Presto di mattina /
Luce gentile
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Presto di mattina. Luce gentile
Guidami tu luce gentile (“Lead, Kindly Light”)
Guidami Tu, Luce gentile,
attraverso il buio che mi circonda,
sii Tu a condurmi!
La notte è oscura e sono lontano da casa,
sii Tu a condurmi!
Sostieni i miei piedi vacillanti:
io non chiedo di vedere
ciò che mi attende all’orizzonte,
un passo solo mi sarà sufficiente.
Non mi sono mai sentito come mi sento ora,
né ho pregato che fossi Tu a condurmi.
Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;
ma ora sii Tu a condurmi!
Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura,
il mio cuore era schiavo dell’orgoglio;
non ricordare gli anni ormai passati.
Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,
e certo mi condurrà ancora,
landa dopo landa, palude dopo palude,
oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;
e con l’apparire del mattino
rivedrò il sorriso di quei volti angelici
che da tanto tempo amo
e per poco avevo perduto.
(John Hernry Newman, In mare, 16 giugno 1833, cfr. Luce nella solitudine. Viaggio e crisi di Newman in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1989).
Questa poesia/preghiera segna un passaggio drammatico nella vita John Henry Newman (1801-1890), che la compose quando era ancora anglicano, sulla nave che lo portava dalla Sicilia nella sua Inghilterra. Scaturisce da un momento di turbamento e da un tempo di oscurità rischiarato da una “luce gentile” e non solo per una grave malattia che lo aveva portato quasi alla morte durante il suo viaggio in Italia, ma per la sofferta decisione, lui di confessione anglicana, di entrare nella chiesa cattolica. Questa Kindly Light, immagine e presenza della santità ospitale di Cristo nella coscienza e nel mondo, attraversa tutta la sua opera, soprattutto nelle omelie alla sua gente.
Definito dallo storico e critico letterario francese Henri Brémond «genio complesso, poeta e mistico», Newman è stato un credente, presbitero anglicano, teologo e filosofo inglese. Sostenne la libertà di coscienza, essendo per lui la presenza/esperienza di Dio nella coscienza umana come “flebile luce” al centro della sua spiritualità:
«Chi può negare l’esistenza della coscienza? Chi non avverte la forza dei suoi comandi? Eppure quanto è debole la luce che la investe, quanto debole ne è l’influenza, a paragone con l’evidenza del vedere e del toccare che costituisce il fondamento della scienza fisica!… In colui che è fedele alla propria coscienza, la debole luce della verità diventa ogni giorno più chiara» (Opere: Utet, Torino 1988, 1173; 524).
Il suo fu un itinerario del cuore e della mente in Dio creatore e nel suo Verbo fatto uomo. Per lui tale cammino della fede è concepito e nasce, ha inizio e si sviluppa da un’attitudine e propensione del cuore: «La salvaguardia della fede è una retta disposizione di cuore. È questa che, oltre a darle origine, la disciplina, proteggendola dal fanatismo settario e dalla credulità.
È la santità, o spirito d’obbedienza, o nuova creatura, o intelligenza spirituale, o comunque la vogliamo chiamare, a costituire il principio vivificante ed illuminante della vera fede, a darle occhi, mani e piedi. È l’amore che forma il bruto caos nell’immagine del Cristo. La fede che giustifica, sia essa pagana, ebrea o cristiana, è una “fides formata charitate” (è una fede che si forma praticando la carità). Noi crediamo perché amiamo» (ivi, 640; 641).
Un debito di amore
La fede deve all’amore l’orientamento, la stabilità, la fermezza, la coerenza del suo agire. È anch’essa flebile lume, una presunzione di amore, ma non un’ipotesi a caso o una illusione di amore, ma uno slancio nel rischio della relazione all’altro, al suo e nostro sentire così alternante, differenziato; e dunque è
«un avanzare nella penombra, ma non alla cieca e senza punti di riferimento; il passare da una verità nota a qualcosa d’ignoto, ma mantenuto nello stretto sentiero della verità dalla legge dell’obbedienza, dalla luce divina che l’anima e la guida. Questa luce, sia essa debole ed oscura come nei pagani, o fulgida come nei cristiani; sia solo il faticoso risveglio della coscienza, oppure la carità dello Spirito, una timida speranza o la pienezza dell’amore, è, in ogni economia religiosa, l’unico principio che ci renda accetti a Dio per mezzo dei meriti del Cristo» (ivi, 651).
