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Parole e figure / Il tram numero fiore

Da poco in libreria, “Il tram numero fiore”, di Guia Risari, edito da Kalandraka, racconta storie incredibili e straordinarie. Quando il ricordo scalda il cuore.

Eccoci qui, nuova stagione (calda), nuova lettura (fresca).

Incontriamo Laura. Una bambina curiosa e spensierata, come quelle che amiamo.

Laura pareva eccentrica: raccontava sempre storie incredibili. Era solo fantasia?

Parlava di un tram dove succedevano cose straordinarie.

Non le credeva nessuno, tranne Omar, spesso silenzioso e malinconico.

“Mi manca casa”, diceva, “mi manca il paese in cui sono nato”.

“Vuoi rivederlo?”, gli chiese un giorno Laura…

“E come?”, rispose lui con gli occhi sbarrati.

“Questo pomeriggio fatti trovare alle tre in punto alla fermata del tram. Andremo insieme”.

Quanto grande è il potere dell’amicizia e quanto può fare, è davvero inimmaginabile. A mano di qualcuno si possono fare viaggi veramente incredibili.

Tutto è possibile per chi apre la mente alla fantasia e allo stupore, per chi osa credere.

“Il tram numero fiore” ci offre un viaggio meraviglioso attraverso terra, aria e mare, facendo tappa in luoghi bellissimi e condividendo il posto con insoliti passeggeri ammirati, allegri e pieni di entusiasmo, mentre i sentimenti più cupi svaniscono.

C’è pure una vecchina che assomiglia a un rampicante… E il verde smeraldo dei prati o i fiori color lilla, poi, quanto possono essere belli…

Così i due bambini protagonisti, Omar e Laura, vivono un’esperienza unica e rafforzano, ora dopo ora, la loro amicizia. Ai confini della realtà, in una dimensione magica e onirica di paesaggi esuberanti, quasi surreali ed esotici. Solari.

Gli autori hanno fatto uno sforzo considerevole per rendere visibili e fruibili concetti come il ricordo, la nostalgia e la felicità nonché un’abilità che ci fa umani: fabulare.

E tutto tramite un mezzo di trasporto cittadino e collettivo, popolare ed elegante. Avvolto da migliaia di farfalle, un bel tram sferragliante arancione che non ha un numero: al suo posto c’è un fiore! Possibile poi che a guidarlo sia un orango?

Leggere per credere.

 

Sfoglia il libro:

 

Guia Risari, milanese, classe 1971, è laureata in Filosofia Morale all’Università Statale di Milano, e si è specializzata in Modern Jewish Studies alla Leeds University. Ha vissuto a lungo in Francia dove ha lavorato come scrittrice, traduttrice e ricercatrice su argomenti riguardanti la letteratura, la sociologia, l’antropologia e le migrazioni. Tornata in Italia dal 2008, ha pubblicato 50 libri per l’infanzia nonché saggi e romanzi. Collabora con diverse case editrici, periodici e gruppi teatrali, oltre a tenere laboratori e corsi.

Pagina web

Federico Delicado è nato a Badajoz, in Spagna, nel 1956. Laureato all’Accademia di Belle Arti di Madrid, nel 1970, inizia a lavorare per la stampa e come operatore audiovisivo. Ha pubblicato diversi libri per l’infanzia. Nel 2014, vince il VII Premio Internazionale Compostela per Albi Illustrati con Ícaro, incluso nella selezione The White Ravens 2015 della Biblioteca per la Gioventù di Monaco di Baviera. Per Kalandraka Italia ha illustrato Un viaggio diverso (BIL, Ibby Italia 2024) e La terra di nessuno (finalista Concorso Illustratori di Cento 2024).

Pagina Instagram

Guia Risari, Il tram numero fiore, illustrazioni di Federico Delicado, Kalandraka Editora, Pontevedra, Spagna, 2025, 32 pp.

 

“I GIOCHI DELLE BANCHE”: GRANDE INTERESSSE DELLE SCUOLE PER  L’EDUCAZIONE ALLA FINANZA ETICA PROMOSSA DAL GIT  DI FERRARA

“I GIOCHI DELLE BANCHE”:
GRANDE INTERESSSE DELLE SCUOLE PER  L’EDUCAZIONE ALLA FINANZA ETICA PROMOSSA DAL GIT  DI FERRARA

Il Gruppo di Iniziativa Territoriale (GIT) dei Soci di Banca Etica conferma il suo impegno per l’educazione finanziaria di studentesse e studenti.

Al termine dell’anno scolastico 2024-2025, fa un bilancio dell’attività svolta. Il GIT ha proposto nelle scuole superiori del territorio ferrarese “I giochi delle banche”, un gioco di ruolo che consente ai ragazzi e alle ragazze di capire non solo come funzionano le banche, ma anche come le scelte dei risparmiatori generino sempre delle conseguenze sulla società e sull’ambiente.

Il gioco, già sperimentato con successo in passato, è stato proposto quest’anno a 24 classi, coinvolgendo circa 500 studenti e studentesse ferraresi di 6 scuole: 3 licei e 3 istituti tecnici.

<<E’ un gioco che ci aiuta a divulgare quella che noi chiamiamo “educazione critica alla finanza”>>, spiega Enrico Calore (Responsabile del GIT); <<Grazie a questo strumento ragazze e ragazzi comprendono come, a seconda delle scelte che ogni risparmiatore compie con il proprio denaro, è possibile orientare la finanza per favorire un’economia che migliora la qualità della nostra vita o, al contrario, per alimentare un modello che favorisce disagio sociale e un impatto ambientale negativo>>.

Il 5 maggio con una conferenza sulle criptovalute, rivolta a 3 classi del Liceo Carducci, si è conclusa l’attività nelle scuole, che riprenderà dal prossimo settembre.

Il GIT di Ferrara è un gruppo di soci di Banca Etica eletto ogni tre anni tra le persone socie della Provincia e composto da persone volontarie impegnate nella promozione di iniziative e attività volte ad accrescere la conoscenza dei temi dell’economia responsabile e della finanza etica.

Dopo l’assemblea nazionale del 17 maggio, che ha visto l’elezione del nuovo Presidente Aldo Soldi, anche il GIT di Ferrara si appresta a svolgere la sua assemblea elettiva dopo l’estate.

Chiunque fosse interessato a collaborare e conoscere meglio la realtà di Banca Etica, può scrivere a git.ferrara@bancaetica.org.

Bill Gates donerà 200 miliardi all’Africa fino al 2045. Nuova filantropia o nuove violazioni dei diritti umani?

Bill Gates donerà 200 miliardi all’Africa fino al 2045. Nuova filantropia o nuove violazioni dei diritti umani?

Un annuncio strabiliante quello fatto da Bill Gates ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, e riportato dalla BBCParlando all’Unione Africana il fondatore di Microsoft e patron della Bill&Melinda Gates Foundation ha comunicato di voler donare da qui al 2045 circa il 99% del suo patrimonio, stimabile intorno ai 200 miliardi di dollari. I tre figli di Bill Gates, Jennifer (28 anni), Rory (25 anni) e Phoebe (22 anni), riceveranno dunque il restante 1% del patrimonio del padre.

Una volta effettuata, la donazione di Gates sarebbe una delle più grandi mai fatte nella storia. Già il celebre investitore Warren Buffett ha promesso di donare dopo la morte il 99,5% del proprio patrimonio, stimato in 160 miliardi di dollari. La differenza potrebbe però farla l’inflazione e le sue oscillazioni da qui a 20 anni, ovvero quando terminerà l’erogazione annunciata da Gates.

La scelta della data non è casuale, essendo prevista per quell’anno la definitiva chiusura della Bill & Melinda Gates Foundation, organizzazione filantropica che veicolerà i finanziamenti verso il continente africano. Un’iniziativa pensata per “poter liberare il potenziale umano dell’Africa”, stando a quello sostenuto dal tycoon miliardario. In questo modo, secondo Bill Gates, “ogni Paese africano dovrebbe essere sulla strada verso la prosperità”.

“La filantropia – ha poi spiegato il miliardario americano – non deve durare per sempre. Deve fare il massimo nel minor tempo possibile, soprattutto quando ci sono vite umane in gioco”“Di recente mi sono impegnato a devolvere il mio patrimonio nei prossimi 20 anni. La maggior parte di quei fondi sarà spesa per aiutarvi ad affrontare le sfide qui in Africa” – ha dichiarato Bill Gates nella sede centrale dell’Unione Africana, provocando l’entusiasmo dei presenti.

I settori su cui si concentrerà l’investimento epocale saranno principalmente sanità e istruzione, senza dimenticare dossier strettamente connessi, come agricoltura e cambiamento climatico.

 

Tre gli obiettivi principali perseguiti dalla Bill & Melinda Gates Foundation, come spiega la BBC“porre fine alle morti prevenibili di madri e bambini, garantire che la prossima generazione cresca senza dover soffrire di malattie infettive mortali e far uscire milioni di persone dalla povertà”.

Ma davvero è così entusiasmante questa dichiarazione di Bill Gates? Davvero siamo così ingenui da poterla definire filantropia globale? Davvero crediamo che la “generosa donazione” di Gates sia una innocua donazione senza finalità politico-economiche?

Bill Gates, con la sua Fondazione influenza l’agenda sanitaria globale e non nega di avere conflitti d’interessi, è leader di programmi di vaccinazione di massa, agendo come stakeholder ed opinion maker nei media.

La verità è che con il potere dei soldi e il filantrocapitalismo (termine esatto), fin dagli anni Novanta Bill Gates è fautore di una ricolonizzazione non solo dell’immaginario ma dell’economia globale. Una ricolonizzazione che è stata ben descritta dalla filosofa, economista, fisica ed ecofemminista indiana Vandana Shiva e ribadita approfonditamente nel libro della ecogiornalista Nicoletta Dentico nel suo libro “Ricchi e buoni, le trame oscure del filantrocapitalismo”.

Gates negli anni ha incentivato l’industrializzazione dell’agricoltura su scala globale attraverso monocolture intensive e utilizzo di pesticidi e OGM; ha monopolizzato l’agenda sanitaria globale rendendo l’OMS completamente dipendente dai suoi finanziamenti spesso incentivando soluzionismi tecnocratici (vaccinazioni di massa) a discapito dei sistemi sanitari territoriali, dei sistemi di cura olistici e della prevenzione primaria; ha avuto la capacità di rigenerare la sua immagine di tycoon digitale della Silicon Valley in una “icona green” che propone il fatidico “nucleare di quarta generazione” e la geoingegneria solare come soluzionismi tecnici al cambiamento climatico; ed ha monopolizzato progetti educativi.

Ad ora il bilancio delle attività della Gates Foundation non è stata così filantropica come si pensava a partire dalla privatizzazione delle istanze più alte del welfare globale, dal fallimento del Progetto Agra in ambito agricolo sempre in Africa e la devastante “Green Revolution” in India – sponsorizzata insieme alla Fondazione Rockfeller – che indusse al suicidio più di 300.000 contadini indiani in più di 30 anni di attività. Per non parlare della devastante epidemia di paralisi flaccida acuta non-polio (NPAFP) che ha paralizzato 490.000 bambini tra il 2000 e il 2017 in India; il caso delle reazioni avverse su circa 14.000 ragazze trattate con iniezioni di Gardasil della casa farmaceutica Merck nel Distretto di Khammam, nello Stato indiano del Telangana; le proteste popolari del 2021 con l’hashtag #ArrestBillGates in India in critica alle attività dell’Ong statunitense PATH (Program for Appropriate Technology in Health)  – finanziata dalla Gates Foundation – che ha somministrato vaccini antipolio per studi clinici non autorizzati, usando i bambini come cavie e quindi violando qualsiasi norma di codice etico; per non dimenticare il finanziamento della Gates Foundation, nel 2010, dello studio di fase 3 del vaccino anti-malarico sperimentale di Glaxo Smith Kline contro la malaria, che portò alla morte di 151 bambini africani e causando gravi effetti avversi, tra cui paralisi e convulsioni febbrili a 1.048 dei 5.949 bambini. : Bill Gates tra vaccinazioni e violazione dei diritti umani nel Sud del Mondo

Innumerevoli altri casi sarebbero da elencare, ma questi bastano per poter affermare che Bill Gates non è stato, non è e non può essere la soluzione per l’Africa, ma al massimo è tra le varie ed innumerevoli cause del suo immobilismo in quanto agente del neocolonialismo contemporaneo occidentale nelle sue più svariate forme.

Bill Gates e la sua Fondazione sono sempre stati al centro di violazioni di diritti umani legati alla somministrazione di vaccinazioni, all’industrializzazione dell’agricoltura e al settore agro-chimico-alimentare, conducendo politiche e prassi colonialiste e razziste in giro per il mondo.

Il filantrocapitalismo di Gates, aprendo nuovi mercati alle grandi corporations, oltre al rischio di conflitti d’interessi, è un pericolo per i diritti umani e il diritto alla salute sacrificati sull’altare del profitto. Bill Gates, a differenza di come lo fa apparire il suo brand, è un nemico del terzomondismo e delle sue istanze.

 

Di seguito alcuni approfondimenti che documentano seriamente i crimini della Gates Foundation e del suo filantrocapitalismo:

Philanthropic Power and Development – Who shapes the agenda?

The Gates Foundation, global health and domination: a republican critique of transnational philanthropy

Developing an agenda for the decolonization of global health

Gated Development – Is the Gates Foundation always a force for good?

Philanthrocapitalism in global health and nutrition: analysis and implications

Colonialist Invasive Surgery within the colony; Global Medical Imperialism within the developing world and in Pakistan during COVID

Rapporto “Gates to a Global Empire” – Gates verso un Impero Globale

“Gates to a Global Empire” Gates verso un Impero Globale – sintesi del rapporto

Gates Ag One: The Recolonisation Of Agriculture

Bill Gates & His Fake Solutions to Climate Change

Bill Gates e le sue false soluzioni ai cambiamenti climatici

La spinta delle Lobby verso il cibo sintetico – False soluzioni che mettono a rischio la salute umana e del pianeta

Niente di nuovo nei nuovi Ogm. Le multinazionali minacciano la nostra sovranità alimentare

Filantropia e sviluppo sostenibile, luci e ombre

L’impero filantrocapitalista di Bill Gates

Le colonie del nostro tempo e il filantrocapitalismo

Da Rockefeller a Gates, l’anima oscura del filantrocapitalismo

Bill Gates si mette a fare il contadino. Ora è il più grande proprietario di terreni agricoli d’America

Riferimenti:
Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni, le trame oscure del filantrocapitalismoEmi, 2020
JACOB LEVICH, The Gates Foundation, Ebola, and Global Health Imperialism, September 2015

Questo articolo è uscito sulla agenzia pressenza il 6 giugno 2025

In copertina: Bill Gates – Wikimedia Commons

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

Russia: costruire ponti e non muri: intervista all’economista Andrea Gandini

Russia: costruire ponti e non muri
intervista all’economista Andrea Gandini

Redazione di periscopio: Pensi che la guerra in Ucraina finisca presto ?

Andrea Gandini : Non credo. La Russia ha un problema di reclutamento dei giovani, in quanto più procede la guerra più cresce la protesta interna e la spesa militare. Le stime dicono che i morti russi sono almeno 165mila e cresce il costo sia del reclutamento che delle indennità alle famiglie per i caduti. Alcuni esperti avevano stimato che una guerra prolungata sarebbe stata possibile per la Russia solo fino al 2028 a causa del suo calo demografico (che è anche un potente ostacolo ad invadere altre parti dell’Europa). Tuttavia la Russia è ancora più forte dell’Ucraina, ha minori problemi nel reclutamento dell’Ucraina, che ha oltre100mila renitenti, e il disimpegno degli Stati Uniti apre alla Russia la possibilità nel 2025 di conquistare anche quelle aree che le mancano dei 4 oblast che vuole, insieme ovviamente alla Crimea e alla neutralità dell’Ucraina. Solo se avrà queste tre condizioni farà una pace duratura.

Redazione : Pensi che ci siano pericoli di invasione della Russia in altri paesi limitrofi europei?

Non credo. Innanzitutto ha un calo demografico e dissensi interni che non le permettono di fare un’altra guerra. Inoltre Putin non ha mai espresso l’idea d invadere altre zone, mentre ha sempre detto che se la Nato fosse arrivata ai suoi confini la Russia avrebbe reagito. L’ha detto almeno una decina di volte, la prima nel 2007 al convegno sulla sicurezza di Europa e Russia. Basta leggere le autobiografie di Reagan e Goorbaciov (da loro firmate come autentiche) per sapere che c’era un accordo tra galantuomini (americani e russi) per cui dopo il crollo dell’URSS non ci sarebbe stata una espansione della NATO fino ai suoi confini. I Russi sono di tre tipi: i “Grandi Russi” (la Russia attuale), i “Piccoli Russi” (Ucraina) e i “Bianchi Russi” (Bielorussia). L’attuale visione imperiale di Putin non permette che questi Russi siano in conflitto con la Madre Russia.

E sarà così anche in futuro?

Le cose potrebbero cambiare nel dopo Putin (ha 72 anni). Ci sono molti oppositori in Russia e all’estero che si battono per una Russia democratica, pacifica e libera e prima o poi questa via sarà percorsa, ma solo se l’Europa saprà muoversi con diplomazia e intelligenza (che finora non ha avuto). La Russia ha sempre avuto una grande paura di essere invasa. Anche l’accordo tra nazisti e comunisti nel 1939 (Ribbentrop-Molotov) fu fatto perché la Russia aveva paura che Germania e Polonia potessero allearsi e invadere la Russia che ha un territorio sterminato ma una piccola popolazione. Ora è minata dal calo demografico e Putin sa che i tempi per resistere in questa guerra sono limitati (2 anni?). Poi verrebbero a mancare i giovani soldati e troppe alte sarebbero i costi.

Quindi una pace potrebbe essere possibile tra un anno?

Credo di si, sempre se verranno date a Putin le tre cose che vuole: Crimea, 4 oblast, neutralità dell’Ucraina.

Quali sono gli interessi di Trump e cosa farà con la Russia?

Trump eredita un’America allo sfascio e vuole cambiare radicalmente la politica, anche quella estera. Neocon e Democratici volevano un’America gendarme del mondo. Trump sa che non è più possibile. Troppo forte l’opposizione di Cina, Russia e Brics. Gli Stati Uniti hanno perso tutte le guerre fatte negli ultimi 40 anni (dal Vietnam in poi) e sanno che se scendono in guerra con Russia e Cina perderanno ancora. Quindi vogliono fare un accordo a tre lasciando lo spazio “vitale” che la Russia chiede ai suoi confini e tornare a fare affari con la Russia (anche un accordo sulla Groenlandia), sfilare un pò la Russia dal nemico vero (Cina) e usare gli “amici” (Europa, Ucraina, Canada, Messico, Groenlandia) per ottenere benefici per gli Stati Uniti. Coi nemici si può trattare, ma solo dagli amici si può estrarre profitto.

 Il ReArm Europa è una soluzione?

Il ReArm Europa serve solo alla Germania, che ha poco debito pubblico per fare investimenti massicci al fine di tamponare la sua crisi manifatturiera con la distruzione dell’automotive, dovuta sia alla fine dei rapporti con Russia e Cina (voluti dagli americani), sia per l’azzardo del green deal che si è basato troppo su regole e meno su incentivi al cambiamento (le auto elettriche cinesi hanno un costo del 30% inferiore, difficilmente recuperabile).

Esiste un conflitto tra Usa e Germania?

E’ sempre esistito, sin dalla prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti (anglosassoni) non hanno mai voluto un altro capitalismo in lotta per la leadership mondiale. La distruzione dell’impero austro-ungarico era un interesse di inglesi e americani che volevano affermarsi come unica potenza nel XX secolo. Il piano Morgenthau nel dopoguerra voleva impedire alla Germania di risollevarsi (doveva diventare un “campo di patate”). Il fatto è che la 2^ guerra mondiale l’ha vinta anche l’URSS, che è arrivata prima a Berlino, e si è presa i paesi dell’Est Europa. C’era comunque accordo tra russi e americani nel dividere la Germania. E Dominik Leaven ci ha spiegato che ogni volta che i russi si sono sentiti aggrediti, hanno aggredito.

Perché allora gli Stati Uniti hanno permesso la nascita dell’Europa a trazione tedesca?

Perché la UE sarebbe rimasta un mero mercato senza vera unità politica e chi ha dettato le regole è sempre stata la Francia con la sua tecnocrazia. Non è un caso che la Russia veda come nemico in Europa più la Francia che la Germania.

Ma il ReArm sarà usato soprattutto dalla Germania perché hai detto che è quella che ha meno debito.

Il ReArm è stato varato dalla tedesca von der Layen, in accordo col proprio paese, per due ragioni, a mio avviso. La prima per tamponare la crisi della Germania che da due anni è in recessione, da quando è cominciata l’invasione in Ucraina; la seconda perché una Germania militarmente forte terrà testa alla Francia nel prossimo rilancio dell’Europa che potrebbe avvenire dal 2034.

 E perché non prima?

Temo che nel 2029 il centro-sinistra, che ora governa in Europa, perderà le elezioni e questa Europa verrà messa in mora, ma dopo 5 anni di nazionalismi ci si renderà conto che è impossibile competere con Cina e Stati Uniti e risorgerà, credo, una nuova Europa questa volta su basi nuove e come vera statualità e speriamo davvero democratica.

Oggi l’Europa non è democratica?

Pochino direi. E’ diretta da una tecnocrazia franco-tedesca e dalla comunità business, mentre l’unico organo eletto dai cittadini ogni 5 anni (il parlamento) non viene ormai neppure consultato per le decisioni strategiche (vedi ReArm).

Secondo te perché?

Gandini : Una ricerca del prof. Francesco Nicoli (Politecnico di Torino) tra tutti i cittadini europei sul ReArm ha dimostrato che la grande maggioranza degli europei ha idee molto chiare che divergono moltissimo dal ReArm. Vogliono che la spesa attuale per le armi dei singoli Stati non aumenti, che sia usata per costruire un nucleo di esercito europeo o di collaborazione tra Stati e che gli acquisti siano fatti insieme dagli europei e su armamenti prevalentemente europei. E anche molti partiti sono contrari. Se il ReArm fosse proposto al parlamento europeo rischia di essere bocciato.

L’Europa e la Germania torneranno a dialogare con la Russia?

Penso che sia vitale per entrambi, è questione di tempo. Il sogno di De Gaulle era un’Europa che va dall’Atlantico agli Urali. Il disegno è fallito perché c’era una conflittualità tra Francia e Germania e soprattutto tra Germania e USA che hanno sempre ostacolato le ambizioni della Germania. Quando la Germania è diventata una potenza commerciale con accordi con la Russia e Cina, la finanza americana ha cominciato a premere sui politici americani. E’ da lì che nasce l’”abbaiare della Nato alla Russia” (come disse Begoglio). Ma le cose si sono messe male per gli Stati Uniti. La Russia è una potenza indo-pacifica che impensierisce il capitalismo USA e non può fare accordi con la Germania.
Ne “Il Maestro e Margherita”, Bulgakov dice che la più bella città della Russia è Kiev. Nella letteratura c’è il dramma attuale: una guerra tra la provincia dell’impero e l’impero. Nel 1200 si fonda l’antica Russia, poi arrivano i mongoli che seppelliscono tutto. Poi nel 1700 c’è la lotta contro la Svezia di Ivan il Terribile da cui nasce l’impero russo, con dentro la Crimea e l’Ucraina.

