La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare
La famiglia che vive nei boschi e la nostra paura della differenza: oltre il clamore, come ascoltare senza giudicare
Riflessioni laiche su una vicenda che divide e interroga
La storia della famiglia che vive nei boschi dell’Abruzzo — padre, madre e tre figli — è arrivata sulla scena pubblica con il fragore tipico di ciò che tocca l’infanzia, le scelte di vita non convenzionali e l’intervento dei servizi sociali. Un avvelenamento da funghi, la corsa in ospedale, le prime verifiche e poi l’allontanamento dei bambini, ora ospitati in una casa famiglia insieme alla madre, con il padre libero di vederli quando desidera.
Come spesso accade, la notizia è stata posta in modo da creare schieramenti: da un lato chi difende la libertà di una scelta di vita alternativa, dall’altro chi invoca la protezione dei minori. Ma la realtà è più complessa delle opposte tifoserie.
Chi decide che cosa è “buono” per un bambino?
Chi può dire quando un genitore svolge adeguatamente il proprio compito?
E su quali criteri?
Non esiste un modello unico di famiglia “giusta”: esistono funzioni — cura, protezione, contenimento emotivo — che possono essere esercitate in contesti molto diversi. La vita nei boschi può apparire radicale o disturbante, ma ciò che conta, per uno sviluppo psichico sano, è se il bambino si sente sostenuto, ascoltato e protetto.
Un dato che disturba la narrazione: bambini sereni
Nelle prime valutazioni, gli operatori hanno riscontrato bambini sereni, non spaventati, non in stato di angoscia. È un elemento importante, quasi stonato rispetto alla narrazione polarizzata che si è imposta.
La serenità non elimina i problemi, ma indica che il legame con i genitori ha una qualità affettiva significativa.
La domanda allora si sposta:
se lo stato interno dei bambini appare buono, quale rischio esatto si sta tentando di prevenire?
L’allontanamento: protezione o trauma aggiuntivo?
L’ingresso in una casa famiglia, pur con la madre presente e con la possibilità per il padre di vederli liberamente, rappresenta comunque una frattura. Ogni allontanamento introduce discontinuità e una forma di sospensione: “perché ora non posso più stare dove sono sempre stato?”. È una domanda che ogni bambino si pone, anche quando gli adulti fanno del proprio meglio per proteggerlo.
Era davvero inevitabile arrivare a questa misura?
L’avvelenamento da funghi può accadere in qualsiasi famiglia: urbana, rurale, istruita, inconsapevole. È stato un campanello d’allarme, ma non è automaticamente la prova di un’incapacità genitoriale.
Una società che fatica con la differenza
Forse questa vicenda dice più delle nostre ansie collettive che della famiglia coinvolta.
Viviamo in una società che fatica a tollerare forme di vita fuori dal registro dominante. E quando ciò che è atipico riguarda i bambini, l’ansia aumenta: scatta il bisogno di ricondurre tutto a un modello rassicurante, riconoscibile, standard.
Eppure, si potrebbe allora domandare:
che dire di quei genitori che espongono i loro figli sui social, monetizzando la loro immagine, chiedendo loro di recitare, sorridere, posare, commentare, diventare piccoli personaggi pubblici prima ancora di capire cosa significhi essere guardati?
Che dire dei bambini coinvolti in video virali, sfide, messaggi promozionali, dove la loro intimità diventa contenuto?
Sono forme di vita considerate “normali”, spesso accolte con leggerezza o addirittura con simpatia. Eppure sollevano interrogativi profondi sulla protezione dell’infanzia, sul diritto alla riservatezza, sull’uso — o lo sfruttamento — dell’immagine del minore.
Non si tratta di condannare, ma di riconoscere la asimmetria dei nostri giudizi: ciò che è culturalmente familiare ci sembra accettabile; ciò che è diverso, immediatamente sospetto.
Nel rumore della polarizzazione, i bambini rischiano di scomparire due volte: sia quando vengono idealizzati come vittime, sia quando vengono normalizzati come piccoli protagonisti mediatici.
Lavoro di ascolto e mediazione: la via rimossa dal dibattito
Se la tutela dell’infanzia è davvero il fine, allora la strada dovrebbe essere un’altra:
fare un lavoro di ascolto reale, capace di includere i genitori, di comprendere le loro ragioni e la loro visione del mondo, di cogliere lo stile di vita che hanno scelto e le risorse che possiedono.
Solo da lì può nascere una vera mediazione: modi concreti per permettere ai bambini di crescere nel loro ambiente — o in una versione più sicura dello stesso — senza essere costretti ad abbandonarlo.
Supporti esterni, presenze educative, regole di monitoraggio, sostegni pratici: ci sono molte forme attraverso cui una comunità può aiutare senza punire, affiancare senza imporre.
La tutela non dovrebbe essere una scelta binaria tra “lasciar fare” e “separare”, ma un lavoro di costruzione delicata, cucita sulle vite reali, non sui modelli astratti.
Interrogativi che restano aperti
Questa vicenda non chiede una sentenza, ma domande più profonde:
Sappiamo distinguere tra ciò che ci inquieta e ciò che mette realmente a rischio un minore?
Sappiamo ascoltare senza cercare di normalizzare?
Sappiamo costruire mediazioni invece di imporre soluzioni drastiche?
Possiamo immaginare che proteggere significhi anche custodire i legami che funzionano?
E siamo sicuri che ciò che appare “normale” sia per forza più sano di ciò che appare “diverso”?
Forse il compito più difficile è proprio questo: non giudicare subito, ma ascoltare davvero.
E ricordare che la protezione dell’infanzia non si esercita dividendo il mondo in buoni e cattivi, ma cercando — insieme — gli spazi in cui i bambini possano crescere senza perdere ciò che per loro è casa.
Ma non basterebbe dare loro una casa nel rispetto delle regole che ci siamo dati . Con norme igieniche di prevenzione per malattie terribili e invalidanti. E poi se vogliono vivere lì o altrove non importa. Tenendo conto delle relazioni che ci sono tra loro. Questo per me dovrebbe valere anche per quei bambini che vivono in baracche ai bordi delle autostrade senza nessun risalto mediatico..