controdolore (Temperino Rosso, 2016), Eva (Edizioni Nosm, 2018), Alambic (Progetto Cultura, 2018), con Giorgio Bolla Corrispondenze da un mondo increato – epistolario poetico (La Vita Felice, 2018), L’evidenza del vuoto (Ensemble, 2022), La tessitrice (Yod Edizioni, 2022), Usei-il suono della pioggia (La Ruota Edizioni, 2023). Le plaquette numerate: Nei giardini di Suzhou, con dipinti sumi-e di Santo Previtera (FusibiliaLibri, 2015), Il Fiore della Luna, Leggenda di Rosaspina poemetto in haiku (La linea dell’equatore, 2018) e Suite della solitudine illustrato dall’artista Rosario Morra. Le raccolte bilingue: Nanita (Otata’s Bookshelf, 2017), Enso: Haiku Yoti (Nausicaa 2019); le fiabe illustrate: Storia di Goccia, Nanuk e l’albero dei desideri, Nanuk e il ragno Alvaro, Briciole di Haiku. La raccolta di prose brevi e haibun Ippocampo – Prose poetiche e Reminiscenze (ilmiolibro 2020). Ha curato e tradotto dall’inglese Dendrarium del poeta bulgaro Alexander Shurbanov (Musicaos, 2021). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue e sono apparsi in blog, riviste e quotidiani internazionali.
Contatti: www.valentinameloni.com

Su “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Valentina Meloni il 27 aprile 2023 e il 21 marzo 2024.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 296° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Trump-Von der Leyen, la doccia scozzese:
più che un accordo, una resa

Trump-Von der Leyen, la doccia scozzese: più che un accordo, una resa

 

La UE ha raggiunto un “accordo” con gli Stati Uniti. Pagherà per le merci che esporta dazi al 15% (incluse le auto che ai tempi di Biden avevano dazi al 2,5%, saliti al 27,5% con Trump), mentre per acciaio e alluminio rimangono al 50%. Per alcuni prodotti mancano i dettagli (non si sa se pagheremo più del 15% o meno). La UE si impegna ad acquistare 250 miliardi di gas all’anno nei prossimi 3 anni (alla faccia del green deal) e altrettanto per armi (alla faccia di una difesa UE), a investire in USA 600 miliardi di dollari all’anno che si aggiungono a quelli drenati dall’IRA, il piano antinflazione di Biden e ai 300 miliardi di risparmi UE che ogni anno migrano in USA.

Dovrà acquistare solo chip americani in modo da rafforzare la dipendenza tecnologica dalle imprese Usa. Se si aggiunge la svalutazione pilotata del dollaro e il fatto che le stablecoin Usa invaderanno l’Europa, è una disfatta dell’Europa senza precedenti. In tal senso è un accordo storico che conferma la completa sudditanza di questa UE agli Stati Uniti e che avrà pesanti ripercussioni sull’occupazione, l’indipendenza e la prosperità.

La UE ritira anche tutte le possibili tasse sui servizi americani. Si stima che l’Italia perderà un terzo delle vendite negli Stati Uniti, minando il lavoro di 200mila suoi cittadini. Un danno gigantesco che avrà conseguenze devastanti sull’idea stessa di Europa, che mostra tutta la sua vacuità, come avviene da anni su ogni questione internazionale e oggi, drammaticamente, su Gaza.

Giunge alla fine il viaggio UE durato 25 anni sul costruirsi come cortigiani degli Stati Uniti, senza alcuna statualità propria, senza difesa, senza politica estera, senza politiche comuni, allargandosi di continuo solo come mero mercato. Con ogni probabilità l’accordo (giudicato incredibilmente positivo dalla Von der Layen… meglio 15% che 30%, alla Fantozzi) solleverà un’ondata di sdegno in chi nutriva qualche residua fiducia in questa UE e avrà enormi conseguenze sulle elezioni europee del 2029.

Del resto l’esperienza del Regno Unito (10 % di dazi), uscito con la Brexit, dimostra che da soli si ottiene più della UE, se c’é uno Stato si può negoziare (sempre che non ci sia, dietro le quinte, una strategia anglosassone nel colpire la UE anche per questa via).

L’accordo è stato fatto nel resort di Trump in Scozia in una pausa della sua partita a golf – anche per umiliare la Von der Leyen. Chissà che risate si faranno Putin e Xi Jinping a vedere una tale scena di vassallaggio, che preannuncia come andrà a finire la guerra in Ucraina.

Gli Stati Uniti, con i dazi pagati dalle imprese (e lavoratori) UE (e degli altri paesi) contano di finanziare il “Big Beatifull Bill”, la legge di bilancio pluriannuale che riduce le imposte ai ceti medio-alti e taglia quel poco di pubblica sanità che c’era. Inoltre le imprese americane non pagheranno le imposte sui profitti del 15% che si era deciso in ambito OCSE, né pagheranno dazi sui servizi verso la UE (digitali, etc.) che erano un’arma negoziale strategica della UE, né pagheranno le imposte sui movimenti di capitale in dollari sui quali lucrano da 30 anni nella totale assenza di intervento della UE. Vedremo quali saranno i danni nei prossimi anni su occupazione e ricerca, i primi ad essere tagliati e poiché le merci cinesi sono ancora più colpite (dazi al 30%) crescerà la pressione cinese ad esportare in Europa con sconti, avvantaggiata dai maggiori costi di gas e di armi che ora dobbiamo pagare agli americani. Non c’è che dire: un ottimo risultato negoziale.

UE: gigante burocratico, nano politico ed economico

Come siamo arrivati a questo disastro? Etienne Balazs (La burocrazia celeste) dimostrò come il declino della Cina imperiale fosse dovuto in gran parte alla burocrazia dei mandarini (funzionari-letterati), la classe più potente sotto l’imperatore che impedì al ceto borghese di sviluppare una propria autonomia economica e culturale, impedendo ad una Cina più avanzata della stessa Europa nelle tecnologie (nei secoli del medioevo) di decollare. Questa UE oggi è simile a quella Cina medioevale. Ha uno striminzito bilancio annuale di 260 miliardi (1,13% del Pil UE) e si appresta ad approvare il nuovo bilancio 2028-2034 di poco maggiore (290 miliardi) pari a 1,26% del Pil, come la spesa pubblica dell’Austria che con 9 milioni di abitanti incide del 2% sull’intera popolazione UE. La spesa è finanziata per ¾ dai contributi degli stessi 27 paesi e da alcune tasse (dazi doganali, tasse sull’energia, parte dell’Iva nazionale, sui rifiuti non riciclati, ammende varie). In futuro dovrebbero aggiungersi imposte per 8-9 miliardi sulle emissioni di gas serra, importazioni di carbonio, transazioni finanziarie, rifiuti elettronici non raccolti, sulle imprese con più di 100 milioni di ricavi. La spesa è per Agricoltura (circa 50 miliardi, pare il 20% in meno), Coesione 70, Competitività 58, Azione esterna 28, Difesa 19, Ucraina 14. Cifre irrisorie per un’area di 450 milioni di cittadini. Un “nano finanziario” ma “gigante regolatorio”. Un’evidente sproporzione che impedisce a questa UE di far sentire la propria voce nel mondo (e infatti su Gaza è scandalosamente muta).