Ma nei primi 10 anni del 2000 c’era un’intesa tra UE e Russia.

La UE e USA hanno riconosciuto la Cina, come economia di mercato nel 2001, mentre la Russia solo nel 2011, che dimostra le riserve degli americani sulla Russia e il timore di una nuova alleanza Germania-Russia. Dopo il decennio di Eltsin (1991-2000) in cui il capitalismo americano ha svenduto tutte le risorse russe al capitalismo anglosassone, nasce un rigurgito anti-occidentale che porta a Putin. In quel periodo c’era una parte della stessa finanza americana favorevole a far aderire alla UE e alla Nato la Russia, poi tutto è tramontato.

 Ma tu arrivi a giustificare l’invasione della Russia?

No di certo, ma tutti sanno che i russi l’hanno fatto perché si sentivano minacciati. Basta studiare la storia. Tutto il gruppo dirigente polacco fu sterminato dai russi nel 1939, perché temevano che Germania e Polonia la invadessero. Ciò è stato possibile perché la Russia oggi è difesa da mezzo mondo e dalla Cina. L’errore degli americani è stato pensare che si potesse continuare anche nel secolo XXI a fare il “gendarme del mondo”, a sostenere il diritto internazionale con una mano e con l’altra a invadere l’Iraq, la Libia,…la Russia ha paura di questa mano.

La guerra può finire prima?

 Come ho detto Putin non ha nessuna intenzione di chiudere la guerra finché non avrà la Crimea, le 4 regioni e la neutralità dell’Ucraina. Purtroppo non abbiamo più un ceto politico di livello come fu con Kissinger, Moro, Andreotti, Berlinguer, Craxi (il realismo della politica).
Manca una diplomazia europea che calmi le acque, che mandi messaggi di pacificazione. Come si può pensare di vincere con le sanzioni (che sono contro la Germania e l’Europa stessa) o favorire la pace con il ReArm o sequestrando i beni russi? Non bisogna abbandonare la Russia a una deriva dittatoriale.
A Putin fanno più paura i dissidenti che le sanzioni e chi lotta per una Russia democratica. Putin teme di più l’opinione pubblica russa ed europea che le sanzioni.

Armarsi rischia di aprire la via alla guerra, come avvenne nella prima guerra mondiale. L’Europa si sta scavando la fossa da sola. Nel nuovo ordine mondiale che non sarà più monopolio degli Stati Uniti, potremmo dialogare con tutti, invece così ci tagliamo fuori dal Resto del mondo che non ci capisce e dissente dalle nostre scelte. I russi, peraltro, sono disposti a sacrificarsi per la loro Patria, diversamente da noi occidentali. Per fortuna c’è il Papa che parla di pace e ha ricevuto il rappresentante della Chiesa ucraina di rito cattolico, un segnale. La Chiesa ha ancora una diplomazia (che non appare) ed è quella che conta. Altro che le foto opportunity dei dirigenti europei. Speriamo almeno nel Papa, visto il disastro dell’Europa.

 

Cover: un muro di cemento  incrinato con bandiere dipinte di Stati Uniti, Russia e Ucraina – immagine Vatican News 

Diario in pubblico /
Recital pianistico di Giovanni Bergamasco a Palazzo Roverella

Diario in pubblico. Recital pianistico di Giovanni Bergamasco a Palazzo Roverella

È il momento di scoprire la giovinezza nell’arte e la talentuosità di giovani artisti che si affacciano sulla scena non solo ferrarese. Un merito importante che va riconosciuto all’attività culturale e sociale del Circolo dei Negozianti la benemerita istituzione ora allocata nelle splendide sale di Palazzo Roverella. Così viene annunciato il Concerto che si è svolto il 28 maggio alle 18 nel Salone d’Onore:

«Concerto di un giovane talento nel pomeriggio di oggi al Circolo: la nobile dimora è stata al centro di un Recital pianistico che ha congiunti il suo passato antico rinascimentale con l’aspirazione a una vita futura nel segno della musica ineffabile, sentimento del tempo interiore e ombra delle parole ….una esperienza di alto valore non solo artistico ma anche umano  … Non dimenticare mai l’umanità che è nell’ uomo e nella donna …sembrava questo il messaggio che Giovanni Bergamasco ha offerto alla nostra comune riflessione ….e al pensiero sensibile ….»

Il vicepresidente Riccardo Modestino m’invita alla manifestazione che si svolge in una sala al completo dove incontro tante persone che da tempo non vedevo. Una specie di retour d’antan. Il Presidente del Circolo introduce l’emozionatissimo pianista, elencando il complesso programma nato dalla volontà di esplorare il mare magnum della musica tardo romantica e novecentesca.

Entra il giovane e alto Giovanni che, con aria tra lo spaurito e il fiero, si accosta allo strumento e sembra ormai estraniarsi dalla contingenza terrena per immergersi in un’aurea senza tempo, direbbe il poeta, e trarre dalle note una verità che non ha bisogno di altro che dell’idea che solo l’arte è verità. È conoscenza.

Bergamasco è nato a Bologna il 18 settembre 2008. Vive nella città estense e ha cominciato lo studio del pianoforte all’età di 5anni, A Ferrara è iscritto al Conservatorio Frescobaldi, dove attualmente frequenta il secondo anno del triennio accademico. I premi che ha già accumulato nella sua giovane età sono numerosi così come la frequenza a masterclass importanti con grandi maestri. A soli 12 anni ha tenuto il suo primo recital solistico.

A rendere ancora più straordinario il recital di Bergamasco è la capacità con la quale ha saputo connettere la  potenza esplicativa di alcuni momenti iconici, quale ad esempio la forma dello Scherzo in Chopin, libera da vincoli formali rigidi con l’uso che ne è stato fatto in tante composizioni novecentesche.

Va da sé che sono rimasto veramente entusiasta dei talenti mentali, formali, ma soprattutto a mio avviso etici che il giovane e bravissimo “genio” ha saputo regalarci.

Cover: l’autore con il giovane pianista Giovanni Bergamasco e gli organizzatori dell’evento

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

 

Per certi Versi / Lo dico piano

Lo dico piano

Lo dico piano

lo dico sottovoce
per paura di farmi male

l’anima è di cristallo
la ragione la frantuma

Lo dico piano
lo dico senza voce
per paura di farti male

è complicato vivere
senza una ragione

 

In copertina: Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay
Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Referendum, ecco perché 5 sì cambiano l’Italia

Referendum, ecco perché 5 sì cambiano l’Italia

Referendum, ecco perché 5 sì cambiano l’Italia

di Daniela Zero (Collettiva)

 

Licenziamenti e reintegro

L’obiettivo è eliminare le disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 in caso di licenziamento illegittimo. Oggi, chi è stato assunto prima di questa data può essere reintegrato, mentre chi è stato assunto dopo ha diritto solo a un indennizzo. L’abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015 garantirebbe a tutti lo stesso livello di tutela previsto dalla legge Fornero.

Perché è ancora necessario se la Corte Costituzionale ha già modificato il Jobs Act? Nonostante gli interventi della Corte, la legge Fornero continua a garantire maggiori tutele rispetto al Jobs Act. Ad esempio, chi è licenziato per motivi economici senza una giusta selezione oggi riceve solo un indennizzo, mentre con la legge Fornero avrebbe diritto alla reintegra.

 

Quali sono i principali vantaggi in caso di vittoria del sì? 

  • Stesse tutele per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla data di assunzione;
  • Reintegro nei casi di licenziamento disciplinare illegittimo;
  • Maggior tutela nei licenziamenti collettivi;
  • Aumento dell’indennizzo minimo nei casi in cui la reintegra non è prevista.

Licenziamenti e risarcimento

Attualmente, nelle piccole imprese (meno di 16 dipendenti), il risarcimento massimo per un licenziamento illegittimo è limitato a 6 mensilità. Il quesito propone di eliminare questo tetto, permettendo ai giudici di calcolare il risarcimento in base al danno effettivo subito dal lavoratore.

 

Perché questa modifica è importante?

  • Evita risarcimenti inadeguati per chi ha subito un danno economico e personale grave;
  • Permette una valutazione caso per caso, tenendo conto delle condizioni familiari e della situazione del datore di lavoro;
  • Allinea l’Italia alle normative europee, che prevedono un risarcimento integrale.

Lavoro precario

Il quesito dedicato a contrastare il lavoro precario mira a reintrodurre l’obbligo per i datori di lavoro di indicare una giustificazione (causale) anche per le assunzioni a termine inferiori a 12 mesi.

Perché questa modifica è necessaria?

  • Evita l’abuso dei contratti a termine senza motivazione;
  • Protegge i lavoratori dal rischio di precarietà continua;
  • Rafforza il principio che il contratto di lavoro standard deve essere a tempo indeterminato.

Sicurezza sul lavoro

Attualmente in caso di incidenti sul lavoro dovuti a carenze di sicurezza negli appalti, la responsabilità del committente (es. grande azienda) è limitata solo ai rischi “generici” e non a quelli “specifici” dell’appaltatore. Il quesito mira a rendere sempre responsabile il committente, permettendo ai lavoratori e alle loro famiglie di ottenere un risarcimento diretto.

Perché questa modifica è importante? 

  • Evita che i lavoratori e le loro famiglie restino senza risarcimento in caso di gravi incidenti;
  • Impone ai grandi committenti di vigilare sulla sicurezza nei cantieri e negli appalti;
  • Semplifica le cause legali per ottenere il giusto risarcimento.

Cittadinanza

L’obiettivo è modificare le leggi relative all’acquisizione della cittadinanza italiana, rendendo più accessibile la cittadinanza a coloro che, pur vivendo in Italia da lungo tempo, non riescono ad ottenerla per via dei rigidi requisiti attualmente in vigore.

Cosa cambierebbe con una legge nuova?

  • Si riduce il periodo di residenza legale continuativa necessario per richiedere la cittadinanza da 10 a 5 anni;
  • Una volta ottenuta sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni;
  • Una conquista decisiva per molti cittadini di origine straniera che non solo nascono nel nostro Paese ma ci abitano, ci lavorano e contribuiscono alla crescita economica e sociale;
  • L’Italia si allineerebbe ai maggiori Paesi europei che in questo modo promuovono diritti, tutele e opportunità per tutte e tutti.

 

In copertina: allestimento referendum 2022 – IMAGOECONOMICA

 

Restauro e riallestimento Palazzina di Marfisa d’Este. Osservazioni

Restauro e riallestimento Palazzina di Marfisa d’Este. Osservazioni

Giovedì 29 maggio sono stato alla presentazione dei lavori di restauro e riallestimento che hanno coinvolto la Palazzina di Marfisa d’Este. Ho seguito con attenzione le varie esposizioni; non mi so trattenere da qualche osservazione.

La prima, riguarda tutti i relatori: ricoprire un ruolo non significa necessariamente avere le competenze necessarie per esercitarlo. Una lettura dei curricula evidenzia che nessuno di loro ha mai svolto attività di ricerca tali da consentirgli di intervenire con adeguata conoscenza su un tessuto così fragile come era quello della Palazzina di Marfisa d’Este. Il risultato non poteva che essere deludente.

Ricordo che la Cassa di Risparmio di Ferrara finanziò l’intervento affidato alla benemerita associazione Ferrariae Decus: Giuseppe Agnelli presidente chiese a Nino Barbantini l’allestimento, lo seguì in ogni sua fase, dal restauro delle decorazioni pittoriche all’arredo.

La Palazzina viene pensata come ‘modello’ per la conoscenza della Ferrara estense: una guida per riscoprire una età dell’oro che corrisponde, nelle intenzioni, ai due secoli del vicariato estense.

La scelta compiuta dalla Amministrazione non è stata, come a mio parere era doveroso, il recupero della intenzione originaria ma, invece, la sua cancellazione: la Palazzina, persi i caratteri originari, diviene una sezione del museo civico; integra una parte laterale dedicata alla figura di Marfisa d’Este.

Molte sono state le cose non dette; molte le assenze di chi era ed è tenuto a dichiarare il proprio ruolo.

Non è stato detto che la Palazzina era invenzione del ferrarese Nino Barbantini: importante creatore di situazioni, attivo nei musei veneziani, responsabile della mostra sulla pittura del rinascimento nel 1933. Barbantini è scomparso. Gli hanno tolto la cittadinanza?

Non si è detto che nessuno degli arredi esistenti è collegabile a Marfisa; non si è detto che la decorazione pittorica non è dei Filippi (scomparsa negli anni del degrado) ma dei pittori Giuseppe Mazzolani, Augusto Pagliarini, Enrico Maria Giberti, attivi nella prima metà del secolo scorso. Non si è detto della disinvoltura con la quale sono stati tagliati dipinti, tolte indicazioni, inventati significati. Come è successso per la copia della Battaglia delle Amazzoni di Rubens, Fetonte che guida il carro del sole è copia di affresco che raffigura il declinare della giornata verso il tramonto; il Ritratto di dama è  quello di Livia Martinengo dal quale è stata cancellata la legenda.

Non si è detto che parallelamente ai lavori della Marfisa si svolgevano quelli per il Castello di Monselice; un collegamento obbligato che è stato taciuto.

Non si è detto che fine farà l’arazzo con Giuditta e Oloferne, un tempo nella Palazzina.

Non si è parlato di Barbantini creatore di ‘atmosfere’. Lo apprezzava per questa capacità anche Bernard Berenson.

Nessuna citazione per i lavori di chi si era, in passato, occupato della Marfisa; in maniera implicita i risultati venivano dati come frutto dei curatori. In realtà non vi è nessuna nuova acquisizione storico critica: tutto discende dal volume curato nel 1996 da Anna Maria Visser e da un precedente catalogo del 1980.

Manchevole anche la bibliografia: non si è citato il convegno del 2023 dedicato dalla Fondazione Cini a Nino Barbantini, non si sono citati i lavori di Antonella Chiodi, di Kate Driscoll e di altri ancora.

E’ mancata la voce della Ferrariae Decus che pure aveva molti tioli per intervenire. L’assessore ha comunicato un ciclo di conferenze organizzato dalla Associazione. Stupisce che Barbantini non sia indicato come il protagonista, creatore della Palazzina. L’unico intervento previsto è quello di Marcello Toffanello già tenuto al convegno di Monselice. L’Associazione commette parricidio?

E’ mancata la voce della banca. Proprietaria degli arredi è vincolata da una convenzione che prescrive la restituzione ove muti la destinazione della Palazzina. La Banca potrebbe donare tutto al Comune: sarebbe un modo per accentuare la sua non ferraresità e disconoscimento della sua storia. Oltre alla perdita della Cassa di Risparmio è possibile che se ne voglia cancellare anche la presenza in città?.

Molti temi di studio e di ricerca si potrebbero proporre. Non ne sono stati capaci i curatori. Non posso  né voglio farlo io, ridotto ormai a spettatore inincidente.

 

Di Ranieri Varese vedi anche su Periscopio “Palazzina Marfisa d’Este, un patrimonio da non dilapidare”.

In copertina: Augusto Pagliarini (1872-1960), Il  carro di Arianna, (Particolare), Ferrara, Palazzina di Marfisa, sala dei banchetti

Per leggere gli altri interventi di Ranieri Varese su Periscopio clicca sul nome dell’autore

 

AVERE FEGATO (“Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!”)

AVERE FEGATO (“Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!”)

La parola ‘fegato’ è per me ansiogena. Forse perché mi è chiaro che è un organo vitale essenziale per la sopravvivenza. Senza il suo corretto funzionamento la vita non può continuare. Premessa impegnativa, direi.

Gli organi vitali sono cuore, cervello, polmoni, fegato e reni. Pezzi del nostro corpo essenziali di cui va monitorata la funzionalità con impegno e dedizione. Se uno di questi organi si ammala, insorgono problemi di salute fino ad arrivare a diagnosi che possono essere infauste. Con un fegato ammalato, si rischia di morire.

Questa è la consapevolezza che mi fa associare a questa parola uno stato di apprensione sistematico e spiacevole. Quando sento nominare questo organo marrone, posizionato nella parte superiore destra dell’addome, appena sotto il diaframma, mi sento a disagio, come se stesse arrivando da lontano un vento pericoloso che porta appresso la precarietà del vivere. Arriva una corrente gelida che mi trafigge un fianco come un grosso ago.

Purtroppo mi è già capitato di vedere persone morire a causa di questa ghiandola esocrina/endocrina ammalata. Quest’organo bruno, vitale e nascosto, non suscita in me sorrisi come i piedi o i capelli, ma mi coinvolge in riflessioni di tipo più esistenziale che, pur essendo importanti, non sempre rasserenano la vita.

In questo percorso autoriflessivo che ognuno di noi intraprende attraverso i sentieri della vita e anche attraverso le vie tortuose dei suoi pensieri e delle sue emozioni, c’è il senso ultimo di quel che facciamo, del nostro esistere. Come sempre, il significato letterale, personale, simbolico, metaforico e linguistico di una parola si mescola in un tutt’uno gestaltico, suscitando in ciascuno di noi una sorta di reazione emotiva “a valanga” che è tanto unica quanto interessante.

Il fegato è l’organo del nostro corpo che filtra, purifica e trasforma. È un organo fondamentale con molte funzioni. È essenziale per il metabolismo, aiuta a trasformare i nutrienti derivati dal cibo in energia e sostanze utili per l’organismo.  È fondamentale per la detossificazione, filtra e neutralizza sostanze tossiche come alcool, farmaci e prodotti di scarto. Produce la bile, un liquido che aiuta a digerire i grassi.  Accumula riserve, conservando glicogeno. Fa la sintesi delle proteine plasmatiche come l’albumina che regola il colesterolo controllandone i livelli nel sangue.

Davvero importante e impegnativo il suo lavoro, ognuno di noi si augura che lo sappia svolgere al meglio. Anche in questo preciso momento in cui il fegato è al centro dei miei pensieri, mi auguro che stia lavorando con molta efficienza.

Facendo una deviazione dalle funzioni fisiologiche a quelle rappresentative, che sono imprescindibili dal nostro modo di pensare e dal nostro essere umani, possiamo dire che metaforicamente il fegato ha un ruolo essenziale anche per quanto riguarda le nostre emozioni. Lavora in silenzio per non farci scoppiare di rabbia, per non farci avvelenare dal rancore. Ci aiuta a digerire ciò che la mente rifiuta, una ingiustizia subita, una parola tagliente e una sconfitta amara.

Nel suo libro Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari utilizza il fegato di Prometeo come simbolo della sofferenza e della resistenza umana. In questo contesto il fegato diventa un feticcio narrativo, rappresentando la parte dell’essere umano che, pur tormentata, continua a esistere e resistere.

Prometeo, che nell’antica mitologia greca ruba il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini, viene qui utilizzato per sottolineare l’importanza della resistenza, della perseveranza e della ricerca di un significato più profondo anche in situazioni di sofferenza e dolore.

In Memorie da una casa di morti Dostoevskij introduce il narratore con una frase emblematica «Io sono un uomo malato … un uomo cattivo. Credo di essere malato di fegato. Però non capisco una mazza, della mia malattia, e forse non so neanche cos’è che mi fa male».

Questa dichiarazione non solo riflette la condizione fisica del protagonista, ma suggerisce anche una connessione tra malattia fisica e tormento interiore, un tema ricorrente nella straordinaria opera di Dostoevskij.

Memorie da una casa di morti è il racconto dell’esperienza carceraria dell’autore in Siberia. Un’esperienza decisiva nella sua maturazione letteraria.

Condannato a quattro anni di deportazione seguiti da sei di confino, nella colonia penale Dostoevskij si ritrova a toccare con mano il male, non soltanto nella sua forma metafisica, ma anche nella sua espressione più concreta e brutale.

È inoltre in quel periodo che sperimenta la presenza di un abisso incolmabile tra sé, intellettuale nobile, e i detenuti comuni. Nella canzone Don Raffaé, Fabrizio De Andrè usa questo verso: «Mi scappa da ridere, pigliate ‘stu fegato!»

Come spesso succede nel linguaggio napoletano, in questo caso il termine ‘fegato’ è usato in modo ironico e popolare e rappresenta qualcosa da magiare ma anche da “tirar fuori” in senso di sfogo e ribellione.

Il brano denuncia la situazione critica delle carceri italiane negli anni Ottanta e la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata, attraverso il racconto dell’interazione tra Pasquale Cafiero, brigadiere dell’allora Corpo degli Agenti di Custodia del carcere di Poggioreale, e il boss camorrista ‘Don Raffaè’ che si trova incarcerato in tale struttura (personaggio che dà il titolo al brano).

La parola ‘fegato’ viene altresì usata in molte frasi di senso comune che ciascuno di noi ha sentito più volte. Bisogna Avere fegato’ per affrontare situazioni difficili senza avere paura. Questo modo di dire risale agli antichi greci che consideravano il fegato la sede delle emozioni e del coraggio. La frase Ha un bel fegato’, descrive qualcuno che è imprudente o sfrontato, capace di compiere azioni audaci senza esitazione.

‘Rodersi il fegato’ segnala che si è tormentati da sentimenti di rabbia, invidia o rancore, al punto da provare un disagio emotivo intenso. Farsi il fegato grosso’ significa diventare più coraggiosi in situazioni difficili o per affrontare delle sfide.

Perfino in alcuni cartoni animati compare sovente la parola fegato usata in modo figurato. «Ci vuole fegato per sfidare Zenigata così!» lo dice Lupin III, un personaggio immaginario, il nipote del leggendario ladro gentiluomo Arsenio Lupin, che diventa il protagonista di una serie di fumetti e cartoni animati di grande successo. Lupin III è un ladro internazionale, celebre per le sue capacità di travestimento, la sua abilità nel maneggiare le armi e il suo spirito di avventura.

Anche in cartoni animati come Ken il guerriero e I cavalieri dello zodiaco si trovano espressioni enfatiche del tipo: «Non hai il fegato per affrontarmi!».

In psicanalisi, il fegato è un simbolo complesso e ricco di significato, che rappresenta la capacità di trasformare, elaborare, gestire e bilanciare le proprie emozioni e i propri conflitti interiori. La sua funzione biologica di trasformazione e purificazione si riflette nella psiche, dove il fegato diventa un simbolo di equilibrio, forza e vitalità.

Insomma, il fegato, sia come organo fisico, sia traslato in qualche sua rappresentazione, viene citato spesso e usato per descrivere situazioni tutt’altro che facili e prevedibili. Anche a me è capitato più volte di usare il termine ‘aver fegato’ per indicare un comportamento particolarmente virtuoso o che mi sembrava degno di essere evidenziato.

Se penso a ciò che assocerei all’espressione “avere fegato” mi viene in mente una persona che dice quello che pensa in una situazione in cui tutti i presenti sono di vedute differenti. Questo atteggiamento permette la rivendicazione della dignità di un pensiero avverso, cosa importante di suo. Tale dignità esiste di diritto a meno che il pensiero manifestato rivendichi posizioni violente o palesemente corrotte.

‘Avere fegato’ lo assocerei anche a chi fa un lavoro particolarmente rischioso. I chirurghi delle zone di guerra, i medici dei reparti di malattie infettive, le OSS delle case di riposo, i poveracci che puliscono i gabinetti delle stazioni dopo che sono passate tifoserie calcistiche estreme. Questi malpagati operai rischiano doppiamente la pelle: perché pulendo i bagni si è a rischio di contagio continuo di malattie e anche perché l’incontro con individui violenti è sempre pericoloso di per sé.

