Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel
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Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Due nuovi ospiti al Pontalba Hotel
Il mattino seguente mi alzai più tranquillo. La notta mi aveva aiutato a decidere che le volpi verdi non esistono. Conclusi che il giorno prima mi ero lasciato suggestionare dalla particolarità di quel luogo e dalla stanchezza che provavo. Come aveva detto Camilla “le volpi di quel colore non esistono fino a prova contraria” e io non avevo alcuna prova contraria.
La sera prima, davanti alla pizzeria, mi era sembrato di vedere qualcosa di verde muoversi, come se un piccolo animale mi stesse seguendo, ma sicuramente era autosuggestione. Mi ero fatto impressionare da quei racconti al punto da vedere ciò che non esiste. Una volpe verde che mi seguiva per il paese non era credibile, men che meno da uno come me.
Ero cresciuto in una famiglia di contadini dove si lavorava quotidianamente nei campi e dove tutti erano convinti che la verità è materiale e tangibile come la terra che si coltiva. La puoi toccare, vedere, è sempre uguale a sé stessa, con la terra ti puoi sporcare, divertire, ci puoi fare mattoni e opere d’arte, la puoi sfruttare e guadagnarci soldi. Sta sempre lì, quasi impossibile da spostare, praticamente impossibile da eliminare. La terra è rigorosamente materia dotata di una persistenza e di una inconfutabilità sorprendente, lei c’è.
Ancorato ad una definizione di realtà di quel tipo mi agitava non poco prendere in considerazione l’idea che potessero esistere animali con caratteristiche che nessuno conosceva, ad esempio con il manto verde. Mi dissi che se anche una volpe di quel colore fosse stata davvero avvistata, la spiegazione era terrena e al fenomeno non si dovevano riconoscere attributi di eccessiva stranezza, se non di surrealtà. L’animale si doveva essere strusciato in un’erba gli aveva colorato il manto. Magari, nel frattempo, aveva fatto un bel bagno sotto la pioggia o in un canale e il suo manto era tornato rossiccio. Quello che mi era parso di vedere la sera prima non c’era, era solo autosuggestione.
***
Rincuorato scesi nella hall del Pontalba Hotel. Vidi Erika con le sue labbra rosso fuoco e le chiesi un cappuccio. Presi un piatto e vi misi due fette biscottate, della marmellata all’albicocca, una brioche e una banana. Così avrei preso due piccioni con una fava: la cena precedente che non avevo potuto consumare, il rimborso spese del giornale che comprendeva vitto e alloggio.
Mentre aspettavo il cappuccio chiesi a Erika se conosceva erbe che macchiavano di verde in maniera persistente e lei mi rispose che una di queste era la lavanda selvatica. Ecco svelato l’arcano. Una volpe si era strusciata nella lavanda e il suo manto era rimasto macchiato di verde. L’agitazione, il dolore, la suggestione e l’imprevedibilità della morte della Contessa aveva fatto il resto.
Forse potevo cominciare a scrivere l’articolo per Tresciaone, demolendo la teoria sulla possibile esistenza delle volpi verdi e concentrandomi sulle caratteristiche delle erbe che macchiano in maniera persistente. ‘Giusto, faccio proprio così’ pensai. Un po’ per la fame accumulata che mi fece sembrare tutto appetibile e un po’ per la frenesia scatenata dall’illuminazione creativa che mi avrebbe permesso di scrivere l’articolo per il giornale, finii la colazione velocemente.
Risalii nella mia stanza, aprii la valigia dove il mio pc dormiva nella sua custodia ormai da due giorni. Cosa strana per un giornalista e ancora più per me. Il pc era un prolungamento delle mie mani. Mi permetteva di scrivere velocemente, di cambiare le frasi e correggerle più volte, di impaginare gli articoli, di aggiungere immagini. Un supporto tecnologico importante per chiunque scriva, per me imprescindibile.
