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Presto di mattina /
L’albero delle nebbie

Presto di mattina. L’albero delle nebbie

Nebbia

no, la nebbia non quella
di novembre tra i fossi
miei della Cesana
o fitta al Monte del Vescovo
sopra ceppi e cipressi,
restano punte verdi
e isole sospese
di quercelle, si perdono foglie,
s’alzano grida,
ma uno scotano rosso
la trapassa,
e t’appartiene,
t’appartiene il filare
che più non vedi

Tra piante e nebbia

sempre con voi boschi
e le memorie, contro la fuga
orrida dei giorni?
sempre alle foglie attaccato,
a questi rami di scotano
arancioni per l’autunno?
no, non nei miei campi,
in una macchia immensa
siamo entrati, Jacopo,
estranea alle memorie,
e la nebbia sale
su dal mare,
cancella il pungi topo,
il muschio verde,
grigia più del fungo
velenoso che li cresce
e pende…
ora è nera la nebbia,
nera ogni foglia,
solo una bacca rossa,
non la conosco,
magari nasce solo in questa selva
d’una luce s’accende
fioca e tenace
(Umberto Piersanti, L’albero delle nebbie, Einaudi, Torino 2008, 80; 126-127)

“No, la nebbia non è quella di novembre…”. «Di che nebbia si tratta allora? Di quella che fa nera ogni cosa, la vita; solo una bacca rossa, debole lume, tenace resiste. In questa macchia di nebbia, caligine impalpabile, sono entrati il poeta e il figlio Jacopo, segnato da grave autismo. Nebbia. È il mondo del figlio boscaglia di nera nebbia estranea alla memoria che, salendo alla coscienza, cancella ogni cosa.

Il poeta non può penetravi se non sfiorandola con le parole. Così la parola poetica che spunta appena sopra la pervasiva bruma, assomiglia allo “scotano rosso” e alle sue infruttescenze vaporose dall’effetto nebbioso, che trapassa il grigio raccogliendo in sé quello che non puoi vedere. E annota Piersanti: «L’albero delle nebbie è lo scotano: il suo acceso colore rosso-arancione nei giorni d’autunno attraversa anche la nebbia più folta» (ivi 161).

Parole inzuppate di nebbia

In agguato, ai margini delle radure, il bracconiere di parole attende che scenda la nebbia, solo allora si aggira furtivo tra i tronchi abbattuti, ramaglie in disfacimento, tra i ceppi divelti, muschi, muffe, fogliame fradicio, in decomposizione. Anche lì forse nell’assurdità del vivere possibili tracce di vita, di una segreta complicità e resistenza.

È uscita, per i tipi di Adelphi che ne ha pubblicato le opere negli anni, un’ultima raccolta inedita di scritti di Emile Cioran: Esercizi negativi, Milano 2025.

L’assurdo e il non senso della vita sono invece la nera nebbia in cui sono inzuppate le parole, il pensiero filosofico, la vita stessa del saggista e aforista rumeno Emil Cioran (1911- 1995), reso apolide dal destino e francese da vocazione letteraria. Agli inizi era vicino all’esistenzialismo; se ne distanziò gradualmente per praticare sempre più un pessimismo radicale e un nichilismo provocatorio rivolto soprattutto ad ogni forma di ideologia.

Prossimo a una filosofia dell’assurdo sostenuta dall’amico Eugène Ionesco, posizione presa per l’impossibilità di poter spiegare la realtà percepita come esclusivamente insensatezza e irrazionalità, egli scrive: «Quello che ci distingue dai nostri predecessori è la disinvoltura davanti al Mistero. L’abbiamo persino sbattezzato: così è nato l’Assurdo… Inganno dello stile: dare alle tristezze abituali una forma insolita, abbellire le piccole sventure, addobbare il vuoto, esistere mediante la parola, mediante la fraseologia del sospiro o del sarcasmo!» (Sillogismi dell’amarezza, Adephi, Milano 2001, 15).

«Giornate intere in cui devo lottare contro questa nebbia che mi scende sul cervello… Il clima del deserto è l’unico adatto alla mia natura. E non solo il clima; il deserto intero mi chiama, mi affascina, mi è necessario. Invece mi trascino nelle città; soffoco in strada, sto accanto agli umani. Io valgo solo in quanto non aderisco al mondo» (Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001, 91).

