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Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Nicola Chiaromonte e le protagoniste invisibili

Come abbiamo già ricordato nei precedenti articoli [Qui] [Qui] Nicola Chiaromonte nella sua attività di critico letterario e teatrale ha proposto una lettura della finzione come forma privilegiata di verità storica.

Non si tratta di una verità documentaria, ma di una verità che emerge dal rapporto tra l’individuo e l’evento, laddove l’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade a qualcuno. In questo senso la fiction del romanzo, diventa il luogo in cui si può indagare l’autentico rapporto tra l’essere umano e la storia, tra soggettività e catastrofe, tra sopravvivenza e trasformazione.

Qui per poter leggere meglio il presente intendiamo applicare il metodo di Chiaromonte alla fantascienza intendendola come “documento storico”, lettura chiaromontiana degli eventi del nostro presente.

Lo faremo attraverso alcuni romanzi di fantascienza scritti da tre autrici che hanno ridefinito il genere, spostando il centro della narrazione dalla figura dell’uomo a quella della donna. Si tratta di  Memorie di una sopravvissuta di Doris Lessing, I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.

In ciascuno di questi testi, la finzione non è evasione, ma rivelazione. Le protagoniste non sono eroine nel senso classico, ma testimoni di eventi che le travolgono e le trasformano. Le stesse autrici sembrano conformarsi al metodo di Chiaromonte dando vita alla storia “documentale” che parte dalla situazione presente,  attraverso la narrazione di storie (future) che riguardano corpi, libertà e memorie delle proprie protagoniste.

Nel romanzo Memorie di una sopravvissuta (1974), Doris Lessing costruisce un mondo in disfacimento, dove una donna senza nome – la protagonista invisibile – osserva il collasso della società e la crescita di una bambina, Emily, che le è stata affidata, senza alcuna spiegazione, insieme al suo inseparabile cane-gatto Hugo. Il tono è quieto, quasi contemplativo, e la narrazione si svolge in una dimensione sospesa tra realtà e sogno, tra cronaca e visione.

Secondo il metodo di Nicola Chiaromonte, ciò che conta non è tanto l’evento in sé, quanto il modo in cui esso si riflette nella coscienza di chi lo vive. La protagonista infatti non è un’eroina che agisce, ma una testimone che accoglie l’evento, lo lascia accadere, lo trasforma in memoria. In questo senso, la finzione di Lessing diventa una forma di verità storica: non quella dei fatti, ma quella dell’esperienza.

Non posso dire che cosa accadde. Non posso dire come accadde. Posso solo dire che accadde.

Quanti di noi sottoscriverebbe questa frase nella disperata ricerca di comprendere il presente che abbiamo sotto gli occhi!

Questa frase, che ricorre più volte nel testo, è emblematica se rapportata al metodo di Chiaromonte: l’evento non è spiegabile, comprensibile (storicismo volgare), ma solo narrabile. La protagonista non cerca di comprendere il collasso sociale, né di opporvisi. Lo osserva, lo registra, lo vive. E nel farlo, rivela una verità più profonda: quella del tempo interiore, della resistenza silenziosa, della cura.

Emily, la bambina, è l’altra figura centrale. Cresce, cambia, si ribella, si innamora. Ma soprattutto, attraversa il mondo. E la protagonista invisibile (la voce narrante) la accompagna, senza mai imporsi. In questo rapporto si manifesta una forma di maternità non biologica, ma esistenziale: la donna diventa custode dell’evento, archivio vivente della trasformazione.

Emily era cambiata. Non era più la bambina che mi era stata affidata. Era diventata qualcosa d’altro, qualcosa che io non potevo comprendere, ma che dovevo accettare.”

Il romanzo si chiude con una scena enigmatica: la protagonista e Emily attraversano un muro, entrando in una dimensione altra, forse simbolica, forse reale. Questo passaggio è il culmine della finzione come verità: non c’è spiegazione, ma c’è rivelazione. Il muro è il confine tra il mondo visibile e quello invisibile, tra la storia ufficiale e quella interiore.

Attraversammo il muro. E dietro il muro c’era il giardino. Non un giardino come quelli che conosciamo, ma un giardino che era anche memoria, sogno, possibilità.”

Nel romanzo I reietti dell’altro pianeta (1976), Le Guin costruisce un sistema binario con due pianeti, Urras e Anarres, che incarnano due visioni opposte del mondo. Urras è ricco, gerarchico, patriarcale; Anarres è povero, anarchico, egualitario. Il protagonista, Shevek, è un fisico teorico che cerca di costruire un ponte tra i due mondi, ma il vero cuore del romanzo è la tensione tra utopia e realtà, tra ideali e compromessi.

Secondo Nicola Chiaromonte, la verità storica non si manifesta nei sistemi ideologici, ma nella relazione con l’evento. In questo senso, Le Guin non propone una distopia né una utopia, ma una finzione critica che interroga il lettore sul senso della libertà, della comunità, della responsabilità. E lo fa soprattutto attraverso le figure femminili, in particolare Takver, compagna di Shevek, che incarna una forma di resistenza quotidiana e relazionale.

Takver era la mia vera rivoluzione. Non nei libri, non nei dibattiti, ma nel modo in cui mi guardava, nel modo in cui stava con me.”

Takver non è una figura marginale: è co-creatrice dell’evento. La sua presenza trasforma la ricerca scientifica di Shevek in un atto etico, incarnato. La finzione di Le Guin, in questo senso, rivela una verità storica che non è quella delle rivoluzioni, ma quella dei legami. La donna non è spettatrice, ma agente di cambiamento, anche quando il cambiamento è invisibile o viene montato ad arte come storia con la S maiuscola.