La mia esperienza di reporter girovago aveva fatto sì che riducessi all’essenziale ciò che mi dovevo portare appresso nelle trasferte, operando una minuziosa cernita di ogni oggetto utile. Così nella mia valigia c’era sempre il portafoglio, il pc e il telefono, diverse paia di mutande e calze, un maglione e un paio di jeans di riserva, il necessario per la doccia e per farmi la barba, tre pacchetti di fazzoletti di carta una bottiglietta d’acqua, una barretta di cioccolato.
A volte anche una mela. Due spille, una grande e una piccola, un ago, filo e due bottoni, cerotti e un analgesico generico che andava bene un po’ per tutto. Con quell’equipaggiamento me ne andavo in giro ovunque, con l’impressione di avere con me tutto il necessario per sopravvivere. Questo aumentava la sicurezza negli spostamenti e la facilità del riadattamento continuo a nuovi ambienti.
Presi il pc lo estrassi dalla sua custodia blu, lo accesi e aprii una pagina bianca di world. “La morte della contessa Maria Augusta. Aggiornamento da Pontalba” scrissi. Titolo standard, niente stranezze. L’articolo non doveva essere un trafiletto ma riempire mezza pagina del giornale. Quindi potevo prendermela comoda prima di arrivare all’essenziale.
Guardai fuori dalla finestra, c’era ancora la nebbia. Come il giorno prima, una coltre di umidità bianca avvolgeva tutto il paesaggio, rendendo le poche forme visibili sfuocate. Una visione particolare, adatta ai sostenitori dell’esistenza dei fantasmi. Alcuni alberi con i loro magri tronchi e le foglie che si intravedevano qua e là in mezzo al bianco, sembravano proprio dei fantasmi capitati in quel paese alla ricerca del senso della loro presenza.
Come se fossero esistenze in cerca di una solidità, degli esseri fluttuanti con poca personalità e con una veridicità senza rigore. Ecco, gli alberi di Pontalba, immersi nella nebbia, mi facevano esattamente quell’impressione. Dei fantasmi in cerca di un senso del loro esistere, capitati per caso in quel mattino opaco.
***
Riguardai lo schermo del PC, il titolo dell’articolo era lì in attesa. Mi misi al lavoro. “Come già scritto su questo giornale, due mesi fa è morta la contessa Maria Augusta di Pontalba. Molto conosciuta in paese per le sue opere caritatevoli, è stata trovata morta nel suo letto dalla cameriera. Eventi inspiegabili sono associati alla sua dipartita. Si racconta che il mattino in cui è stato rinvenuto il cadavere, il cielo sopra villa Cenaroli, la residenza abituale della contessa, sia diventato verde e che una volpe dello stesso colore sia uscita dalla sua tomba il giorno dell’inumazione.”
Qui mi fermai, cosa aggiungere per ora? Mi tornò in mente Costanza del Re e la strana insistenza con cui alcune persone di Pontalba mi avevano suggerito di parlare con lei della morte della contessa. La giovane donna era infatti amica di Malù, la figlia della defunta. L’avevo incontrata il giorno prima nel negozio di Camilla, l’avrei rivista nel pomeriggio. Una ragazza intorno ai venticinque anni, alta, con dei lunghi capelli neri e gli occhi verdi, delle mani con le dita affusolate. Bella sicuramente, ma non credo fosse quello il motivo per cui mi era stato suggerito di parlare con lei.
Che fare ora? Prima di continuare a scrivere era meglio incontrarla. Spensi in PC e lascia vagare lo sguardo verso i campi. Il verde stava prendendo il sopravvento sul bianco della nebbia. Campi di frumento alto circa dieci centimetri si estendevano a perdita d’occhio da dietro l’albergo fin dove si vedeva il campanile di Santa Capellina. Tutto verde anche lì.
Mi sorpresi a pensare che il verde era il colore dominante di quel paese. In qualche modo lo definiva. Verdi i campi, gli alberi, l’acqua del Lungone, l’abbigliamento delle ragazze, il cielo. Verdi le rane, i ricci delle castagne, le piante di patate coltivate negli orti, le barbe delle rape, il trifoglio. Ecco cosa mi piaceva davvero di quel posto, il suo colore. Un paese verde.