“Il sorriso grigio della nebbia”

«Nella passione del vuoto solo il sorriso grigio della nebbia anima ancora la decomposizione grandiosa e funebre del pensiero. Dove siete, nebbie crudeli e ingannatrici, se indugiate a invadere una mente offuscata? In voi vorrei distruggere la mia amarezza e nascondere un terrore più vasto del crepuscolo del vostro fluttuare! Quale Nord scende nel mio sangue!» (Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, Milano 2024, 151).

E tuttavia anche nella nebbia troviamo minimi spazi di manovra, stretti pertugi rischiarati; brevi intervalli luminescenti che ravvivano e sfumano il limite delle cose: «A un certo punto, avvolto nella bruma sul sentiero che domina la Senna, mi sono ripetuto questa frase capitale di Valéry: “Il sentimento di essere tutto e il fatto evidente di non essere nulla”, senza provare alcun brivido disperato.

Al contrario, una grande sicurezza, il sentimento di una certezza senza incrinature… 27 febbraio. Cinque ore di passeggiata nella nebbia, tra Etampes e Dourdan. La nebbia, l’unica cosa che non mi ha mai deluso, la cosa più riuscita sulla faccia della terra… 29 ottobre – Nebbia leggermente dorata, e foglie color rame, al Luxembourg. Ma in me l’autunno è ancora più avanzato… Ieri, nella foresta di Rambouillet. — Nebbia e pioggerella – è quel che ci vuole per il camminatore. La nebbia ravviva qualsiasi cosa sfumandone i contorni, soprattutto quando si insinua in una foresta. Ogni albero sembra allora una preghiera materializzata» (ivi, 1127; 1406; 346; 796).

Una nebbia fatta di nulla e di amarezza

Anche da questa nebbia fatta di nulla, nebbia di decomposizione delle forme e di ogni altra cosa o affezione, in questa nera e disperata oscurità resistono le parole oltre se stesse. Sta un resto di poetica anche se sospesa nel vuoto, segnata da ambiguità e contraddizioni, soggetta a continue metamorfosi.

In un saggio di Paolo Vanini, Cioran e l’utopia. Prospettive del grottesco, Mìmesis 10, Mimedizioni, Milano 2018 egli ha inteso mostrare come il grottesco sia una delle caratteristiche della poetica di Cioran, dove grottesco etimologicamente richiama un luogo lontano dalla luce. Il grottesco è il mondo estraniato con una struttura ambivalente, in una forma ad un tempo ridicola e terrificante:

«Cioran matura la consapevolezza che quella degli uomini è una realtà la cui fisionomia tende al deforme, all’irregolare, all’eccentrico – in una parola, al grottesco: a ciò che è bizzarro e aberrante nello stesso istante, a ciò che muove al riso pur non suscitando allegria, a una figura la cui mostruosità e il cui fascino dipendono dalla fusione di parti ed elementi tra di loro incompatibili, a una commistione demoniaca di infimo e sublime che eccede le consuetudini della bellezza, della bruttezza e della normalità» (ivi, 23).

E ancora: «Ogni volta che passeggio nella nebbia, è più facile svelarmi a me stesso. Il sole ci rende estranei a noi stessi perché, mostrando il mondo, ci lega ai suoi inganni. Ma la nebbia è il colore dell’amarezza … Vi è tanta nebbia nel cuore dell’uomo, che i raggi di un sole qualsiasi, una volta entrati, non ne escono più. E vi è tanto vuoto nei suoi sensi dissipati, che colombe folli, le ali lacerate dai venti, errano sulle vie che lo avvicinavano al mondo» (Crepuscolo dei pensieri, 23; 178).

Le parole, una tattica di resistenza

La parola tuttavia resta, per Cioran, l’unico modo per sopravvivere e addolcire l’assurdo del vivere, anche se l’afflizione non conosce riscatto: «Se per un prodigio le parole svanissero, la nostra ebetudine, la nostra angoscia diverrebbero intollerabili. L’improvviso mutismo ci ridurrebbe al supplizio più crudele. E l’uso del concetto che ci dispensa dal contatto con terrori che attraversano la vita.

