Le voci da dentro / Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento
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Le voci da dentro. Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento
Riprendiamo e pubblichiamo una lettera scritta da Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. È indirizzata Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, dottor Ernesto Napolillo, ed è un invito ad incontrare i rappresentanti delle associazioni che fanno volontariato in carcere e a conoscere l’approccio che hanno nei confronti della responsabilizzazione delle persone detenute. È un invito non casuale che segue alcuni provvedimenti restrittivi emanati di recenti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
(Mauro Presini)
Gentile dottor Napolillo, Lei è stato di recente nella Casa di reclusione di Padova e ha visto un carcere dove, pur nelle difficoltà del sovraffollamento, si cerca con la collaborazione di tutti di rispettare il mandato costituzionale, cioè di garantire a più detenuti possibile di non entrare in carcere e uscirne a fine pena come sono entrati, ma di fare un percorso realmente rieducativo, che significa crescere culturalmente, mettere in discussione le proprie scelte passate, avere voglia di fare i conti con la sofferenza provocata dai reati, nelle vittime ma anche nei famigliari delle stesse persone detenute.
Quando noi volontari raccontiamo alla società civile (le scuole, e non solo) dove nascono le scelte sbagliate, che poi portano le persone in carcere, lo facciamo perché riteniamo, e nell’esperienza di questi anni le migliaia di studenti e insegnanti che abbiamo incontrato ce lo confermano, che dal carcere si può fare autentica prevenzione.
Ma se il carcere diventerà essenzialmente quella segregazione, di cui ha parlato lei, non solo non si riuscirà a fare nessuna prevenzione, non si riuscirà a “salvare” nessun ragazzo giovane dal rischio di rovinarsi la vita e finire in galera, ma non si riuscirà neppure a creare più sicurezza per la società, perché da quel carcere “segregante” usciranno a fine pena, dal momento che prima o poi la pena per quasi tutti finisce, non delle persone più responsabili, ma delle bombe a orologeria, caricate di rabbia e pronte ad esplodere.
Le assicuriamo che a noi le regole piacciono, e nel confronto e nella delicata attività rieducativa che noi volontari portiamo avanti le poniamo al centro delle nostre azioni, ma le regole che sono state di recente fissate per qualsiasi iniziativa culturale, per qualsiasi attività “trattamentale” che avvenga in carcere sono così macchinose, che rischiano di portare alla paralisi qualsiasi istituto di pena che le debba applicare.
Pensi al paradosso della Casa di reclusione di Padova: per la presenza di una piccola sezione di Alta Sicurezza di una ventina di detenuti, gli altri 650 detenuti comuni dovranno sottostare a regole che rischiano di distruggere qualsiasi progettualità.
La burocrazia infatti, quando è ossessivamente tesa al controllo, impedisce qualsiasi cambiamento e qualsiasi crescita culturale, Ebbene, non è esagerato dire che in queste nuove disposizioni si può riconoscere proprio quella burocrazia, che è in grado di paralizzare qualsiasi iniziativa.
La circolare di recente emanata ha effetti penalizzanti per tutte le nostre attività, che dovrebbero piuttosto potersi ispirare a quelle regole penitenziarie europee, che sostengono tra l’altro che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”.
Quello che invece succede è che:
- viene scoraggiata la società civile dall’assumersi il compito, che le è riconosciuto dalla Costituzione, di promuovere la rieducazione delle persone detenute;
- viene così compromesso un rapporto di fiducia che da sempre è risorsa e supporto per le stesse Istituzioni
- si rischia che aumentino enormemente autolesionismi, tentati suicidi, suicidi, aggressioni, proteste, comportamenti violenti, che segnalano quanto sono poco umane e poco dignitose le condizioni di vita nelle carceri;
- il reato di rivolta penitenziaria, che punisce con pene fino a otto anni di carcere il detenuto che disobbedisce anche in forma nonviolenta agli ordini impartiti, provocherà più conflitti, più pene e più carcere per tutte quelle persone detenute, e sono tante, così disperate che non hanno nulla da perdere.
Siamo certi che non interessa a nessuno tornare a carceri dove il conflitto, l’aggressività, la rabbia la fanno da padroni.
Allora, per parlare di questi temi, la invitiamo a incontrare i rappresentanti delle nostre associazioni e ad aprire un dialogo. E se ha un po’ di tempo ci piacerebbe anche che partecipasse a un incontro in carcere tra le scuole e le persone detenute: si potrà così rendere conto che è da lì che bisognerebbe partire, dalla responsabilizzazione delle persone detenute, è quella la sfida vera e coraggiosa per dare un senso alle pene.
Agnese Moro, una donna straordinaria vittima di un reato atroce come l’uccisione del padre, ci ha detto più volte che NON VUOLE BUTTARE VIA NESSUNO, e sono tante le vittime di reati che come lei si sono rese conto che il carcere “cattivo”, la pena del “marcire in galera fino all’ultimo giorno” sono un male che produce soltanto altro male. E segregare le persone vuol dire solo buttarle via. Grazie dell’attenzione, siamo sicuri che accetterà il nostro invito
Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/markolovric-1547694/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Marko Lovric</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1125539″>Pixabay</a>
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