Questa UE però non è quella voluta dai padri fondatori ma dagli americani, il cui allargamento era utile alle imprese americane. Una UE che, mentre sottraeva sovranità ai singoli Stati, non è mai cresciuta come statualità, in modo da creare un gigante privo di forza, esposto al ricatto dei suoi 27 Stati molto più grandi, attuatore di normative e ora, che l’America è cambiata, completamente succube del bullo americano di turno. La “burocrazia celeste” si occupa di normative ma ignora le poste in gioco nella politica estera. Questa è oggi la Commissione Europea. Una “Biancaneve e i 7 nani” alla rovescia, cioè una Biancaneve nana e 27 nani che sono dei giganti polifemici ciascuno accecato nell’occhio europeo che scruta il mondo perché vede solo il proprio Stato nazionale, in modo da essere infilzati dall’astuto-bullo Ulisse di turno, che un recente libro (Contro Ulisse, un eroe sotto accusa, di Monica Centanni) mostra in veste non solo di eroe, ma di ladro e assassino.

Più che una trattativa è stata un alzare bandiera bianca, accettando quello che passa il “convento americano” (e nella speranza che tra un anno non alzi ancora i dazi), senza introdurre i nostri dazi sui servizi Usa (digitali,…) che sono in avanzo nello scambio con la UE, favorendo così le big tech americane, né discutendo delle regole necessarie a garantire quegli standard europei che pure la UE si è data (su sanità, privacy, sicurezza, fisco sulle grandi imprese) lasciando perdere la tassazione sui profitti delle multinazionali Usa (minimum tax) in quanto minacciati da Trump di essere tassati sui redditi da capitale maturati dagli europei sui titoli americani (sezione 899 del BBB). Uno scambio a favore dei ricchi europei, a costo di perdere centinaia di miliardi di imposte usabili a favore di tutti, non discutendo la tassazione che la UE potrebbe fare sugli investimenti in dollari delle persone fisiche e giuridiche (mobilità dei capitali dalla UE agli USA) che colpirebbe i mercati finanziari americani e darebbe parecchio fastidio a Trump – e la prossima stangata alla UE sarà accettare di usare le stablecoin americane in Europa, indebolendo tutta l’economia europea.

Ma a chi serve una tale Europa, che non ha capito che l’alleato imperatore americano che oggi la bullizza è in totale dissolvenza e altri attori emergeranno sulla scena mondiale? Non certo agli europei che ci vivono e lavorano, una enorme ameba a favore del neo liberismo americano e siffatta in modo da convincere che gli Stati sovrani siano molto meglio. Accettando i dazi (e dio non voglia le stablecoin Usa), la UE ammette, peraltro, contraddicendo 25 anni di narrazione mainstream, che si può prosperare in un mondo non basato sul libero scambio.

In attesa di una nuova UE, c’è qualcosa di meglio tra liberismo senza regole e protezionismo à la Trump? Anche per la teoria economica ci sarebbe una terza via per regolare i movimenti internazionali di merci e di capitali, basata non sul potere del più forte di imporre dazi ai più deboli ma sul reciproco social standardL’idea fu avanzata dall’Ilo (l’agenzia Onu per lavoro e le politiche sociali) e queste regole sono già presenti nei Trattati Ue e nello stesso statuto del FMI (Fondo monetario internazionale), che già in passato ha ricevuto l’attenzione del parlamento europeo. Il nucleo del social standard consiste in una regolazione/limitazione dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela ambientale e sanitaria, sulle tasse non pagate dalle imprese rispetto a un comune obiettivo di riferimento e alla posizione da cui partono. Così congegnato, il meccanismo può sanzionare non solo la Cina che reprime i sindacati indipendenti o la Romania che taglia il welfare per sussidiare gli investimenti delle multinazionali, ma anche la Germania che comprime il salario per unità prodotta o gli Stati Uniti che abbattono i vincoli ambientali alla produzione e non tassano le loro imprese che fanno affari in Europa. Vale anche per l’Italia se dovesse ridurre i diritti dei cittadini o sul lavoro.

Il confronto internazionale avverrebbe non sulla base di chi è più forte, ma di chi rispetta i diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un incentivo a costruire un mondo migliore dell’attuale, attuando quella democrazia sostanziale che potrebbe stimolare anche i paesi poveri e i BRICS. In un mondo che sarà sempre più multipolare (che Trump o XI Jinping lo vogliano o no), l’Europa mostrerebbe al mondo il suo lato umano e civile. Ma ciò implica prendere le distanze dal modello americano. Finiremo dalla “padella americana” alle “braci” cinesi e russe? No, perché si affermerebbe un modello umanistico dell’Europa che è universale, dove democrazia, libertà e prosperità incidono anche sugli scambi commerciali (l’umanità dei fatti e non quella delle parole). E’ questa l’attualizzazione nel XXI secolo di quell’Europa a cui pensavano i suoi fondatori reclusi a Ventotene. Quella attuale è invece un’ameba ideale per i bulli di turno.

800 km di concentrazione, cercando sincronicità tra corpo e mente

Di riffa e di raffa, ho pedalato per 800 km e sono arrivata in Toscana.

Ho il cuore colmo di meraviglia e gratitudine per avercela fatta fino a qui, tutto ciò contemporaneamente, muove felicità e paure dentro di me.

Sono 800 km di concentrazione, perchè seppur l’andatura è lenta, ho una bicicletta che pesa, e viaggio su strade che non conosco.

800 km in cui cerco sincronicità, ovvero la capacità di coordinare corpo e mente per un’esperienza fluida, efficiente e appagante. In un viaggio simile, la sincronicità però va oltre.

Fiume Ombrone

Un itinerario di massima c’è l’ho, ma “accadono cose”.

