“Noi esistiamo”
Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna
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“Noi esistiamo”. Il concerto di Dee Dee Bridgewater al Teatro Manzoni di Bologna
Quando, nel marzo del 1960, il batterista Max Roach pubblicò un disco dal titolo “We insist! Freedom now suite” (Noi insistiamo! La suite della libertà subito) aveva l’urgenza di attirare l’attenzione del mondo sul razzismo dilagante che pervadeva la società americana dell’epoca.
Significativa è la copertina dove si vedono tre ragazzi neri che praticano il lunch counter sit-in; in pratica, consumano il pranzo in un bar per soli bianchi e ci rimangono fino all’ora di chiusura, seguendo una pratica non violenta ispirata da Martin Luther King che suggeriva di restare nella zona per bianchi nonostante l’invito del titolare ad andare nei locali per neri.
È evidente il riferimento a quel disco, a quel periodo e a quelle lotte, che ha fatto la famosa cantante jazz Dee Dee Bridgewater quando, iniziando la sua tournée internazionale, ha voluto intitolare lo spettacolo: “We exist!” (Noi esistiamo).
“Noi esistiamo” è un vero e proprio grido di lotta per affermare che di strada se ne è fatta tanta, ma molta ancora ne resta da fare per riuscire a creare un presente inclusivo e per progettare un futuro di pace.
“Noi esistiamo” è un manifesto scritto a caratteri cubitali per dire che esistiamo come persone, esistiamo come donne e uomini dalla pelle di colori diversi, esistiamo come esseri umani unici.
“Noi esistiamo” è una provocazione anche rispetto agli stereotipi e ai pregiudizi che fanno credere ai più che un quartetto composto da una cantante nera e da tre giovani donne musiciste (provenienti da Paesi diversi) sia musicalmente meno dotato rispetto ad un quartetto di musicisti maschi.
Nel concerto del 4 novembre scorso, organizzato dal Bologna Jazz Festival al Teatro Manzoni di Bologna, Dee Dee Bridgewater con la sua voce straordinaria, insieme alla pianista Carmen Staaf, alla contrabbassista Rosa Brunello e alla batterista Julie Saury hanno insegnato ai presenti che la qualità musicale non dipende dal sesso ma dalla preparazione, dalla sintonia e dall’empatia che chi suona riesce a creare con gli altri musicisti e con il pubblico.
Dee Dee Bridgewater riesce davvero a stare sul palco dimostrando bravura, eleganza, fierezza, carisma e forza, mentre le musiciste che ha scelto per il suo tour sono bravissime nel dare un contributo originale e significativo ad ogni brano che così risulta impreziosito. Il quartetto dialoga musicalmente in maniera ineccepibile e l’armonia che ne deriva è fantastica.
Per la Bridgewater, che oggi è universalmente riconosciuta come una delle migliori cantanti in attività, il jazz ha a che fare con la libertà e la democrazia; non è un caso quindi che abbia scelto di riarrangiare e di interpretare nei suoi concerti una serie di brani molto significativi che rappresentano una sintesi della sua storia personale.
Sono canzoni che parlano di discriminazione, di segregazione, di consapevolezza, di protesta, di lotta, di riscatto e del sogno di una società in cui le persone possano vivere da protagoniste del proprio destino, indipendentemente dal colore della pelle.
Nell’ordine, il quartetto ha interpretato magistralmente: People make the world go round (“Le persone fanno girare il mondo”) portata al successo dagli Stylistics nel 1971, Danger zone un vecchio brano di Percy Mayfield, un gigante delle ballate blues (“Sai che il mondo è in subbuglio, la zona pericolosa è ovunque, ovunque”), Trying times della grande Roberta Flack (La gente parla sempre della disumanità dell’uomo verso l’uomo ma tu cosa stai cercando di fare per rendere questa terra un posto migliore?), Mississippi goddam di Nina Simone (“L’Alabama mi ha fatto arrabbiare così tanto. Il Tennessee mi ha fatto perdere il sonno. E tutti sanno del Mississippi, accidenti. Tutto ciò che voglio è l’uguaglianza”), How it feels to be free di Billy Taylor (“Vorrei sapere come ci si sente ad essere liberi, vorrei poter spezzare tutte le catene che mi trattengono, vorrei poter dire tutte le cose che dovrei dire. Dirle ad alta voce, dirle chiaramente perché tutto il mondo le senta”), Throw it away di Abbey Lincoln (“Non puoi mai perdere nulla se ti appartiene”) e sempre della stessa interprete And it’s supposed to be love (“Ti sbattono a terra, ipnotizzano il tuo cervello, ti mandano all’altro mondo, e questo dovrebbe essere amore?”).
Ha terminato il concerto con una sorpresa, eseguendo una versione molto coinvolgente di Gotta serve somebody di Bob Dylan (“Potrebbe essere il Diavolo o potrebbe essere il Signore ma dovrai servire qualcuno”).
Dopo l’ovazione tributata più che meritatamente dal pubblico con una standing ovation, Dee Dee è tornata in scena per ringraziare e presentare Daisy, una bella cagnolina che rappresenta il suo “supporto emotivo”.
L’intero quartetto è poi salito di nuovo sul palco per un bis portentoso: una bella versione di Compared to what, scritta da Gene McDaniels ma resa famosa dal pianista Les McCann (“Il Presidente, ha la sua guerra, la gente non sa a cosa serva. Se hai un dubbio, lo chiamano tradimento. Dannazione!”)
Dee Dee Bridgewater e le musiciste che hanno suonato con lei hanno dato vita ad un concerto bellissimo, una performance efficace in termini comunicativi, un atto di una potenza politica enorme.
Non è casuale quindi che io torni a citare il pensiero del filosofo e sociologo tedesco Walter Benjamin quando affermava che “Quando la politica diventa spettacolo, spesso incivile, allora lo spettacolo deve diventare politica, civile”.
Lo faccio per ricordare ai lettori e a me stesso che abbiamo tutti un gran bisogno di una politica buona, quella che non viene espressa solo dai cosiddetti politici ma che viene praticata da tutte e tutti coloro che si impegnano per la crescita emotiva e relazionale di una società.
Anche le musiciste ed i musicisti hanno sicuramente un ruolo fondamentale in un processo di cambiamento che parta dal basso, a cominciare da se stessi.
Cover e fotografie nel testo di Mauro Presini
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Io c’ero ed è stato potente!
Ero commossa e lo sono ancora nel leggere la tua bella recensione.
Grazie mille