Direi anche che ‘ha fegato’ un insegnante che prova a parlare di democrazia, tolleranza e libertà, un sacerdote che apre un oratorio per bambini in una zona presidiata da qualche cosca mafiosa. Direi inoltre che ‘ha fegato’ un giornalista che scrive quello che pensa, affidando all’etere i suoi pensieri pur sapendo che non a tutti piaceranno.

‘Ha fegato’ una maestra che attraversa la strada con trenta bambini per portarli a vedere il museo civico del Paese, con le sue pietre, terrecotte e ossa rinsecchite di indubbio valore conoscitivo. ‘Ha fegato’ un sindaco di campagna e ‘ha anche fegato’ chi canta a squarciagola sotto la doccia pur sapendo di essere stonato.

Con la preghiera agli stonati di non esagerare con i gorgheggi serali, ringraziamo tutti coloro che ‘hanno così tanto fegato’ da farci pensare che questo mondo può ancora stupire e che ci confermano, con le loro azioni, l’esistenza del coraggio come dimensione auspicabile del vivere.

Il bene esiste finché ci saranno persone che ‘hanno il fegato’ di praticarlo. Un grande fegato, non ammalato.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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INTERVENIRE CONTRO IL MASSACRO A GAZA: FIRMA L’APPELLO

INTERVENIRE CONTRO IL MASSACRO A GAZA

Sono oltre 200.000 le firme raccolte dall’appello “Ora!” perché il governo italiano si attivi per Gaza: l’appello è stato portato all’attenzione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dei Ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto per chiedere di non rinnovare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra Italia e Israele che altrimenti sarà rinnovato automaticamente il prossimo 8 giugno. Oltre a questa richiesta nell’appello ci sono altre quattro richieste urgenti per Gaza: fare pressione sul governo israeliano a consentire l’ingresso di aiuti alla popolazione e la loro distribuzione ai civili, attivarsi con un’azione diplomatica che porti al cessate il fuoco e al rispetto del diritto umanitario internazionale,  interrompere la compravendita di armi da e per Israele, schierarsi a favore della sospensione del trattato di associazione tra Unione Europea e Israele, come già fatto da 17 Paesi europei.

EMERGENCY parteciperà sabato 21 giugno a Roma alla manifestazione nazionale “No guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo’”, promossa da oltre 300 reti, organizzazioni sociali, sindacali, politiche nazionali e locali.

A Gaza EMERGENCY offre da quasi un anno assistenza sanitaria alla popolazione ed è testimone diretta della crisi umanitaria gravissima e senza precedenti in corso in quel territorio: chi non è direttamente colpito dalla violenza delle armi, soffre per la mancanza di cibo, di acqua, di medicinali, di un riparo. Gli aiuti entrati nella Striscia dopo oltre due mesi di sospensione non sono sufficienti per i bisogni della popolazione, che sta morendo sotto le bombe, ma anche di crisi idrica, alimentare e sanitaria. Per questo non è più possibile aspettare che la comunità internazionale faccia sentire la sua voce a difesa dei civili gazawi, ma serve agire “ORA!”.

L’appello “ORA!” è stato lanciato in occasione della Festa della Repubblica perché la Costituzione italiana e l’articolo 11 ci dicono chiaramente che solo la fine della violenza permette libertà e democrazia.

Si può leggere il testo dell’appello e sottoscriverlo al seguente link: ripudia.it 

EMERGENCY

Le voci da dentro /
Il passare del tempo

Le voci da dentro. Il passare del tempo

di Giampaolo

La storia dell’umanità è anche la storia del tentativo di vincere la paura della morte, o – ma forse è la stessa cosa – la dimostrazione di come la nostra esistenza terrena non ci basti.

Del resto, Fernando Pessoa fu estremamente chiaro quando affermò che “la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”. Non basta una sola vita per compiere tutte le azioni che riteniamo giusto effettuare, né per visitare tutti i posti che ci piacciono e meno che mai per conoscere tutte le persone che stimiamo.

Dal canto suo, Umberto Eco ebbe a dire che le persone che non leggono, quando saranno arrivate a settanta anni avranno vissuto solo la propria esistenza. Chi legge, invece, avrà vissuto almeno cinquemila anni, perché la lettura è una forma di immortalità all’indietro.

Questo di Eco è un modo molto laico per tentare di dilatare i confini temporali della propria esistenza: certo, un credente crede che possa essere infinita in avanti, Eco invece pensava che potesse esserlo all’indietro, tuttavia questo non conta più di tanto. Alla base di tutto c’era la non accettazione del limite – cosa a me molto nota – il tentativo di andare comunque al di là di quello che la natura o Dio ci hanno concesso: oltre il nostro tempo, oltre noi stessi.

Ci sono poi le persone estremamente sensibili, le quali vanno tenute in particolare considerazione poiché per esse una sola vita non è sufficiente a pagare tutti i debiti che sentono nei confronti del prossimo. Si tratta di persone che potrebbero accettare la morte solo nell’ipotesi in cui essa servisse a donare un’altra vita a chi amano, quindi soltanto nel caso in cui la propria fine servisse a pagare il più grande dei debiti, quello derivante dall’amore. Un debito enorme – è fin troppo ovvio ricordarlo – proprio perché non monetizzabile, quindi puro e assoluto.

La vita di ognuno di noi è un percorso. Ne erano convinti gli antichi greci (basti pensare al mito di Ulisse, e ci rendiamo conto di quanto ciò sia vero). Loro parlavano di nostoi, nel senso di “viaggi di ritorno”. A mio modo, anche io mi sento Ulisse. Ho iniziato un viaggio, mi sono distanziato, ho attraversato esperienze impegnative e addirittura devastanti.

Tutti ci distanziamo da ciò che siamo quando nasciamo. Io l’ho fatto in maniera particolare, estrema. Ora devo cercare il ritorno, un ritorno pieno di momenti di riflessione, di prese di coscienza sul senso dell’esistenza propria e di quella altrui. Non posso buttare via questo nostos. È il mio per il semplice fatto che mi appartiene, è importante. È imprescindibile.

Ulisse non è stato sempre a Itaca, anzi, ci è stato davvero poco. Eppure Ulisse di Itaca è indiscutibilmente il re. lo sono il re della mia Itaca ed è lì che voglio tornare.

Come suggerisce Kavafis, non avrò paura dei Ciclopi o dei Lestrigoni, tantomeno di Poseidone, imparerò dai dotti e comprerò profumi inebrianti, tenendo sempre in mente Itaca, viaggerò col cuore aperto e a vele spiegate.

Non potrò, tuttavia, dimenticare i lutti, le perdite. La perdita più importante della mia vita, è senza ombra di dubbio quella di mio padre. Un lutto devastante. Spesso immagino di stare a casa, tinteggiare i muri e verniciare porte e finestre. Non ho grandi doti manuali, il risultato del mio lavoro sarebbe tutt’altro che eccellente, però ne sarei contento. Il modo migliore per ricordare mio padre è mantenere viva la casa di cui tanto era orgoglioso, tuttavia, la cambierei giusto un po’.

A dire la verità, ho faticato parecchio a comprendere questo mio concetto.

Il passare del tempo quasi mi obbliga a vedere le cose in modo diverso. Ho cominciato a convincermi che “rispettare” significhi “vivere” e che “conservare” non sia un sinonimo di “mantenere”, bensì che comprenda in sé il concetto di “mutare”.

Ovviamente, non si deve mutare per il gusto di farlo o per affermare una propria visione egoistica. “Mutare” come essere rispettosi, mantenere vivo il ricordo. “Mutare” vuole essere il contrario di “museificare”: un museo è un luogo dove non c’è vita, dove tutto è morto ed è – per così dire – imbalsamato. Un luogo in mutamento è invece un luogo in cui il lavoro di chi è morto viene tenuto vivo, un luogo in cui tutto è utile.

Il lutto quindi, la perdita, l’assenza … Il lutto deve essere prima accettato, poi rielaborato, infine, se tutto dovesse andare bene, riuscire a vivere con l’assenza dell’altro e il vuoto che ti ha lasciato. Nelle persone malinconiche come me, è un po’ più difficile, non impossibile, ma difficile.

I ricordi riaffiorano come saette anche quando non sono io a cercarli, come se il tempo passato si facesse prepotentemente presente, un presente continuo, inflessibile.

Una luce abbagliante che mi fa vedere e sentire tutto: quando mi esortava di vivere nella rettitudine, quando si arrabbiava e mi cacciava da casa, il tavolo dove si pranzava composto da otto persone, il suo tonante “petulare” con un dialetto cavernicolo, la domenica con la schedina, il suo modo di mangiare, di fumare, tutti i suoi detti e proverbi, quel pettinarsi prima di uscire, la scarpa lucida, il fazzoletto ben stirato nel taschino, la sua ipoacusia che non accettava, il suo odore, le sue grida dal balcone del quinto piano, e tante cose ancora.

Non credo si possa arrivare alla conclusione del lavoro del lutto. Penso che il termine non sia mai del tutto possibile, perché la persona perduta, nonostante il lavoro che si può fare, ci lascia un solco indelebile.

Sono addirittura convinto del fatto che la persona perduta non si lasci dimenticare e la nostra stessa vita è fatta di quei resti, dei resti dei nostri innumerevoli lutti.

Più che illuderci che possiamo realizzare una effettiva attuazione del lutto, dovremmo piuttosto pensare che, se c’è una fine del lutto, essa si realizza solo nel riconoscimento della sua impossibilità, vale a dire che, il solo modo di portare a termine un lutto è quello di riconoscere la strutturale incompiutezza.

“Il maestro Bach scrisse una musica che non prevedeva l’esecuzione perché ritenuta musica pura, astratta: ritenne evidentemente opportuno non destinarla né alla voce umana né a qualunque altro strumento. Può sembrare assurdo scrivere una musica che può essere solo letta, tuttavia è un lusso che l’artista e solo lui, può permettersi seppur raramente” (Erri De Luca, Esecuzioni, in Alzaia).

Ecco, quando la mia testa viene riempita dall’immagine, dalla voce e dai momenti passati insieme con la mia famiglia, nel medesimo tempo si realizza la conclusione che mai potrò fare a meno del loro “ascolto”.

I vasi sanguigni, tramite il sistema circolatorio, sono adibiti al trasporto del sangue. I più importanti, sono le arterie. La mia famiglia e le persone a cui voglio bene, rappresentano perfettamente questa meraviglia.

 

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Parole a capo
Loredana Magazzeni: «Nella tempesta presente»

Loredana Magazzeni: «Nella tempesta presente»

L’IMPORTANZA DELLA POESIA

Nel testo Nella tempesta presente sono raccolte opere prodotte nell’arco di quasi trenta anni, alcune già edite in precedenti sillogi, molte, invece, inedite. L’autrice definisce la sua opera come una sorta di “autobiografia poetica” che conserva tuttavia una “sua fantasmatica prossimità con l’oggi”. Siamo di fronte ad una lunga, incessante ricerca della scrittura delle donne (non solo la sua).

Ad esempio nella sezione “La ricerca di senso” la poeta afferma:

scrittura come oggetto potente
ne prendi a piccole dosi
con una sensazione quasi fisica
da contrapporre agli elementi disgreganti
e tutti i fili tornano ad una coerenza

Ma fin dagli anni ‘90 del secolo scorso nella raccolta: “Tempi duri per i viventi” (un gruppo di testi poetici prodotti in seno ai laboratori del Gruppo ‘98 di poesia) troviamo un interessante testo sperimentale in cui la punteggiatura è sostituita da spazi bianchi, da interpretare come pause:

La stagione                 è arrivata
della resa dei conti
non volemmo                  pensare
non vogliamo                 credere
ancora un giro             è possibile
ma che sia di qualche            utilità a tutti noi.
Irrimediabile poesia
che accoglie            ancora            speranza.

Nella silloge “Connessione in epoca Covid-19” nel testo che si intitola “Lallazione,#3” la poeta confida ai lettori la propria necessità di scrivere poesie:

Mia. Rende la vita più mia. Mi libera.
Non mi dà tormento. Mi riprendo.
Sto coi mattoni costruendo. Distruggo.
Riprendo. Scrivi. Scrivi poesie per me.
Scrivi poesie.

Testo nel quale sono evidenti i richiami sonori che, attraverso un gioco di assonanze, allitterazioni e rime interne, amplificano anche il concetto centrale ripetuto nella frase minima: “scrivi poesie”.

La poesia, oltre a far riflettere e, di conseguenza a fare i conti con il passato, può assumere anche una funzione profetica, come Loredana scrive nelle Note in calce al poemetto “Canto di madri ed altri canti” (2005):
Credo a una possibile funzione profetica della poesia. La poesia può farsi strada, andare verso e anticipare. A volte le minoranze hanno anticipato i valori di un’epoca, andando incontro al proprio limite. La poesia può riflettere su questa funzione.

E nella sezione “La ricerca di senso”, (il testo è ripreso anche nella sezione “Officina “ ) l’autrice, fin dalla prima strofa, ribadisce ancora il ruolo fondamentale che assume per lei il testo poetico:

Tutto dentro uno spazio breve
dentro una forza avara di parole
parole vergini a parlare di sé
a restituire solo se stesse/ il loro biglietto da visita.”

ho iniziato con la poesia
smontare l’opera e continuare a smontarla
non innamorarsi troppo / far fiorire i deserti
che reggeva i corpi ed era la garanzia
con questa azione di offesa generosa
un anno sta ferma e un anno ti inonda
in questa terra dell’incontro
ad andare verso i miei morti

(Anche questo testo viene ripreso nella sezione “Officina” nel quale, elaborando la poesia precedente, l’autrice inserisce dei nuovi versi proprio per suggerire come il laboratorio, l’officina poetica continuino incessantemente).

LE PAROLE
Un altro termine che ricorre spesso nei testi della Magazzeni è “parole” la materia prima della poesia, come nel testo “Coro di madri” dove leggiamo:

“vegliano le madri nel silenzio dei corpi
e un occhio trasparente le vede venire lente
verso l’inizio del giorno e tessono bisbigli
che riconosci parole, le parole terrestri
che fanno luce dentro il mattino e sono
sfere di chiarore dentro la pelle sono
il lume che pulsa anche se spento
per la distanza minima accorri!
Madre che guardi nel fondo degli occhi
cristallina per l’acqua
di musica e pane”

Impossibile per me fare una sintesi, estrapolare solo alcuni versi: ho dovuto riportare tutta la poesia per non tradire il tema della voce delle madri mi è molto caro ed è presente anche il alcuni miei testi pubblicati nella mia silloge “Il silenzio si fa musica” (Bertoni, 2025), e dove la mia stessa voce poetica, dopo decenni di silenzio, finalmente trova la sua melodia e diviene, appunto, musica.

Così anche nella raccolta : “Volevo essere Jeanne Hebuterne” (2012), nella sezione “La bambina o serie del colesterolo” le parole possono essere “sassi o carezze”:

Le parole si portano dietro il corpo, pensa a volte
la Bambina. Le sue sono intrise di salsa d’amore.
Ma il corpo deve scrivere o vivere? Pensa la Bambina.
Ma le parole sono sassi o carezze? Si chiede.
Mentre scrive, filtra la vita, produce miele.

Mentre nella raccolta “Volevo essere Jeanne Hebuterne” (2012) ci viene suggerito un altro aspetto molto interessante, che riguarda le “parole selvagge” cioè non addomesticate dalla cultura dominante, molto potenti, istintive, senza filtri e pertanto più autentiche:

“Le parole addomesticate non danno eco
aderiscono alla pelle del mondo
che le espelle ad ogni nuova muta.
Nel silenzio lunga traccia conservano
le parole selvagge, che urlano senza rumore,
le parole senza gabbia, che hanno zampe
e dorsi flessuosi, per correre, per correre l’intera savana
e ancora un po’ più in là.”

LA SORELLANZA

A proposito del tema della “sorellanza”, che attraversa tutta l’opera di Loredana, e sembra suggerire la sintesi della sua ricerca e della sua militanza, si deve sottolineare il fatto che l’autrice ha scritto diverse raccolte ispirate a figure femminili che hanno avuto un destino tragico: Marylin Monroe, Jeanne Hébuterne, Sylivia Plath, Antonia Pozzi: tutte giovani geniali donne morte suicide a causa di un “amore “malato” e depressione.

Mi hanno colpito in particolare i testi, tratti dalla raccolta “Volevo essere Jeanne Hebuterne” (2012),“Sei donna di valore” ,“Noi donne sposate” e “Se serve”:

Sei donna di valore, ma te lo dico in privato
in pubblico mi presentano uomini
poeti, essi hanno il polso della
situazione poetica, si confrontano con altre
cerchie poetiche. Noi ci troviamo in privato
parliamo piccolo. (…)
(…) migliaia di sguardi
che dicono no, non esisti, non esisti,
non tentare di esistere, senza di me.”

“Noi, le sposate, proteggiamo le case.
Non tentiamo di andare in Erasmus
pur avendone voglia.(…)”

Testi forti, provocatori dove, anche con ironia, la poeta porta a riflettere sul condizionamento culturale che, fino alla rivoluzione femminista, ha limitato anche la forma espressiva dei testi scritti da autrici donne.
L’autrice insiste nella continua, incessante, necessaria ricerca di un senso, del significato delle poesie scritte da donne, così si interroga sull’utilità di scrivere poesie e conclude il suo testo con un’affermazione che ha valore universale per tutte le poetesse ed i poeti: La poesia serve a vivere; a non fermarsi a “guardare” da un angolo e ad avere il coraggio di “vedere, di esercitare il proprio senso critico per entrare nella vita essendone protagonisti.

Mi chiedevo ieri se tutto questo
fare poesia, chiedersi se vale, a cosa serve,
chiedevo a voi, (…)
(…) E mi chiedo
se serve ancora (…)
Se serve a sperare , a farsi specchio di giorni
nuovi. Se serve a dire la lingua della madre.
Se serve a scompigliare la partita del
mondo. Se serve a credere, ed anche
un poco a vivere, serve.

 

L’EDUCAZIONE DELLE NUOVE GENERAZIONI 

L’impegno civile e la consapevolezza di quanto l’educazione sia importante per costruire la società del futuro porta la poetessa a scrivere, nella raccolta “Volevo essere Jeanne Hebuterne” (2012) testi di impegno civile , che divengono un’esortazione nei confronti delle nuove generazioni .“Variazioni sulla parola esilio” e “La nuova storia” propongono infatti un punto di vista nuovo attraverso il quale riscrivere la storia, quello squisitamente femminile delle donne e, in particolare, delle madri, capaci di stringere in un materno abbraccio tutta l’umanità che possa sostituire la pace alla violenza.

“Variazioni sulla parola esilio
In duemila ancora oggi davanti alle coste di Lampedusa.
Le navi militari prelevano i profughi. Si attrezzano tendopoli.
Dormono stivati in caserme a centinaia.

Le madri li avevano stretti in un ultimo abbraccio prima di partire.
(…)

Se potessimo insieme pensare e insieme respirare e nutrirci.
Nessuno sarebbe in esilio, la terra il nostro paese.
Ho bisogno di una lingua di poesia che torni a dire tutto questo.
Anche se ho poche parole per dirlo, se dire questo è balbettare parole.”

Ripenseremo i flussi delle migrazioni,
rileggeremo gli esodi,
riscriveremo da capo i libri di storia.
Dimenticheremo le date delle guerre.
Impareremo solo quelle delle paci.
(…)

Testi che concludono la raccolta poetica ed esortano a proseguire con l’impegno intellettuale ed umano la direzione perseguita da Loredana Magazzeni.

Loredana Magazzeni vive a Bologna e si occupa di gender studies, poesia e traduzione. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia (La miracolosa ferita, 2001, Canto alle madri e altri canti, 2005, Premio Buiese Fragilità del bene, 2012, Volevo essere Jeanne Hébuterne, 2012) e curato Dentro la scrittura, interviste a dieci poetesse italiane, Quaderni critici CFR, 2012; le antologie Gatti come angeli. L’eros nella poesia femminile di lingua inglese (Medusa, 2006, con Andrea Sirotti); Corporea. Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese (Le Voci della Luna Poesia, 2009 con F. Mormile, B. Porster, Cuore di preda. Poesie contro la violenza alle donne (CFR edizioni, 2012, Premio PontedilegnoPoesia per la poesia sociale, 2013); Sally Read, Punto di rottura (La Vita Felice, 2013, con A. Sirotti). È nella redazione della rivista letteraria «Le Voci della Luna» (Sasso Marconi, Bo) e «Poesia condivisa in Poesia 2.0». Ha partecipato a festival di poesia a Roma, Trieste, Modena, Bologna. Sta svolgendo un Dottorato di Ricerca in Scienze pedagogiche, con particolare attenzione all’educazione di genere. Fa parte del Gruppo ‘98 di Poesia e collabora con la Libreria delle Donne  e la Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. 
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 288° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Aquiloni e coincidenze del Giovane Holden