Accadono cose impreviste, come incontrare casualmente persone con patologie reumatiche.

Entro in un bar in Assisi per un caffè, la barista affabile si incuriosisce di una donna che viaggia sola in bicicletta, rivelo la motivazione del mio viaggio e guarda caso, anche lei ha l’artrite reumatoide. Mi trovo ancora a pedalare dopo 51 km in salita chiedendomi il perché non mi sia fermata prima da qualche parte, quando incrocio una donna sorridente e solare che con delicatezza mi chiede, ed io: ”viaggio per portare sensibilizzazione sulle patologie reumatiche”.  E lei mi fa vedere le mani e riconosco gli inequivocabili noduli nelle sue dita.

Rocca di Montalcino

Cerco un B&b in Maremma, ho un elenco di 9 strutture, provo alla prima, non so ma sento che mi devo aprire dicendo il motivo per cui sto viaggiando, la voce maschile che mi risponde tentenna qualche secondo, poi gli sento dire: “Anche io ho una patologia reumatica”.

Quel “Anche io” capita troppo spesso per essere una coincidenza.

Soprattutto a ben vedere, incontro “i miei simili” in quei giorni “no”, quando sono stanca, quando le mani non funzionano, quando l’artrite mi blocca la mascella (con tutte le prelibatezze culinarie che ho a portata di mano è una vera sfortuna), quando penso di ritornare a casa, riprendere tutto come prima e dire: “Sì, é stato bello!”.

Quel “anche io” ha un effetto dopante sulla mia pedalata e sul mio umore. E’ un pedalare in divenire che sento avere uno scopo al di là e al di sopra, di quello da me prefissato.

Questa sincronicità si manifesta anche nell’incontro con realtà sociali e progetti di turismo accessibile.

E’ un attimo entrare alla mattina in un info point a chiedere di piste ciclabili e ritrovarsi alla sera a cena in una casa per persone adulte con disabilità.

Conoscere così uno di quei progetti del “Dopo di noi” degni di nota che mi riportano indietro nel tempo, quando lavorai per 8 anni in una struttura simile, imparando l’inverosimile e lasciandoci un pezzo di cuore.

Tanta casualità mi fa stare attenta, in ascolto, come faccio con il mio respiro, con lo sforzo dei miei muscoli, con il cambio e i rapporti della Bianchina. 

Altrimenti perdo energie, forze, occasioni.

Tutto avviene per come deve avvenire e anche il tempo da un susseguirsi di eventi Kronos, si trasforma in Kairos, cicli in comunione con il mio sentire, cicli che mi nutrono e nei quali posso esprimere chi sono.

Parco dell’Uccellina – spiaggia

In copertina: Parco dell’Uccellina (Grosseto) – Itinerario cicloturistico

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USA e Italia. Perchè la diseguaglianza porta al declino

Salari, sanità e scuola. Il caso americano e quello italiano

La vicenda dei dazi ha messo in luce quella debolezza degli Stati Uniti di cui avevano parlato alcuni esperti ma che a lungo era stata occultata dall’élite (e dal mainstream che imperversa sui nostri media). Il motivo era convincere che la globalizzazione (avviata nel 1999) avesse arricchito tutti, gli occidentali e prima di tutto gli americani.

Ha arricchito di certo e in modo enorme una esigua minoranza di occidentali (senza precedenti storici), ma immiserito una buona metà dei suoi cittadini (europei e americani). Lo si vede non solo dalla modestia dei salari reali, ma dal restringersi dei tre pilastri dello “Stato sociale” che integravano il salario: una casa accessibile, una sanità gratuita, buone pensioni (in Italia “retributive”, cioè calcolate in base agli ultimi stipendi e quindi più alte delle attuali che usano il metodo contributivo). Dopo poveri e operai, ora a soffrire è anche gran parte della classe media.

Trump deve fare i conti con tre fattori di debolezza prodotti proprio dall’iper libero scambio:
1. alto debito pubblico,

2. alto deficit commerciale,
3. poca manifattura (8milioni; l’Italia da sola ne ha 4 milioni e 368mila). Per questo si svaluta Re dollaro, nonostante le mattane e i dazi di Trump. L’Europa (non la Cina) lo fa più forte di quel che è e la sua ricetta per rifare “grande” l’America (dazi, re industrializzare gli Stati Uniti, avere la leadership tecnologica sui principali settori, togliere ai poveri per dare ai ricchi, disfarsi degli immigrati) è molto complicata e da “bullo” quando vuol far pagare i costi ai suoi alleati.

Più complicato è farli pagare ai nemici (Cina, Russia) perché hanno “le carte” (come Trump usa dire) per contrastarlo: la Cina ha materie prime e rare che, se non acquistate, fermano parte della produzione tecnologica e militare americana, la Russia non si può vincere con armi convenzionali ma solo nucleari e ha immense risorse prime che si vorrebbero condividere. Per questo vuol far affari con la Russia, cambiando rispetto a Biden, la politica estera e sperando che la “leva” degli accordi & affari la allontani (almeno un po’) dalla Cina.

Un modello basato sulla diseguaglianza e le privatizzazioni

Ciò che non è cambiato da Biden è il modello interno degli Stati Uniti basato su disuguaglianza e privatizzazioni.
Anzi il Big Beatifull Bill prende ai poveri per dare ai ricchi, facendo altro debito pubblico. L’idea di Trump è finanziarlo coi dazi che nei primi 2 mesi hanno generato per gli USA 40 miliardi aggiuntivi, coi quali spera di finanziare i tagli delle tasse a ricchi e benestanti e aumentare i salari. L’Europa che non sa che pesci pigliare probabilmente accetterà “quello che passa il convento”.

Se guardiamo i salari USA del 2023 per macro settori professionali si nota che il 26% degli americani ha un salario mediano (50° percentile) attorno e sotto i 35mila dollari (30mila euro) che per gli Stati Uniti sono bassi salari.
Gli occupati nella manifattura (production) si son contratti del 30% dal 1999 (da 12,6 a 8,8 milioni), nonostante sia cresciuta l’occupazione globale (+19%).
E’ cresciuta la classe media (da 25 a 40 milioni) che ha un salario mediano da 78mila dollari in su.
Ci sono poi 11-12 milioni di clandestini (illegali) che fanno molto del “lavoro sporco” con salari bassi non contabilizzati e che danno una mano non da poco all’economia legale, al punto che alla domanda di Gallup “sono una buona o cattiva cosa gli immigrati?”, il 79% dice che sono ok, mentre era di questo parere positivo solo il 52% nel 2002.