Luce da luce; cuore a cuore
Il Credo cristiano confessa Gesù Cristo, l’Unigenito figlio di Dio come “luce da luce” e così colui che dimorava in una inaccessibile e abbagliante luce grazie alla sua umanità, per la sua carne, è divenuto per noi una “luce gentile”. Così egli si è fatto guida, un passo un altro passo, “landa per landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà; e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso dei volti».
Questo sentire e ‘senso interiore’ (inward sense) della fede di Newman, questa luminosità segreta, kindly light, questa intimità feconda, Newman la esprimeva con le parole di sant’Agostino: “il cuore parla al cuore” (Cor ad cor loquitur). La coscienza, luogo del generarsi e dispiegarsi della fede come libertà che si affida, è così compresa da lui come impronta (éikon) sensibile, intellettiva e volitiva dell’amore del Dio creatore e della sua paternità. Di più: un legame intersoggettivo e amoroso per la venuta del Figlio in umanità, per grazia, è unita alla stessa fede filiale di Gesù che diviene per lei culmine e fonte.
Un’impronta d’amore è pure la fede.
L’inquietudine del cuore
Non è incantesimo la fede ma risveglio, veglia, un avanzare nella libertà come conquista e dramma: perché «il nostro cuore è sempre inquieto e senza riposo».
Newman visse così una fede, aperta come libertà che si affida con un pieno abbandono a Dio e al suo Cristo: «io non chiedo di vedere ciò che mi attende all’orizzonte, un passo solo mi sarà sufficiente» e questo nella ricerca continua di un cristianesimo più autentico.
Per questo, grazie allo studio dei Padri della Chiesa, intese rinnovare la fede anglicana segnata dal secolarismo e dal liberalismo e attraverso i Padri fu portato a scoprire la cattolicità, una sola chiesa indivisa, la chiesa di Cristo, secondo l’unità delle origini fino a decidere il passaggio della conversione al cattolicesimo nel 1845.
Se l’ingresso nella Chiesa cattolica dileguò i dubbi e le inquietudini precedenti, la sua decisione segnò tuttavia anche l’inizio di altre sofferenze perché fu a lungo incompreso sia dagli anglicani che dagli stessi cattolici. Ciò nondimeno i suoi studi patristici per il rinnovamento teologico e della spiritualità furono determinati anche per la sua elezione a cardinale nel 1879 da parte di papa Leone XIII.
In Newman si riscontrano tutti gli elementi che costituiscono un’autentica esperienza mistica: la presenza costante dello Spirito Santo, l’esperienza passiva di Dio, un profondo senso ecclesiale. Dopo la sua morte, indagando anche su questa esperienza della sua vita, fu beatificato il 19 settembre 2010 da papa Benedetto XVI. Successivamente, è stato canonizzato da papa Francesco il 13 ottobre 2019. Infine è stato proclamato dottore della Chiesa da papa Leone XIV nella solennità di tutti i Santi di questo 1º novembre 2025. Egli seppe riconoscere nella mistica il fermento necessario a rifondare il dogma, rendendolo più complesso e dinamico, affinché l’assenso della fede e la sua grammatica costituissero e fossero vissuti proprio come un legame di amore tra tutti i credenti.
Luce per gli altri
Fra una settimana entreremo nell’Avvento, si va incontro alla luce, alla “chiara pienezza d’amore”. Questo testo suona così come un invitatorio a mettersi in cammino, farsi lanterna per accogliere la “luce gentile”. Nell’Avvento «si preparano gli uomini e gli angeli. Parlando degli angeli dico: «Ogni soffio di vento, ogni raggio di luce e di calore, ogni bella veduta, è, per così dire, l’orlo della loro veste, l’ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio» (Opere, 164).
“Stai con me, e io inizierò a risplendere
come tu risplendi,
a risplendere fino ad essere luce per gli altri.
La luce, o Gesù, verrà tutta da te:
nulla sarà merito mio.
Sarai tu a risplendere,
attraverso di me, sugli altri.
Fa’ che io ti lodi così
nel modo che tu più gradisci,
risplendendo sopra tutti coloro
che sono intorno a me.