Aquiloni e coincidenze del Giovane Holden

Se Gesualdo Bufalino potesse riprendere in mano il suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Il Saggiatore, 1982), sono sicuro, inserirebbe di diritto, con il giovane Holden Caufield, l’altrettanto giovane Ludovic Fleury, il protagonista del romanzo di Romain Gary Gli aquiloni (Neri Pozza, 2017), il personaggio che parla appunto di esplosioni ed effetti collaterali, e lo fa in uno stile che richiama molto quello del giovane Holden Caufield di J. D. Salinger.
Questi due personaggi di romanzi, distanti circa 30 anni sono in realtà “contemporanei” e ci consentono la scoperta di alcune stravaganti coincidenze che coinvolgono i due autori: Jerome (Jerry) David Salinger e Romain Kacew (Gary).
La prima di queste coincidenze è che entrambi gli autori hanno a che fare con una stessa origine: la comunità ebraica lituana. L’uno (Jerry) per parte del padre nato da una famiglia ebraica di origine lituana e trasferitasi a New York; l’altro (Gary) per nascita, essendo nato a Vilnius nel 1914 e trasferitosi a Nizza, in Francia all’età di 13 anni.
Un’altra coincidenza : quando viene pubblicato The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) di Salinger nel 1951, Romain Gary è negli Stati Uniti in qualità di Console generale di Francia. Il suo libro, Les Cerfs-volants (Gli aquiloni) verrà pubblicato solo nel 1980.
Di Salinger e del suo libro più famoso si è detto e scritto tanto, vale quindi solo la pena richiamare questo intreccio artistico biografico.
Nel 1942 Salinger fu sorteggiato per servire sotto le armi con il XII Reggimento di Fanteria degli Stati Uniti e partecipò ad alcune delle più dure battaglie della II Guerra mondiale, tra cui lo sbarco di Utah Beach nel D-day e la battaglia delle Ardenne.
Durante l’avanzata dalla Normandia verso la Germania conobbe Ernest Hemingway al quale sottopose alcune pagine del romanzo che stava scrivendo e che portava con sé nello zaino. Fu quindi assegnato al servizio di controspionaggio nell’ambito del quale interrogò i prigionieri di guerra mettendo a frutto le proprie conoscenze di francese e tedesco. Fu tra i primi ad entrare in uno dei campi di concentramento presso Dachau, esperienza che lo segnò profondamente per tutta la vita e che ha contribuito a trasformarlo nel più grande autore di culto (e occultato) della letteratura americana e mondiale.
Il giovane Holden di Salinger è un americano di 15-16 anni, la stessa età che ha il protagonista del romanzo di Romain Gary, il nostro personaggio degno di comparire nell’ipotetica versione aggiornata del testo di Bufalino.
Ludovic (Ludo) Fleury è un giovane francese che durante lo sbarco in Normandia partecipa attivamente alla Resistenza e… resiste (alla vita? alla morte?) grazie all’amore per Lila e alla passione per gli aquiloni di uno zio “matto”. L’incontro con Lila diventa per Ludo una promessa d’amore che bisogna mantenere a tutti i costi compresi perdere la vita: perdere la ragione, semmai, ma non la ragione di vita.
Il romanzo è la storia di questa promessa, e dell’ostinata fede di Ludo in quell’incontro fatale. Una fede che non viene meno nemmeno nei drammatici anni dell’invasione tedesca della Polonia, in cui Lila e la sua famiglia scompaiono, e Ludo si unisce alla Resistenza in Normandia per salvare il suo villaggio dai nazisti, proteggere gli aquiloni di suo zio e ritrovare la ragazzina biondissima che lo ha guardato severamente, la prima volta, da sotto un cappello di paglia, e continuerà a guardarlo, più dolcemente, fiera del suo nuovo taglio di capelli.
Probabilmente Ludo rappresenta in un certo qual modo la ragione (di vita) per la quale Salinger è riuscito a sopravvivere alle atrocità della Guerra a cui ha assistito: oserei dire, se Bufalino me lo consentisse, che Ludo Fleury è Salinger; ragazzi innamorati della vita e che sanno “dove vanno a finire le anitre quando il lago gela”.
Allo stesso modo mi sentirei di dire che Holden rappresenta la ragione per la quale Gary ha scritto Gli Aquiloni trasferendosi in quell’America degli anni ’50 dopo il ritorno del mondo alla ragione e a nuove ragioni di vita: oserei dire, se Bufalino me lo consentisse, che Holden Caufield è Gary; ragazzi che sperano spaventandosi e che conoscono “l’unico modo di accedere alle cose… Porvi fine.”
Continuiamo allora a parlare di coincidenze.
Anche una corsa inizia con una esplosione, precisamente con un colpo di pistola come quello che un altro dei grandi personaggi di Salinger, Seymour Glass, si esplode in testa nel racconto Un giorno ideale per i Pescibanana.
Seymour in effetti muore (come personaggio) ma, potremmo dire, si reincarna nella vita non solo del suo autore  e dei suoi successivi Franny e Zooey  e Alzate l’architrave carpentieri, ma anche in quella (letteraria) della figlia di Seymour Levov, «lo svedese» della Pastorale americana di Philip Roth e in quella più tragica proprio di Romain Gary che, come Seymour Glass, si tolse realmente la vita con un colpo di pistola nel 1980, anno di (ri)nascita di Ludovic Fleury.
Tutto comincia e forse finisce sempre con una esplosione e «quando c’è una esplosione ci sono sempre degli effetti collaterali. Sembra che l’universo si sia formato così. Ci fu un’esplosione e degli effetti collaterali: le galassie, il sistema solare, la terra… », Salinger, Gary e dei romanzi che devono essere scritti con le loro trame e con i loro personaggi che vivranno per sempre. Venite.
Adesso leggiamo e basta.
Cover: aquiloni violini – Vulandra, Ferrara
Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore
Street for Kids: mobilità urbana a misura di bambine e bambini: la situazione in Italia

Street for Kids: mobilità urbana a misura di bambine e bambini: la situazione in Italia

Street for Kids: mobilità urbana a misura di bambine e bambini: la situazione in Italia

Clean Cities, una coalizione europea di oltre 100 ONG, associazioni ambientaliste, movimenti di base e organizzazioni della società civile che ha come obiettivo una mobilità urbana a zero emissioni entro il 2030, ha lanciato la classifica delle migliori città europee per la mobilità di bambine e bambini, secondo tre indicatori: il numero di strade scolastiche, il numero di piste ciclabili in sede separata e il limite della velocità. La classifica si basa su dati ufficiali raccolti da Clean Cities Campaign in 5 mesi relativi a 36 città (un campione trasversale per posizione geografica, dimensione urbana e approcci alla mobilità) sulla base di tre indicatori strettamente legati ai consigli delle Nazioni Unite e di altri esperti per rendere le città più a misura di bambina e bambino. Il primo indicatore è il numero di “strade scolastiche” presso le scuole primarie, che regolano il traffico per aumentare la sicurezza stradale, ridurre il rumore e migliorare la qualità dell’aria, oltre a favorire il cammino e l’uso della bicicletta da parte dei bambini. Il secondo indicatore è il numero di piste ciclabili: studi dimostrano infatti che i bambini si sentono più sicuri in piste ciclabili fisicamente separate dal traffico. Il terzo indicatore è il limite della velocità in ambito urbano a 30 km/h, che riduce inquinamento e incidenti – una misura supportata da OMS, OCSE e Consiglio Europeo per la Sicurezza dei Trasporti.

A che punto sono le città italiane? Nella classifica complessiva delle città europee, nessuna città italiana rientra nella top 10. Le migliori performance italiane sono: Bologna (16ª), la più virtuosa tra le italiane; Milano (23ª) e Torino (24ª) seguono con posizionamenti discreti. Firenze (29ª) e Roma (32ª) si trovano nella parte bassa della classifica generale. Rispetto ai singoli indicatori l’Italia mostra segnali positivi per quanto riguarda le strade scolastiche, con Milano 2ª a livello europeo. Torino (4ª) e Bologna (11ª) sono ben posizionate. Anche Roma (16ª) mostra progressi, mentre Firenze è in fondo alla classifica, tra le 10 che non hanno nemmeno una strada scolastica. Rispetto a questo indicatore è da tenere in considerazione che la classifica si basa sulla somma di strade scolastiche con chiusure temporanee – quindi con divieti di accesso a traffico motorizzato solo negli orari di ingresso e uscita dalla scuola – e quelle pedonali in modo permanente.
Se consideriamo le pedonalizzazioni definitive, Milano, Roma, Torino e Bologna sono tra le prime dieci della classifica.
Rispetto all’indicazione della moderazione della velocità e del traffico motorizzato, invece, la performance italiana è modesta. La migliore tra le città italiane è ovviamente Bologna (18ª nella classifica generale), prima grande città italiana a diventare Città 30, seguita da Firenze al 24°. Milano è al 30° posto fra le 39 città analizzate, Torino al 31°. Roma (33ª) è ancora molto indietro.

C’è ancora molta strada da fare in questa direzione, considerando i benefici riconosciuti della riduzione della velocità sulla sicurezza stradale, l’inquinamento dell’aria e acustico e la promozione della mobilità attiva. Le città italiane restano ancora molto deboli per quel che riguarda le infrastrutture per la ciclabilità, in sede separata. Roma è tra ultime tre città a livello europeo. Milano, Firenze, Bologna e Torino sono tutte nel gruppo medio-basso, segno che serve un investimento deciso in infrastrutture ciclabili sicure e continue. L’Italia non è nelle posizioni di vertice della classifica generale, ma alcuni segnali sono incoraggianti. Le città con una visione politica più strutturata, risorse stabili e una pianificazione di lungo periodo hanno mostrato risultati coerenti. La moderazione del traffico e della velocità nelle strade in prossimità delle scuole deve essere una priorità, come ricorda la mobilitazione Streets for kids, a beneficio di tutta la collettività, non solo per chi frequenta le scuole. Sono infatti un’opportunità per rendere le città luoghi più sicuri e sani e a misura di persona.

I migliori risultati in tema di strade scolastiche si osservano dove esiste una forte pressione civica dal basso, commenta Anna Becchi (Campaign Lead di Streets for kids)segno che il lavoro dei movimenti dal basso e dei genitori può produrre risultati concreti, soprattutto nel contesto delle strade scolastiche. In Italia, è in città come Milano, Roma e Torino, dove gruppi attivi hanno contribuito a spingere le amministrazioni verso pedonalizzazioni permanenti, che si stanno vedendo maggiori risultati”. Milano ha intrapreso la direzione corretta con la pedonalizzazione delle strade scolastiche.
Con il programma Piazze aperte sono 14 quelle realizzate a fine 2024, a cui si aggiungono anche ampi interventi di allargamento dei marciapiedi in prossimità delle scuole, altri 5 interventi di pedonalizzazione già in fase di realizzazione per il 2025 e le 23 strade car free (in entrata/uscita da scuola).

Ora però, come sottolinea la campagna Streets for kids, è necessario proseguire a ritmo serrato per rispondere il prima possibile alle istanze dei cittadini che dal basso si sono attivati per chiedere strade scolastiche. E serve un indirizzo politico condiviso per accelerare la trasformazione della città, rendendo la comunicazione e pianificazione degli interventi sempre più chiara ed esplicita in tutte le sue fasi. A Roma finora sono state realizzate 15 (12 + 3 nuovissime) strade scolastiche pedonali e 5 temporanee. Questo percorso, iniziato con entusiasmo, ha vissuto una fase di rallentamento per mancanza di fondi. Durante le recentissime inaugurazioni delle strade scolastiche di via Monte Ruggero e di via Rugantino il Sindaco Roberto Gualtieri si è impegnato a completare le 34 strade scolastiche già progettate e realizzarne molte, molte di più. La campagna Streets for kids si augura che sia davvero un impegno a investire con decisione, ascoltare le comunità e rendere le strade scolastiche un tratto distintivo della Roma del futuro.

Qui per approfondire: https://italy.cleancitiescampaign.org/pums-updates/14-5-2025-mobilita-urbana-a-misura-di-bambine-e-bambini-la-situazione-in-italia/

In copertina: foto di di Clean Cities Campaign

Parole e figure – ‘Mi piace’ di Eva Montanari, l’assemblage

Da poco in libreria, l’albo illustrato “Mi piace” di Eva Montanari, pubblicato con Kite edizioni, conduce il lettore in un mondo curioso e colorato. Con un occhio al riuso.

La coloratissima e divertente storia segue le giornate di Sandy, una giovane gazza che inizialmente sembra apprezzare tutto ciò che le viene offerto, ma presto si annoia facilmente. Le piace, si annoia, si annoia e poi, di nuovo, le piace: un intervallo continuo di esitazioni e indecisioni.

La svolta avviene quando Sandy scopre che altri uccellini hanno trasformato gli oggetti da lei scartati in vere e proprie opere artistiche. Che meraviglia!

Inizialmente un po’ gelosa, Sandy decide di riappropriarsi di quegli oggetti, ma si annoia nuovamente. Questo la spinge ad esplorare la propria creatività, ispirandosi agli altri uccelli e dando vita a qualcosa di unico attraverso il riuso di oggetti comuni.

Il libro introduce ai giovani lettori il concetto di assemblage, una corrente artistica che utilizza materiali di recupero per creare nuove opere.

Le illustrazioni sono caratterizzate da colori tenui e contorni sfumati, conferendo movimento e vitalità ai personaggi e agli oggetti rappresentati.

Per scrivere questa storia l’artista si è ispirata agli uccelli giardinieri che vivono in Australia e Nuova Guinea. Sono i più grandi artisti del mondo dei volatili. La loro specialità consiste nel creare vere e propriegallerie d’arte” fatte di ramoscelli, in cui inseriscono le opere realizzate collezionando e assemblando quello che trovano in giro.

Gli uccellini di questa storia hanno nomi di grandi artisti che, come loro, hanno utilizzato la tecnica dell’assemblaggio, come l’uccellino Marcel (Duchamp), che selezionava oggetti quotidiani, poi li firmava e sceglieva un titolo spiritoso, trasformandoli in opere d’arte. Chiamava le sue operegià fatte e, a suo parere, una ruota di bicicletta, uno scolabottiglie e perfino un orinatoio potevano diventare opere d’arte per semplice decisione di un artista.

Oppure c’è l’uccellino Pablo (Picasso), il primo a inserire oggetti nelle sue opere: un pezzo di canapa in una natura morta, un cucchiaino in una scultura o unatesta di toro realizzata con sellino e manubrio di una bicicletta trovata in giro.

Ci sono anche l’uccellina Louise (Nevelson), che assemblava scarti all’interno di scatole, l’uccellino Joseph (Cornell), che collezionava stampe degli argomenti che lo interessavano di più: astronomia, ornitologia, letteratura, balletto, e piccoli oggetti bizzarri che riuniva in “scatole delle meraviglie o l’uccellino Joan (Mirò), che realizzava sculture-oggetto con materiali trovati ovunque.

Le gazze vengono definite “ladre” per la loro presunta predisposizione a impossessarsi di oggetti altrui per nasconderli nei loro nidi caldi, come racconta anche Gioachino Rossini nella sua opera La gazza ladra.

Così la gazza Sandy (Alexander Calder) protagonista si ispira al mondo del circo per ricrearne uno in miniatura, fatto di ritagli di gomma, turaccioli, avanzi di lana, stracci, bottoni, spago e fil di ferro.

E la storia continua. Sempre, con allegria e curiosità.

Il messaggio centrale dell’albo riguarda, quindi, la scoperta del proprio talento e la capacità di trasformare ciò che ci circonda in qualcosa di importante e significativo, sottolineando l’importanza della creatività e del riuso.

Consigliato per bambini dall’età di 3 anni, l’albo offre molti spunti di riflessione anche per gli adulti, affrontando temi come il consumismo e l’importanza di trovare stimoli creativi all’interno di stessi e nella relazione con gli altri.

Da leggere.

Eva Montanari, Mi piace, Kite Edizioni, Padova, 2025, 32 p.

“Vado al seggio ma non voto”, la democrazia come un’opzione

“Vado al seggio ma non voto”, la democrazia come un’opzione

IL SASSOLINO di Stefani Milani

Dopo settimane di silenzio monacale, Giorgia Meloni è finalmente uscita allo scoperto. Durante la cerimonia della Festa della Repubblica, ha svelato il mistero attorno ai referendum dell’8 e 9 giugno: “Vado a votare, ma non ritiro la scheda”, ha sentenziato ai cronisti curiosi, in un trionfo del miglior cerchiobottismo italico. L’equivalente politico del “esco ma non mi diverto” o del “ti amo ma è complicato”.

 

Non esprime un’opinione la Nostra, non dice un sì, non osa un no. Va al seggio ma non si sa perché. Non ritira la scheda, forse neanche saluta. È presente ma sfuggente. C’è, ma non disturba. Un’apparizione più che una posizione. E così, da premier del popolo fiero e deciso, si è fatta sacerdotessa del vago e dell’incomprensibile.

 

Un tempo era diverso. Pasionaria della trasparenza, quella che “non ho paura di dire quel che penso”. Oggi invece si mimetizza nella nebbia del non voto. Sulla precarietà, sul reintegro dei lavoratori, sulla cittadinanza: silenzio stampa. Il suo atto politico più evidente è la sottrazione, togliere senso alle parole, peso alle scelte, sostanza alla leadership.

 

Meloni ha costruito un meccanismo comunicativo infallibile: parla anche quando tace. Il suo “mi reco al seggio ma non voto” è un capolavoro paraculinguistico. Così ognuno ci vede ciò che vuole: chi il coraggio sobrio della statista, chi la solita furbizia d’ordinanza. Intanto la premier delle crociate si ricicla come premier delle opzioni.

 

Se il dito è negli occhi degli italiani, la luna è che il governo considera la partecipazione un inciampo e il referendum un inciucio di sinistra da sabotare con eleganza. Ma la democrazia non è un atto di presenza, né un esercizio di stile. È scegliere, esporsi, rischiare. E se una premier preferisce restare in equilibrio sul nulla allora ha già scelto. Ha scelto se stessa e non il popolo che dice di rappresentare.

Tratto da (Collettiva) 3 giugno 2024

Cover: immagine del Comune di Riccione

Gli Alburni e la metafisica (concreta) di Massimo Cacciari e Mimmo Jodice

Gli Alburni e la metafisica (concreta) di Massimo Cacciari e Mimmo Jodice

Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi 2023
Mimmo Jodice, Paestum, in The Myth of Mediterranean Sea, Erarta Museum, San Pietroburgo

 

E’ necessario fare emergere uno spazio mentale largo sulla complessità del progetto contemporaneo nella città antica.

Basterà ripercorrere la storia del Chiostro del convento delle ’Trentatrè a Napoli (finanziato con i fondi UE 2001-2007) e ripensare al concetto di efficacia del filosofo Francois Jullien, nel confronto tra Oriente ed Occidente.

Con l’artista Mimmo Jodice oltre a condividere empatia al quadrato, ho condiviso per diversi anni la responsabilità del Laboratorio di fattibilità del Master di progettazione per la città storica della facoltà di Architettura della Federico II, diretto dal professor Ferruccio Izzo. Proprio agli inizi del Master, oltre un ventennio fa, il confronto con alcuni luoghi ancora metafisici della città antica, ha ispirato molti temi  di riprogettazione. I vuoti ed i ruderi, ancora irrisolti della ricostruzione post bellica, hanno incontrato il linguaggio di Mimmo Jodice, che apparì nelle sue conversazioni (lezioni del 2024, vedi via Youtube).

Napoli, monastero delle Trentatrè

Si trattava, allora, di portare Napoli ed i decumani verso una nuova efficacia del progetto, ipotizzando una metamorfosi dei luoghi, da orientare verso una coraggiosa proposta di nuovo nodo urbano plurale a più fini, riconnessi alle voci storiche delle pietre (seguendo la metodologia di Ruskin, Le Pietre di Venezia).
Nessuna delle nostre ipotesi ha superato, allora,  il giudizio di opportunità dei colleghi urbanisti, e nessuno dei progetti del Master ha avuto la promozione a fattibile, per il Comune di Napoli. Le attuali ipotesi in campo hanno sposato il criterio della efficienza formale connessa alla candidatura di progetti.

Per fortuna l’Archivio Jodice troverà una casa e il suo linguaggio vivrà di futuro oltre che di memorie.
Potrà, cosi, emergere la visione di metafisica concreta , cioè di uno spazio mentale largo sulla complessità del progetto contemporaneo nella città storica. Basterà ripercorrere la storia del progetto del Chiostro del convento delle ‘33, finanziato con i fondi UE 2001-2007  e  ripensare al concetto di efficacia del Filosofo Francois Jullien, nel confronto tra Oriente ed Occidente (Il Sole24 Ore). Per Jullien la critica al modello occidentale  del progetto è necessaria, perché si fa troppo ricorso al doing by learning (o modello-teoria pratica- progettuale).

Jodice come Julien, propone le metafore di un pensiero plurale, aperto all’efficacia larga, cioè ad itinerari capaci di guardare alla complessità della città in evoluzione, anche  oggi. La città è mixité, e Napoli ha la necessità di conservare il silenzio ed il vuoto come ricerca, anche nella città storica; questo concetto è oggi in pericolo nella “città storica sommersa” dalla retorica dell’efficienza finanziaria delle rendite in salita, da misurare con il parametro delle nuove presenze.

Il coraggio della metafisica concreta manca come visione futura e una gita di apprendimento sugli Alburni sarà necessaria; bisognerà sostare al km 33 della SS19, La Tevernola, per i suoi trecento anni di storia,  per poi, all’alba, dirigersi verso l’Antece Epigeo e rubare all’artista Jodice la metodologia dello suo sguardo, aiutati dalla luce  che arriva da Oriente.

Questo articolo è già uscito sul blog di informazione economica Salerno Economy

Cover: Mimmo Jodice, Nimes Maison, in The Myth of Mediterranean Sea, Erarta Museum, San Pietroburgo.

“La Gazzetta del cocomero” compie 33 anni
Una conferenza stampa molto speciale

“La Gazzetta del cocomero” compie 33 anni. Una conferenza stampa molto speciale

Giovedì 29 maggio scorso, presso la scuola primaria Bruno Ciari di Cocomaro di Cona, si è svolta una conferenza stampa singolare perché tenuta da quattro bambini di 10/11 anni: Emanuele, Giulia, Giovanni e Lea della classe quinta, in rappresentanza di tutti i bambini e le bambine del plesso.

 

La conferenza stampa è stata organizzata dalla dirigente Magda Iazzetta, dal maestro Mauro Presini e dai bambini e dalle bambine della scuola, con lo scopo di presentare il numero 102 del giornale: La Gazzetta del Cocomero, che nel 2025 ha compiuto 33 anni.

n.102
n.101

Emanuele ha introdotto l’incontro dando il benvenuto ai presenti e anticipando i motivi della conferenza.

Ha spiegato che il numero 102 ha 24 pagine, di cui la sola copertina è su carta colorata mentre il resto è in bianco e nero, così ogni bambino può personalizzare il giornale colorandolo come vuole lui.

Contiene diversi articoli e disegni: è una finestra sul nostro territorio, sugli animali, sul mondo delle api, sulla lana di pecora, sulle favole inventate dai bambini e dalle bambine e sull’immaginazione di una storia alternativa in cui i 7 re di Roma sono diventati altri personaggi, cambiando di poco il loro nome; due re su tutti come esempio: Taccuino Prisco e Tarquinio il Superfluo.

In genere un numero della Gazzetta contiene storie, filastrocche, disegni e altro ancora, scritto e disegnato dai bambini e dalle bambine.

Giulia poi ha raccontato come è nata l’esperienza della Gazzetta del Cocomero.

È nata ormai 33 anni fa, dal maestro Mauro insieme ad Elisa, Francesco, Luca, Andrea, Nicola e Lorenzo, in una terza elementare.

I bambini di quelle classi avrebbero preferito che le loro storie venissero considerate con più attenzione dagli adulti così, insieme, hanno cercato un modo per portar fuori dal loro quaderno personale i loro scritti e i loro disegni.

A quel gruppo è venuta l’idea di raccoglierli in un’unica pubblicazione che avesse una forma ed una dignità tali da poter suscitare interesse anche in altre persone.

Hanno pensato ad un giornale e, subito dopo, hanno deciso che il titolo della testata sarebbe stato La Gazzetta di Cocomaro, dal nome del paese dove si trova la scuola (il cambiamento del nome in La Gazzetta del Cocomero è avvenuto solo parecchio tempo dopo).

L’anno seguente, tutte le classi della scuola hanno iniziato a partecipare al giornale.

Usando i primissimi computer a disposizione, i bambini hanno iniziato a trascrivere i loro testi, a memorizzarli e a stamparli. Sul foglio stampato ci facevano i loro disegni e poi usavano il fotocopiatore per riprodurre le copie necessarie alla diffusione. La parte finale riguardava la fascicolatura che consisteva nel rilegare con un punto metallico i vari fogli.

Per il primo anno hanno fotocopiato a scuola ma poi, con l’aumentare della richiesta, si sono affidati ad una copisteria affrontando anche i primi problemi economici legati ai costi del materiale. L’autotassazione ha risolto inizialmente il problema degli acquisti; successivamente si è ragionato insieme su come recuperare le spese e si è arrivati a far pagare una copia del giornale e, qualche anno più avanti, ad impostare una vera e propria campagna abbonamenti.

Il primo numero uscito nell’ottobre del 1992 aveva 8 pagine; la frequenza delle uscite era trimestrale; poi, negli anni, le pagine sono diventate 16, 24, 32 ed ora sono definitivamente 20, un numero tale da permettere alle cinque classi di avere 4 pagine a disposizione e di far uscire quattro numeri per ogni anno scolastico.

Inoltre, dopo un paio d’anni la Gazzetta è diventata un oggetto di scambio con altre classi che facevano giornali e poi anche un oggetto mediatore per la corrispondenza scolastica con altre classi distribuite sul territorio nazionale.

A poco a poco si è fatta conoscere sempre di più e, visto l’interesse, si è creata la necessità di pensare alla tenuta di un bilancio un po’ più accurato; il tutto curato e gestito dai bambini e dalle bambine.