Occupati e salari (a prezzi costanti) dal 1999 al 2023 per macrosettori in USA

Il nuovo volto dell’America e dell’Italia

Oggi l’America è diventata più disuguale, arrabbiata e divisa (chi ha fiducia nelle Istituzioni americane come Congresso, le grandi aziende di Business, Banche, Corte suprema, stampa, magistratura, militari, scuole pubbliche, Chiesa, è sceso in modo costante dal 48% del 1979 al 28% del 2025).
Trump è insieme l’esito di una lunga disaffezione e la speranza per metà degli americani. Tuttavia nessun paese piegato da una forte disuguaglianza interna ha una seria prospettiva di prosperità, perché i bassi salari della metà degli occupati associati ad un indebolimento dello stato sociale (che in Usa è già molto debole), minano la “bona vita” sia individuale che delle comunità, portano all’alcolismo, alla droga, al fentanyl e creano le condizioni per la caduta di chi governa.

Un “avviso ai naviganti” che vale anche per l’Italia avviata a coniugare più occupati con bassi salari (verso la piena sottoccupazione) con un welfare sempre più povero, anche perché crescono i bisogni di salute e di formazione dei cittadini.

Il triste destino della sanità pubblica 

Per avere un’idea di quello che potrebbe succedere proseguendo a privatizzare la nostra sanità pubblica si deve sapere che negli Stati Uniti, dov’è a pagamento tramite assicurazioni private (ma 70 milioni non possono pagarle), gli occupati nella sanità dal 1999 al 2023 sono più che raddoppiati (da 3 milioni a 7), uno dei maggiori incrementi tra tutti i 22 macrosettori. Anche il salario mediano è aumentato in valore reale del 15,3%, uno dei maggiori (più dei manager) e ciò spiega perché la sanità negli Stati Uniti pesi oggi così tanto sul Pil (18,8%), mentre in Italia è solo il 6% (con 2 milioni e 54mila addetti).
Ma nonostante questo aumento di occupati e di salari (un medico guadagna in media 500mila dollari all’anno) gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo dove è calata la speranza di vita e dove la sanità è costosissima. Questo incremento spiega perché ci sia anche in Italia interesse sulla sanità in quanto stanno crescendo i bisogni di salute nei paesi con molti anziani.
L’Italia è avvertita: senza un incremento rilevante della sanità pubblica assisteremo ai guasti del modello americano anche in Italia.

Scuola, diseguaglianza e immigrazione

La disuguaglianza ha poi effetti negativi su molti aspetti. Non ultimo quello scolastico. Là dove c’è crescente disuguaglianza lo Stato può permettersi, come nel modello americano, di avere molte scuole pubbliche non buone e poche scuole private di qualità per l’élite. C’è però un problema. Se la scuola pubblica non forma buoni tecnici, buoni diplomati e laureati, le multinazionali americane come fanno, visto che il “capitale umano” è ovunque decisivo per la produttività?

Solo nelle professioni della classe media servono 2 milioni di laureati all’anno quando ne escono la metà dalle università americane, per non parlare dei buoni diplomati che non escono dalle scuole americane. Come si è fatto allora?

Si è ricorsi all’importazione dall’estero di buona manodopera. In passato l’emigrazione di buoni lavoratori veniva dall’Europa, Germania, Irlanda (tra cui Albert Einstein, Enrico Fermi, von Braun, l’ideatore del programma spaziale americano). Poi sono arrivati i russi e russi ebrei negli anni ’90 dopo il crollo dell’URSS. Tutti paesi dotati di buone scuole superiori. Più di recente gli immigrati con buoni studi vengono dall’Asia (India, Cina,…). Ecco perché gli Stati Uniti sono un paese di immigrati da sempre e perché crescono demograficamente di continuo (da 150 milioni del 1950 ai 334 del 2024, come se in Italia fossimo passati da 47,5 a 106 milioni).

Ora Trump, spinto dal movimento MAGA, non vuole più immigrati. Ma senza buona immigrazione anche le imprese multinazionali americane andranno in crisi. In tal senso va anche letto lo scontro tra Musk (che pur essendo razzista vuole gli immigrati per le sue imprese e non solo) e la corrente Maga (Bennon,…) che vogliono un paese senza immigrati. Un gigantesco problema per gli Stati Uniti e per Trump, ma è un loro problema.

Poiché sappiamo che la disuguaglianza influenza la spesa nella scuola (più c’è disuguaglianza più la spesa scende) e l’Italia non può permettersi certo di importare laureati e buona manodopera dall’estero (semmai se ne vanno i nostri), varrà la pena discutere come il paese possa stare in piedi spendendo così poco per la sua scuola.
Da qui vengono i futuri problemi del Governo Meloni: senza un forte incremento di risorse nella sanità e nella scuola, il paese è destinato a declinare e influenzare il voto elettorale.

,Cover: focsiv.it –  Fonte immagine © Scenari Economici

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C’è solo la legge del più forte?

Assistiamo sempre più a eventi dove il Diritto Internazionale risulta sempre più bistrattato e calpestato nella lettera e nella sostanza. La legge del più forte.

Gli ultimi esempi contro le Nazioni Unite, l’attacco a Francesca Albanese, il sequestro in acque internazionali degli aiuti umanitari della Freedom Flottilla sono solo la deriva e gli ultimi episodi di una situazione dove i potenti dicono con chiarezza e spregiudicatezza: “vale la legge del più forte”.

E’ una condizione in cui ci vogliono far sentire impotenti tale è la disparità tra le potenze militari ed economiche messe in campo e l’azione del comune cittadino, ma anche del singolo movimento o partito e, perfino, del singolo stato o istituzione internazionale.

Sono chiari alcuni temi che diciamo da tempo con la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza: serve una riforma democratica e partecipativa dell’ONU, servono Consigli di Sicurezza tematici che abbiamo potere reale sui governi e che riconquistino autorevolezza e capacità di regolare i conflitti internazionali.

Ma avvertiamo anche l’esigenza di mediatori. Dove sono finiti i mediatori che caratterizzarono alcune risoluzioni di conflitti nella seconda metà del secolo scorso? Se per negoziare sui dazi con Trump dobbiamo affidarci alla Meloni e per portare a un tavolo di trattative Putin speriamo in Erdogan significa che siamo messi abbastanza male.

Il mondo è decisamente in crisi e la crisi fa nascere cose che credevamo appartenessero al passato e fossero risolte.