Dà luce a loro e dà luce a me;
illumina loro insieme a me, attraverso di me.
Insegnami a diffondere la tua lode,
la tua verità, la tua volontà.
Fa’ che io ti annunci non con le parole
ma con l’esempio,
con quella forza attraente,
quella influenza solidale
che proviene da ciò che faccio,
con la mia visibile somiglianza ai tuoi santi,
e con la chiara pienezza dell’amore
che il mio cuore nutre per te.”
(Cfr. J.H. Newman, Meditations and Devotions, London – New York – Bombay, 1907, 365; trad. in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Notiziario CEI, 4 2001, 132).
Servire a Cristo leggendo e scrivendo
A Giuseppe De Luca (1898-1962) non era sfuggita l’opera e la figura di John Henry Newman. I suoi scritti erano per lui un luogo e dimora spirituale dove si poteva ascoltare – distintamente – la voce dell’uomo e, a volte ma chiarissima, la voce di Dio. Un luogo sacro, la sua anima. Un tempio, avrebbe detto san Paolo.
De Luca figura singolare di sacerdote erudito, editore, saggista, giornalista, autore di un epistolario vastissimo – la sua opera più viva è nelle lettere (Piero Bargellini) – affermava di voler «servire a Cristo leggendo e scrivendo», «servire Dio nell’intelligenza». Avviò il progetto di una storia della pietà – “Archivio italiano per la storia della Pietà” (1951) e nel 1941 aveva fondato la casa editrice “Edizioni di Storia e Letteratura”.
È in queste edizioni che troviamo, John Henry Newman; scritti d’occasione e traduzioni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975.
Nella prima parte del volume, di 539 pagine, sono raccolti tutti gli scritti che don Giuseppe De Luca gli ha dedicato, in una trentina d’anni. La seconda parte comprende traduzioni di sermoni del Newman, di sue preghiere, prose e versi, in parte pubblicati, in parte inediti.
Scrive De Luca di Newman: «Veramente sperimentava nel suo intimo quella verità, non reale ma sentimentale, che è nel mito platonico della reminiscenza: ogni cosa che conosceva era per lui come un riconoscimento e una riconoscenza. I quattro quinti delle sue poesie, egli le scrisse durante questo viaggio, sui nostri mari, in vista delle nostre terre, dentro la nostra luce, nella nostra aria. Mentre ricordava, pensava – e pensare, pensare davvero, è per metà patire» (ivi, 105; 30-31).
«Noi crediamo, perché amiamo»
Newman è stato così per De Luca uno degli autori centrali delle sue meditazioni. Lo considerava figura emblematica del rinnovamento del pensiero cristiano di fronte alla modernità, perché ampliò l’idea dell’intelligenza razionale includendovi la qualità dell’esistenza spirituale e morale della persona. Solo un pensiero esistenzialmente integrato può raggiungere la verità religiosa: «Noi crediamo, perché amiamo».
Così l’idea che ogni conoscenza e ricerca del sapere nasca da un atteggiamento esistenziale, da un sentire e credere originario, istintivo che incalza senza posa l’uomo nel suo incessante cercare oltre se stesso, scaturisca da una fede come da una disposizione del cuore e della coscienza a rischiarsi verso il non ancora, è centrale nel pensiero e nella vita di Newman:
«Di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione. …Subiamo l’influenza delle persone: delle voci, delle fisionomie, delle ragioni umane… In fondo, l’uomo non è un animale raziocinante: è un animale che vede, sente, contempla e agisce… La vita è fatta per l’azione. Se ci impuntiamo a volere la prova di tutto non agiremo mai. Per agire bisogna partire da un assunto, che è appunto la fede» (Newman, Grammatica dell’Assenso, Jaca Book, Milano 1980, 56-58).
Dimmi dove mettere il piede
Così commenta De Luca in un altro articolo la lirica Lead, Kindly Light: «Nella preghiera famosa, forse la più vivente poesia religiosa dell’Ottocento, che egli scrisse in nave dall’Italia all’Inghilterra, rievocando la sua vita trascorsa, pentendosene e cioè mutando mente, egli disse al Signore più o meno così: “Non importa che tu mi faccia vedere la distant scene. Sinora studiavo io le mie mète e i miei passi. Dicevo io dove volessi andare, per quali vie. Era orgoglio. Ora non più io, ma tu, o Signore, tu portami innanzi: dimmi solo, passo dopo passo, dove io debbo mettere il piede» (John Henry Newman; scritti, 49).