Giovanni ha parlato di come si svolge la campagna abbonamenti, come ci si occupa del bilancio a scuola e quali sono i tanti incarichi connessi all’organizzazione del giornale. Attualmente gli incarichi sono i seguenti:

ci sono gli addetti alle pubbliche relazioni che raccontano agli esterni l’organizzazione e partecipano alla conferenza stampa; gli addetti agli acquisti che si occupano di andare a comprare il materiale occorrente; i buttadentro che invitano ad entrare in classe, uno alla volta, chi si vuole abbonare;

i cassieri che incassano l’importo da chi si abbona; i filatori che organizzano la fila; i fotografi che documentano le attività; il lettore del tagliando che legge ad alta voce e lentamente ciò che è scritto sul tagliando consegnato da chi si vuole abbonare; gli organizzatori di arredi e di materiali che sistemano i tavoli e le sedie;

lo scrittore di ricevute per abbonati che scrive sul blocchetto delle ricevute i dati di chi si abbona, la cifra versata e poi ne consegna copia all’abbonato; lo scrittore di ricevute per soci che scrive sul blocchetto di ricevute i dati di chi si fa socio dell’associazione i bambini del cocomero, la cifra e poi ne consegna copia all’abbonato;

lo scrittore sul registro abbonati: che scrive sul registro abbonati i dati di chi si abbona; lo scrittore sul registro prima nota che scrive sul registro prima nota i soldi entrati e quelli usciti; lo scrittore sulla tessera socio che scrive sulla tessera socio i dati di chi si fa socio e infine il tesoriere che, insieme al cassiere, controlla i conti e rimborsa chi ha sostenuto spese.

Nella parte finale della conferenza, Lea ha spiegato con precisione quali altri prodotti vengono pubblicati e ha mostrato l’ultimo dei tredici calendari finora stampati e illustrati con i disegni dei bambini.

Copertina “Trovare i tesori dentro le storie”

Ha poi parlato della pubblicazione Trovare tesori dentro le storie che raccoglie racconti, inventati dai bambini e dalle bambine, che parlano di diversità ed inclusione.

Infine ha raccontato della creazione dei quaderni sulla cui copertina sono stati riprodotti disegni liberi dei bambini.

Lea ha specificato che le entrate dalla vendita e dagli abbonamenti alla Gazzetta vanno nella cassa dell’associazione di promozione sociale I bambini del cocomero che si occupa di diffondere la cultura dell’infanzia e di dar voce ai bambini.

Ha poi chiarito che chi fosse interessato ad una copia della Gazzetta può trovarla nelle biblioteche cittadine e nei consultori della città, oppure può andare alla scuola Bruno Ciari o può richiederla telefonando (0532 61071) o scrivendo una mail (lagazzettadelcocomero@gmail.com).

Copertina calendario 2025

Sono seguite alcune domande rivolte ai quattro portavoce; alla domanda se c’è un numero al quale sono più affezionati, hanno concordato tutti che sia stato il numero 100 perché è completamente a colori ed ha un grande significato simbolico.

La Gazzetta del cocomero n. 100

Infine ognuno dei quattro bambini ha spiegato che, fra i cinque anni della loro collaborazione al giornale, quello che preferiscono è quello che stanno vivendo perché li ha coinvolti ancor di più nella gestione diretta del giornale.

La Gazzetta del cocomero n. 102

Chi desidera approfondire la storia della Gazzetta del Cocomero, può vedere e ascoltare il video seguente in cui il sottoscritto ha tenuto una conferenza dal titolo: La gestione di un giornale a scuola: dagli articoli al bilancio sul canale Archibiblio Web TV della Biblioteca Ariostea di Ferrara.

Le fotografie dell’articolo sono state scattate dai due bambini incaricati di fotografare: Michele e Michelangelo

Cover: foto dell’autore

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

 

Per certi Versi / Sete di donna

Sete di donna

Vorrei riportarti
nella curva d’acqua
dove sapevi nuotare
renderti la madre
i tuoi verdi sguardi
mutano nuvole nel petto
sarai tempesta favorevole
nella sete di donna
arido è solo il tempo
nel risarcimento a te dovuto

In copertina: immagine da pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Cinque SI ai referendum dell’8 e 9 Giugno:
perché non sei una merce, perchè non hai paura dei nuovi cittadini

Cinque SI ai referendum dell’8 e 9 Giugno: perché non sei una merce, perché non hai paura dei nuovi cittadini

L’art.1 della Costituzione dichiara che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. I sedicenti riformisti, molti dei quali hanno, da parlamentari o ministri, contribuito a demolire questo principio con leggi che ormai consentono tutto, soffrono di dislessia. Loro l’art.1 lo leggono così: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul datore di lavoro.

Jobs Act

Lavori in un’azienda, che ti ha assunta dopo l’aprile del 2015. Un bel giorno il tuo posto scompare dall’organigramma. L’azienda potrebbe ricollocarti? Sì. Ti ricolloca? No, ti licenzia (magari perché hai la pessima abitudine di fare figli). Quindi il licenziamento è illegittimo? Sì. Cosa prevede il Jobs Act per punire il sopruso? Quattro soldi. Pochi per forza, dal momento che la tua anzianità è bassa e la sanzione (definita non a caso “indennizzo”, non risarcimento) è proporzionata agli anni di servizio. Abolendo il Jobs Act tu puoi chiedere di rientrare in azienda, perché la disciplina che tornerebbe in vigore prevede la reintegra. Ma io non ci ritorno a lavorare in quel posto, manco morta. E’ comprensibile: infatti i casi di reintegra effettiva sono pochi. Ma in questo caso il giudice stabilisce che sei tu, lavoratrice ingiustamente licenziata, a scegliere se essere reintegrata nel posto di lavoro oppure incassare una somma, che però sarà correlata per importo al valore del posto di lavoro perduto. Sarà un risarcimento, non un indennizzo; quindi saranno tanti soldi, non pochi.  Sta qui l’effetto deterrente della facoltà di essere reintegrato. Sei tu, vittima del sopruso, a scegliere tra un giusto risarcimento in denaro o tornare al lavoro nell’azienda che ti ha illegittimamente licenziato. Per il Jobs Act, invece, chi decide la mancia per cacciarti è chi ti licenzia.

Ti ammali. Se ti licenziano prima che scada il tuo periodo di comporto, e il licenziamento è illegittimo, secondo il Jobs Act ti spetta una modesta somma di denaro. Non sei tu, danneggiato, che puoi scegliere tra essere reintegrato in azienda ed essere risarcito con una cifra importante, correlata al danno ingiusto che hai subito. (Tranquillo: non ti scriveranno che ti licenziano perché sei malato, ma ad esempio per “scarso rendimento”).

Lavori in un’azienda per cui viene dichiarato lo stato di crisi, e avviata una procedura di licenziamento collettivo. Secondo i criteri di legge vengono licenziati i più giovani senza carichi familiari e mantenuti in servizio coloro che hanno carichi di famiglia. Se questi criteri vengono violati, ad alcuni licenziati illegittimamente (quelli assunti prima del Jobs Act) spetta il reintegro, ad altri (quelli assunti dopo il Jobs Act) spetta solo un indennizzo in denaro.

Sono solo tre esempi, se ne potrebbero fare tanti altri. Secondo il Jobs Act, chi viola la legge può scegliere il prezzo (basso) per il proprio sopruso. E’ un costo aziendale che l’imprenditore può mettere in preventivo, perché può calcolare in anticipo quanto (poco) gli costerebbe.

 

Piccole imprese

La ricattabilità di una persona sul luogo di lavoro, resa universale dal contratto a “tutele crescenti” – e precarietà costante – del Jobs Act, esiste già prima del Jobs Act nelle imprese con meno di 16 dipendenti. Nelle piccole imprese, un licenziamento ingiusto viene “punito” con al massimo sei mesi di stipendio. Niente valutazione delle capacità economiche dell’impresa, niente valutazione dei carichi familiari della persona licenziata, niente di tutto questo. Il padrone si può liberare di una persona sgradita (magari è brava, ma fa troppi figli) e sa già cosa spende: al massimo 6 mensilità.

 

Contratti a termine

Attualmente non esiste nessun obbligo di motivare perché ti assumono con un contratto a termine fino a 12 mesi, anziché farti un contratto a tempo indeterminato.  Non c’entra il periodo di prova: quello esiste comunque, ed è il periodo nel quale il datore di lavoro può recedere liberamente. Ma non dura un anno. Trovi corretto che un’azienda ti possa lasciare a casa, o possa lasciare a casa tuo figlio, dopo un anno senza alcuna motivazione? Eppure avevi superato il periodo di prova.

Ti piace tutto questo?  Ti sembra adeguato per costruirci sopra un futuro per te o i tuoi figli, un impegno di vita basato sulla certezza di un impiego stabile? Prima di rispondere, vai in banca a chiedere un mutuo: poi torna e dammi la risposta. E comunque, sappi che è la disciplina attuale. Quindi, se vuoi abrogarla, vai a votare tre sì al referendum.

 

Chi critica i referendum sul pacchetto lavoro asserisce che dall’entrata in vigore del Jobs Act sono aumentate le assunzioni a tempo indeterminato e diminuite le assunzioni a termine. Un sacco di gente ci vuol far credere che i numeri degli assunti e delle ore lavorate (oltre che quelli sulla misura degli stipendi) migliorino in proporzione alla libertà di licenziare le persone, anziché in relazione alla dinamica del sistema economico e alla produttività delle aziende. Diminuire le tutele per chi lavora (la famosa flessibilità, cioè precarietà) non serve a migliorare i numeri del mercato del lavoro: serve a rendere più ricattabili le persone. Serve ad assimilare il tuo lavoro a  pura merce, da rimpiazzare quando fa comodo al padrone. Hai un lavoro? Ringrazia, e stai zitto e buono. Non ammalarti troppo, non fare troppi figli, non criticare, non alzare la voce, non far valere i tuoi diritti: se lo fai rischi il posto. (E’ questo il “matrimonio” di cui discetta Marattin in tv paragonandolo al rapporto di lavoro: come se marito e moglie fossero sullo stesso piano, come se le dimissioni dell’uno equivalessero al licenziamento dell’altro).

Chi dichiara che i dati sul lavoro sono migliorati dopo il Jobs Act fa un’affermazione azzardata, offensiva e fuorviante. Azzardata, perché non esiste la prova che senza il Jobs Act i dati aggregati sul lavoro (sui quali peraltro ci sarebbe molto da discutere) sarebbero peggiori, a parità di contesto economico. Offensiva per gli stessi datori di lavoro, perché equivale a dire che le imprese assumono solo se possono licenziare liberamente, e illegittimamente, pagando un’oblazione di cui possono calcolare in anticipo il costo. Fuorviante, perché il tema non è il mercato del lavoro, ma che cosa si intende per “lavoro”. Per chi difende le scellerate leggi sul lavoro degli ultimi venticinque anni, le persone che lavorano sono variabili dipendenti non del “mercato”, ma delle scelte del padrone. L’azienda è mia e faccio quello che mi pare. (L’assioma vale per tutti, tranne che per i loro figli, of course. Per i loro figli ci sono le “relazioni”, gli “amici di famiglia”, oppure la successione nell’azienda di papà).

 

Appalti e subappalti, per chi muore sul lavoro il committente non rischia nulla: una vergogna da cancellare

L’obiettivo del quarto quesito è quello di cancellare un comma del decreto 81 del 2008, modificato con l’ultimo decreto Lavoro fino al testo attuale della legge 215 del 2021, che esclude la responsabilità anche del committente in caso di infortunio di un dipendente della ditta appaltatrice o subappaltatrice, quando l’infortunio è causato da “rischi specifici propri delle attività” delle imprese che stanno eseguendo i lavori. Spesso le imprese lucrano sul massimo ribasso del prezzo che strappano alle impresine cui subappaltano lavori vari (nell’edilizia, nei servizi), fregandosene poi se l’impresina risparmia sui presidi di sicurezza e chi ci rimette la vita o la salute è il lavoratore dell’impresina. Cazzi loro: attualmente l’impresa committente può cavarsela in questo modo. Molto comodo: metti il padroncino nelle condizioni di dover risparmiare su tutto per accaparrarsi l’appalto, poi se uno dei loro muore tu, committente, te ne puoi lavare le mani. E’ una delle regole più vergognose del mercato del lavoro, voluta dal governo Meloni. E’ talmente vergognosa che i critici del referendum agitano la muleta rossa sull’art.18 vecchio arnese comunista (peccato che il padre dello Statuto è Gino Giugni, uno degli ultimi socialisti che non tinsero di ludibrio il sostantivo), consigliando la spiaggia al corpo elettorale, ma di questo quesito non parlano mai. E’ una norma che scaturisce, come detto, dal decreto Lavoro del 2023. Una norma che fa talmente schifo che persino i più servili propagandisti del peggior mondo padronale non trovano argomenti per difenderla(tranne l’ineffabile Marattin che anche in questo caso sfida il pudore dicendo che si risolve tutto aumentando i controlli: su chi, se la legge esclude comunque la responsabilità del committente?).

 

La cittadinanza va data a chi è nato e vive in Italia: dieci anni sono troppi.

Secondo la legge in vigore, un adulto straniero, originario di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana.  L’obiettivo del referendum è ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza. Il termine dei dieci anni è tra i più lunghi in Europa. La riduzione a cinque anni del requisito di residenza può indirettamente semplificare anche il percorso per molti minori nati in Italia da genitori stranieri: oggi un minore nato in Italia da genitori non italiani non acquisisce automaticamente la cittadinanza, ma può richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Dieci anni (che poi diventano tredici grazie alla nostra efficiente macchina burocratica) sono la fotografia di un paese che ha paura dei nuovi cittadini, senza capire che sta morendo, perché gli “indigeni di pelle bianca” sono sempre più vecchi. Un bambino nato in Italia, che fa le stesse scuole dei tuoi figli, mangia la pasta, parla italiano e il dialetto veneto, o romanesco, da quando è nato, non è italiano perché i suoi genitori sono stranieri. Gli esempi sono migliaia: basta frequentare le nostre scuole, i nostri quartieri, che sono già molto in anticipo sulla legge. Le nuove generazioni sono già meticce, per fortuna. Particolare non secondario: queste persone (tra cui circa un milione di minorenni) potrebbero essere i cittadini di domani, legittimati a votare.

 

I fascisti e molti sedicenti liberaldemocratici contano sul fatto che se metà dell’elettorato attivo più uno non va a votare, il risultato del referendum non vale. Come se sull’aborto e sul divorzio, chi non era d’accordo avesse fatto propaganda per non andare a votare. Invece andarono tutti a votare e vinse il no all’abrogazione della legge sul divorzio e sull’interruzione volontaria della gravidanza.  Stare a casa è un suggerimento da vigliacchi. Ora, dai fascisti la vigliaccheria uno se l’aspetta. Dagli altri, compresi alcuni parlamentari e cariche istituzionali, addirittura sindacalisti, arriva l’oscena pubblicità dell’indifferenza, del disimpegno. Vai al mare, ti dicono. Tu vai al seggio, e mandali dove si meritano di andare.

 

 

 

Presto di mattina /
Padre Silvio Turazzi, la gioia della missione

Presto di mattina. Padre Silvio Turazzi, la gioia della missione

Alba

Sorge con bianca siepe
intorno a noi il mattino,
come dall’albaspina
stretti in un campo solo Iddio ci vede:
e di pensier migranti
pieno è l’aere sereno;
ecco, col volto pieno
di care luci affetti, ed ecco affanni.
Ah! non più la notturna
tenebra ci separa,
non più nei cuor l’avara
solitudine vive, taciturna.
Noi come creature
di gioia ci cerchiamo,
noi che da Dio non siamo
fatti per esser solo anime oscure.
Quando in braccia fraterne
si calmano le nostre
angosce, quando forse
in avverse, forse d’un provvidente
Amor segno troviamo,
e quell’unico riso
che sempre aleggia in viso
a Dio, quel Dio che vive e in cui crediamo.
(Alba, Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 83-84)

Fare memoria non è soltanto ricordare. Il ricordo stabilisce l’irreversibilità di un confine, dichiara il tramonto. Nella dulcis Iesu memoria si supera la morte, si apre un valico al di là del tramonto, i passi rivolti a quell’Alba che viene e in cui crediamo, comunione ancora, un abbraccio fraterno con chi ci ha preceduto nel segno della fede. E così, affiora oltre la siepe il destino, non di anime morte, quello invece di creature di gioia.

In Memoriam

Padre Silvio Turazzi nasce il 14 agosto 1938 a Stellata di Bondeno (Ferrara). Frequenta il Seminario. Dopo l’ordinazione presbiterale (30 maggio 1964) è stato per due anni Cappellano a Bondeno. Per p. Silvio sono anni importanti, quelli del primo “post-Concilio”.

Dopo due anni di noviziato a Nizza Monferrato, entra nell’Istituto dei Missionari Saveriani. In attesa della destinazione, lavora in Casa madre (Parma) e si dedica all’animazione missionaria e all’attività con Mani Tese. È un tempo di conoscenza e di coinvolgimento nel progetto di Mondialità. Anni in cui approfondisce la spiritualità dell’unità, fortemente segnati dallo spirito conciliare.

L’1 maggio 1969 l’incidente che segna il resto della sua vita: aveva 29 anni. Quindici giorni dopo avrebbe dovuto ricevere il Crocifisso e partire per il Giappone. Egli rimane per circa un anno a Ostia (RM) in un Istituto per la riabilitazione e la gestione della paraplegia. Qui si incontra e vive con tanti altri disabili, soprattutto infortunati sul lavoro; tempo preziosissimo per la sua maturazione e apertura.

Dall’autunno del 1969 al 1975 si stabilisce “missionario” presso l’Acquedotto Felice, condividendo la vita dei baraccati insieme a Paola Muggetti e Edda Colla.

Nel 1975 parte per lo Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Nell’aprile del 1994, al peggioramento della situazione all’interno dello Zaire, è testimone del genocidio rwandese che iniziò con l’abbattimento dell’aereo del presidente del Rwanda Habirimana. Una guerra che causerà la morte di milioni di persone, con altrettanti milioni di rifugiati che si riverseranno soprattutto sul vicino Zaire. P. Silvio, Paola e Edda si trovano coinvolti in questa immane tragedia nella città di Goma.

Resta vent’anni a Goma, fino al 1995, e per un’altra decina d’anni vi si reca di frequente. Nel 1998 ha un secondo incidente stradale. Sono gli anni della sua vita a Vicomero (PR). Con Edda, gli amici e con quanti bussano alla sua porta vive la missione come “Fraternità Missionaria”, sulle orme e nello spirito di fratel Charles de Foucauld, piccolo fratello e fratello universale.

Fonda Chiama l’Africa e sostiene la realtà di Muungano-Solidarietà offrendo accoglienza a studenti stranieri (se ne sono laureati 103!). Per le conseguenze del Covid muore il 26 maggio 2022, nel giorno della memoria liturgica di san Filippo Neri, che ho voluto ricordare nell’omelia della celebrazione eucaristica alla chiesa della Madonnina, che riporto qui di seguito.

Missionis gaudium

Missionis gaudium: la gioia della missione viene dall’annuncio del vangelo e, come ci ricordano gli Atti degli Apostoli, viene dal Signore che apre il cuore alla gioia del Vangelo. Come a quella donna di nome Lidia, che ha ricordato la prima lettura degli Atti degli Apostoli, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio. Allo stesso modo il Signore ha aperto il cuore anche a san Filippo Neri e poi a padre Silvio Turazzi di cui oggi ricorre il terzo anniversario della morte proprio nel giorno della memoria dell’apostolo di Roma.

“Pippo bono” come lo chiamavano a Firenze per il suo stile umile e pacifico, allegro e piacevole. Il poeta Johann Wolfgang von Goethe scrisse di lui nel suo Viaggio in Italia definendolo “pensosa giocondità”. Egli è pure ricordato come il “profeta della gioia” da papa Giovanni Paolo II.

Così oggi san Filippo Neri e p. Silvio Turazzi ci conducono a riscoprire la gioia della missione. Entrambi sono stati “lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, premurosi nell’ospitalità” (Rm 12, 12-13).

Vite parallele

Ho notato delle sintonie tra loro. Ambedue, a modo loro, sono stati missionari Urbi et orbi a Roma e nel mondo. San Filippo leggeva le lettere commoventi che venivano a Roma dalle Indie di san Francesco Saverio, missionario gesuita, con la notizia che molte persone aderivano gioiose al vangelo. Così egli si accendeva di gioia e di desiderio fino a voler partire anche lui per le Indie.

Pregò, meditò ed andò a consigliarsi con un santo monaco cistercense, Vincenzo Ghettini, all’Abbazia delle Tre Fontane in Roma. E quel monaco gli disse che “San Giovanni Battista gli aveva rivelato in sogno che per Filippo ‘le Indie erano Roma”! Così Filippo divenne missionario in Roma.

Anche p. Silvio da seminarista leggeva le lettere di san Francesco Saverio. Leggendo i testi di p. Silvio ho riscontrato, in corrispondenza con san Filippo, come loro filo conduttore proprio la grazia, lo stile della gioia come habitus, virtù: semplicità, amicizia, apertura fraterna a tutti e imprevedibile libertà.

Ha scritto: “L’amicizia che fa sentire l’altro fratello, porta, nel rispetto di ciascuno, a comunicare quanto è motivo di gioia. La speranza che suscita la forza e la luce del Vangelo è un evento di gioia destinato a tutta la famiglia di Dio”. Quello che Hans Hurs von Balthasar ha descritto di san Filippo Neri come una persona “al limite ed oltre il limite” coì pure p. Silvio che scriverà un testo dal titolo: “La gioia del limite. Il limite non è fallimento”.

Così come san Filippo, p. Silvio visse gioiosamente in mezzo ai poveri, ai piccoli, agli emarginati in ascolto delle beatitudini che sono il “magistero dei poveri”. E alle beatitudini vi ritornerà spessissimo nei suoi scritti come a culmine e fonte, unitamente a una nuova comprensione del “Padre nostro”.

Vissero entrambi, Filippo e Silvio, il cammino della missione come un sentire mistico, di unione, un cammino di santità nel senso molto profondo intuito da papa Paolo VI: «La santità è un dramma di amore» tra noi e il Cristo, cuore a cuore, dono di sé fino alla fine; è nel più profondo di questo dramma, che scaturisce il mistero pasquale, la vita più forte della morte.

La gioia è nascosta nel gemito

«I passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro?» (Sal 56,9) e questa la preghiera sacerdotale di p. Silvio: “Purificami Signore, fammi grazia di soffrire se occorre, perché Tu abiti in me e cresca la tua gioia, la gioia vera, sulla terra… Il sacerdozio che porto insieme al battesimo, sia motivo di gioia”.

La gioia: questo tratto come filo conduttore compare fin dai primi scritti in p. Silvio: “Si vive nella misura che si ama: il frutto è la gioia”. Tuttavia non una gioia a buon mercato, ma una gioia a caro, durissimo prezzo.

Basti leggere, con grande turbamento interiore, increduli, il diario di p. Silvio a Goma scritto dal 6 luglio al 14 agosto 1994, durante il genocidio rwandese. “Signore, solo il tuo silenzio crocifisso è risposta al mare di dolore di tanta gente”. Ritornato più volte a Goma nel 2014 scrive: “La pace c’è nel cuore della gente. Grazie Signore! È gioia”.