La nonviolenza insegna che le cose sono risolte quando sono accettate, comprese e superate; si tratta di un processo lungo e complesso, non è sempre un processo lineare perché la mente è abbastanza brava ad ingannare sé stessa. Questo processo non riguarda solo le persone ma anche gli insiemi umani, le società.

La verità è che non stiamo riflettendo sulla violenza.

La legge del più forte torna qui ben presente come possibile risoluzione dei conflitti; sta qui ed è prima del Codice di Ammurabi, prima del Diritto Latino, prima del Common Law, prima della Magna Charta, molto prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ma se torniamo a quel prima per quale motivo abbiamo costruito le Leggi, il Diritto Internazionale, l’ONU e l’idea di una civile convivenza tra i popoli?

L’Umanità da tempo ha elaborato forme più intelligenti e morali di risoluzione dei conflitti. Lo ha fatto fin dai tempi antichi, tra i popoli e le culture che hanno praticato la compassione, la solidarietà, l’Ubuntu, la Regola d’Oro. Se torniamo alla legge del più forte cancelliamo tutto il processo evolutivo: che senso avrebbe la Legge, lo Stato, la Giustizia, la Democrazie, la Convivenza se in ultima analisi chi ha la forza (economica, militare, politica) decide nonostante tutto?

Pat Patfoort incontra extinction rebellion

Pat Patfoort suggerisce che la risoluzione di un conflitto debba avvalersi di una ricerca sui fondamenti su cui quel conflitto è basato, cioè sulle questioni fondanti, culturali, esperenziali di quel conflitto, sulle credenze che alimentano quel conflitto.

Alcune amiche dei Combattenti per la Pace mi dicevano tempo fa che la comune esperienza che riscontrano nei loro lavori di CNV con israeliani e palestinesi è la paura; e la loro sensazione è che sia la paura il principale sentimento che giustifica la violenza. Però al tempo stesso la paura può essere l’elemento comune che porta queste due martoriate società a convivere. Così come il lutto di aver perso un parente stretto è il legame, il fondamento, delle esperienze di riconciliazione di Parent Circle.

Perché un’altra verità ci dice che la legge del più forte può sembrare efficace ma anche chi la esercita sa, nel profondo del suo cuore, che non è la soluzione giusta.

Quindi in questo momento storico è della massima importanza comprendere l’incompleta evoluzione storica verso la giustizia, verso la valorizzazione di ogni singolo essere umano; incompleta ma profondamente necessaria.

E questa necessità comporta un’azione esterna verso la verità, la giustizia, la riconciliazione, la nonviolenza e una contemporanea azione interna, per ognuno di noi per riconoscere, comprendere, accettare e trasformare tutta la violenza, tutto il pre-giudizio che è dentro di noi e fuori di noi.

Nota: Questo articolo è stato pubblicato su pressenza del 27.07.2025

In copertina: Foto di Extinction Rebellion italia

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Han Kang: Il linguaggio ci interroga e ci cura

Il linguaggio ci interroga e ci cura. Man mano che il tempo passa credo sempre di più nel valore della teoria del doppio legame sviluppata dall’antropologo e cibernetico Gregory Bateson.

L’ultima arrivata a rafforzare questa mia “fede” è stata Han Kang, premio Nobel per la letteratura del 2024, che in un suo breve scritto tradotto recentemente (Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, Adelphi, 2025), racconta un episodio relativo alla genesi di un suo romanzo: una perfetta descrizione della teoria batesoniana in azione.

Ricordo brevemente che  il doppio legame (detto anche doppio vincolo) è un concetto psicologico, teorizzato da Gregory Bateson e dai suoi colleghi negli anni ’50, per spiegare le origini della schizofrenia e utilizzato in seguito nella cosiddetta scuola di Palo Alto.

In origine il doppio legame si riferiva a una situazione in cui la comunicazione tra due individui, uniti da una relazione emotivamente forte, presentava un disaccoppiamento tra il livello verbale (quello che viene detto a parole) e quello non verbale (gesti, atteggiamenti, tono di voce, ecc.).

Le osservazioni erano quindi rivolte a quelle situazioni tali per cui il ricevente del messaggio, non riuscendo a decifrarlo, si sottraeva al dialogo e, successivamente, ad altre situazioni analoghe che potevano portare a questa (per lui problematica) impasse.

Come esempio Bateson riportava l’episodio di una madre e un figlio emotivamente provati per un lungo periodo di distacco. Il figlio, in un gesto d’affetto, tenta di abbracciare la madre, la quale si irrigidisce; il figlio a questo punto si ritrae, al che la madre gli dice: “Non devi aver paura di esprimere i tuoi sentimenti” o “Sii spontaneo!”.

A livello di comunicazione implicita, con l’irrigidimento, la madre esprimeva  un rifiuto per il gesto d’affetto del figlio, mentre a livello di comunicazione verbale, la madre negava di essere la responsabile dell’allontanamento, alludendo al fatto che il figlio si ritraesse non perché intimorito dalla sua reazione “fredda”, ma perché bloccato da sue proprie difficoltà.

In una situazione di questo tipo il figlio, colpevolizzato, si trova impossibilitato a rispondere e si allontana sempre di più da una… risposta.

Questa e analoghe situazioni (non solo famigliari) raccontano l’incapacità di valutare correttamente i legami tra comunicazione esplicita e comunicazione implicita.

In questa prospettiva, la sindrome schizofrenica appare come un tentativo di difesa: la non comunicazione o meglio la risposta non verbale è la fuga.

Non credo di dover sottolineare il fatto che oggi più che mai viviamo, tutti  – noi individui, ma anche noi come società – immersi in situazioni da doppio legame, primo perché la comunicazione e i suoi canali sono cresciuti a dismisura attraverso i social e secondo perché in un attimo quello che si dice o meno potrebbe “irrigidirci”. O, viceversa, quello che ci irrigidisce potrebbe essere contraddetto da quello che si dice.

In questo “pesante librino” Han Kang, nel descrivere la genesi di un suo romanzo, rappresenta secondo me il disagio prodotto da questo tipo di situazioni alle quali siamo quotidianamente esposti in quanto specie umana e ci racconta come il linguaggio ci interroga e perché, in fondo uno scrittore, scrive: per amore del mondo* e per amore di tutti noi.

Farci interrogare dal linguaggio, scrivere, paradossalmente, rappresentano la cura per qualunque… schizofrenia, tipo quella che stiamo vivendo di questi tempi così impregnati di revanscismo, nazionalismo, sovranismo, razzismo, violenza (anche di Stato).