Noi diciamo: la morte e questa astrazione ci impedisce di vederla, di percepirne l’infinito e l’orrore. Battezziamo le cose e gli eventi per eluderne l’Inesplicabile intrinseco e terrificante. L’attività dello spirito è così un imbroglio salutare, un sistematico gioco di prestigio. Ci permette di circolare dentro una realtà addolcita, confortante e inesatta… Ma quando si ritorna in sé e si è soli – senza la compagnia delle parole- si riscopre l’universo privo di qualificazioni, l’oggetto puro, l’evento nudo» (Esercizi negativi, 152-153).

Anche se la parola poetica non conosce speranza: «Tra la poesia e la speranza l’incompatibilità è totale. Giacché la poesia non esprime se non ciò che si è perduto o ciò che non è – nemmeno ciò che potrebbe essere. Il suo significato ultimo: l’impossibilità di ogni attualità. E in tal senso che il cuore del poeta non è nient’altro che lo spazio interiore e incontrollabile di una appassionata decomposizione. Chi mai oserebbe chiedersi come egli abbia sentito la vita, dal momento che è stata la morte a renderlo vivo?» (ivi, 129), tuttavia si afferma pure: «La vera poesia comincia al di là della poesia; e questo vale anche per la filosofia, per ogni cosa» (Sillogismi dell’Amarezza, Adelphi, Milano 2001, 15).

Vicino da lontano l’assoluto come la poesia: «Sono infinitamente più vicino alla musica e alla poesia che non alla saggezza o alla religione. Il fatto è che per me l’assoluto è questione di umore. Esige continuità, ed è proprio quello che mi manca» (Quaderni, 10101).

“Esercizi di Ammirazione”

C’è anche vita dentro le nebbie. Non solo Esercizi negativi dunque, ma Esercizi di ammirazione. È il caso proprio di una raccolta che porta questo titolo, un lavoro raffinato sulla lingua e linguaggi d’altri, ritratti di scrittori dove l’ammirazione non manca di contrasti e battibecchi molto accesi. Non è intellettualismo, quello di Cioran, ma tende all’esercizio più grande: quello di affrontare i problemi e i paradossi della realtà permeata dalle nebbie dei suoi travagli, tormenti, contraddizioni.

Il ritratto di Maria Zambrano coglie con grande lucidità la natura originaria della sua parola. Nascente dall’esperienza incandescente dell’Altro e non dal linguaggio riflessivo su di esso, «Maria Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea, ha salvaguardato la sua essenza unica mettendo l’esperienza dell’Insolubile al di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato la filosofia. È vero ai suoi occhi solo ciò che precede o segue il detto, solo il verbo strappato agli intralci dell’espressione o, come dice magnificamente, la palabra liberada del lenguaje.

Fa parte di quegli esseri che si rimpiange di incontrare troppo raramente, ma ai quali non si smette di pensare e che si vorrebbe capire o almeno intuire. Un fuoco interiore che si sottrae, un ardore che si dissimula sotto una rassegnazione ironica: in Maria Zambrano tutto sfocia in altro, tutto comporta un altrove, tutto. Se si può discutere con lei di qualsiasi cosa, si è comunque sicuri di scivolare presto o tardi verso interrogativi capitali senza seguire per forza i meandri del ragionamento» (Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, E-book, Adelphi, Milano 2014, 95).

Lei non era di qui…”

Emil Cioran con le parole “Lei non era di qui” si riferisce, pur non nominandola, a Susana Soca, (1906-1959), poetessa uruguaiana, vissuta dal 1938 al 1948 in Francia, sua ispiratrice a cui dedica un ritratto negli Esercizi di ammirazione: «L’ho incontrata due volte soltanto. È poco. Ma lo straordinario non si misura in termini di tempo. Fui conquistato di colpo dalla sua aria d’assenza e di spaesamento, dai suoi sussurri (lei non parlava), dai suoi gesti incerti, dai suoi sguardi che non aderivano agli esseri né alle cose, dal suo portamento di spettro adorabile.

“Chi è lei? Da dove viene?” era la domanda che si sarebbe voluto rivolgerle a bruciapelo. Non avrebbe potuto rispondere, a tal punto si identificava con il proprio mistero o riluttava a tradirlo. Nessuno saprà mai come faceva a respirare, per quale smarrimento cedeva ai sortilegi del fiato, né che cosa cercava fra noi. Quello che è certo è che non era di qui e condivideva la nostra caduta soltanto per educazione o per qualche curiosità morbosa.