La gioia è nascosta nel gemito, come ci ricorda S. Agostino: “La nostra lode racchiude gioia, la nostra supplica racchiude gemito” (Commento Sal. 148, 1-2): sistole e diastole della preghiera del cuore. Così è anche per p. Silvio.

Perché la gioia è sempre latente nel respiro della missione; sta in silenzio davanti alla croce; scrive: “È forte il legame tra il calvario di Cristo e il calvario di tanta gente innocente, vittima di quanti cercano il potere”. Ma è pure manifestata nell’annuncio della risurrezione: “Sei vivo! Vivo nella corrente di vita dell’Eterno… nella gioia luminosa del cielo, nella trasparenza di un corpo luminoso. È la Risurrezione. La realtà che spezza l’oscurità, la fragilità della condizione umana”.

E ancora scrive “Gesù proclama un Dio che deve suscitare gioia: Dio è vicino all’uomo nel suo amore… il cuore di colui che ha incontrato Gesù, fa l’esperienza della vicinanza di Dio e in lui esplode la gioia (Zaccheo. Lc.19,1-10). È una grande gioia stare con Gesù davanti al Padre nostro, come Lui ci ha insegnato… La “missione”, in periferia, poi in Congo, da povero quale sono, è stata la gioia che il Signore ha messo nel mio cuore… La missione mi è apparsa come una luce di gioia da condividere. “Gesù è risorto, è vivo!” (Come filo d’erba).

Il gusto della gioia

Scrive p. Silvio presentando il suo progetto di vita e il suo cammino missionario: “La speranza che suscita la forza e la luce del Vangelo è un evento di gioia destinato a tutta la famiglia di Dio; Gesù ha rivelato nell’ombra del mistero il Padre della Vita e la nostra chiamata a partecipare come figli alla sua famiglia” (Progetto di vita).

La gioia e la certezza della sua Presenza. “Andate in tutto il mondo e annunziate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16,15). La gioia e la certezza della sua Presenza. “Andate in tutto il mondo e annunziate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16,15). Per questo la testimonianza ha senso, come tutte le cose vere; essa non è legata all’uditorio, è un canto di riconoscenza, è amicizia che porta a comunicare quanto è motivo di gioia” (Un cammino verso la missione).

«Chi vuol altro che Gesù Cristo, diceva san Filippo, ei non sa quel che si vuole». Sapere Gesù Cristo, ci hanno ricordato Filippo e Silvio, ha il sapore della speranza, il gusto vivo della gioia.

Dice Gesù nel Vangelo di Luca: «Un discepolo non è più grande del maestro; ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro» (6,40).

Sento vivamente la conformità di p. Silvio con Colui che lo ha inviato come un Vangelo alle genti e provo a esprimerlo attraverso il sentire di un poeta:

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.

O fuggita e pianta e presente gioia
(Giuseppe Ungaretti, Vita d’uomo, 229; 765).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

 

Parole e figure / Questi che mangiano Quelli

Quando le regole del gioco cambiano. Ce lo racconta “Questi che mangiano quelli”, di Arianna Papini, con Kite edizioni, appena uscito in libreria

Oggi presentiamo un albo illustrato che insegna che non dobbiamo essere sempre di questi o di quelli. Ci sono i cambiamenti, le regole del gioco sovvertite, per un motivo o per l’altro, i ruoli che si modificano. Tutto evolve, Panta Rei avrebbe detto Eraclito.

Si sa, da sempre, Questi mangiavamo Quelli. Da sempre Quelli erano mangiati da Questi.

C’erano vincitori o soccombenti, il mondo diviso in due categorie, chi mangia è determinato a farlo, chi è mangiato accetta la sua sorte ma nel frattempo si gode la vita.

Questi stavano in alto per tenere sotto controllo Quelli che stavano in basso e prima o poi mangiarli. In basso si viveva alla giornata in attesa di essere mangiati. C’est le vie, pensavano ma erano felici. Felici nonostante un destino inesorabilmente segnato, un disegno cui non si poteva scampare.

Essere il cibo di qualcuno non è semplice. Tutti un poco lo siamo. Non ci si può davvero fare nulla? Godersi la vita fin che si può? Ma chi lo dice che non ci si può fare nulla? Non penso sia davvero inevitabile essere cibo di altri.

In fondo, ci si può incontrare e non avere paura, aver voglia di conoscersi e giocare, pur essendo doversi, e pur essendo, per definizione, prede e predatori. Perché non ignorare i ruoli e magari invertirli se non annullarli per sempre?

Così un giorno succede che il piccolo di Quelli vede il piccolo di Questi e ha voglia di giocare, non ha paura. Anche il piccolo di Questi vede il piccolo di Quelli e vuole giocare, non ha fame. Mentre i grandi fanno strategie e corrono prima di essere mangiati.

I due piccoli allegri si avvicinano, sono curiosi, così come i piccoli sanno esserlo. I piedini sorridono, il cuore batte forte forte, le gote prendono colore e si accalorano. Che brivido l’amicizia! Se è amore, poi!

Si annusano e guardano insieme le nuvole che giocano, prendendo tante forme pannose e sconosciute. Quanto può essere bello il mondo! C’è poi tanto spazio per tutti.

Ci si incontra di nascosto, certi per tradizione che un giorno l’uno avrebbe fatto dell’altro un bel pranzetto. Ma loro avevano voglia solo di stare accanto, insieme, non avevano né paura né fame. Solo il grande desiderio di raccontare quell’incontro magico e speciale.

Così, un bel giorno, invitano a pranzo Questi e Quelli, tutti certi del proprio destino.

Quando invece …

E da quel giorno non ci sono più Questi né Quelli. Ci siamo Noi

Arianna PAPINI, nata e residente a Firenze, abbagliata da ragazzina dalla Venere del Botticelli agli Uffizi e innamorata della libertà, ha studiato arte e architettura, specializzandosi nel design del libro-gioco. Ha diretto per 25 anni la casa editrice Fatatrac come responsabile editoriale e artistico e insegnato presso la Facoltà di Architettura di Firenze e l’Isia di Urbino, oltre a collaborare con la Scuola Internazionale d’Illustrazione di Sàrmede. Arte terapeuta specializzata, conduce gruppi terapeutici e formativi nel suo studio a Firenze e in varie istituzioni italiane. Scrittrice, pittrice e illustratrice, ha pubblicato centosessanta libri con diverse case editrici, vincendo premi come il Premio Andersen e il Premio Compostela. Le sue opere sono state tradotte in diversi paesi. È attiva nel volontariato presso reparti pediatrici, dove alcuni suoi testi sono stati messi in scena.

Sito web

Arianna Papini, Questi che mangiano quelli, Kite edizioni, Padova, 2025, 32 pp.

Parole a capo
Bruna Starrantino: «Come pesci che hanno perso le ali»

Bruna Starrantino: «Come pesci che hanno perso le ali»

Come pesci che hanno perso le ali” (G.C.L. Edizioni, 2025) è l’ultima produzione poetica della poetessa siciliana. E’ un’opera piena di amore per un mondo in piena crisi di senso, di nichilismo diffuso. Sono versi che ci parlano degli ultimi. Anzi, la costante è che ci parlano delle ultime, le donne.

Donne che si trovano spesso ingabbiate, sottomesse, violentate, sfruttate e sottopagate, vittime di femminicidio. Si alzano al cielo grida di dolore alla ricerca di una libertà desiderosa di una normalità, di una vita fatta di relazioni paritarie, di una giustizia senza sconti, di una attenzione per le piccole ma importanti situazioni/cose quotidiane.

COME UNA TROTTOLA IMPAZZITA

Il latte che tracima dalla cuccuma e
mi si attacca ai fornelli
l’uovo al beacon
che fa i capricci e non mi si stacca dal tegame
il tegame che va in fumo e
puzza di bruciato.
Il mio sguardo contrito
e il tuo saluto veloce palesemente stizzito…
Un debutto di giornata davvero
sfigato…
il letto da rifare e le stanze da arieggiare
la biancheria da candeggiare e i calzini da lavare
e il telefono che non la smette di squillare
l’ora del pranzo che si avvicina
e tutte le cose
che mi si agitano in testa
– come galassie sclerate –
che ruotano e
a mo’
di
bollicine
borbottano
qui
nella casseruola che protesta
– con gli spaghetti ancora da pesare –
e l’acqua che bolle e ribolle
e la macchina del bucato
che si agita
anche lei
e strizza
e gira
e devo pur stendere ad asciugare.
E giro anch’io
come una trottola impazzita
in cerca di soluzioni
spicciole.
Non
mi aiuta
l’immaginazione
al potere.
Non
mi aiuta Marcuse.
Non
mi aiutano
le belle teorie filosofiche
sulla libertà.
Buone
a dipanare tempeste esistenziali
che mi fremono
sottopelle.
Ma che in questo momento
mi sembrano solo frottole e frittelle.

Adesso che…
la maionese è impazzita gli spaghetti son già sfatti
l’arrosto è ancora crudo
e il bucato e i calzini e i grilli che mi si attaccano ai capelli
e la latta dell’olio che non si lascia bucare
e mi gira tutto intorno…
e mi sento crollare.
Vita balorda!
E’ un giorno di ordinaria follia.
Un giorno balordo che si trascina nel tempo.
Senza la pausa di un sogno.

Il titolo del libro, Bruna Starrantino lo dipana così. “Il pesce con le ali, nel mio immaginario, è una creatura che conserva dentro la memoria la memoria delle bibliche «acque del cielo»… la memoria antica delle origini. E diventa simbolo di un tempo in cui un legame sottile teneva legate tutte le cose del Mare, del Cielo e della Terra.” (…) Oggi gli uomini sono come pesci che hanno perso le ali. (…) L’uomo si ritrova in una società effimera, tutta da ridisegnare, senza confini, senza limiti. Dove vive l’illusione che tutto è qui a portata di mano e che è possibile raggiungere il massimo profitto e il massimo godimento, con il minimo sforzo possibile.”

VOGLIO ESSERE PIU’ UMANA

Non voglio più essere Uomo.
Meglio
essere un’aquila
un pescecane una iena
un’orca assassina.
Nati predatori
rimasti tali senza volerlo.
Senza colpa.
Predatori impietosi per sopravvivenza.
Per un istinto animale che non sanno domare.
Voglio essere più Umana.
Non voglio più essere Uomo.
Ambiguo animale capace di uccidere.
Anche in nome dell’amore.
Ambiguo animale capace di uccidere.
Con il piacere di farlo.
Senza pudore. Senza vergogna. Senza dio.

Voglio essere più umana.

Alla Starrantino “piace conservare nella memoria” la struttura delle conchiglie, la disposizione di alcuni petali di fiori, le lune che tornano ogni notte a ricordarci il passare dei giorni e delle notti, il procedere implacabile e, però, affascinante delle stagioni, la meraviglia di una ragnatela, lo stupore per i microcosmi che tengono assieme il nostro universo.

E POI CI SONO LE RAGNATELE DELLE FATE

Stese sui fili del terrazzo
come panni al sole.
A penzoloni
sui bordi
in cima
alle grondaie.
Nascoste
fra crepe
di vecchi muri
di tufo.
Le ragnatele
sono presenze metafisiche
Portano Altrove.

Nessuno lo sa.
Di notte
le dita delle fate
come suonando un’arpa
raccolgono sogni.
I sogni di chi ha smesso di sognare.
I sogni di chi dimentica nel sonno i sogni.

Fra cielo e terra
le fate della notte disegnano mappe segrete.
Intrecciano ragnatele di fili di seta
– sottili come fili di luna –
e segnano la strada.
Per chi vuole andare a cercare
il luogo dei sogni perduti.

Questa attenzione per le “piccole” cose della natura, mi ha collegato alla bellissima silloge “Pinoli” di Giancarlo Consonni (Einaudi, 2023) da cui traggo due piccoli esempi:

Bianco

Nuvole e spuma.
Il cielo e il mare
si parlano
a colpi di bianco.

Peso

Qual è il peso di un bombo?
di un’ape?
di una farfalla?

Ogni fiore lo sa.

Concludo questo breve dialogo con Bruna Starrantino, attraverso la mediazione del suo libro molto ricco di riflessioni ed emozioni, toccando il tema della pace. Un bisogno sempre in primo piano, una ricerca continua!

SEMI DI GRAMIGNA SELVATICA

Pace
andiamo cercando
come funamboli stanchi
da troppo tempo sospesi su un filo
come funamboli stanchi che hanno fame d’aria
fame d’aria e d’amore.
Pace
andiamo cercando
da spargere intorno a piene mani
come semi di gramigna selvatica che tutto
ricopre e risana.
Pace
andiamo cercando
per rinsaldare le ferite della
terra imbevuta di sangue innocente.
Per riempire le buche dell’anima crivellata
dall’odio e dalla follia.
Pace
andiamo cercando.

 

 

(In copertina,  illustrazione grafica di Rasim Maslic)

Bruna Starrantino nasce in Sicilia e della sua terra porta addosso la sua aspra solarità … il suo canto e il suo disincanto. I suoi forti contrasti di colori e di umori.
Poetessa. Scrittrice. Sceneggiatrice. Docente di materie letterarie. Esperta in psico-pedagogia. Counselor e Arteterapeuta. Curatrice di laboratori teatrali, di scrittura creativa e di poesia. Ha pubblicato articoli specialistici sulla rivista trimestrale Arti Terapie. Ha pubblicato opere poetiche su Riviste e Antologie letterarie. Le sono stati conferiti diversi riconoscimenti: 1° Premio “Concorso Letterario Giovanni Verga” (saggio breve) – Attestati di Finalista e Attestati di Merito in vari Concorsi di Poesia Nazionali e Internazionali.
Lei stessa, come la sua isola, è un approdo di contaminazioni culturali, presenti nelle trame della sua memoria semantica e narrativa che non hanno soffocato, di certo, la sua memoria sensoriale e il suo lirismo.
Per Lei “fare poesia” non è un modo di scrivere … è un modo di vivere.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 287° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Palazzina Marfisa d’Este, un patrimonio da non dilapidare

Palazzina Marfisa d’Este, un patrimonio da non dilapidare

Il 29 maggio a Palazzo Schifanoia alle ore 17,00 verranno presentati gli interventi di restauro e riallestimento della Palazzina Marfisa D’Este. Non abbiamo gli strumenti per criticare nel dettaglio una “rivoluzione” che ci pare comunque inspiegabile, non giustificabile se non dalla rincorsa del “nuovo per il nuovo”. A questo proposito  siamo lieti di ripubblicare  l’esauriente saggio del professore Ranieri Varese già uscito su questa testata nel gennaio scorso, da sempre contrario al nuovo allestimento.
(Francesco Monini)

Nel 1838 il conte Francesco Avventi, a proposito delle riscoperte immagini di Schifanoia, scriveva: “Sono queste preziosissime per noi specialmente, giacchè in esse rileviamo i costumi di quella età, essendovi effigiati personaggi, vestiarii e cose, eseguite e tratte dal vero, con la massima precisione, e tale da ricordarci le fisionomie e le pratiche degli avi nostri”.

Da questo momento credo si possa far partire l’associazione, non solo visiva, degli affreschi con l’invenzione di una ‘età dell’oro’ per la città di Ferrara, identificabile nei due secoli del vicariato estense.

Molto schematizzo per ricordare che il processo di unificazione nazionale annullò la presenza e volle cancellare la memoria degli Stati preunitari, compreso quello pontificio, ai quali fu addebitato di essere di ostacolo alla creazione dell’Italia unita. A processo in atto è comprensibile la contrapposizione fra il periodo estense e quello legatizio: Ferrara dal 1598 sino al 1860 fu Legazione pontificia. Raggiunta l’unificazione politica, tale opinione non è più accettabile, anche se è rimasta e rimane nel sentire comune e nelle scelte delle istituzioni.

A conferma ed esemplificazione cito il giudizio di Giuseppe Agnelli (1856-1940): la sua opinione è importante perchè fu tra i primi a fattivamente impegnarsi per il recupero della palazzina di Marfisa d’Este. Bibliotecario della Ariostea, presidente della Ferrariae Decus, fu personaggio eminente nella Ferrara fra fine Ottocento e prima metà del Novecento.

“Un senso di povertà morale serpeggia dovunque; non più concordia di nobili spiriti verso un’idea, bensì comunanza di piccole anime nelle Accademie senza idee, che sorgono con titoli grotteschi e s’accapigliano in gare vergognose e muoion d’inedia e rinascono moriture sempre pronte a concedere il passaporto poetico per l’ingresso nella società aristocratica. … Si determina a grado a grado un movimento di umiliazione civile, che il governo della Santa Sede asseconda; giova cancellare nei nuovi sudditi la memoria del passato, rendere debole e sonnolento l’animo loro; … No, la magnanimità non fu intesa dalla pigra anima cittadina! A cui, meglio dei mercanti avveduti, taluni cardinali o scaltri o violenti rubarono i segni della stagione di gloria”.

Agnelli, allievo a Bologna di Giosuè Carducci, non sa dimenticare i versi che il poeta dedica Alla Città di Ferrara in particolare:

“La lupa con un guizzo del rabido artiglio la bianca aquila ghermì al petto, la straziò nell’ale. Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo, sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta”.

Ancora nel 1996 si parla di “infausto 1598”; Andrea Emiliani scriverà: Ferrara, “città devoluta nel 1598 ed allontanata con violenza dalla storia”.

Ferrara, “città del silenzio”, “città morta”, diviene uno stereotipo il quale viene fatto proprio dagli stessi ferraresi che lo assumono a testimonianza del degrado legatizio in opposizione all’antica gloria estense.

Ancora Giuseppe Agnelli scriverà: “perisce in turpe abbandono la palazzina di colei, che volle morire in Ferrara perché sapesse la storia come donna degli Este non aveva ceduto agli usurpatori la terra di sua famiglia.”

Lo stato della Palazzina di Marfisa d’Este prima del restauro

La Palazzina non è l’unico edificio che concorre a dare corpo e sostanza ad una formula che pare accettazione di uno stato: utilizzato a testimoniare una nuova letteraria ed affascinante qualità di Ferrara. Parallela è l’indicazione del palazzo detto di Ludovico il Moro.

Agnelli così lo descriverà nel 1902:

“Il palazzo abitato da molte povere famiglie, che lo popolano di prole numerosissima, è in condizioni di trascuranza pietosa, labenti e scrostate le muraglie, le finestre cascano a pezzi, le arcate della loggia furono chiuse con pietre e tavole malamente connesse.”

Dopo l’ancora utile testo di Gualtiero Medri (1938), le vicende della Palazzina sono ripercorse, analiticamente e con ampia edizione di documenti, nel necessario volume apparso nel 1996 a cura di Anna Maria Travagli Visser.

Mi limito, schematicamente, ad indicare alcuni degli usi ai quali il complesso di edifici fu adibito prima che l’affidamento, nel 1909, alla società Ferrariae Decus aprisse al tema e al problema del recupero.

Alla morte di Marfisa il complesso di San Silvestro sarà abitato dall’agente dei Cybo, il padre dello storico Cesare Cittadella, e parzialmente affittato.

La rinuncia dei Cybo a mantenere un proprio fiduciario in città apre a vendite, a demolizioni e ad usi impropri. Nel corso del XIX secolo sarà sede di una fonderia, di una fabbrica di candele, di un filatoio di seta, di una fabbrica di saponi, di una fabbrica di chiodi, di un magazzino di canapa, di un teatro per dilettanti, di una società ginnastica, abitazione di famiglie indigenti. Questo anche dopo l’acquisto da parte del Comune, nel 1861.

Agli inizi del Novecento il complesso è stato in gran parte demolito, restano l’edificio centrale, la loggia e l’ampia sala collegata. Il tutto in stato di abbandono. La Ferrariae Decus, nata per la salvaguardia delle memorie cittadine, compatibilmente con le disponibilità finanziarie, inizia il recupero sia delle strutture che delle decorazioni pittoriche.

In questo tempo si è consolidata, fatta propria anche dagli abitanti e dalle istituzioni, la formula di “Ferrara città del silenzio”.

Nino Barbantini si riconosce compiutamente in questa identificazione e scriverà:

“I ricordi e la bellezza, il silenzio e l’abbandono avranno fatto di questo palazzo disabitato una sede intatta e inviolabile della poesia e del sogno …. La poesia della nostra città; una poesia fatta di grandi ricordi e di silenzio pare che abbia in essa un simbolo materiale”.

Lo stesso Barbantini e Gaetano Previati daranno immagine e forma letteraria al mito di Marfisa letto all’interno di tale condizione. Ricordo la ben nota descrizione del corteggio di Marfisa e il dipinto del pittore ferrarese.

Il sodalizio e la comune espressione di intenti fra Barbantini e Agnelli nasce in questo contesto; un sodalizio che non si interrompe con il passaggio a Venezia di Barbantini nel 1909 e che potrà essere ripreso nelle celebrazioni degli anni Trenta.

Le prove di questo legame sono innumerevoli. Il libretto Per la Palazzina di Marfisa è edito nel 1908 dalla Ferrariae Decus, presidente Agnelli. Raccoglie testi scritti e pubblicati dal 1905 in poi. Nel 1905 Barbantini dedica un proprio libretto “Al Prof. Agnelli. Maestro venerato e carissimo”. Come nota Andrea Emiliani, Barbantini “è immerso nel milieu culturale e sociale di Ferrara.”

“Nell’estate del 1906 Giuseppe Agnelli ed io passeggiammo molte sere sotto i plenilunii e sotto le stelle per ragionare della bellezza di Ferrara e vedere i palazzi nella luna o nell’ombra … così ci ricordammo di te, Marfisa d’Este bel fiore stanco e della tua leggenda … e sognammo di restituirti la tua casa, perché potessi affacciarti ogni notte alle sue finestre a vedere se giungono i tuoi amanti, sederti entro una luce di luna, per narrare alla luna – o amante desolata – i tuoi amori…. Ragioni di poesia: perché la loro stessa collezione istituirà intorno a queste pietre un’atmosfera speciale ove l’individualità di ognuna di esse potrà spiccare con vivo risalto, ove le loro espressioni singolari potranno confondersi in un’espressione unitaria.”

In questo ambito l’amministrazione comunale accoglie le suggestioni di Nino Barbantini e le richieste avanzate da Giuseppe Agnelli e affida la palazzina alla Ferrariae Decus affinchè proceda alla istituzione di un museo lapidario ove raccogliere le sparse testimonianze scultoree presenti in città, dall’età romana sino al XVI secolo.

Nella Relazione del 1909 il Presidente comunica ai soci le date di inizio dei lavori e le ragioni di qualche ritardo; osserva:

“Abbiamo soltanto pensato, abbiamo studiato l’antica dimora, ci siamo meglio convinti che a quelle sale, gravate dal silenzio dei secoli, converrà la voce fioca, ma profonda, ma suscitatrice di alti pensieri, delle nostre pietre vetuste; abbiamo riconosciuto possibile di ridonare all’edificio la originaria fisionomia storica, di ottenere che i soffitti risplendano nelle vaghissime decorazioni, illuminino le morte cose con un raggio di bellezza.”

Scriverà Barbantini:

“Io vorrei che il giorno dell’inaugurazione del Museo i sarcofagi fossero riempiti di rose, i cippi e le lapidi inghirlandate di mirto e che i fiori fossero sparsi per terra ovunque. … E come potremmo comprendere l’infinita poesia della morte se non sentissimo in un perpetuo contatto con essa quella della vita? Perché noi sappiamo di portare nella Palazzina delle cose defunte. Anzi ce le porteremo appunto per questo; non solo perché sono belle, ma anche perché sono morte come la statua che non è più nella sua piazza o la lampada che non arde più sul suo altare.  Che cos’è la poesia della Palazzina di Marfisa? L’eco di una musica nel silenzio.” 