A proposito di questo Han Kang racconta : ”Avevo 9 anni quando lasciai Gwanju, con la mia famiglia nel Gennaio del 1980, quattro mesi prima del massacro. E ne avevo dodici quando trovai per caso su uno scaffale della nostra libreria…il Report fotografico di Gwanju e lo lessi di nascosto”.

Si trattava di un volume preparato in segreto e fatto circolare clandestinamente dai sopravvissuti e famigliari delle vittime di quel massacro perpetrato dal regime militare che aveva orchestrato il colpo di stato in Corea del Sud.

“Ero troppo piccola”- continua Han Kang – “per comprendere il significato politico  delle immagini, ma quei volti sfigurati mi si incisero nella mente sotto forma di un interrogativo basilare: l’essere umano è capace di atti simili su altri esseri umani? Nello stesso libro, però, c’era una foto che mostrava una fila interminabile di persone davanti a un ospedale, in attesa di donare il sangue per i feriti. Tanto che mi chiesi anche: gli esseri umani sono capaci di atti simili per altri esseri umani?”

Per quanto detto  all’inizio e nell’economia della specie questo dilemma rappresenta un tipico caso di doppio vincolo.

Come si può continuare ad abbracciare il mondo se il mondo si irrigidisce?

Il librino della Kang è un testo breve, ma denso come una preghiera laica. Una riflessione sulla parola, sulla fragilità, sull’umanità che resiste.

Han Kang parla con voce sommessa, ma incandescente. Racconta come la lingua, fragile e luminosa, sia ciò che ci tiene uniti:

“Mi rendo conto davvero che la lingua è il filo che ci unisce, un filo lungo il quale scorrono la luce e la corrente della vita, e dove confluiscono le mie domande.”

Queste parole risuonano con forza se lette accanto al discorso del banchetto della stessa Han Kang riportato in appendice del librino e, soprattutto, se comparate in generale alle parole usate da altri Laureati Nobel e raccolte da Daniela Padoan in Per amore del mondo (Bompiani, 2018).

Anche nelle voci di Toni Morrison, Doris Lessing, Nadine Gordimer, Szymborska, come in quella della Kang, la letteratura è vista come un gesto di resistenza e di cura, un modo per abitare il mondo senza fuggirne le contraddizioni.

Per queste AUTRICI (sarà un caso che si tratti solo di donne?) il linguaggio è corpo vivo, materia che pulsa. “La lingua possiede inevitabilmente una sorta di calore corporeo”, scrive Kang. È un’idea che si ritrova anche in Morrison, quando afferma che “la lingua può essere oppressiva o liberatoria, può ferire o guarire.”

In questo contesto, è illuminante richiamare la teoria del doppio vincolo di Gregory Bateson, che pare davvero la condizione in cui più frequentemente ci troviamo oggi, nell’epoca dell’iper comunicazione digitale, dove le parole si moltiplicano ma perdono peso, e i messaggi sono ambigui, contraddittori, disumanizzanti.

Han Kang sembra rispondere proprio a questa crisi:

Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, insiste sulla necessità di immaginare i tanti punti di vista delle persone e degli esseri viventi che abitano questo pianeta; il linguaggio ci collega gli uni agli altri.

La grande letteratura, allora, diventa antidoto al doppio legame: non perché offra risposte semplici, ma perché accoglie l’ambiguità senza negarla, la trasforma in forma, in ritmo, in respiro. Come scriveva Toni Morrison nella sua Nobel Lecture, “la funzione della libertà è liberare qualcun altro”. Han Kang sembra aggiungere: può anche salvarci.

La scrittura di Han Kang è fatta di pause, di vuoti, di luce. Non urla, ma sussurra. Non impone, ma interroga. È una lingua che si prende cura, che si avvicina al dolore senza invaderlo. Come le autrici raccolte da Padoan, anche lei fa della letteratura un gesto etico prima ancora che estetico.

Daniela Padoan, nel suo Per amore del mondo, scrive che “… le Nobel Lectures sono discorsi che non si dimenticano…”, e posso garantirvi che è così perché parlano al cuore della nostra comune umanità, e lo fanno con la forza della parola che ha attraversato il dolore.

In un tempo in cui la comunicazione è spesso manipolazione, slogan, rumore, propaganda, Han Kang ci ricorda che la parola può ancora essere un luogo di verità.

Un luogo dove abitare insieme, anche nella notte più buia.

*l’espressione si declina in quel mostrarsi in pubblico che già i greci videro come proprietà della polis e che Hannah Arendt definì l’attività più propriamente umana.

Cover: Han Kang, 2024 Nobel Prize Laureate in Literature – Wikimedia Commons

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Per certi Versi /
Poi ho spolverato

Dedicata a mio figlio
Appena partito

Ho appoggiato la tua chitarra

sopra al letto

avrei voluto che suonassi solo per me stasera

ho messo la tua cravatta al collo

ho smorfieggiato davanti allo specchio

avrei voluto che ridessi solo con me stasera

ho osservato la tua stanza vuota

e visto la tua vita piena

Poi ho spolverato

 

In copertina: Chitarra – pexels photo

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Bologna per Gaza: una iniziativa del Comune e un appello della Diocesi e della Comunità ebraica

Bologna per Gaza: pubblichiamo un comunicato stampa del Comune di Bologna ed un testo della Diocesi e della Comunità ebraica, al cui testo ha aderito anche la senatrice Liliana Segre

Comunicato del Comune di Bologna

“Gaza, il Comune di Bologna aderisce all’iniziativa “Disertiamo il silenzio” che si terrà domenica 27 luglio alle 22 . Sirena in piazza Lucio Dalla.

Il Comune aderisce alla campagna nazionale “Gaza muore di fame: disertiamo il silenzio”.

La mobilitazione vuole sensibilizzare sulla gravissima situazione palestinese, dove la popolazione civile continua ad essere vittima di attacchi quotidiani e non ha accesso ad acqua e cibo, e sul ruolo dei governi nazionali e dell’Unione europea.

Domenica 27 luglio, alle 22, in piazza Lucio Dalla risuonerà “Esercitazione d’immedesimazione”, l’azione artistica di Alessandro Bergonzoni: una sirena antiaerea per immedesimarsi con Gaza e i conflitti in atto.

Prevista anche la testimonianza di Giorgio Monti, medico di Emergency.

“Invitiamo le cittadine e i cittadini bolognesi ad aderire a questa iniziativa, a fare rumore nelle piazze, sui balconi e alle finestre – spiegano il sindaco Matteo Lepore e l’assessore Daniele Ara -, per farci sentire idealmente fino a Gaza, perché la popolazione palestinese sappia di non essere sola”.

