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Vite di carta /
Le domande dei buoni libri: “La vegetariana” di Han Kang

Vite di carta / Le domande dei buoni libri: La vegetariana di Han Kang

La forza di un libro può cambiare i nostri pensieri, succede se i libri sono di valore.

Giorni fa mi arriva in biblioteca a Poggio Renatico La vegetariana di Han Kang, premio Nobel 2024 per la Letteratura. Lo ritiro e subito ne leggo l’incipit, che mi pare incolore: “Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante.” Chi parla in prima persona è il marito della protagonista, Yeong-hye e in questa prima parte del libro la sua narrazione si distende a descrivere le qualità ordinarie della moglie, la storia del loro matrimonio e la stranezza, l’unica, che lei ha compiuto in tanti anni. In seguito a un sogno di animali uccisi ha smesso di mangiare la carne.

Vado avanti a leggere e comincia a coinvolgermi lo sguardo di quest’uomo così distante dalla moglie, senza risorse per conoscerla prima di poterla capire, così concentrato sulla sua modesta carriera e sul quieto vivere come vessillo per vivere bene. Lei, intanto, è tenace nel rifiutare la carne e si allontana ogni giorno di più dalla cultura famigliare nella quale è cresciuta. Non la piega nemmeno lo schiaffo che le dà il padre, padrone autoritario della infanzia dei figli, come si scoprirà. La sua reazione è fulminea: è la festa della nuova casa della sorella maggiore In-hye, e lei davanti a tutti i familiari, al fratello Yeong-ho, ai genitori e ai cognati afferra un coltello e si taglia un polso.

La prima parte finisce con il suo ricovero in ospedale e il sangue rappreso sulla camicia del marito, mentre l’anziana madre le porta in stanza del cibo per spingerla a nutrirsi di carne, come prima.

Leggo la seconda e la terza parte e resto incatenata alla narrazione in terza persona, in cui il punto di vista è prima quello del cognato, marito di In-hye e padre del piccolo Ji-woo che ha cinque anni; infine nell’ultima parte è quello di In-hye, sorella maggiore e di fatto unico sostegno per Yeong-hye nella fase finale della vita.

Nella seconda parte viene raccontato l’approccio inusuale del cognato alla fisicità velata di mistero di Yeong-hye: lui la cattura come se fosse un’opera d’arte in progress, le dipinge il corpo di fiori sgargianti e poi la possiede con forza. Lei, che ha già fatto alcuni mesi di ospedale e fuori di lì conduce una vita sempre più silenziosa al riparo della propria casa, va in frantumi. Vuole far nascer fiori dal proprio corpo, vuole volare e si sporge dal balcone.

Mentre anche la seconda parte finisce in ospedale, il romanzo si fissa sulla figura della sorella In-hye. Che ha chiamato l’ambulanza per la sorella e anche per ricoverare il marito. Entrando in casa di Yeong-hye per portarle del cibo, ha scoperto entrambi in flagrante dopo il risveglio e da donna forte e pratica quale si è sempre mostrata ha preso provvedimenti.

La terza parte, la più straziante, quella scritta meravigliosamente come e più delle altre due, racconta la visita di In-hye nell’ospedale fuori Seul dove ha collocato la sorella, pagando le spese del  ricovero e facendole visite più frequenti dopo la fuga nella vicina foresta che Yeong-hye ha fatto tre mesi prima, alla ricerca di una sua agognata metamorfosi.

È la parte in cui In -hye racconta la sua sofferenza e l’insonnia che, come è accaduto alla sorella, le arrossa gli occhi e la fa sentire esausta. Per rispondere alla immagine che ha da sempre dato di sé a tutti quanti e a se stessa, continua a fare fronte alle necessità di chi ama, il figlio e la sorella, cercando di fare del suo meglio.

Ma lì, mentre attende di entrare nella stanza di Yeong-hye morente, mentre parla col medico che vista la sua gravità la vuole trasferire all’ospedale generale, assiste allo squarcio nel cielo di carta, come accade a tanti personaggi pirandelliani. Si vede vivere. Si pone le domande esiziali: forse sua sorella ha cercato fin da bambina la morte? Sarà che ha subito le percosse e la violenza del padre più di ogni altro in famiglia?

Arrivano le risposte. Una, soprattutto. Accade quando finalmente ascolta le ultime parole della sorella; comprende che sta andando in uno spazio che è oltre, in una dimensione che si allontana dall’umano per trasfondere il suo corpo tra gli altri alberi del bosco, albero esso stesso. Fatto di radici, rami e foglie. Non serve assumere cibo, bastano l’acqua e il sole.

Arrivano anche le domande che pongo a me stessa, sulla pazzia e sui territori a cui conduce. Possibile che sia il solo canale che può condurre a incontrare la natura e la terra? Che la fratellanza con gli alberi si stabilisca solo attraverso una metamorfosi che rinnega il vissuto della socialità con gli altri umani. Che la sorellanza con le foglie e con i rami riconduca all’antico mito di Dafne, ancora una volta a causa della sofferenza e della ripulsa?

Come nella scrittura così profonda di Han Kang, anche nei suoi personaggi, specie femminili, è contenuta una buona dose di bellezza. Lo dice la nudità senza imbarazzi né remore di Yeong-hye, il suo accogliere le foglie e i colori che il cognato le dipinge sulla pelle. Può ricordare la Ermione dannunziana, a patto di convertirne la sinergia con il bosco in un sentire totalmente naturale, senza alcun compiacimento.

 

 

 

Nota bibliografica:

  • Han Kang, La vegetariana, Adelphi, 2016

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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