Di solito nella psicologia dei colori, il verde rappresenta l’equilibrio e l’armonia tra la mente, il corpo e l’io emotivo. Si trova al centro dello spettro cromatico e l’occhio non fa alcuna fatica ad individuarlo, rendendolo un colore riposante. Questa sua caratteristica dipende anche dalla sua tonalità e intensità. Curioso. Un colore riposante. Ecco perché le camere operatorie sono verdi così come gli abbigliamenti dei chirurghi. È un colore che non stanca gli occhi, lasciandoli liberi di concentrarsi sulle difficili operazioni che si svolgono su un tavolo operatorio.
Io però non ero un chirurgo ma un povero giornalista di cronaca nera, che di solito veniva mandato a vedere morti, cimiteri, obitori, ospedali, camere mortuarie. Oppure a parlare con avvocati, legali, familiari, testimoni più o meno disponibili e più o meno affidabili. Qualche volta mi sono anche capitate delle morti con strani fenomeni associati, come in quel caso.
***
Ricordo che mi alzai dalla sedia su cui ero seduto, misi in bocca una caramella alla liquirizia e aprii la porta finestra che dava sul balcone della mia camera d’albergo. Uscii e chiamai il mio capo che, per nulla contento del fatto che l’articolo non fosse ancora arrivato in redazione, mi diede dello scansafatiche, dimenticandosi che io ero uno dei suoi migliori reporter e che non poteva permettersi di perdermi, perché avrebbe fatto fatica a trovare un sostituto altrettanto esperto e adattabile, pagandolo quanto pagava me, poco più di un qualunque impiegato.
Il trattamento economico era ingiusto, ma a me serviva quel lavoro e non avevo voglia di cambiarlo. Lui, il grand’uomo di larghe vedute che si professava equo e integerrimo, lo sapeva e ne approfittava. Una storia vecchia come il mondo che posso condividere con molti colleghi. Uno scandalo senza tempo che contraddice qualunque intento di equità professionale.
Aldilà di questo, il mio lavoro mi piaceva. Allora ero giovane e avevo ancora la presunzione di esser utile al progresso dell’umanità. Pensavo di avere un forte fiuto per la cronaca nera che mi avrebbe permesso di diventare il reporter più letto d’Italia. Certo il successo di un giornalista dipende anche dalla qualità del giornale che pubblica i suoi articoli, dalla pagina in cui compaiono, dal giorno in cui vengono pubblicati. È evidente che gli articoli pubblicati di domenica sono molto più letti di quelli pubblicati di lunedì o martedì. Ma tant’è, ero contento lo stesso.
Guardai nel cortile dell’albergo e vidi Erika che stava indicando il parcheggio a dei clienti appena arrivati. Una Ford nera di almeno dieci anni parcheggiò sotto la mia finestra. Ne uscì una coppia di uomini d’affari bene vestita e valigiata, avrei detto dei rappresentanti di detersivi o cosmetici.
Mentre guardavo la scena dall’alto, ebbi l’impressione che dalla tasca destra del cappotto di uno dei due uomini penzolasse qualcosa di verde. Qualcosa di morbido e di peloso. Una coda di volpe! Una piccola volpe verde stava dormendo nella tasca di quel signore appena arrivato chissà da dove.
Per un attimo mi girò la testa. Ora svengo, pensai. Mentre cercavo di mettere a fuoco meglio, il signore mise una mano in tasca, come quando si strizza un fazzoletto per farlo stare in poco spazio, e la volpe verde o quel pelo verde che tale sembrava, sparì all’interno della tasca. Rientrai e mi sedetti sulla sedia davanti al PC.
‘Non posso scrivere proprio niente per ora’ pensai e mi distesi sul letto mettendomi il cuscino sulla testa.
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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