 

Pubblichiamo inoltre l’appello comune della Diocesi di Bologna e della Comunità ebraica bolognese, a cui ha aderito anche la senatrice Liliana Segre

 

“Zuppi e De Paz: la responsabilità comune per la pace a Gaza

Si leva dalla diocesi di Bologna l’appello di cattolici ed ebrei perché tacciano le armi nell’enclave palestinese, siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi.

Nella dichiarazione congiunta del cardinale Zuppi e del presidente della comunità ebraica di Bologna, Daniele De Paz l’appello alle autorità italiane e internazionali

“Di fronte alla devastazione della guerra nella Striscia di Gaza diciamo con una sola voce: tacciano le armi, le operazioni militari in Gaza e il lancio di missili verso Israele.
Siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi.

Si sfamino gli affamati e siano garantite cure ai feriti.

Si permettano corridoi umanitari. Si cessi l’occupazione di terre destinate ad altri. Si torni alla via del dialogo, unica alternativa alla distruzione. Si condanni la violenza”.

La dichiarazione congiunta dell’Arcivescovo Card. Matteo Zuppi e del Presidente della Comunità Ebraica di Bologna, Daniele De Paz, “Sulla guerra a Gaza e sulla responsabilità comune per la pace”, diffusa dalla diocesi viene pronunciata nella consapevolezza “della gravità dell’ora presente e della responsabilità morale che ci unisce come credenti e come cittadini”.

Basta guerra

Il presidente della Cei e il presidente della Comunità ebraica di Bologna esprimono la comune condanna per ogni atto terroristico che colpisca civili inermi e chiedono che si torni a rispettare il diritto, unico garante dell’incontro e della fiducia.
“Nessuna causa può giustificare il massacro di innocenti. – si legge nella dichiarazione congiunta – Troppi bambini sono morti.
Nessuna sicurezza sarà mai costruita sull’odio. La giustizia per il popolo palestinese, come la sicurezza per il popolo israeliano, passano solo per il riconoscimento reciproco, il rispetto dei diritti fondamentali e la volontà di parlarsi.

Il grido di un’umanità ferita

Basta guerra! E’ il grido di un’umanità che non vuole e non può abituarsi all’orrore della violenza, scrivono il cardinale Zuppi e il presidente De Paz.
”È il grido dei palestinesi e degli israeliani e di quanti continuano a credere nella pace”.

Ma non si creda solo una questione limitata a quanto avviene in Medio oriente e infatti la dichiarazione ribadisce chiaramente il rifiuto di “ogni forma di antisemitismo, islamofobia o cristianofobia che strumentalizza il dolore e semina solo ulteriore odio”.

L’appello che si leva da Bologna

“Il dolore unisca, non divida. Il dolore non provochi altro dolore.
Dialogo non è debolezza, ma forza”.
E’ proprio sulla base di queste riflessioni spiegano gli estensori della Dichiarazione che un percorso di pace e di dialogo può muovere i primi passi e la responsabilità deve essere condivisa. E per questo che viene chiesto alle istituzioni italiane e a quelle internazionali “coraggio e lucidità perché si aprano spazi di incontro” capaci di coinvolgere tutti.”

Cgil e Fillea: “Sulla sicurezza il governo non fa nulla”

Cgil e Fillea: “Sulla sicurezza il governo non fa nulla”

In un giorno tre morti a Napoli, uno a Brescia. Re David: “Solo annunci e rinvii”. Di Franco: “Servono controlli e una Procura nazionale”

Tre operai sono morti questa mattina a Napoli, precipitando da un’altezza di venti metri mentre erano a bordo di un montacarichi nel quartiere Arenella. Poche ore dopo, da Brescia, è arrivata un’altra notizia tragica: un lavoratore ha perso la vita schiacciato da un muletto. Due episodi che si aggiungono a una lunga scia di sangue che attraversa i cantieri e i magazzini d’Italia, con numeri ormai strutturalmente allarmanti.

La Cgil: “Si continua a rinviare”

“Ancora tragedie. Una cosa è certa: gli interventi dichiarati urgenti dal Governo in materia di salute e sicurezza vengono continuamente rinviati, rimanendo annunci”, ha detto Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil, in una nota.

Per la dirigente sindacale “occorrono risorse per garantire i controlli nei luoghi di lavoro, fissi e mobili. Servono – aggiunge – il riordino delle funzioni ispettive e norme per una vera qualificazione delle imprese, il rafforzamento del ruolo dei rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza, investimenti negli impianti e nelle misure di sicurezza”.

“Se tutto viene subordinato a non disturbare le imprese e a tagliare la spesa pubblica, continueremo a piangere il sacrificio di vite, per poi unirci al dolore dei familiari”, conclude Re David.

Fillea : “Una vergogna”

Durissimo anche il commento di Antonio Di Franco, segretario generale della Fillea Cgil, il sindacato degli edili: “Più di mille morti, 500 mila feriti all’anno e il Governo non fa nulla. Servono controlli, una Procura nazionale, il riordino delle funzioni ispettive e una norma concreta che intervenga sulla qualificazione delle imprese in edilizia. È una vergogna senza limiti”.

Cover: Foto Maurizio Minnucci

Fonte: Collettiva del 25.07.2025

 

Le voci da dentro / Diario di cella di Gianni Alemanno

Le voci da dentro. Diario di cella di Gianni Alemanno

 L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ha scritto e fatto pubblicare sulla sua pagina facebook un post relativo ai suicidi in carcere, al sovraffollamento, alle politiche del ministro Nordio. Lo ha scritto insieme a Fabio Falbo, uno “scrivano” del carcere di Rebibbia laureatosi in giurisprudenza.

Ricordiamo che Alemanno era stato arrestato nel 2022 per finanziamento illecito e traffico di influenze, nell’inchiesta chiamata dai giornali “Mafia Capitale”.

Dopo la condanna aveva ottenuto di scontare la pena in un’associazione che si occupa di persone vittime di violenze o in condizione di disagio. Il 31 dicembre scorso era tornato in carcere perché accusato di una “gravissima e reiterata violazione delle prescrizioni imposte” nell’affidamento dei servizi sociali nella struttura ‘Solidarietà e Speranza’.