Solo gli angeli e gli incurabili possono ispirare un sentimento analogo a quello che si provava in sua presenza. Fascinazione, sovrannaturale malessere! Nell’istante stesso in cui la vidi, mi innamorai della sua timidezza, una timidezza unica, indimenticabile, che le conferiva l’aspetto di una vestale stremata al servizio di un dio clandestino oppure di una mistica devastata dalla nostalgia o dall’abuso dell’estasi, per sempre inadatta a recuperare l’evidenza!» (ivi, 111).

Lei non era qui… Chissà perché a scorrere questo ritratto già dalla prima volta mi è venuto da associarlo all’immagine della “parola originaria” che si genera nell’esperienza, che gemina dalla trasparenza dell’intuizione; parola originaria che tuttavia si sottrae, o meglio si dissolve oscurandosi nel momento in cui diventa parola originata nel grigio della nebbia del linguaggio.

Insonnia nel vento che muove il desiderio

«Il gemito del vento nella notte è l’immagine del tempo, che, risvegliato violentemente dalla sua marcia sonnolenta, cerca di porvi fine in un’ultima furia. … E noialtri – i cui ricordi sepolti sono attizzati dalla sua vertigine – dal vento veniamo strappati a noi stessi, assieme a tutto il nostro passato» (Finestra sul nulla, Adelphi, Milano 2022, 43).

Nella sua vita Emil Cioran fu segnato e tormentato pesantemente dall’insonnia, «vertiginosa lucidità» – il «disastro per eccellenza», il «nulla senza tregua» – così egli scriveva per ingannare le notti interminabili di veglia per non uscire di senno.

Insonnia: il suo dramma è il tempo che non passa, sosta sulla soglia tra l’essere e il nulla, tra l’assoluto e l’assurdo, terra contrastata, lacerata, in ostaggio tra due contendenti: il rifiuto e l’invocazione. Così «l’insonnia ci dispensa una luce che non desideriamo, ma alla quale inconsciamente tendiamo. La reclamiamo nostro malgrado, contro di noi. Per suo tramite – e a discapito della nostra salute – cerchiamo altro, verità pericolose, nocive, tutto ciò che il sonno ci ha impedito di intravedere. Eppure quelle insonnie ci liberano dalle nostre facilità e dalle nostre finzioni solo per metterci di fronte a un orizzonte bloccato: esse illuminano le nostre impasse. Ci condannano mentre ci liberano: equivoco inseparabile dall’esperienza della notte» (ivi 101).

L’esperienza dell’insonnia: veleno e farmaco, irritazione e consolazione, stridente e dolce tra sterpi e anemoni: «Una volta che il veleno dell’insonnia ti ha depravato l’essere, niente può più accadere sotto il sole senza irritarti. Tranne, forse, un dialogo di fiori sulla morte» (Crepuscolo dei pensieri, 120).

«Solo il pensiero di Dio mi tiene ancora in piedi. Quando annienterò la mia fierezza, potrò coricarmi nella sua culla misericordiosamente profonda e addormentare le mie insonnie, con la consolazione del Suo vegliare? Al di là di Dio non ci resta altro che il desiderio di Lui. Ogni stanchezza nasconde una nostalgia di Dio» (ivi, 179).

Sotto l’albero delle nebbie

L’insonnia cantilena nel vento che alita sulla bruma sibilando e sillabando il ruminare dei pensieri: “ch’è la vita, [questa] vita che si dispera e che perdura”?

Notte d’insonnia e vento
gli anemoni lucenti
tra gli sterpi
non ora che il vento penetra
e fischia alle serrande
avvolge e schianta rami
su palazzi, torri di metallo,
è sceso dall’Atlantico schiumoso
tra le chiese di Francia,
gli ampi castelli,
ora nell’Appennino urla e s’affanna
poi geme come il male
che mi tiene – mi duole il petto
e il piede – qui aggrappato,
strette le mani contro la spalliera

distante, quanto
quasi non rammenti
la banderuola che stride
sul torrione un altro volto
chiama, altra vicenda
chiude, la dispone
tra Mondavio e quei monti
giù al confine
e tra il vento ripeti
ch’è la vita,
vita che si dispera
e che perdura
(Umberto Piersanti, Nel tempo che precede, Einaudi, Torino 202, 117-118)

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/ilonaburschl-3558510/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5822148″>Ilona Ilyés</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=5822148″>Pixabay</a>

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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