Il romanzo è costruito in modo circolare, con un’alternanza tra passato e presente, tra Anarres e Urras  perché… la storia non è lineare, ma esperienziale. L’evento non è solo ciò che accade, ma ciò che accade (e può riaccadere) a qualcuno, e quel qualcuno è sempre situato, incarnato, vulnerabile.

La libertà non è un dono. È una scelta continua. È il peso che portiamo ogni giorno.”

Le Guin mostra che la libertà non è assenza di vincoli, ma capacità di stare nel vincolo e provare a trasformarlo. E le donne del romanzo – Takver, Bedap, le madri, le lavoratrici – incarnano questa libertà incarnata, relazionale, non eroica ma resistente.

In questo senso, I reietti dell’altro pianeta sarebbe stato scelto da Chiaromonte alla pari dei 5 romanzi da lui considerati in Credere e non credere per la sua analisi “storiografica”: la finzione non è costruzione ideologica, ma rivelazione esistenziale. La verità storica emerge nel modo in cui i personaggi vivono l’evento, lo attraversano, lo trasformano. E la donna, in Le Guin, è il luogo dove questa trasformazione si compie.

Nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood nel suo romanzo del  1985 Il racconto dell’ancella, nella teocrazia totalitaria chiamata Gilead, le donne sono private di ogni diritto e ridotte a funzioni biologiche. Le “ancelle” sono costrette alla procreazione per conto delle élite dominanti. La protagonista, Difred (Offred), racconta la sua storia in frammenti, tra ricordi del passato e resistenza silenziosa nel presente.

Qui la verità storica verrebbe scritta da una teocrazia come quelle che in questo momento caratterizzano il nostro presente (si pensi all’Iran, a Israele ma anche agli USA di Trump, alla Russia ortodossa di Putin e al Partito Unico cinese).

Nel romanzo della Atwood la protagonista non è una ribelle nel senso classico, ma una testimone. La sua voce, che narra in prima persona, è il luogo dove la finzione si fa verità: non una verità oggettiva, ma una verità esperienziale, incarnata.

Mi racconto questa storia per non dimenticare. Per non diventare pazza.”

La narrazione è un atto di sopravvivenza. Difred non ha potere, ma ha memoria. E la memoria, in Atwood, è resistenza. Qui la finzione distopica non è evasione, ma vero e proprio documento: un modo per registrare ciò che potrebbe accadere, ciò che è già accaduto, ciò che accade ogni giorno in forme diverse.

Niente cambia istantaneamente: in una vasca che si scalda lentamente, non ti accorgi di essere bollita.”

Questa frase è centrale per annoverare anche questo romanzo tra le prove a carico del “metodo  chiaromonte”: l’evento non è sempre catastrofico, ma può essere graduale, insinuante. La verità storica non è solo quella delle rivoluzioni, della “battaglia di Waterloo”, ma anche quella delle trasformazioni silenziose, delle normalizzazioni del male. E la donna, in Atwood, è il luogo dove questa verità si manifesta: nel corpo, nella voce, nella memoria.

Difred non è sola. Le altre donne – Serena Joy, Moira, Zia Lydia – incarnano diverse forme di adattamento, resistenza, complicità. Ma tutte sono dentro l’evento, e tutte lo rivelano. La finzione di Atwood è polifonica, e proprio in questa pluralità si rivela la verità storica: non un’unica narrazione, ma una costellazione di esperienze.

Quando ti tolgono la libertà, ti tolgono anche il linguaggio. E allora devi inventarlo.”

La lingua, in Atwood, è il primo luogo della resistenza. Difred inventa il suo racconto, lo frammenta, lo nasconde. Ma proprio in questa frammentazione si rivela la verità: la donna non è solo vittima, ma archivio vivente dell’evento. E la finzione, lungi dall’essere menzogna, è il mezzo attraverso cui questa verità può essere detta.

Nel metodo di Nicola Chiaromonte, la finzione non è una fuga dalla realtà, ma il suo più autentico riflesso. È solo attraverso l’immaginazione – quella “specie particolare di verità storica” che è la finzione – che possiamo accedere all’esperienza autentica dell’individuo, e, più in profondità, alla Grande Esperienza che ci accomuna tutti e che chiamiamo Vita.

I tre romanzi analizzati non sono semplici esercizi di genere, ma atti di testimonianza. In ciascuno, la donna non è solo protagonista: è generatrice di senso, custode dell’evento, narratrice della trasformazione.

Lessing ci mostra una donna che accoglie il collasso del mondo come soglia verso una nuova forma di memoria. Le Guin ci offre una figura femminile che, nella reciprocità, costruisce ponti tra mondi e tra visioni. Atwood ci consegna una voce che, nel frammento e nella resistenza, storicizza l’oppressione e la trasforma in racconto.

Chi meglio di una donna – che è biologicamente e simbolicamente generatrice – può raccontare la Vita? E chi meglio di una narratrice può storicizzarla, cioè renderla esperienza condivisibile, trasmissibile, universale?

E forse, a questo punto, varrebbe la pena porre rimedio a una questione (anche “storicamente”) incontrovertibile: c’è una storia che non può essere del tutto scritta, non perché manchino i fatti ma perché sono mancati  gli sguardi di tante, tantissime protagoniste invisibili, donne che non si permetterebbero mai di dire “abbiamo fatto la Storia” perché sanno bene che sono le storie, proprio quelle non ancora narrate, ad… averle fatte.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/pexels-2286921/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pexels</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1868130″>Pixabay</a>

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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