“Perché amo il Crisostomo” (J.H. Newman)
Giovanni Crisostomo (344/354-407) è un padre della chiesa, fu patriarca di Costantinopoli, amato dai poveri come un padre, fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia per i loro privilegi; tanto che l’imperatrice Eudossia riuscì a mandarlo in esilio per confinarlo nel Caucaso in una piccola città dell’Armenia, a Comana Pontica, il 14 settembre.
Newman aveva una predilezione singolare per questo padre della chiesa e scrisse un testo per manifestare le ragioni di questa devozione. Ho intravisto come in filigrana in questo testo affiorare la stessa sensibilità e stile di Newman, come se la sua interiorità si riflettesse in quella del Crisostomo così da svelarci un poco di più del suo sentimento e delle affezioni della sua vita.
«Da dove viene questa devozione a S. Giovanni Crisostomo che mi porta a fermarmi sul pensiero di lui e mi commuove al suo nome, mentre di tanti altri grandi Santi, le cui memorie ricorrono nel corso dell’anno, provo devozione, ma non hanno influenza personale sul mio cuore? Tanti Santi sono morti in esilio, molti sono stati efficaci predicatori, e che altro si può scrivere sul monumento del Crisostomo se non che fu eloquente e che fu perseguitato?».
Poi egli elenca con uno stile scorrevole e coinvolgente i grandi padri Atanasio, Gregorio, Basilio Agostino e Girolamo, elencando le loro qualità e dicendo che Giovanni non aveva le loro caratteristiche spirituali e umane; né lui si era dedicato completamente allo studio delle sue opere o ne aveva scritto una vita, e tuttavia ne sentiva l’irresistibile attrazione. E si domandava come spiegare questo? Nel testo la risposta.
Newman, uno spirito gentile
Io penso che l’attrattiva di S. Crisostomo dipenda dalla sua intima simpatia e compassione per il mondo intero, non solo nella sua forza, ma anche nelle sue debolezze; dallo sguardo vivace con cui egli vede tutto quello che gli si presenta, preso in concreto, sia fatto a modo proprio, sia dotato di una natura superiore alla sua.
Non voglio dire che un uomo religioso – e specialmente un santo – possa mai separare l’amore per la creatura dall’amore per il Creatore, o possa sentire una tenerezza per la Terra che non sgorghi dalla devozione al Cielo. Questa è la caratteristica di tutti i Santi, e io parlo qui non di quello che il Crisostomo ha in comune con gli altri, ma di quello che è suo speciale, e questa specialità, io penso, è l’interesse che egli prende a tutte le cose, non in quanto Dio le ha fatte simili, ma in quanto le ha fatte differenti le une dalle altre.
Parlo dell’affetto discriminante con cui egli accetta ognuno, per quello che è personalmente e che lo fa diverso dagli altri.
Parlo della svariata conoscenza degli uomini, per la quale li vede ad uno ad uno, per quella porzione di bene, maggiore o minore, di ordine superiore o inferiore, che si trova distintamente in essi; della sua appassionata contemplazione delle molte cose che essi fanno, compiono, producono, di tutte le loro grandi opere, come nazioni o stati; anzi persino se sono corrotti o alterati dal male, in quanto questo male lo si può considerare distinto dalla loro natura, o può essere riguardato un disordine soltanto materiale (fisiologico) distinto dal suo formale carattere di colpa.
Parlo dello spirito gentile e del temperamento geniale con cui egli guarda attorno a sé a tutte le cose che questo mondo meraviglioso contiene; della fedeltà grafica con cui le registra nella sua mente, e della prontezza e proprietà con cui se ne serve come argomento o illustrazione nel corso del suo insegnamento, secondo le occasioni.
Per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, egli non ha perduto una fibra, non trascura una vibrazione del complesso complicato del sentimento e dell’affezione umana; come il miracoloso roveto del deserto, che era avvolto dalla fiamma, ma non si consumava» (Perché amo il Crisostomo, in Rivista di Ascetica e mistica, 2 1978, 145-146).
Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/pexels-2286921/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1853025″>Pexels</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1853025″>Pixabay</a>
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