Il suo punto di vista sul carcere mi sembra interessante, soprattutto perché viene da un politico che oggi sta vivendo sulla propria pelle i problemi del carcere italiano ma che, ieri quando era ministro, considerava in ben altro modo.
(Mauro Presini)

DIARIO DI CELLA 15. A REBIBBIA SI SONO ACCORTI TROPPO TARDI DEL SUICIDIO DI MAURIZIO: IL 42° SUICIDIO IN CARCERE NEL 2025. MA IL MINISTRO NORDIO CONTINUA A PROMETTERE COSE IRREALIZZABILI. E IL TEMPO SCORRE VERSO IL DISASTRO

di Gianni Alemanno e Fabio Falbo

Rebibbia, 20 luglio 2025 – 201° giorno di carcere.

Dopo i due tentati suicidi sventati in extremis a Rebibbia grazie ad altre persone detenute, alla fine nel nostro carcere è arrivato il 42° suicidio in cella del 2025.

Maurizio D.B. era un rapinatore di 55 anni, detenuto dal 2019 con una pena di 15 anni di carcere. Era in cella singola del Braccio G12 di Rebibbia. Negli ultimi giorni era stato raggiunto dalla notifica di un’altra condanna, sempre per rapina, ad altri 7 anni di carcere. Nella notte di venerdì 18 si è impiccato alle sbarre della finestra della cella ed è stato trovato al mattino dopo dagli agenti della Penitenziaria con il corpo già freddo. Sembra che abbia lasciato una lettera d’addio, ma non ne conosciamo il contenuto.

I media – a differenza dei due precedenti tentati suicidi – questa volta hanno dato notizia. Ma quello che le cronache giornalistiche non hanno detto (perché probabilmente non lo sanno) è che, in teoria, anche questo suicidio poteva essere sventato se le ispezioni periodiche notturne avessero funzionato secondo regolamento. Ma questi giri per controllare le celle, per il sovraffollamento e per la carenza di personale della Penitenziaria, sono ridotti e spesso vengono saltati.

Così, come detto, sono 42 i suicidi in carcere nel 2025, più 3 suicidi di agenti della polizia penitenziaria. Potrebbe essere superato il tragico record del 2024, durante il quale si sono suicidate 83 persone: più di 12 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Per fare un raffronto: in Italia ogni 10.000 abitanti ci sono 0,67 suicidi e quindi nelle carceri il tasso di suicidi è 18 volte più alto di quello della popolazione normale.

Ma il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha le sue teorie e continua a ripeterle con una ostinazione degna di miglior causa. Secondo lui (intervista al Corsera del 17 luglio) “l’indulto e la liberazione anticipata speciale, se motivati dal sovraffollamento, non solo costituiscono una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura una resa, ma sono anche inutili”.

Certo, invece lo Stato italiano – con questo sovraffollamento da terzo mondo e con questo tasso di suicidi da stato totalitario – ci sta facendo una grandissima figura, da vero “Stato di diritto”. Quanto poi all’inutilità di queste misure, il Ministro ripete sempre i numeri disastrosi dell’indulto del 2006, quando una buona parte delle persone liberate tornò rapidamente in carcere per nuovi reati, ma si guarda bene dal verificare i numeri del precedente esperimento di “liberazione anticipata speciale” (che è il provvedimento su cui si stanno confrontando Giacchetti e La Russa).

Con questo esperimento, imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si passò dagli oltre 68.000 detenuti presenti a metà 2010 ai circa 52.000 di fine 2015 e gli effetti positivi si vedono ancora oggi.

Ma il nostro Ministro non si ferma qui. Sostiene che “paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo (contro i suicidi NdR): alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella” (sic), come se in assenza di sovraffollamento le persone detenute non stiano in cella insieme.

D’altra parte, per rispondere all’emergenza del sovraffollamento, Carlo Nordio, smentendo la sua storia di magistrato garantista, dall’inizio del suo mandato da Ministro sta lanciando solo proposte irrealistiche se non surreali.

Prima ha garantito la costruzione di nuove carceri, che sono tutte ancora di là da venire e che quando arriveranno dovrebbero innanzitutto sostituire gli istituti di pena che ormai meritano di essere chiusi per la loro obsolescenza (pensiamo a Regina Coeli).

Poi, ha promesso di adibire a luoghi di custodia attenuata degli edifici pubblici dismessi, come le caserme, che le amministrazioni competenti non sono mai state disponibili a cedere.

Ancora oggi continua a dire che trasferirà il 25% della popolazione detenuta, quella che ha problemi di tossicodipendenza, nelle comunità terapeutiche che, però, sono già piene di persone in trattamento e non ne possono ospitare molte altre.

Oppure promette di trasferire i detenuti immigrati nelle carceri dei Paesi d’origine, trasferimento che richiede trattati con questi paesi d’origine che nessun governo è mai riuscito a firmare per evidenti motivi (figuratevi se li riprendono…).

Infine – è l’ultima di questi giorni – ha istituito una “task force” presso il ministero per far concedere a più di 10.000 persone detenute il beneficio delle pene alternative, “dialogando” con i Tribunali di sorveglianza. Come se questi magistrati diventano improvvisamente disponibili a concedere quei benefici che non hanno finora riconosciuto alle persone detenute, spesso per gravi problemi di interpretazione giuridica o di carenza di organico. Anche questo sarà l’ennesimo buco nell’acqua che servirà solo a far rimbalzare a settembre il problema del sovraffollamento.

Oggi ci dovrebbe essere un Consiglio dei Ministri in cui Nordio presenterà un piano per la costruzione “immediata” di 10.000 nuovi posti in carcere, tramite strutture prefabbricate.

Stendendo per ora un velo pietoso sull’abitabilità e sulla dignità per le persone detenute in questi prefabbricati, ci chiediamo in quanto tempo il Ministero pensa di mettere a disposizione questi nuovi posti in carcere (che non sarebbero neppure sufficienti a coprire tutto il fabbisogno): tra gare, costruzione delle strutture, collaudi e dotazione di personale (che già ora manca) ci vorrà almeno un anno forse per mettere a disposizione 2-3.000 posti con costi enormi. Se è no, la crescita del numero di detenuti che sarà avvenuta nel frattempo.

Ricordiamo al signor Ministro che dal momento del suo insediamento il sovraffollamento è cresciuto dal 107% al 134,3% e che, se non si prenderanno provvedimenti veramente efficaci, al termine della legislatura sarà giunto alla cifra record di oltre il 160%.

Una vergogna che l’Italia, la Patria del diritto, francamente non merita.

Gianni Alemanno e Fabio Falbo

Cover: Carcere di San Vittore (su licenza Creative Commons)

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