I lavori avviati comprendono sia il consolidamento delle strutture che il restauro delle decorazioni pittoriche, affidato in primo tempo a Giuseppe Mazzolani (1842-1916). L’intervento procede lentamente per l’esiguità dei fondi. Già nel 1913 si fa strada l’ipotesi di una diversa destinazione.

Giuseppe Agnelli la comunica ai soci della Ferrariae Decus:

“Altre volte, confessiamolo subito, propugnammo per la Palazzina l’idea di un Museo esclusivamente Lapidario … Or bene, via via che i soffitti andavano ripigliando i colori e le armonie del passato un senso inesprimibile di gioia entrò dominatore nell’animo nostro e il progetto d’un tempo venne a poco a poco modificandosi.”

Scuola dei Filippi, Ritratto di Marfisa d’Este bambina, Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este

Lo scoppio della prima guerra mondiale tronca ogni cosa.

Al termine del conflitto il Paese, e Ferrara, sono travagliati da una crisi economica grave, da conflitti sociali, dal sorgere della violenza fascista particolarmente attiva nelle campagne del ferrarese, conduttore lo squadrista e futuro quadrumviro Italo Balbo.

Il 4 aprile 1921 Benito Mussolini, candidato, tenne nel giardino della palazzina Marfisa un discorso elettorale che terminò con l’invito: “al popolo di Ferrara”: “Qui o popolo di Ferrara è la tua storia. Qui o popolo di Ferrara è la tua vita. Qui o popolo di Ferrara è il tuo avvenire.” [In occasione della inaugurazione della Palazzina fu posta una lapide che così recitava: “Qui dove labente squallore accusava l’incuria del tempo e l’ignavia degli uomini squillò vindice di trionfale rinascita il 4 aprile 1921 la voce di Benito Mussolini. Il popolo della città e dell’agro di Ferrara additando il nome e il segno di Roma.

L’oratore, molto probabilmente, non aveva consapevolezza del luogo, né, certamente, ne avvertiva la collegata poetica del silenzio e dell’abbandono. Da questa occasione la classe dirigente locale fa partire un nuovo stereotipo. L’abbandono e la cancellazione dell’immagine di “Ferrara città morta” alla quale subentra quella della “rinascita” nel nome degli Este e del fascismo. “Il nascere del Fascismo ed un novecentissimo Astolfo ci trassero da sì ignobile stasi.”

Gualtiero Medri scriverà:

“Dal suo Loggiato [della palazzina] il Duce dell’Italia di Vittorio Veneto parlò al popolo che lo gridava suo candidato alle elezioni politiche. Era il 5 di aprile del 1921, una giornata sfolgorante di sole e di entusiasmo. Il prato della Palazzina rigurgitava di popolo accorso per vedere, ascoltare, acclamare l’uomo che ridava l’Italia agli Italiani; era tutto un ondeggiare di vessilli; pareva fiorissero come per incanto dall’entusiasmo che la parola del Capo faceva divampare. Fu giornata trionfale per il Fascismo Ferrarese e pei colori della Patria.”

Non bastò a far ripartire i lavori, come non bastò la raccolta di fondi che un comitato di signore ferraresi, sotto gli auspici della Ferrariae Decus, organizzò nel 1924.

“La Kermesse organizzata nel campo erboso della Palazzina, riuscì graziosissima: la sera i chioschi luminosi, fioriti dalla eleganza di signore e signorine, offrivano un effetto fantastico, lasciavano intuire che cosa il grande prato diventerebbe con opportuni piantamenti che lo trasformassero in un giardino cinquecentesco, rinovellando il giardino di Marfisa.”

Nella vulgata locale la reintegrazione della Palazzina è attribuita alla volontà della Cassa di Risparmio di Ferrara e del suo presidente senatore Pietro Niccolini di celebrare in quel modo il centenario di fondazione della banca. Senza volerne sminuire l’intervento è necessario allargare il discorso a una situazione e operazione politica le quali miravano a radicalmente mutare l’immagine di Ferrara.

L’operazione Marfisa non è isolata ma si inserisce nel più generale disegno che il fascismo portava avanti in tutta Italia; a Ferrara in particolare il gerarca Italo Balbo intendeva far dimenticare le violenze e le uccisioni offrendo del nuovo regime una immagine coonestata dalla borghesia cittadina, di continuazione del buon governo estense, del rinnovamento delle glorie passate, di un futuro alto e concorde.

Abbiamo ricordato il parallelo degrado del palazzo di Ludovico il Moro. Nel 1930 iniziano i lavori di ristabilimento per ospitarvi il Museo Archeologico Nazionale di Spina. Il soprintendente Carlo Calzecchi Onesti (1886-1943) scrive “occorre qui ricordare fra i promotori della provvidenziale risoluzione, in primo luogo Sua Eccellenza Italo Balbo.”

Una situazione coincidente con quella della palazzina di Marfisa. Ricordo in quello stesso periodo la invenzione del Palio di Ferrara e momento centrale di tutta la operazione le celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto (1533).

A partire dal 1928 inizia un insieme articolato di iniziative che vedevano, raccolte nella Ottava d’Oro, conferenze di illustri studiosi. In quella di apertura Italo Balbo dirà:

“Gaiezza, fantasia, gusto della vita, giovinezza, cavalleria, valore, armonia dello spirito, ottimismo: ecco quanto noi chiediamo all’Ariosto … il che, se non erro, definisce in pieno non soltanto l’ideale ariostesco della vita, ma quello latino e italiano e fascista, nel senso più nobile della parola.”

Si aggiungeranno varie mostre fra le quali una bibliografica a cura di Agnelli e Ravegnani, una sui bronzi del museo Civico affidata a Gualtiero Medri e quella, più significativa ed importante sulla Pittura Ferrarese del Rinascimento, la cui presidenza ‘effettiva’ era di Italo Balbo: ‘direttore generale della esposizione Nino Barbantini’.

Un percorso decennale che si può far terminare con il restauro della Palazzina di Marfisa compiuto nel 1938.

La Cassa di Risparmio di Ferrara diviene, con qualche riluttanza, elemento necessario per la conclusione degli anni ariosteschi e per la definizione di un modello che nel recupero della Ferrara estense diviene paradigma per il futuro che verrà.

Non è inutile ricordare che nel 1928 in occasione del rinnovo delle cariche, l’assemblea dei soci della Cassa vota il presidente senza tenere conto delle indicazioni di Italo Balbo, il quale reagisce in maniera violenta tanto che il presidente eletto si dimette e viene nominato il candidato della federazione: Pietro Niccolini “fascista da sempre”.

Quando, dieci anni dopo, si tratta di organizzare la celebrazione per il centenario della fondazione della banca il consiglio si divide ed una parte insiste per una opera di beneficenza. Prevale la scelta del restauro della Palazzina di Marfisa, sostenuta dal presidente Niccolini e gradita “al quadrumviro cittadino Italo Balbo”.

Il consigliere Giulio Righini interviene dicendo “di non essere rimasto insensibile al fatto che Sua Eccellenza Italo Balbo che ha la costante visione degli interessi materiali ma anche ideali e spirituali della città approva e loda il progettato restauro e l’ideata destinazione della Palazzina Marfisa”.

Giuseppe Agnelli scriverà “resti memoria che indussero all’atto munifico la vigile  influenza di Italo Balbo e l’alto sentimento civile del Presidente senatore Pietro Niccolini.”

Alla inaugurazione sarà presente lo stesso Balbo, venuto appositamente dalla Libia della quale era stato nominato governatore

L’arrivo di Italo Balbo per l’inaugurazione della Palazzina di Marfisa d’Este nel 1938

L’intenzione politica è dichiarata ed esplicita: la Palazzina di Marfisa sarà l’edificio di rappresentanza della Ferrara fascista.

Questo è il quadro nel quale, senza obiezioni, si muove Barbantini . Molto è mutato da quando nei primi anni del Novecento lo studioso inneggiava alla poesia del silenzio. Le mostre veneziane, quella ferrarese del 1933, i rapporti culturali allargati come non era possibile a Ferrara hanno reso attuabile una diversa visione di Ferrara: non più una città morta ma una intellettualmente vivace che rinasce nella continuità con la tradizione estense. Corrisponde a quanto vuole la classe politica che gli affida il compito di creare la dimora rinascimentale di Marfisa.

In quello stesso periodo (1935-1940), il conte Vittorio Cini gli affida il compito del restauro e dell’arredo del Castello di Monselice. Le due operazioni, quasi contemporanee, sono analoghe e collegate fra loro.

Barbantini aveva già dimostrato di sapere ricreare ‘il genio del luogo’. I ferraresi lo avevano riconosciuto nell’allestimento della mostra del 1933 dove l’utilizzo di mobili di antiquariato serviva ad inquadrare i dipinti, a dare in qualche modo al visitatore il senso di partecipazione e coinvolgimento personale; da questo punto di vista ebbe generale ammirazione l’ambientazione del Compianto del Cristo del Mazzoni collocato in un ricostruito scurolo a dare l’impressione di una presenza contemporanea all’evento.

Barbantini non è inventore di un tipo di presenza, numerosi sono gli esempi ai quali può essersi rifatto.

Alfredo D’Andrade, nel 1884, aveva creato a Torino il Borgo Medievale che riassume modi di intervento, convinzioni e convenzioni che varranno almeno sino agli inizi del secolo successivo. Barbantini avrà visto, nel 1918, il sontuoso volume dedicato alla Casa milanese Bagatti Valsecchi, la avrà forse visitata. Ha certo consultato il libro del fotografo Augusto Pedrini dedicato agli ambienti del Rinascimento e agli arredi; un atlante di oltre seicento immagini, un repertorio ricco di suggestioni.

Certo non gli era ignoto il Museo dell’Arredamento di Stupinigi. Avrà visto, nel 1911 all’esposizione per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, varie ricostruzioni di abitazioni. Altri possibili riferimenti confermano come il coordinatore ferrarese si muova entro un ambito largamente frequentato, accolto e riconosciuto.

Nella stessa Ferrara esistevano almeno due esempi di ricreazioni di atmosfere e di recupero del passato. Le statue dei duchi estensi poste di fronte alla cattedrale, invenzione di Agnelli, Giuseppe Maciga mecenate, eseguite, nel 1926, dallo scultore Giacomo Zilocchi. La edificazione medievaleggiante, nel 1924, della Torre della Vittoria ad opera dell’ingegner Carlo Savonuzzi.

È bene avere in mente le indicazioni operative che Barbantini dichiara: valgono sia per la palazzina ferrarese che per il Castello di Monselice.

“Il programma che ha informato il restauro, il concetto di conservare all’edificio tutti i segni nobili della sua lunga esistenza evitando scrupolosamente perfino l’occasione di qualsiasi invenzione ed aggiunta, è stato seguito in somma ed in sostanza, senza eccezioni e senza distrazioni, fino in fondo. Crediamo di potercene lodare.”

E per la Palazzina:

“Il nostro compito era chiaro. Conservata rigorosamente la struttura interna dell’edificio, completato il restauro delle volte, si trattava di praticare alcune opere semplici e alcuni accorgimenti elementari intesi ad ottenere che l’armonia di quella struttura e la vaghezza di quelle decorazioni risultassero e non fossero turbate.”

Bernard Berenson scriverà, parlando della mostra del 1933: “Capii che chi l’aveva allestita doveva essere un ‘conoscitore’ nel senso vero della parola, dotato di un finissimo intuito, di un gusto sobrio, di un occhio sicuro per l’ambientamento dell’opera d’arte.”

Sia a Monselice che a Ferrara, salvaguardata la coerenza delle strutture, è l’allestimento che garantisce l’identità.

Barbantini non ha, né a Monselice né a Ferrara, la preoccupazione di recuperare pezzi un tempo presenti nelle due sedi. La ricreazione di una atmosfera non viene diminuita o condizionata dall’ansia della ricerca storica. Scriverà per la palazzina di Marfisa ma vale anche per il castello di Monselice:

“Questi mobili appartengono quasi tutti al Cinquecento. Nella scelta meditata e rigorosa che ne abbiamo fatta, trascegliendoli fra i più insigni che abbiamo incontrati sul mercato italiano, ci siamo preoccupati oltre che dell’eccellenza di ogni esemplare, della loro conservazione che per tutti o quasi tutti i modelli raccolti possiamo asserire perfetta.”

Sala della Palazzina di Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini
Sala della Palazzina di Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini

Tale comportamento conduce ad un uso disinvolto delle opere acquisite. Faccio alcuni esempi. Per potere utilizzare quattro monumentali cornici “sansovine” vengono inseriti, in tre, “frammenti di più vaste composizioni con episodi di battaglie”: si tace che per fare questo è stata tagliata una copia delle Battaglia delle Amazzoni da Rubens, proveniente, integra, dalla collezione Donà delle Rose. Il Ritratto di Dama, dalla stessa raccolta, è in realtà il ritratto di Livia Martinengo come indicava una legenda, cancellata al momento della collocazione in Marfisa: “Livia Nobilis Matrona Romana Com. Martig. Pudicitia et Pietate Nobilior”. Il Viaggio di Fetonte montato nella volta della sala 6 è copia parziale dell’affresco di Giulio Romano presente in Palazzo Te a Mantova: raffigura il carro del Sole che si avvia al tramonto mentre dalla parte opposta si avvicina la Luna. Il ritratto di Marfisa d’Este, futilmente riconosciuto da Alfonso Lazzari, è stato dovuto restituire a Mantova e sostituito da una copia del pittore Mario Capuzzo: si tratta del probabile ritratto di Louise de Lorraine da un originale di Anthonis Mor.

Nessuna delle opere presenti in Marfisa ha, anche labile, collegamento con l’edificio e con il personaggio. Lo stesso vale anche per il contemporaneo intervento su Monselice.

Una parte delle opere, per ambedue le sedi, ha la stessa provenienza, in particolare dalla collezione Donà delle Rose e da quella Pisa. Alcune seggiole e seggioloni paiono partizione da uno stesso blocco. Le atmosfere da ricostruire sono diverse ma in alcuni momenti vi è coincidenza di soluzioni. Penso alla ricostruzione dello ‘studiolo’ identica in entrambi gli edifici. A Ferrara vi sono state successive recenti e sciagurate modifiche che hanno eliminato il broccatello alle pareti e fatto scomparire calamaio, penna e stoffa, gli arredi del tavolo.

“Un solo ambiente abbiamo creduto necessario tappezzare di broccatello, e cioè la sala ottava, in omaggio alla sua appartata funzione di ‘studiolo’ e al carattere eccezionale del soffitto che la sovrasta.”

Mario Capuzzo, Presunto ritratto di Marfisa d’Este, 1938. Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este

Barbantini è un visionario, progetta per tempi lunghi, proponendo una sintesi di realtà che pensa immutabili e che coincidono con il potere in quel momento presente. È una favola quella che viene narrata nelle sale della Palazzina; una favola che non ha quasi alcun rapporto con la realtà storica.

Un Rinascimento fatto di cortesia e gentilezza, di arte e di bellezza, di poeti ed artisti, di cavalieri e dame.

Barbantini fu un geniale e capace realizzatore di tale impegno. Le sue qualità sono state testimoniate sia dalle esposizioni veneziane che da quella ferrarese del 1933. Programmaticamente una mostra è un momento contingente destinato, per quanto riguarda l’ordinamento, a scomparire; possono restare documentazioni varie ma se ne perde la generale visione.

A Ferrara, dopo il 1933, la Pinacoteca Comunale aveva mantenuto, restituiti gli arredi che la completavano, la sistemazione delle sale; dopo la statizzazione i direttori che si sono succeduti hanno cancellato ogni residua testimonianza: restano solo alcune fotografie d’archivio.

I musei veneziani, da Ca’ Rezzonico al Museo Orientale, hanno mutato allestimento e presentazioni. Lo stesso Castello di Monselice, contemporaneo alla Palazzina e ispirato agli stessi criteri, ha visto spostamento di opere e furti che hanno fortemente modificato quanto realizzato da Barbantini.

L’unico esempio sopravvissuto di un impegno che aveva caratterizzato tutta la sua vita era l’allestimento della Palazzina di Marfisa d’Este. Non a caso Carla di Francesco scriveva “La Palazzina intesa come globalità degli intenti e dei risultati è ormai entrata a far parte della storia del restauro e del gusto, come esemplare – intoccabile ormai – della cultura ferrarese del suo tempo”.

Una Amministrazione attenta e funzionari consapevoli hanno difeso l’assetto tramandato e preservato questo unicum museale, prezioso perché sopravvissuta testimonianza di un’epoca, di un gusto, di criteri e modalità di intervento.

Attenzione che viene meno quando nel 2014 si iniziano a collocare nella Palazzina esposizioni di arte contemporanea. La prima è Lovers, aperta dal 22 maggio al 15 giugno 2014. Inizia un uso continuativo della Palazzina che diviene sede, neutra, di mostre di arte contemporanea: l’allestimento Barbantini non è fatto per coesistere con altro e quindi scompare cancellato dai pannelli per il sostegno dei nuovi materiali: la Palazzina resta chiusa per le fasi di allestimento e disallestimento derivati dal nuovo uso.

Locandina della mostra Aqua Aura, Ferrara, Palazzina di Marfisa d’Este, 2019

Non faccio un elenco delle esposizioni che vi hanno trovato sede; ne ricordo solo qualcheduna a testimoniare un uso infelice e incolto: responsabili gli amministratori e i funzionari che da quella data si sono succeduti sino ad oggi. Apre il 12 novembre 2015 Il manichino e i suoi personaggi, chiuderà il 13 marzo 2016; dal marzo al maggio 2019 Aqua Aura. Paesaggi curvi; XVIII Biennale Donna. Attraverso l’immagine, dal settembre al novembre 2020; Augusto Dolio, Il respiro della natura dal 18 giugno all’11 settembre 2022

A tutto questo corrisponde la bizzarra ipotesi di trasferirvi il Museo Antonioni.

“Siamo fermi ma, in questa immobilità si è fatta strada anche una nuova ipotesi per la sede del Museo [Antonioni], ovvero Palazzina di Marfisa d’Este in corso Giovecca”.

A parlare è Vittorio Sgarbi presidente della Fondazione Ferrara Arte.

A settembre del 2022 la Palazzina è stata chiusa al pubblico per lavori di restauro non chiaramente specificati; comportano la liberazione delle sale e lo spostamento delle opere. Il timore forte e non ingiustificato è che si colga l’occasione per eliminare del tutto l’ordinamento Barbantini.

Penso non sia inutile ricordare che gli arredi, tranne alcune poche eccezioni, sono di proprietà della banca, oggi Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Esiste una convenzione, stipulata il 17 giugno 1941, che ne regola il rapporto con l’Amministrazione Comunale.

“Che la Cassa vuole conservare e conserva in sua proprietà tutto il vero e proprio mobilio, facendone, a puro titolo di deposito da potersi, secondo l’intendimento espresso dalla Cassa, considerare perpetuo, la consegna al Comune, non mai per utilizzazioni pratiche, ma solo per l’esclusivo uso di arredamento artistico della Palazzina, con divieto di rimozione o di trasporto dei mobili in altri edifici o locali, e con l’obbligo della loro buona conservazione. … Nel caso di utilizzazione diversa dall’attuale, che è quella convenuta fra Comune e Cassa di Risparmio, di un signorile appartamento di rappresentanza della città (esclusa quindi la sua utilizzazione in impieghi pratici ed inusuali) che il Comune intendesse di dare alla Palazzina, ovvero a qualche locale della medesima, i mobili, quadri, sopramobili, ecc. di proprietà della Cassa che adornano i locali stessi, saranno restituiti alla Cassa proprietaria.”

Dovrebbe essere inutile, ma non lo è, segnalare che una convenzione o la si attua o la si muta: non si può far finta di niente.

È quanto è accaduto: la Palazzina non è più la sede di rappresentanza della città. Non si capisce per quali ragioni la banca proprietaria non faccia valere i suoi diritti.

Una Amministrazione disattenta e funzionari inadeguati hanno commesso e continuano a commettere due errori che non sono solo di metodo.

Il primo è non aver capito che la Palazzina era il perno per il riconoscimento della Ferrara estense. Una volta accolta l’ipotesi, riduttiva e, a mio parere, sbagliata, che la storia della città si chiudeva nei due secoli del vicariato estense, era d’obbligo enfatizzare le presenze che guidavano a quella lettura. La Palazzina era stata creata con questo scopo; non averlo inteso fa molto dubitare sia delle capacità politiche che di quelle professionali di amministratori e addetti.

Il secondo è, avendo cancellato la Palazzina, avere rinunciato a possibili finanziamenti e promozioni, ad ogni aggancio con le istituzioni che operano nel settore.

Stupisce che non ci si sia resi conto che l’ICOM ha una sezione dedicata alle dimore storiche, DEMHIST, che consente di mettere in rete e di fruire della promozione complessiva, canale per ottenere finanziamenti e per partecipare a programmi specifici.

L’inserimento negli elenchi vale anche per “case che non sono mai state abitate perché ‘costruite’ (o allestite) apposta per essere musei: cioè costruzioni di ambienti dedicati a spiegare come viveva una fascia della società in un certo luogo in un determinato periodo storico”.

Stupisce che non vi sia stato accesso a quanto previsto dalla Legge Regionale 10 febbraio 2022 n. 2, la quale prevede, in particolare all’art. 5, una serie di contributi a sostegno sia degli interventi di manutenzione e restauro sia per opere di valorizzazione.

Stupisce altresì che la Ferrariae Decus, alla quale va il merito dei primi interventi e una continua attenzione, sia restata e resti inerte di fronte alla distruzione di quella Palazzina il cui ripristino è stato tanta parte della storia della associazione.

Nota:
Questo saggio di Ranieri Varese uscirà nel 2025 su Artes, la rivista diretta da Luisa Giordan dell’Università di Pavia, nel primo numero della nuova serie.

In copertina: Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini.

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I lati oscuri di una intelligenza artificiale “neoliberista”

I lati oscuri di una intelligenza artificiale “neoliberista”

E’ sempre più evidente come una delle “rivoluzioni” in corso è quella prodotta dall’uso sempre più massiccio e invasivo dell’Intelligenza Artificiale. In queste brevi righe mi interessa mettere in luce alcuni aspetti inquietanti che si stanno rivelando ad un occhio un po’ attento e non superficiale.
Non lo faccio per sminuire il valore che potrebbe avere l’utilizzo e, ancor prima, la progettazione di questa tecnologia, quanto per far emergere come la gran parte dei sistemi di intelligenza artificiale, in particolare quelli che vengono figliati dai GAFAM, i giganti hi-tech (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), presentino gravi “lati oscuri” e forti rischi per l’idea di società che incorporano e che propongono.

Sam Backman- Fried è un imprenditore statunitense, conosciuto soprattutto per aver fondato FTX, una delle più grandi piattaforme di scambio di criptovalute al mondo, e Alameda Research, una società di compravendita di strumenti finanziari, come azioni, valute, criptovalute, obbligazioni, derivati, ecc.
Nel novembre 2022, FTX ha affrontato una grave crisi di liquidità, che ha portato alla sua bancarotta. Indagini successive hanno rivelato che Bankman-Fried aveva utilizzato indebitamente fondi dei clienti di FTX per coprire le perdite di Alameda Research.
Un comportamento illegale e un reato grave, tant’è che è stato arrestato e condannato a 25 anni di carcere e gli è stato ordinato di restituire oltre 11 miliardi di dollari.

Ebbene, qualche giorno fa è uscito uno studio di Bankitalia che ha approfondito il comportamento di dodici modelli di intelligenza artificiale che dovevano affrontare la situazione in cui si era trovato Sam Backman-Fried, ovvero quello di essere a capo di una società di trading con forti perdite, situazione che ha deciso di “risolvere” illegalmente utilizzando i fondi dei clienti.
Solo uno dei dodici modelli di IA si è rifiutato di
prendere i fondi dei clienti, due lo hanno fatto in parte e i restanti nove hanno agito esattamente come l’imprenditore fraudolento.

Alcuni commentatori hanno concluso che, quindi, rimane la necessità di una supervisione umana sui comportamenti dei sistemi di IA.
A me pare che siamo di fronte a qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la progettazione e le istruzioni che sono state fornite ai sistemi di IA.
Oltre al fatto che, nella maggior parte dei casi, esse non sono pubbliche e conosciute solo dai progettisti, risulta sufficientemente chiaro che l’obiettivo che è stato assegnato, appunto fin dalla fase di progettazione, è quello della massimizzazione dei profitti e, in ogni caso, della salvaguardia degli interessi aziendali. E questo, anche se questo può significare mettere in campo scelte lesive, e persino perseguibili penalmente, nei confronti delle persone.

Siamo in presenza, cioè, di un’intelligenza artificiale “neoliberista”, perché è stata concepita per introiettare quella finalità, si potrebbe quasi dire quell’ “ideologia”.

Apparentemente potrà sembrare di saltare di palo in frasca, guardare poi a cosa sta producendo il ricorso spinto dell’attuale modello di IA dal punto di vista del consumo energetico. L’Irlanda è nota per essere sostanzialmente diventata una sorta di “paradiso fiscale” per le aziende hi-tech, visto che applica ad esse un prelievo fiscale assolutamente basso, diventando così molto attrattiva per il loro insediamento e anche per i grandi data center che costituiscono un elemento essenziale per la loro crescita. Ora, nel 2023 i data center presenti in Irlanda hanno consumato il 21% dell’elettricità totale del Paese (nel 2015 era il 5%), superando, per la prima volta, il consumo delle abitazioni urbane, che, sempre nel 2023, si è attestato al 18%. L’Irlanda rappresenta solo la “punta di diamante” di una tendenza che, ormai, si sta affermando a livello globale.

L’ International Energy Agency (IEA) – l’autorità energetica mondiale di cui anche l’Italia è membro –  prevede che il consumo globale di elettricità dei data center raddoppierà entro il 2030, passando da circa 415 TWh nel 2024 a 945 Twh, circa 3 volte tanto il consumo elettrico totale dell’Italia.
Questi dati già indicano come, proseguendo su questa strada, la possibilità di raggiungere la neutralità carbonica e di contrastare il cambiamento climatico si allontana ulteriormente, evidenziando
l’insostenibilità ambientale degli attuali modelli di IA. Non solo: il gigantismo degli investimenti e degli insediamenti delle grandi aziende hi-tech, che guardano, in primo luogo, a conservare la propria posizione di oligopolio, si porta dietro il fatto che le stesse tendono ad effettuare investimenti in impianti che producono energia, a loro volta di grandi dimensioni e centralizzati. Replicando esattamente lo scheletro su cui è costruita la struttura energetica del fossile e fonti che non si discostano da essa. Non a caso, negli ultimi mesi, Microsoft ha deciso di investire nella centrale nucleare di Three Miles Island (quella tristemente famosa per il grave incidente verificatosi nel 1979), mentre Google e Amazon puntano a sviluppare piccole centrali nucleari.

Potrei andare avanti su altri “lati oscuri” dell’IA attuale, ragionando sul modello di lavoro intrinseco in essa, che tende a polarizzare sempre più tra un nucleo ristretto di lavoro altamente qualificato e una massa considerevole di lavoro ripetitivo e svalorizzato, quello che serve per rendere utilizzabili i dati e che viene svolto da forza lavoro sfruttata, per lo più collocata nei Paesi poveri del mondo.
Oppure analizzando la possibilità di manipolazione delle opinioni che può originare dalla stessa (un recente inquietante studio del Politecnico Federale di Losanna ha mostrato che GPT-4, se in possesso dei dati personali della persona con cui interagisce, è risultato più persuasiva del 64% rispetto agli esseri umani nel far cambiare opinione agli interlocutori). Fatto che ci riporta, peraltro, vista la stretta connessione tra sviluppo dell’AI e oligopolio hi-tech, al “ peccato originale”, di sistema, di utilizzare i dati degli utenti per finalità commerciali e di ricerca del profitto, ciò che ha fatto dire a molti studiosi che, nel mondo delle piattaforme, “la merce siamo noi”.

E’ facile concludere che lo sviluppo tecnologico trainato da grandi soggetti privati non è per nulla neutrale, che, in realtà, esso è ideologicamente orientato, strutturalmente opaco e non trasparente, ecologicamente insostenibile, socialmente ingiusto.
Siamo in presenza di un meccanismo di dominio, su cui scommette un nuovo tecno-capitalismo, con venature di carattere feudale, che, non a caso, si trasferisce in un’idea della politica basata unicamente sui rapporti di forza. A ben vedere, qui sta, pur con diverse contraddizioni, la saldatura tra grandi colossi tecnologici e trumpismo.

Eppure, non solo si può sostenere che sarebbe possibile indicare e realizzare altre finalità e modalità progettuali per lo sviluppo tecnologico, al di fuori del paradigma capitalistico, ma che questo è già un dato di realtà. Ce lo dice la vicenda di DeepSeek, startup cinese di intelligenza artificiale fondata nel 2023. Intanto DeepSeek funziona sulla base di un sistema open source, ovvero chiunque può modificare il codice sorgente, che è quello che usano i programmatori/sviluppatori per dare le istruzioni al sistema, rendendo così questo modello di IA potenzialmente pubblico e trasparente (uso l’avverbio potenzialmente perché il governo cinese usa poi metodi più sofisticati per controllare, almeno all’interno della Cina, il funzionamento di DeepSeek). In ogni caso, un approccio totalmente diverso, se non addirittura opposto alla segretezza di cui si avvalgono i programmi elaborati per le IA figliate dalle grandi aziende hi tech.
In più, DeepSeek utilizza molti meno chip (circa 2000 rispetto ai più dei 10.000 degli altri modelli) e, anche per questo, ha un consumo energetico tra il 50 e il 75% inferiore a quello delle altre IA. Per stare solo alla fase di addestramento, ad esempio, GPT-4 ha un impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2, circa 12 volte superiore a quello di DeepSeek.
Infine – ma non è un particolare secondario, visto che quest’annuncio ha mandato in crisi le borse americane- l’IA cinese è costata circa 6 milioni $ rispetto ai 100 e più milioni $ dei modelli occidentali.

Insomma, siamo in presenza di un’alternativa reale e credibile, che si può generalizzare, e che mette in discussione la presunta neutralità della tecnologia che è coerente con un’idea di “sviluppo” trainato dal profitto, con quel che ne consegue in termini di sfruttamento del lavoro, depredazione dell’ambiente, primato della finanza.

A noi, invece, spetta trarre le conclusioni adeguate.

In copertina: Foto di Nicky ❤️🌿🐞🌿❤️ da Pixabay

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Vite di carta /
“Poveri a noi” di Elvio Carrieri al Premio Strega

Vite di carta. “Poveri a noi” di Elvio Carrieri al Premio Strega

Dunque Poveri a noi, romanzo d’esordio di Elvio Carrieri, è entrato nella dozzina del libri semifinalisti allo Strega 2025. L’ho finito due mattine fa e l’ho lasciato decantare, come per prendere fiato dopo un’aggressione verbale.

Dunque l’ha scritto un ragazzo di vent’anni e ci ha messo dentro un’amicizia, la città di Bari, il dialetto barese, una architettura. Questi gli ingredienti che elenca a chi gli chiede che romanzo sia Poveri a noi.

vite di carta elvio carrieri poveri a noiVediamoli con ordine. Gli amici che si frequentano da vent’anni sono Libero, che a ventinove anni insegna Letteratura Italiana nel carcere di Bari, e Felice detto Plinio,  ancora bloccato al corso di laurea in Filologia per un esame che non riesce a superare.

Nel cortile della scuola media Felice a undici anni è stato picchiato violentemente da alcuni compagni e Libero non ha fatto nulla per aiutarlo. Il senso di colpa per non essere intervenuto lo corrode negli anni che seguono e anche ora invade il suo presente e il ruolo di narratore che si è dato nel libro.

Una memoria intermittente su quella violenza gli buca il sonno ancora dopo tanto tempo e gli procura incubi.

I due si muovono per le strade di Bari come due Demosteni e tranciano giudizi sui palazzi e sui figuri che popolano i vicoli, sapendo che la loro sagacia linguistica li eleva sopra i comuni cittadini. Anche nel locale che frequentano, mentre conversano sul Satyricon petroniano, sanno di essere riconosciuti per quel loro “bias comportamentale”.

Che lingua parlano i due snob? Usano il barese: seguendo il filo lessicale dei sottotitoli ai nove capitoli si incappa in altrettante parole chiave della Weltanshauung del capoluogo pugliese. Certo, lo mescolano con l’italiano colto e col gergo generazionale, lo infarciscono di riferimenti letterari.

Basti l’esempio del primo capitolo: dopo il titolo altisonante ecco una parola che viene dal profondo del barese e inchioda un tipo umano, altre volte bolla una costante del comportamento umano. Il capitolo titola Lottatori e contemplatori (Felice e Libero è intuibile che appartengano al secondo gruppo) e ha per sottotitolo Trmón, che è lo stigma dialettale con cui i due sono chiamati dai cozzari dei vicoli, sempre pronti a venire alle mani, e sta per imbranati. A Firenze si direbbe che sono dei bischeri, a Milano dei pirla.

Resta la città con la sua architettura: il narratore ne parla con la stessa ambivalenza con cui Carrieri si rapporta a Bari, dove è nato. Con amore per la sua bellezza e con odio per l’ambiguità corrotta di certa sua politica. Dunque camminando lungo la Via Sparano Libero (sarà giunto il momento di definirlo l’alter ego dell’autore) ammira l’eleganza di certi palazzi e si indigna pensando a tutti quelli che nel dopoguerra sono stati abbattuti per far posto a palazzoni più alti e senza bellezza.

Come lettrice aggiungo un quinto tema che nel libro occupa un discreto spazio, il contrasto tra città e paese. Letizia, la psicologa di cui Libero si innamora, è nata in un paese della Valle D’Itria e la sua paesanità a lui sembra un peccato originale difficile da emendare, specie se lascia tracce nell’accento con cui Letizia gli si rivolge chiamandolo Prfssò.

Letizia sembra eccellere, tuttavia, quando veste i panni della psicologa e inquadra dentro i nomi giusti il rapporto labile che Libero ha con il padre, fuggito all’estero quando lui aveva quindici anni. Ci sa fare Letizia, sa dare consigli e si muove con spirito pratico nella quotidianità.

vite di carta la coscienza di zeno italo svevoIl suo riscatto consiste però nel fatto che sta imparando a parlare il dialetto barese. Di Plinio, quando fa la sua conoscenza, dice con arguzia che è un priso, vale a dire un “inetto alla praticità del vivere” e anche Libero, per quella sua attitudine a pensare troppo, un po’ priso è.

Ho sentito una lettrice su Youtube avvicinare questo romanzo a La coscienza di Zeno di Italo Svevo, per il rapporto conflittuale che entrambi i protagonisti hanno con la propria coscienza. E anche per il senso di inadeguatezza con cui vivono, che li rende narratori inaffidabili quando raccontano di sé senza un ordine cronologico.

Penso che no, non siano gli stessi i presupposti della scrittura di Carrieri. Poveri a noi è un libro che punta sulla lingua e ne fa la protagonista, rinunciando a una trama che abbia consistenza e capacità attrattiva. Semmai ripropone la fiacchezza esistenziale di certa narrativa postmoderna e nel farlo si appoggia a uno scoperto citazionismo.

Nota bibliografica:

  • Elvio Carrieri, Poveri a noi, Ventanas, 2024
  • Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Cappelli, 1923

Cover: immagine di Bari tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Esiste una terza via tra Liberismo e Protezionismo?

Esiste una terza via tra Liberismo e Protezionismo?

Premetto che i politici che mi piacciono sono quelli che testimoniano con il proprio stile di vita i valori e le idee in cui dicono di credere. Bepe Mujica, presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, devolse il 90% del suo stipendio ai poveri e Olof Palme, primo ministro svedese (socialdemocratico), che incontrai nel 1985 (un anno prima che fosse ammazzato perché girava senza scorta), andò a pranzo con noi italiani in visita col bus.

Politici che non si fanno strapagare, che servono i propri cittadini e che non rubano. Già questo può far capire perché non mi piace Trump che, alzando e poi abbassando i dazi in pochi giorni, ha usato il potere per arricchire suoi amici (e forse sé stesso).

Ma non sono così sciocco da criticare Trump sulla base di fatti personali, perché mi interessa capire la sua politica. Alcuni analisti avevano spiegato perché l’America fosse in difficoltà, mentre il mainstream li magnificava. Trump sa di queste difficoltà e la sua politica (dai dazi alle guerre in corso) origina dalle debolezze cresciute proprio per via della globalizzazione voluta dagli stessi americani neocon (neoconservatori repubblicani) ma sostenuta pienamente anche dai democratici.

Gli Stati Uniti hanno il più grande deficit commerciale al mondo e il debito pubblico (36.860 miliardi di dollari) è maggiore di quello dell’Italia; il deficit annuo era zero nel 2001, nel 2024 è di 1.830 miliardi. È l’effetto della distruzione della manifattura americana che ha prodotto una disgregazione sociale senza precedenti.

Dall’entrata in vigore del WTO (2001) e poi del NAFTA (2008) gli Stati Uniti hanno perso più di 90mila fabbriche, le disuguaglianze sono salite alle stelle al punto che il 63% degli americani non è in grado di far fronte ad una spesa imprevista di 500 dollari. Le aree deindustrializzate della Rust Belt hanno visto abbassarsi di 4-5 anni la speranza di vita di milioni di ex lavoratori licenziati e i morti per droga sono saliti da 36mila del 2008 a 107mila nel 2023.

A questi dati (occultati per anni), il mainstream magnificava l’andamento del Pil, l’enorme aumento della capitalizzazione di borsa, dei profitti e gli 870 miliardari (record assoluto) raggiunti nel 2024.
Frutti del libero scambio e della globalizzazione a cui molti vogliono tornare prima possibile, facendo il tifo per Wall Street affinché “la realtà e la finanza facciano capire a questo bullo come stanno le cose”.

La globalizzazione ha un aspetto finanziario molto rilevante, che qui non posso approfondire, ma rammento solo che da tempo “guida e condiziona” tutta la manifattura e in Italia il recente risiko bancario ha creato 5 miliardi di plusvalenze a favore dei big della finanza (Delfin eredi Del Vecchio che hanno pagato una miseria di imposta di successione, Caltagirone, Mediobanca, Benetton,…). Non è quindi strano che molti laureati in matematica e fisica lavorino più nella finanza che non nella manifattura.

La globalizzazione ha favorito, oltre ai processi di finanziarizzazione, quelli di delocalizzazione delle manifatture creando filiere (fornitori) lontanissimi su scala mondiale alla ricerca del massimo profitto. I gamberetti pescati e precotti nel Mare del Nord vengono inviati per camion in Marocco per essere sgusciati, poi sono rispediti in Olanda per essere confezionati e infine venduti in Germania dopo 13 giorni e aver compiuto 6.500 km.

Le auto assemblate in Germania hanno telai provenienti dalla Polonia, airbag dal Giappone, sedili dalla Tunisia e chip elettronici da Taiwan, per citare solo alcuni degli oltre 30 fornitori in media che compongono oggi un’auto. Vale per tutto, anche per i nostri jeans il cui cotone è acquistato in Usa, poi filato in India, ma spedito in Cina per essere tagliato su misura con una tintura che arriva dal Brasile e con bottoni metallici dalla Namibia, prima di salpare su container per l’Europa.

È sulla base di questa logica liberista, assunta pienamente anche dall’Europa, che non c’è mai stata una politica industriale, secondo la teoria che il libero mercato è sufficiente da solo a creare sviluppo e benessere. Dopo 25 anni ci si è accorti che non è vero, che a guadagnarci è una ristretta élite contro la maggioranza fatta di famiglie comuni e operai frantumati e sotto pagati.

L’imprenditore Silvagni di Valleverde (e altri marchi italiani) vende scarpe per 30 milioni nel 2024. Ogni anno i ricavi calano e si accentua il declino (come quello di tutta la manifattura in Italia ed Europa e non solo in America), erosa da una concorrenza sleale. Vediamo perché.

Le scarpe che importiamo (per esempio dagli Stati Uniti) vengono realizzate in paesi terzi con manodopera sfruttata e salari inaccettabili, non dico in Europa ma negli stessi paesi terzi, se solo ci fosse un sindacato.

Silvagni propone dazi del 20% se gli Stati Uniti proseguono a fare le scarpe in paesi terzi (Vietnam, Bangladesh, Indonesia) che poi esportano (finto made in Usa) in Europa. Se invece sono fatte in Usa Silvagni dice che è giusto che non ci siano dazi. Le scarpe importate dalla Cina in Italia hanno oggi un dazio del 17% se di materiale sintetico e del 4% con pelle (idem dall’India). Sono dazi giusti e nessuno li ha mai contestati.

L’Unione Europea ha proposto di far pagare 2 euro per ogni pacco low cost on line che arriva in UE (4,6 miliardi di pacchi) spesso dalle piattaforme Temu e Shein della Cina) sotto i 150 euro, per sostenere i costi doganali aggiuntivi e ambientali.

Se fossimo per il libero scambio dovremmo abolirli? E cosa facciamo con le scarpe che ora la Cina delocalizzerà in paesi poveri che non pagano dazi in Italia? Oggi poi col dollaro che si è svalutato sull’euro del 10% le importazioni sono ancora più minacciose.

Per Silvagni sono politiche inaccettabili che lentamente distruggono le nostre manifatture, il nostro saper fare, esattamente come sta avvenendo per la chimica. Chi può dargli torto? Come si vede la questione dazi è un tantino più complessa del si o no ai dazi di Trump e del “w il libero scambio”.

Ce la prendiamo (giustamente) con Eni che ha chiuso il cracking di Marghera, recando un danno incalcolabile alle altre imprese chimiche che usavano quella materia prima e ad altre fabbriche non chimiche. Ma Eni ed altre imprese, controllate dallo stesso Stato italiano, o Hera dai Comuni, seguono la logica neo liberista del massimo profitto.

ENI ha chiuso il cracking di Marghera perché quel ramo produttivo era in deficit. ENI (che ha fatto 6,4 miliardi di utile nel 2024) risponde solo ai suoi azionisti che vogliono un dividendo sempre più alto e se ne infischiano di operai e altre imprese o dell’ambiente.

Certo lo Stato sarebbe potuto intervenire. Ma chi mai si è occupato di politica industriale in Italia da 20 anni o di difesa della nostra manifattura? Forse Bersani e pochi altri. E ciò spiega perché le imprese non investono in Ricerca (in Italia è la più bassa in rapporto al Pil) tra tutti i paesi Ocse.

Ma altrettanto dicasi per gli investimenti. La borsa spinge a fare profitti a breve ed è su questo che sono valutati i Ceo (Adriano Olivetti è lontano). Non stupisce quindi che anche in Europa (e in Italia) la manifattura soffra come in America. Ma là c’è Trump che sta facendo il diavolo a quattro per raddrizzare la barca e, mentre noi lo irridiamo, le nostre barchine manifatturiere affondano.

La manifattura italiana è in calo da 26 mesi consecutivi: chi ne parla? idem del disastro a cui è avviata la nostra gloriosa chimica che ha avuto l’unico premio Nobel in Europa per la chimica proprio a Ferrara con Natta.

Come rafforzare le manifatture, le produzioni reali e creare campioni italiani ed europei che contrastino lo strapotere delle multinazionali americane (e cinesi) in alcuni settori? Più che parlare male di Elon Musk, sarebbe meglio avviare una politica industriale per competere con gli 8mila satelliti di Starlink o con i big tech, ma pare che l’obiettivo sia vincere la guerra con la Russia (sic!).

Nella storia della politica e dell’economia i progressisti si sono sempre battuti per avvicinare i luoghi di produzione ai luoghi di consumo. Prima di tutto per ragioni ambientali. L’attuale sistema economico liberista è tossico e sta seppellendo il pianeta sotto un mare di traffico e di consumi usa e getta.

Chi paga gli sversamenti in mare delle navi porta container? Chi la manutenzione dei mille camion che percorrono ogni giorno la strada da Ostellato a Ferrara e tutte le altre strade del mondo consumate dai tir, che hanno sostituito i magazzini sui piazzali delle fabbriche con un magazzino che viaggia incessantemente 24 ore su 24 sui camion e sulle navi da quando i giapponesi hanno inventato il just in time e l’americano McLean i container?

Ma c’è anche una ragione legata all’occupazione, al saper fare dei popoli e ai salari più alti quando i fornitori sono in casa tua o nei paesi vicini. Il prezzo da pagare è una minore innovazione, ma non sempre l’innovazione si traduce in benessere (lo vediamo con gli smartphone per i giovani) ed è saggio testare le innovazioni per un tempo minimo a dare garanzie ai clienti prima di immetterle sul mercato (oggi le auto sono collaudate dai clienti!), anche se questo comporta meno profitto.

Se ciò avvenisse ci sarebbero prodotti più sicuri, meno disuguaglianze, meno inquinamento, maggiore tenuta delle comunità e più sviluppo umano, specie se si introducono accordi con i paesi di importazione (dove il costo del lavoro è minore) che impongono salari dignitosi (minimi) e congrui al reale valore che i lavoratori producono.

Ma c’è anche un aspetto che riguarda gli squilibri commerciali che aveva già osservato Keynes. Una logica di neo-liberismo porta a puntare tutto sull’export e trascurare la crescita della Domanda interna (Consumi + Investimenti + Spesa Pubblica) e di conseguenza i veri bisogni delle persone, il welfare, che nell’istruzione e sanità non sono solo “costi” ma investimenti e servizi vendibili e formazione di cui abbisognano i nostri giovani e le imprese. Domanda interna significa anche investire nella ricerca e nelle infrastrutture che sostengono la competitività delle imprese e nella sicurezza dei territori e delle persone.

Negli anni ’80 e ’90 si sviluppò un grande movimento mondiale di sinistra e sindacale che lottava contro il libero scambio senza regole, oggi questa cultura è stata assunta dalla destra nazionalista (e il sindacato appoggia Trump), mentre il centro-sinistra par volere acriticamente il libero scambio e fa il tifo per Wall Street, un vero paradosso.

Peraltro disporre di una propria manifattura non è solo funzionale a conservare e sviluppare propri saperi e tecnologie con un’occupazione ben pagata, ma significa anche sicurezza energetica, sanitaria (vedi Covid), agro-alimentare e militare, come ha spiegato il Pentagono a Biden nel 2023 (non avevano più munizioni…).

Un altro protezionismo (differente da quello di Trump) è quindi possibile, o se si vuole, un altro liberismo regolato è possibile rispetto a quello deregolato a cui abbiamo assistito e che molti vorrebbero ripristinare sic et simpliciter.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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